Nessuna festa per le nozze d`oro

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Nessuna festa per le nozze d`oro
direttore LUIGI CARICATO - [email protected]
società > cultura
Nessuna festa per le nozze d’oro
Narrazioni. Le cose tra Benedetta e Bruno non vanno più. Tra loro si è messa una ragazza che, con la scusa di farsi
prestare libri, è sempre nella loro casa. Lui ne è lusingato. Ma soprattutto vive in attesa di quelle visite. "Vedo come la
guarda. Leggo ogni suo pensiero. E mi sento finita", ammette Benedetta
Mariapia Frigerio
B
«Prendo le chiavi e arrivo» disse Benedetta al marito che già si stava avviando all’auto.
Fece poi rapida le scale che portavano al giardino e aprì le portiere ad entrambi.
Si mise al posto di guida. Bruno al suo fianco.
Da quando avevano lasciato Milano e si erano trasferiti a Capriglia, sulle colline sopra Pietrasanta, la guida spettava a lei.
Il marito sosteneva di averlo fatto troppo nella sua vita. Sempre in giro per lavoro. Sempre preso dai suoi affari. Poi
sapeva di fare un piacere alla moglie. Così, con tacito accordo, ora era lei a fare da autista.
La Passat discese rapida i tornanti. Non si fermò a Pietrasanta, ma imboccò il viale alberato che portava al mare. In
direzione opposta alla loro veniva, lentamente, una grossa auto blu.
«Hai visto?!» esclamò con una voce da ragazzina, nonostante i suoi settantacinque anni, Benedetta.
«Cosa?» rispose distratto Bernardo.
«Una Rolls-Royce!»
«No, non ho visto niente».
«Non vedi mai niente… ».
«Che vorresti fare adesso? Inseguirla?».
«Perché no? Ma un’inversione a U credo sia troppo pericolosa».
«Che mania, la tua, delle macchine».
«Mi piacciono, lo sai, ma non vorrei nulla di più della nostra Passat. Però vedere per strada un’auto del genere mi
emoziona. Non è da tutti».
«Se ti sentisse qualcuno penserebbe che sei una interessata a… ».
«Ma nessuno mi sente e tu non lo pensi. Questo mi importa. Molto. È che queste auto hanno per me qualcosa di
fiabesco. Così insolite. Tutto qui» lo interruppe Benedetta.
«Ringrazio il cielo che almeno non dimostri lo stesso entusiasmo per i SUV».
«I SUV ti schiaffano in faccia i soldi… i soldi più volgari».
«Ah, su questo non c’è dubbio».
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Benedetta si infilò nel letto dopo il marito. Lui sembrava molto preso dalla lettura. Lei gli guardò le mani che reggevano il
libro. Lunghe mani magre. Rese sempre più magre dall’età. Poi pose il suo sguardo sui suoi polsi risalendo fino al gomito.
La giacca del pigiama a righe era scivolata fino a lì. La sua pelle formava strane pieghe ed era, appunto, pelle. Pelle che
ricopriva ossa. Neppure il ricordo delle sue braccia vigorose, di quella sua carne tesa. Bruno aveva ora ottantacinque
anni. Dieci più di lei. Sempre un bell’uomo. Gran portamento. Ma qui, nell’intimità del letto coniugale, Benedetta ne
vedeva tutti i segni del tempo.
Tuttavia le piacevano le sue rughe, la sua pelle cadente. La riempivano di tenerezza per quell’uomo con cui aveva
condiviso cinquant’anni di vita.
No, non c’era stata nessuna festa per le loro nozze d’oro, ma la scelta, condivisa da entrambi, di abbandonare una città
ormai impossibile, come Milano, e di ritirarsi a vivere sulle colline versiliesi.
Bruno continuava a leggere. Benedetta gli si avvicinò. Gli infilò un braccio sotto la schiena e con l’altro gli cinse il collo.
Poi si addormentò serena abbracciata a lui.
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Era stata la Dida a segnalarle quella casa. Quella volta che avevano deciso di fare le sciure milanesi e si erano trovate,
per un caffè, da Cova.
La Dida era sempre molto elegante. Sempre con quei tailleur Chanel che portava con la giusta disinvoltura. Benedetta
aveva, invece, un’eleganza più sobria, meno firmata, ma, forse per questo, più originale.
«Bello, ogni tanto, concedersi qualche lusso in questa vita frenetica» le aveva detto l’amica quando l’aveva vista entrare.
Benedetta si era tolta il suo shearling e le si era seduta accanto.
Amiche dal tempo del liceo Parini. Tutti al Parini: lei, la Dida, l’Andreana, Aldo, Andrea, Valeria e Vittorio, e, in tempi
precedenti, anche Bruno e Mimmo.
Poi però la Dida e Mimmo si erano separati.
«Mi sembra un’ottima idea quella di trasferirvi in Versilia. Se non fossi sola ci penserei anch’io. Ma che vuoi, alla nostra
età, da sole non si ha più voglia di cambiare».
«Sai, l’idea è venuta a Bruno. E io sono stata d’accordo. In fondo che ci facciamo a Milano? Non abbiamo più voglia, né
lui né io, di vita mondana. I figli e i nipoti hanno la loro vita. Anzi, stare in un posto bello, stare all’aperto potrebbe essere
un’occasione in più per vederli. Diciamo che potrebbe essere l’unico motivo per vederli».
«Vi ho sempre un po’ invidiati, te e Bruno: i soli che abbiano resistito per tanto tempo».
«Sono vecchia, Dida, eppure ti devo confessare che ancora mi emoziona vederlo. Che ancora mi sento una ragazzina al
suo fianco. Che ancora mi fa palpitare il cuore sentire, nel letto, il suo corpo accanto al mio».
«Te l’ho detto. Siete da invidiare. Comunque ti volevo dire che l’Andreana Hedges non sa più che farsene della sua casa
di Capriglia. Il marito è morto e lei si dedica ai nipoti. Continua, è vero, una collaborazione sulla pagina economica del
Sole 24Ore. Ma ora è innamorata dell’Engadina. E non sopporta più il mare».
«La casa dell’Andreana? Era una meraviglia! Oddio… quella scala al centro del soggiorno, senza spalliere, elicoidale
era.. era molto americana».
«Come le feste che davano! La madre che scendeva drappeggiata in strati di tulle… Ricordi?».
«Certo. E chi lo potrebbe dimenticare? Però ci divertivamo! Americani, inglesi, la colonia di noi milanesi, gli artisti del
luogo… ».
«Beh, insomma, scala a parte, mi sembra l’ideale per te e per Bruno, con tutti quegli spazi per ospitare figli e nipoti… ».
«Sì, mi sembra una magnifica idea. Ne parlo con Bruno subito questa sera».
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«Che ne diresti di togliere, fuori dal cancello, quella specie di epitaffio con la scritta Hedges e di sostituirla con un più
sobrio Bonaccorsi? Magari in caratteri bodoni su una piccola targa di marmo che ci potremmo far fare a Pietrasanta».
Benedetta era allegra. Lo si sentiva dal tono di voce. Nella sua vestaglia a foglioline di Laura Ashley (un dono di Bruno di
ritorno da un viaggio di lavoro a Londra) stava attenta che il latte non traboccasse. Era ancora immersa nella gioia di
queste prime colazioni nella nuova casa, in questa grande cucina luminosa. Nulla a che vedere con quella piccola di via
Ponte Vetero.
«E se non mettessimo nulla?».
«Forse non hai torto… Allora, ti va sempre bene il giro che abbiamo deciso ieri? Prima Monteggiori, poi S.Anna?».
«Certo… certo».
Nel piazzale di Monteggiori avevano lasciato la Passat e si erano avviati a piedi fino al paese.
Al ritorno si erano fermati per riposare fuori dalla trattoria “Le terrazze” e Benedetta aveva proposto al marito di venirci un
giorno a mangiare il pollo fritto.
«Sai che non amo mangiare fuori casa».
«Sì, ma magari una volta… ».
Poi erano ridiscesi sulla stradina di ciottoli e avevano deciso di entrare nel piccolo cimitero.
Nessuno dei due era religioso né, tantomeno, aveva il culto dei morti. Ma quei piccoli cimiteri solitari avevano un grande
fascino per entrambi.
Stavano curiosando tra le tombe, leggendo i nomi e guardando le vecchie foto sbiadite, quando si trovarono di fianco una
ragazza. Un volto da miniatura. I capelli biondi e ricci che le incorniciavano il viso. Era china a mettere dei fiori in un vaso
di plastica.
Bruno le rivolse la parola. Voleva qualche informazione.
La ragazza gli rispose con uno strano accento. Ma Bruno fu colpito soprattutto dalla delizia della sua voce. E le chiese il
nome.
«Emily. Emily Taylor. I miei genitori sono inglesi, ma io vivo qui, sola con mio padre, da molti anni. Anzi, a dire il vero, da
quando si è risposato, proprio sola».
Bruno continuò con le sue domande. La ragazza gli rispondeva con grazia, alternando le poche parole a sorrisi.
Benedetta continuava invece, con finta curiosità, ad aggirarsi tra le tombe.
Quando risalirono sulla Passat, Bruno mormorò: «Incantevole quella Emily. Quasi una presenza angelica».
Benedetta annuì.
****
Bruno era già nel letto. Aveva il libro in mano, ma non leggeva. Pensava.
Fu interrotto dalla porta del bagno che si apriva. Benedetta si era preparata per la notte. Aveva spazzolato i suoi ricci che
– un tempo biondi – erano ora grigi, si era passata un velo di crema sul viso, aveva indossato la sua lunga camicia da
notte.
Aveva sempre avuto delle camicie da collegiale. Troppo castigate, pensò suo marito. Ma, se fosse un bene o un male,
questo neppure lui lo sapeva.
Prima di raggiungere il letto passò davanti allo scrittoio per spegnere l’abat-jour. Proprio la luce - la luce della abat-jour fece intravvedere a Bruno, in controluce, il corpo della moglie. Ne vide la sua magrezza, le sue gambe ora quasi secche
(nessun ricordo di quelle morbide cosce contro cui la donna aveva lottato tutta la vita), quello che restava del suo seno.
Spento l’interruttore Benedetta si infilò sotto le lenzuola. Prese un libro. Poi, come sempre, fu più forte di lei avvicinarsi al
marito. Gli sfiorò le guance con un bacio. Le piaceva il contatto con quella pelle. E ancora una volta provò desiderio per
lui.
Lui rimase impassibile. La vista della moglie invecchiata non era una novità, ma quella sera, nella sua mente, troppo
evidente era il contrasto con la giovinezza e la bellezza di Emily. Pensò a quella carne. Immaginò… desiderò trovarsela
accanto.
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Quella mattina era Forte dei Marmi la meta. Il pontile. La stagione veniva loro in aiuto. Quegli autunni di una bellezza
indicibile. Finalmente godere della natura e della pace di una Versilia fuori stagione, lontana dalla volgarità estiva. Una
vera meraviglia. Un sogno che si realizzava. Per entrambi.
Mentre guidava Benedetta prese la mano del marito.
Lui gliela strinse con intensità. Il pensiero di Emily se n’era andato. Il suo posto era stato preso da una bellezza in senso
più ampio, una bellezza che circondava ogni loro movimento. E poi ancora l’amore per sua moglie… o, più che l’amore,
l’affetto. Era ancora graziosa, tutto sommato, in quei suoi settantacinque anni, con quella testa di ricci grigi un po’
selvaggi. C’era qualcosa di sbarazzino in lei. Qualcosa di sottilmente femminile.
«Chissà per quanto potremo ancora farci questi giri!» sospirò Benedetta.
«E perché dovremmo smettere?».
«Mah, se la stagione cambia non credo sia prudente per due della nostra età uscire troppo».
«Non ti conoscevo in questa versione pessimista».
«Non sono pessimista. Piuttosto direi viziata: mi spiacerebbe smettere con questa abitudine».
Erano sul lungomare. Si muovevano lentamente alla ricerca di un posteggio, quando Benedetta si accorse di una RollsRoyce che, facendo retromarcia, lasciava uno spazio per loro. Scorse un uomo al volante, ma non fece in tempo a
inquadrarlo bene.
«Guarda, Bruno, la stessa Rolls-Royce blu dell’altro giorno».
«Dove?».
«Sei sempre distratto… ».
Lasciarono l’auto e raggiunsero il pontile. Macchie nere di surfisti cercavano di prendere le onde. Si misero a guardarli.
Una giovane donna in jeans li superò con passo veloce. Stivali in pelle come il corto giubbotto che indossava e che
lasciava scorgere una striscia di carne nuda sopra la cintura dei calzoni. Con la coda dell’occhio Benedetta si accorse che
Bruno la guardava. Rapito da quell’incedere. I giovani in mare alle prese con le loro tavole non avevano, ora, alcun
interesse per lui.
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Aveva iniziato a piovere. Loro se ne stavano in quello studio con travicelli a vista che si erano ricavati in una vecchia
soffitta della casa. Qui c’era la televisione, l’impianto stereo, i rispettivi scrittoi. Su quello di Benedetta il computer. Bruno
non amava la tecnologia. Diceva di poterne fare a meno.
Benedetta no. Per lei era il suo legame col mondo.
Da qui scriveva ai figli e agli amici milanesi. Qualche volta trovava una mail dei nipoti.
«Siamo rimasti anche senza il latte! Oggi bisognerà fare un salto alla Coop. Te la senti di venire con me o preferisci
restare in casa?».
Per Benedetta la salute del marito veniva prima di ogni altra cosa.
«Verrò con te. Credo che ti sarà utile il mio aiuto. Poi mi fa bene uscire».
Indossati gli impermeabili e presi gli ombrelli si avviarono in auto al supermercato.
Riempirono il carrello. Ora avrebbero dovuto pagare. Dall’altoparlante giunse una voce: «Cassa 5 in apertura». Veloci la
raggiunsero. Benedetta era impegnata a mettere tutto bene in vista e, mentalmente, a pensare a come avrebbe distribuito
la spesa nei sacchi. Così non si accorse che la ragazza che passava sul nastro i vari oggetti era la stessa del cimitero di
Monteggiori. La cosa, invece, non sfuggì al marito.
«Guarda chi si vede! La nostra Emily».
La ragazza sorrise. Benedetta sistemava la spesa. Bruno, mentre prendeva dalla tasca dei calzoni il portafoglio, ne
approfittò per parlarle.
«E così lei lavora qui… ».
«Sì. Ho bisogno di lavorare. Dopo le superiori non mi sono iscritta all’università, anche se mi sarebbe piaciuto… Sa, non
c’erano i soldi. Ma amo molto leggere. È che i libri costano troppo. Almeno per una come me… ».
«Io… noi siamo pieni di libri. Perché non ne approfitta?». E Bruno le porse il suo nuovo biglietto da visita. «Mi telefoni e
sarò felice di prestarle i miei».
Benedetta aveva finito con i sacchi e ora li stava riponendo nel carrello.
Fece un cenno di saluto a Emily e si avviò all’uscita. Bruno la seguì.
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Non erano passati tre giorni che la ragazza chiamò. Prese la telefonata Bruno.
«Cara Emily, che gioia sentirla! Venire? Ma certo, quando vuole… Disturbare? Scherza? Sono… siamo sempre soli e,
ora, sovente in casa. Dopodomani? Benissimo! Sì, segua la strada sopra il vecchio ospedale di Pietrasanta. Vada sempre
in su. La casa è sulla curva. L’ultima prima dei tornanti della discesa. La riconoscerà senza fatica. È una vecchia
costruzione di pietra. Comunque non si sbaglierà… No, non c’è il nome, ma il numero sì. Il 25».
Benedetta aveva ascoltato. Senza volere. Era anche lei lì nella poltrona dello studio. Poco distante da quella del marito.
Stava leggendo. Dovette rileggere la stessa riga tre volte… Quelle parole. Quell’entusiasmo. Quel “sono… siamo sempre
soli”. Ma come? Non era stato un loro desiderio – di Bruno soprattutto – di isolarsi? E ora… Le loro gite in auto? Tutto
scordato per la “gioia” che aveva dichiarato per la venuta di quella ragazza.
Dovette lasciare il libro e allontanarsi. Si sentiva una strana amarezza addosso.
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Quando Emily suonò quel mercoledì, Bruno era già sulla porta. Scese in giardino e le andò incontro.
Poi l’accompagnò nel salotto carico di libri. Benedetta si era volutamente isolata su, nello studio.
Tuttavia dopo circa un’ora si sentì in dovere di raggiungerli.
«Lo prende volentieri un tè?».
«Grazie, signora».
«Facci il Christmas Tea, quello che ho portato da Londra» le aveva detto in tono imperativo il marito e subito aveva
ripreso a parlare con la ragazza, come se lei non esistesse.
Benedetta si ricordava benissimo di quella volta – sarebbe stata l’ultima -in cui ancora era tornato in Inghilterra per alcune
cose di lavoro e al ritorno le aveva portato quella scatola di Fortnum&Mason. «Per la mia romantica donna inglese» le
aveva bisbigliato all’orecchio dandole un bacio.
Ora il “suo” tè era per quella ragazza. Per giunta chiesto quasi come un ordine.
Ugualmente andò in cucina e preparò tutto come se niente fosse. Dal salotto sentiva il loro continuo parlare, le loro risa.
Da quella volta Emily venne a intervalli regolari da loro. O. meglio, da lui, come bene aveva capito Benedetta. E Bruno in
quei giorni non trovava mai la camicia giusta, i calzoni adatti, stava a lungo a sbarbarsi e più volte la moglie lo aveva
intravisto davanti allo specchio del corridoio sistemarsi i capelli bianchi e lunghi che ora portava ancora più lunghi.
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«Senta, Gloria, ho lasciato tutto pronto. Io starò via solo due giorni. Basterà che lei scaldi le pietanze nel microonde. Mio
marito per il resto se la caverà benissimo da solo».
La sera, in camera, Bruno chiese alla moglie il motivo della sua partenza.
«Ho voglia di un po’ di vita. Di vedere la Dida. E comunque starò via solo fino a venerdì.
«Hai nostalgia di Barbara e Beniamino?».
«No. Non ho nostalgia né di figli né di nipoti».
Si addormentarono in silenzio. Erano già molte sere, del resto, che non parlavano.
La mattina dopo Benedetta fece colazione da sola mentre il marito era ancora a letto. Poi risalì in camera. Bruno doveva
essere in bagno.
Infilò nella sua borsa da viaggio le ultime cose.
Gli chiese se gli sarebbe andato bene anticipare l’ora del pranzo. Per via del suo treno.
«Benissimo. Mi lascia un po’ perplesso, però, questa tua andata a Milano. In fondo siamo qui da solo due mesi… ».
Alle 13.20 erano alla stazione di Pietrasanta. Con largo anticipo.
Benedetta vide, con sorpresa, la Rolls-Royce blu posteggiata nel piccolo parcheggio a pochi posti di distanza dalla loro
Passat. Ma, questa volta, non ne fece cenno al marito.
«Allora torni venerdì alle 21.07?»
«Sì».
«Che orario assurdo!».
«È sempre lo stesso treno. Quello che prendevo da ragazza per venire in Versilia. L’unico da Milano. Davvero
incredibile».
Poi, dopo un breve pensiero, aggiunse: «Se non te la senti di venire prenderò un taxi».
«Non ho problemi».
«Comunque ho parlato con la Gloria. Domani si fermerà per scaldarti il pranzo. Lo stesso farà venerdì».
«Ma non c’era bisogno… ».
«Lo so, ma è meglio così. Poi oggi non sarai solo con la visita di Emily… ».
Bruno tacque.
Si avvicinarono al binario. Il treno stava arrivando. Il marito la aiutò a salire sulla carrozza di prima classe.
Non si baciarono. Ognuno dei due si sentiva, in qualche modo, tradito.
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Stava percorrendo il corridoio per cercare il suo posto. Un uomo con una piccola Burberry da viaggio veniva verso di lei.
«62» lesse a voce alta fuori dallo scompartimento.
Poi la guardò e le chiese: «E lei?».
«64».
«Allora l’aiuto a sistemare il bagaglio».
«Grazie, è molto gentile».
Si sedettero uno di fronte all’altra. In silenzio.
In silenzio per quasi un’ora fino al loro arrivo a La Spezia.
Dovevano cambiare. Con una certa disinvoltura l’uomo si prese anche la sacca di Benedetta.
«Immagino vada anche lei a Milano» si assicurò.
«Sì» rispose timidamente la donna.
Si capiva che era pratico di quel tragitto. Conosceva il binario e vi si recò con passo deciso nonostante il doppio peso.
Puntuale per la coincidenza.
Salirono infatti sul treno appena giunto e di nuovo si trovarono vicini.
«Mi sembra che lei non sia di qui… cioè che non sia toscana, anche se è salita a Pietrasanta».
«Milanese da generazioni… spero non l’abbia capito da quella orribile cadenza lombarda».
«No. Mi sarebbe stato difficile stabilire la sua provenienza visto che non ha accenti particolari e quindi neppure la parlata
toscana, in nessuna delle sue molteplici sfaccettature».
«E lei? Anche lei non sembra di qui».
«Svizzero. SGS di Ginevra. So cosa voi italiani pensate di noi svizzeri. Il gruppo per cui lavoravo ne è la dimostrazione.
Persone senza fantasia: cioccolato, orologi… Il massimo della fantasia l’abbiamo messa in quelli a cucù. Ma amo molto
l’Italia, la Toscana soprattutto. Così da cinque anni mi sono trasferito sulle colline di Pietrasanta. Solo con la mia vecchia
Bentley. Giriamo per questi posti unici, io e la mia vecchia amica a quattro ruote. Non mi resta che lei, ormai».
«Famiglia?» si azzardò a chiedere Benedetta.
«Vedovo da dieci anni. Ho una figlia. A Milano. Così una volta al mese la vado a visitare. Più che per lei, per via dei
nipotini. E lei come mai qui?».
«Qui a Milano o in Toscana?».
«In Toscana».
«Una scelta mia e di mio marito di allontanarci da una città senza più attrattive… o almeno così ci sembrava. Poi i figli
hanno la loro vita e i nipoti pure».
«E ora anche lei li va a trovare?».
«No, veramente la mia è una fuga… una piccola fuga. Venerdì sarò già di ritorno».
«Una fuga da cosa, se mi posso permettere?».
«Si permetta pure… So di essere in fuga, ma da cosa è difficile capirlo anche a me stessa. Se non fosse banale direi
dall’infelicità».
«I suoi figli saranno comunque felicissimi di vederla, perché mi sembra che, a differenza mia, lei ne abbia più di uno… ».
«Barbara e Beniamino… No, non vado da loro. E comunque, mi creda, non sarebbero affatto felici di vedermi. Credo che
si sentano molto più liberi da quando sto a Capriglia. Vado da un’amica… una vecchia amica… e non potrebbe essere
diversamente vista la mia età».
«L’età! Che sciocchezza… Chissà perché per voi donne è così importante… Per dirla con lei, “con la sua età” le manca
forse qualcosa?».
«Mi manca la giovinezza che a voi uomini fa sempre un grande piacere. Cosa c’è di meglio di una donna giovane che vi
corteggi?».
«Ah, no, senta! Questo va bene per una certa categoria di uomini. Per la maggior parte, forse. Non per tutti. Saremo dei
superstiti, una specie in via d’estinzione, ma, mi creda, non per tutti è così».
«Lei è gentile, ma ancora non ho bisogno di essere consolata».
«Né questa era la mia intenzione. Dico quello che penso. In tutta onestà. Perché anche se non ha vent’anni non vuol dire
che non possa suscitare ugualmente interesse. Si è vista? Con quei calzoni pied-poule, quelle graziosissime francesine,
con quei suoi occhi azzurri sotto quel mare di ricci… mi creda non è una donna che passa indifferente».
L’uomo parlava, ma il pensiero di Benedetta era più in là. Nella casa dove Bruno era in attesa di Emily.
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Emily arrivò puntualissima, alle 16, nella casa di Capriglia. Particolarmente graziosa quel giorno. Forse più del solito.
Gonnellina a pieghe scozzese corta, calze coprenti verdone, scarpe basse. Sopra un mini-pull aderente. Prugna. Bruno le
guardava accavallare le sue belle gambe con particolare emozione. Si sentiva improvvisamente ringiovanito.
Alle cinque le offrì il tè. Ma la ragazza volle essere lei a prepararlo. Lui la guardava estasiato muoversi per la cucina.
«Allora, Emily, possibile che una ragazza come lei non abbia un fidanzato?».
«Non è facile cred…, mi creda».
«No, direi che è venuto il momento di darci del tu».
«Oh, grazie, signor Bonaccorsi».
«Bruno. Bruno e basta».
«Ti dicevo, Bruno, che non è facile se pretendi qualcosa di più, se non ti accontenti. E poi, in quanto a ragazza, ho ormai
ventisette anni… ».
«Una bambina. Una dolce bambina».
Quella sera, sapendolo solo, Emily rimase con lui anche per la cena.
Quando Bruno se ne andò a dormire era confuso. Si sentiva strano. Combattuto tra il desiderio per Emily e una sottile
gelosia per Benedetta a cui, volutamente, non aveva telefonato.
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«Allora, Bernard, lei se ne viaggia sulla sua Bentley per la Versilia. Immagino sia un’auto di sapore… Pensi che nei nos…
nei miei giri incontro spesso una Rolls-Royce. Mi piacerebbe scoprire di chi è».
«Curiosa come una bambina!».
«E si figuri che per tanto tempo sul cofano di quelle macchine io ci ho visto una nike, sì, proprio una vittoria alata. Forse
suggestionata da amori artistici. Poi, dopo gl’incontri in Versilia con quella misteriosa auto, sono andata a cercare su
internet. E ho scoperto che la mia nike era the flying lady. E la cosa mi ha emozionata ancora di più: quella donna che
sembra spiccare un volo con la seta della tunica che le accarezza il corpo e le braccia sollevate… ».
«Ho lasciato la mia auto alla stazione di Pietrasanta. Non è una Rolls, lo so. Ma visto che anche lei torna venerdì sarei
felice di riaccompagnarla. Così non dovrà disturbare suo marito che, mi sembra di aver capito, inizia ad avere i suoi
anni».
Benedetta tacque. Divisa tra la curiosità per Bernard Bouvier e il pensiero di Bruno solo in casa con Emily.
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Alle 17.55 in punto il treno entrava sotto la grande volta della Centrale. Benedetta ebbe un sussulto di gioia. Per un attimo
dimenticò Bruno e Emily. E pensò che era veramente una costruzione unica, quella della Centrale, anche se, un tempo,
lei e i suoi amici la definivano “quell’orrenda architettura fascista”.
Altro che orrenda! Avere avuto da bambina come stazione la Centrale ti dava una dimensione della vita tutta diversa. La
Centrale… Non quelle mediocri Porte Nuove o Sante Marie Novelle. Stazioni di città di provincia. O Termini così poco
italiana. Disordinata, sporca, multietnica. Sempre stata così anche quando non ci si sentiva progressisti con certe parole
in bocca.
La Centrale: l’unica stazione che, invece, ti faceva sentire in Europa.
Mentre il treno iniziava a frenare Benedetta respirò a lungo quelle emozioni. Dimentica di tutto.
Poi il treno si fermò. Bernard Bouvier scese con le borse e tese la mano a Benedetta per aiutarla.
La Dida era già lì, sotto il vagone, in attesa. Elegante come sempre. Una fascia di pelliccia ecologica le copriva fronte e
orecchie da cui pendevano piccoli orecchini con granati. Sicuramente qualcosa di famiglia.
«Benny. Ecco la Benny che torna!».
Bernard Bouvier se ne stava in disparte con la sacca di Benedetta ancora in mano. Lei si sciolse dall’abbraccio
dell’amica.
«Questo signore così gentile mi ha scortata per tutto il viaggio. Anche a La Spezia si è fatto carico del mio bagaglio».
«Bouvier» disse cortesemente Bernard alla Dida che gli tendeva la mano.
«Dida. Dida Scola».
«Grazie veramente di cuore» aggiunse Benedetta «e stia bene con figlia e nipotini».
«Anche lei. Si distragga. E se ha bisogno per il ritorno ha il mio numero».
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«Cos’è questa storia del numero? Ma cosa ti metti a fare… abbordi gli uomini sui treni!!!!» disse ridendo la Dida quando
salirono sulla Smart e s’immersero nel traffico di Milano. «Che gioia è averti qui! Mi sembra incredibile! Mi sembra una
vita e sono solo due mesi, in fin dei conti, che sei via».
Le luci, le auto, i tram, la gente davano a Benedetta strani brividi. Si sentiva a casa. Finalmente.
«Allora, stasera siamo a cena al Bœucc. Ci saranno tutti a festeggiarti. Andrea, Vittorio con Valeria, Mariella, Aldo.
Persino Mimmo con la Federica».
«Ma non ti pesa che ci sia Mimmo… Mimmo non solo».
«Figurati! Dopo tutti questi anni… Che vuoi che m’importi. Poi la Federica è una donna piacevole. Non più la bellona di
una tempo, ma comunque gradevole».
Benedetta invidiò il distacco e l’indifferenza dell’amica.
Sapeva bene che per lei non sarebbe stato così.
«Prima però si passa da casa mia. Così ti rinfreschi e, se vuoi, ti cambi».
Era bella la casa della Dida in piazza San Marco. Lei aveva sempre abitato lì: da ragazza, da sposata, da divorziata.
Sarebbe stato impossibile immaginarla altrove.
Lasciarono l’auto nel garage di via Pontaccio e percorsero a piedi il breve tragitto. La piazza era in lieve pendenza, con gli
alberi e la chiesa. Quella chiesa dove, con il Requiem di Verdi, erano state celebrate le esequie del Manzoni… Un luogo
magico, pensò Benedetta. Così come ora, in clima natalizio, magica le sembrava Milano.
«Domani voglio fare due passi fino in via Ponte Vetero per rivedere la mia casa. Almeno da fuori».
«Dai, che magari i due architetti gay a cui l’avete affittata ti fanno anche entrare… ».
«Ne sono sicura. Ma sono io a non volere. Non so se sopporterei l’emozione… ».
«Perché? La casa di Capriglia non ti piace?».
«È bella. Molto bella. Ma in questo momento non c’è l’atmosfera giusta… ».
«Mi chiedevo, infatti, perché Bruno non ti avesse accompagnata… Voi due sempre insieme… ».
«Volevo venire da sola. Poi Bruno è come tutti gli uomini: difficile smuoverlo dalle sue abitudini».
La Dida percepì una lieve sofferenza nelle parole dell’amica. Tuttavia preferì non farle domande. Avrebbero avuto tutto il
tempo dopo la cena per parlarne.
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La serata al Bœucc fu piacevolissima. Bellissimo il ritrovarsi di tutti gli amici in piazza Belgioioso. Ma che angoli
meravigliosi ha una città come Milano, pensava Benedetta. Persino la casa del Manzoni, lasciata un po’ andare, aveva un
sapore che nessuna Versilia ti poteva dare.
Ripensò a quella frase di Savinio: “Per noi, le nostre isole fortunate, il luogo della nostra immortalità, è Milano nell’inverno
e la Versilia nell’estate”.
E allora che cosa ci faceva a Capriglia, con l’inverno che incombeva, insieme a un uomo che non l’amava più?
Sapeva che ora, sola in casa con la Dida, le avrebbe parlato.
«Hai visto come erano tutti felici di rivederti? Certo che per ritrovarsi al Bœucc c’era bisogno della tua venuta! Tutto
buonissimo: il risottino alla milanese con pistilli di zafferano, per non parlare poi della tartare di tonno! Andrea, invece, non
cambia mai. Per lui andare al Bœucc vuol dire filetto alla woronoff».
Benedetta pensò di non lasciarla continuare. Sapeva già quello che avrebbe detto. Come gli amici l’avevano trovata bene,
come avevano ammirato il suo mantenersi sempre giovanile.
Parlare di età a una che si sentiva ricoperta di tempo…
«Senti, Dida, le cose tra me e Bruno non vanno più. Tra noi si è messa una ragazza che, con la scusa di farsi prestare
libri, è sempre in casa nostra. Lui ne è lusingato. Ma soprattutto vive in attesa di quelle visite. Vedo come la guarda.
Leggo ogni suo pensiero. E mi sento finita. E soprattutto mi trovo a vivere isolata con un estraneo. Perché ora Bruno non
è altro per me. Anche se continuo ad amarlo… ».
«Questa non me la sarei proprio aspettata. Però, Benny, ragiona un attimo. Tuo marito ha dieci anni più di te.
Ottantacinque anni non sono pochi. Non è così grave che perda la testa per una giovane. Tanto ormai non può perdere
altro, no?».
«È che io lo desidero sempre. Non ho mai cessato di desiderarlo. Tuttavia, da un po’ di anni mi sono adattata alla sua
età… L’ho fatto volentieri, ma ora il tradimento, diciamo, mentale mi pesa più di quello fisico. Non mi consola per nulla il
fatto che lui non possa fare l’amore con Emily».
«Cara mia, tu sei una privilegiata e non te ne rendi conto. Pensa a una come me – a quante come me! – sono state
tradite fisicamente e moralmente in età ancora giovane e si sono ritrovate sole. Bruno che sbava per una giovinetta mi
sembra veramente cosa da poco. E poi è nella natura degli uomini, si sa. Ma, onestamente, non ci vedo nulla di grave.
C’è un momento in cui tutte noi dobbiamo rivivere “Eva contro Eva”. Mica scemo quel Mankiewicz. Capire che c’è sempre
una Anne Baxter – finta innocente - pronta a fare capolino. E poi ricordati le parole della Dietrich: “Le più felici sono le
puttane. Nessun uomo le tradirà, né le abbandonerà mai”».
«Hai ragione: una privilegiata. Forse per questo mi è più duro affrontare questa inaspettata situazione. Però pensa: una
ragazza dell’età di nostra nipote…».
«Ma dove hai vissuto fino adesso? Gli uomini mica si fanno scrupoli per l’età. Non sono scemi come noi. Si sentono
sempre all’altezza. Non hanno il minimo senso di autocritica. Beati loro!».
Benedetta si sentì sola, sola come non mai, quella sera quando, salutata la Dida, se ne andò a dormire.
Il pragmatismo dell’amica l’aveva sopraffatta. Avrebbe avuto bisogno di comprensione. Non della sua fredda razionalità. E
quei discorsi! …“Eva contro Eva”… per finire – chissà poi cosa c’entravano – con le puttane della Dietrich.
Pensò se fosse realmente una sua amica. Una con cui aprire il cuore. Amica? Del resto quando mai aveva sentito il
bisogno di un’amica, di un’amica intima, avendo Bruno?
Ripensò allora a Bernard. Le sembrava un uomo diverso. Più giovane di suo marito e, soprattutto, più affabile. Senza
quelle chiusure, quei silenzi a cui, anche nei loro momenti migliori, Bruno l’aveva sempre sottoposta. Lì stava la sua
bellezza: in quell’atteggiamento pieno d’interesse per lei, in quelle sue affettuose premure.
Il pensiero delle parole di Bernard, “si distragga”, le diedero un po’ di quel calore che, disperatamente, stava cercando.
****
Bruno, ostinatamente, non aveva voluto telefonare alla moglie.
Aveva mangiato, il giovedì, servito dalla Gloria che, come promesso, si era fermata apposta.
Poi, mentre stava per andare a riposare, era arrivata la telefonata.
«Se non ti disturbo, verrei a riportarti “Anna Karenina”. Potrei essere lì per le cinque».
Non aveva saputo dire di no. Ma quella volta gli era mancato l’entusiasmo di sempre.
Tuttavia, quando Emily entrò, ebbe un tuffo al cuore. E, di nuovo, il desiderio si impossessò di lui. Ora poi che la ragazza
aveva preso l’abitudine di baciarlo. Sentire quella pelle liscia contro la sua guancia…
Aveva faticato non poco a non allungare le mani per sfiorarle il viso. Moltissimo, poi, a non baciarle la bocca.
Lei nuovamente si era offerta di restare con lui la sera, per la cena. E lui nuovamente le aveva detto di sì.
Obnubilato da quella giovinezza, inopinatamente comparsa sul suo cammino, era salito a dormire. Ma alle tre si era
svegliato. Il sonno era scomparso. Pensieri veloci gli avevano percorso la mente.
Benedetta… Aveva amato molto sua moglie. Sì, c’era stata quella volta a Londra… la notte con la sua collaboratrice. Ma
era stato un episodio senza importanza. E si riteneva, a ragione, un marito fedele.
Ora? Ora non sapeva neppure lui cosa gli stesse succedendo. Di nuovo al desiderio potente per Emily faceva da
contraltare la gelosia per Benedetta. Per il suo inspiegabile abbandono.
****
«Allora ciao, Benny. E torna quando vuoi. Salutami Bruno e soprattutto… non ci pensare. C’est pas grave, ricordalo».
Che fastidio quella voce che, sotto la volta della stazione, rimbombava.
Benedetta salì. L’idea del ritorno la turbava. Desiderava vedere il marito? Sì, moltissimo. Ma Bruno era ancora quello che
lei aveva considerato suo marito? Non capiva più nulla. Se non il fatto che il tarlo della gelosia si era ormai insinuato in lei.
Cercò il posto. Nel suo scompartimento scorse Bernard Bouvier leggere. Quando la vide entrare: «Aspetti, le prendo la
borsa» le disse pieno di calore. Più del solito. Quasi fosse scontato che dovessero trovarsi nuovamente a viaggiare
insieme.
«Grazie, grazie. Questa volta faticherà meno, visto che non c’è il cambio a La Spezia». Poi Benedetta si era seduta e
aveva iniziato a pensare.
Ora la gelosia la possedeva più che mai. Ora si rendeva conto che Bruno non l’aveva mai chiamata nei due giorni in cui
era stata via.
Nella sua mente sconvolta si alternavano immagini di Emily, di Bruno, di Emily con Bruno… Credeva di impazzire.
Bernard avrebbe voluto parlarle. Lo si capiva. Ma Benedetta fingeva di appisolarsi per poter seguire i suoi pensieri, per
dare modo al tarlo di prendere posto nella sua mente. Di torturarla.
Con indicibile dolore.
Bernard non sopportava quel silenzio.
«Allora, Benedetta, posso avere il piacere di farle provare la mia Bentley?».
La donna si scosse dal suo torpore.
«Le ho già detto che verrà a prendermi mio marito… ».
«Sono solo le sei. Ha tutto il tempo per telefonargli».
Già, telefonargli. Trovare una scusa per risentire la sua voce…
Si alzò e andò nel corridoio. Fece il numero.
«Ciao, sei solo?».
«E con chi dovrei essere?».
«Beh, volevo dirti che mi riaccompagnano in macchina. Amici. Niente treno».
Silenzio.
«Allora a più tardi e cena pure senza aspettarmi» aveva concluso.
Subito se ne era pentita. Ma perché aveva fatto quella telefonata? Che avrebbe fatto in macchina con quello sconosciuto?
Rientrò e si risedette. Bernard ora sorrideva.
Iniziarono a parlare. Si raccontarono dei giorni milanesi. Benedetta, filtrando il suo stato d’animo, finse un’allegria che, in
quel momento, non le apparteneva.
Arrivarono così a Pietrasanta senza accorgersene.
Con i bagagli di entrambi Bernard raggiunse la sua auto.
Benedetta ebbe un moto di stupore.
«Ma… ma questa è la Rolls-Royce che io ho più volte incontrato!».
«Vuol dire che la sua Rolls-Royce è la mia Bentley?».
«Credo proprio di sì… Ma che stupida! Però sul cofano… mi sembra di vedere… ».
«Aspetti, devo avere da qualche parte un accendino».
La piccola fiamma illuminò non una nike, neppure the flying woman, ma una B con due ali laterali.
«Incredibile! B come Bentley, ma anche come Benedetta… ».
«E come Bernard… ».
****
Aveva insistito molto Bernard. E lei non era riuscita a dirgli di no. Così ora, dopo aver cenato, uscivano dall’Enoteca,
passeggiavano sulla piazza di Pietrasanta, si avviavano nuovamente all’auto. A quella Bentley confusa a lungo con una
Rolls-Royce.
Per tutto il tempo in cui erano stati a tavola avevano parlato. Benedetta si era fatta l’idea che quell’uomo dovesse essere
molto solo. E lei? Era, ora, sola anche lei?
Bernard come molti uomini svizzeri o tedeschi che Benedetta aveva avuto modo di conoscere anche per il lavoro di Bruno
aveva, rispetto agli italiani, più cuore, più affettività. Ripensò alle volte in cui veniva da loro Rudolf. E poi Heinrich. A quel
loro guardarla negli occhi con pulizia e amicizia. Ai loro sorrisi. A quelle voci mai alte, mai stridule, ma lente e armoniose.
E tutto anche con Bernard era stato, in effetti, molto piacevole. Tutto molto misurato.
La macchina si fermò al 25 della strada di Capriglia. Si erano fatte le 11.30.
«La ringrazio infinitamente, Benedetta, per avermi dedicato un po’ del suo tempo. E, se la cosa non le sembra fuori luogo,
mi permetta di chiamarla qualche volta per… ».
«…fare un giro su questa macchina con le ali e con le nostre B?» rise la donna.
«Grazie, grazie, Benedetta».
****
I due giorni seguenti il rientro di Benedetta trascorsero nel più totale silenzio. Bruno non le rivolse mai la parola.
Benedetta aveva ripreso le soliti abitudini: spesa, letture, e-mail, passeggiate. Ora, però, solitarie. Cucinava per il marito.
Sedevano a tavola senza parlarsi. La sera, nel letto, occupavano le estremità opposte.
In quei due giorni Emily non si vide. Arrivò una telefonata che, come sempre, prese Bruno.
Benedetta ne sentì solo frammenti di parole.
«Li puoi tenere… no, non riportarmeli. Te li regalo. Sii felice». Capì che la cornetta era stata riattaccata sulle parole della
ragazza.
Arrivò, poco dopo, anche un’altra telefonata sul cellulare di Benedetta. Lei era in giardino, sola, a godersi il tramonto. In
quell’occasione Bruno di nuovo le parlò. Ma solo per chiamarla.
«Dimmi» disse Benedetta rientrando di corsa.
«Suonava il tuo cellulare… un certo Bernard… Lo so che ci vedi poco, ma con quei caratteri giganti che usi è impossibile
non leggere sul display… ».
Il cellulare stava sul tavolo della cucina. Benedetta avrebbe voluto gettarlo… Gettarlo insieme a Bernard. E fare
scomparire per sempre quello che era successo.
Povero Bernard! Ora sapeva che, senza volere, lo avrebbe fatto soffrire. Sapeva di averlo, con la sua finta allegria, con la
sua disponibilità, illuso.
Sì, perché non gli avrebbe più risposto. Sarebbe venuta meno alla promessa. Di nuovo avrebbe dovuto girare solo, sulla
sua Bentley, per viali e colline.
Ormai le era chiaro che la B alata della Bentley non era quella di Bernard e Benedetta. Era la B di Bruno e Benedetta, di
Bonaccorsi e, proprio a volere, dei loro figli, Barbara e Beniamino.
Anche quella sera Bruno e Benedetta cenarono in silenzio, mentre la donna pensava. Pensava alle ali. Pensava che
anche lei e Bruno ne avrebbero avuto bisogno. Pensava che soprattutto il loro amore ne avesse bisogno.
Ora che il tarlo della gelosia si era insinuato in lei e la consumava.
Dopo aver sistemato la cucina, salì in camera. Vide il marito già nel letto. Se ne stava sdraiato. Senza leggere.
Benedetta se ne andò come sempre in bagno a prepararsi per la notte. Non aveva acceso la luce. Pensava di accendere
direttamente quella allo specchio. Nel buio inciampò. Nel bagno ora illuminato riconobbe le scarpe del marito. Si mise a
osservarle.
Le guardò con tenerezza, quelle due scarpe che da una vita portava.
Cosa c’è di più intimo di paio di scarpe? Di un uomo soprattutto?
In quelle sue scarpe vide il peso del suo corpo e, forse, della sua vita. Allora un senso di commozione la prese. Una
grande commozione per quel suo marito vecchio che le attenzioni di Emily avevano fatto sentire un po’ più giovane. Capì
che quella giovinezza era stata per lui un antidoto alla morte. Comprese che, come diceva la Dida - anche se in modo
antipatico -, non era grave.
Grave sarebbe stato invece se lei avesse rivisto Bernard. Perché nessuno dei due era in cerca di conferme. Entrambi
erano coscienti che la vecchiaia era una cosa inevitabile. Senza esserne spaventati.
Allora, se si fossero ritrovati, non sarebbe stato un antidoto a qualcosa, ma per condividere gl’inverni delle loro vite.
Riguardò quelle scarpe. Le scarpe del marito. Le carezzò.
Quasi avessero un’anima. E forse avevano un’anima. L’anima dell’uomo che amava e che nessuno avrebbe mai sostituito
nel suo cuore.
Quando uscì dal bagno ed entrò nel letto, di nuovo fu più forte di lei avvicinarsi al marito. Se ne avvicinò con spirito
benevolo. Volendo dimenticare quel brutto periodo. Volendo uccidere il tarlo della gelosia.
«Posso?» chiese con un certo timore prima di infilargli il braccio sotto la schiena.
«Devi» rispose lui.
Allora gli si mise accanto e lo abbracciò. Lo abbracciò e si fece abbracciare.
Il mattino dopo, quando la luce del mattino entrò attraverso le persiane, erano ancora l’uno accanto all’altra. Di nuovo
sereni.
La foto di apertura è di Mariapia Frigerio
Mariapia Frigerio - 12-04-2015 - Tutti i diritti riservati
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