Etica relazionale di Abelardo
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Etica relazionale di Abelardo
Aspetti di teologia morale dell’etica della relazione di Pietro Abelardo Il tentativo del mio studio è quello di dimostrare come all’interno del pensiero etico di Abelardo non sia preponderante, come spesso ripetuto, il versante soggettivo ma quello relazionale. Con relazionale si intende rimarcare l’importanza che, per Abelardo, assume sia l’interiorità del singolo, e di qui l’importanza dell’intentio (intenzione) e del consensus (consenso), sia il riferimento oggettivo, la legge divina. Gli stessi termini intentio e consensus sottolineano la dimensione intersoggettiva: il primo rimanda ad in-tentus e segnala proprio il tendere-in, il volgersi verso, altro. Il secondo dice, invece, il con-sensus, il sentire/pensare insieme all’altro (o lo stesso dell’altro). La dimensione relazionale è rinvenibile in modo paradigmatico nella riflessione abelardiana sul peccatum, ovvero il male morale che condanna all’infelicità. Gli interrogativi dalla quale muove la ricerca abelardiana sono i classici della filosofia morale: che cos’è la felicità? Cosa deve fare l’uomo per raggiungerla? Come assumere con consapevolezza il senso della mia esistenza? Da sempre la riflessione filosofica, quell’osservazione sulla realtà che nasce dalla meraviglia si pone questi interrogativi. Tale ricerca ha vissuto una svolta decisiva con l’avvento del cristianesimo e la ricezione del testo biblico da parte del mondo occidentale; uno dei contributi, in questo senso, più peculiari è stata l’interiorizzazione della morale, ovvero la centralità assunta dai moti interiori rispetto alle azioni esteriori, in ordine alla relazione con Dio e, dunque, alla ricerca della felicità. È proprio in ordine a questa interiorizzazione che Abelardo definisce il peccato come il consenso del singolo all’inclinazione malvagia. Dunque esso non risiede né nei desideri malvagi che possono sorgere nel nostro cuore, dato che questi sono il frutto della nostra debolezza umana, né nelle azioni esteriori, che da un punto di vista morale possono essere plurivoche, ovvero avere più significati. In sintonia con la genuina morale evangelica, il peccato per Abelardo si muove su una dimensione che precede e fonda l’azione. Egli offre numerosi esempi per chiarire la sua tesi: non è peccato desiderare una donna altrui, dato che questo desiderio proviene dalla nostra infermità, ma acconsentire razionalmente a tale desiderio, ovvero dare la disponibilità, nella nostra coscienza, a tradurre in atto questa inclinazione malvagia. Non è importante, dal punto di vista morale (e dunque della nostra felicità) che questa disponibilità si traduca in atto esteriore. Se l’abbiamo data in coscienza, abbiamo già commesso il peccato. Tuttavia il male morale ha anche una dimensione oggettiva; in questo senso Abelardo lo definisce come disprezzo (contemptus) di Dio. Il peccato è, in altri termini, il consenso che noi diamo a fare qualcosa che sappiamo essere disprezzato da Dio, anzi essere disprezzo di Dio stesso. Noi riceviamo la legge di Dio, la conosciamo, e diamo il consenso a ciò che la nega. Anche questo mostra come la moralità sia questione di relazione: conferire al consenso e al disprezzo ruoli centrali significa affermare che l’eticità risieda nell’interiorità del singolo nella relazione con l’Altro da sé (il consenso è sempre rispetto a qualcos’altro percepito come giusto o sbagliato). Il principio della moralità (e della realizzazione umana) risiede, dunque, nell’interiorità intesa come luogo di relazione con Dio. Solo la categoria di relazione, dunque, intesa come unità nella differenza concepita alla luce della rivelazione trinitaria, su cui Abelardo eserciterà il suo pensiero lungo tutto il percorso intellettuale, può rendere ragione dell’interiorità del singolo come luogo di ascolto e possibilità di incontro con l’Altro da sé e portare a percepire il di-fronte, l’ob-jectum, come una chiamata personale alla propria realizzazione e non, banalmente, un formale vincolo esteriore. Una volta sottolineato quando si possa dire che avviene il peccato, il male morale, che come detto risiede nell’intenzione, Abelardo si sofferma su cosa l’uomo deve fare per raggiungere il bene morale. Dall’indagine dell’opera di Abelardo emerge che per valutare un’intenzione buona siano necessari due criteri che devono essere entrambi soddisfatti: il primo ha a che fare con la dimensione della voluntas (volontà) e lo si può sintetizzare nella formula “volere come Dio vuole”; il secondo con la dimensione della ratio (ragione), ed è espresso dal “conoscere ciò che Dio vuole”. Abelardo mostra questo nell’opera Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano (significativo, anche alla luce dei problemi di oggi, il tentativo di Abelardo di instaurare un dialogo tra religioni e contesti culturali diversi) Durante la discussione col Filosofo circa il bene e il male, il Cristiano nota come un uomo sia buono ed estraneo al male non tanto se fa il bene (bonum facere) ma piuttosto se agisce bene (bene facere): «infatti un uomo buono è alieno dal male, così almeno sembra, non semplicemente se fa il bene, ma piuttosto se agisce bene (non enim bonus homo a malo in eo dissidere videtur, quod id, quod bonum sit, facit, sed potius, quod bene facit)». L’esempio riportato è significativo: Cristo fu consegnato ai giudei sia per sua stessa iniziativa, sia per opera di Dio Padre, sia per quella di Giuda e del diavolo. L’atto del diavolo e di Giuda sembra buono, perché è lo stesso di Dio81. Tuttavia Giuda e il diavolo non lo fecero con una buona intenzione e dunque non lo fecero bene: «e se per caso sembra che fecero qualcosa di “buono”, tuttavia non si deve dire che lo fecero “bene”, ossia con una buona intenzione». Successivamente Abelardo compie un ulteriore passo: anche se l’intenzione di Giuda e del diavolo ha lo stesso contenuto di quella di Dio (consegnare Gesù ai giudei), ciò che la rende malvagia è quella che si potrebbe definire la forma: non è il “che cosa”, la materia, il contenuto a qualificare moralmente buona ma il fine a cui essa tende. Ciò che è buono eticamente non è soltanto volere quello che Dio vuole, ma volerlo alla stessa maniera di Dio, secondo la stessa profonda motivazione, con lo stesso scopo. Non solo, ma affinché l’intenzione sia buona essa deve essere realmente conforme a quella di Dio. Non basta credere che l’intenzione sia buona, non è sufficiente ritenere che sia gradito a Dio quello che si sta facendo, deve anche esserlo realmente. Il che implica una conoscenza reale della Sua volontà. Abelardo lo afferma riprendendo le parole di Paolo: lo zelo di Dio che non è secondo scienza rende l’intenzione erronea. Per non cadere nel fanatismo occorre aprirsi a una relazione reale con Dio, rapportarsi alla sua reale volontà: «alcuni ritengono che l’intenzione sia buona cioè retta quando uno crede di agire bene e ritiene che quello che fa sia gradito a Dio, come quelli che perseguitavano i martiri, dei quali si dice nel Vangelo: “Viene l’ora che chi vi uccide pensa di rendere ossequio a Dio” [Gv 16, 2]. Commiserando l’ignoranza di costoro l’Apostolo dice: “Rendo loro testimonianza, perché hanno zelo di Dio, ma non secondo scienza” [Rm 10, 2]; cioè hanno molto fervore ed entusiasmo nel compiere quelle azioni che essi credono che siano conformi al volere di Dio; ma poiché si ingannano in questo fervore ed entusiasmo del loro spirito, la loro intenzione è erronea» (Abelardo, Etica o conosci te stesso).