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Care amiche e cari amici,
abbiamo raccolto in questa breve rassegna stampa alcuni articoli che ci
sono sembrati molto interessanti riguardo a questioni internazionali, il
primo uscito sulla Domenica del Sole 24 ore del 29 gennaio in occasione
della Giornata della Memoria ci stimola su Come si usa la memoria,
il secondo è un nuovo appello dell'UNICEF sulla fame nel mondo "I
bambini sono il futuro, salviamoli" da la Repubblica, Nigrizia ci lancia
un
appello,
sottoscritto
anche
da
ISCOS
E.R.,
per
Fermare
il
massacro! Firma l'appello per popoli dei Monti Nuba nel Sud
Sudan, la Repubblica offre un bel reportage sugli affari della Apple in
Cina La faccia sporca della Mela nella fabbrica-lager degli iPad
(tema ripreso anche da Internazionale oggi in edicola) e, infine, trovate
un volto e un nome per questi famosi speculatori ne Gli avvoltoi della
finanza e la carneficina greca (apparso su Il Sole 24 ore). Buona
lettura...
Come si usa la memoria
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2012-01-22/come-memoria-081530.shtml
«La memoria non è il ricordo. La memoria è quel filo che lega il passato al presente
e condiziona il futuro». Lo ha detto di recente Piero Terracina uno degli ultimi
testimoni di Auschwitz ancora in vita. Sono parole dense che faccio mie e alludono a
questioni che in Italia ci riguardano direttamente. Vorrei proporne tre: 1) abbiamo
aperto una riflessione storica e critica sul passato oltre la commemorazione? 2)
Abbiamo un calendario civile che esprima quell'idea di memoria? 3) Quella memoria
ha un rapporto con la nostra quotidianità?
Storia della Shoah in Italia (Utet, 2010) è una grande opera che due anni fa un
gruppo di storici (Simon Levis, Marcello Flores, Enzo Traverso, Anne Marie Matard
Bonucci) ha proposto per ripensare quell'evento in relazione alle metamorfosi, della
società italiana, nel tempo lungo tra Risorgimento e attualità indagando le lunghe
premesse nell'Italia liberale, le vicende della persecuzione; mettendo l'accento sui
perseguitati, i persecutori, la grande e diffusa indifferenza, ma anche sulla
delazione, sulle sottrazioni di beni e cose; poi sul lento rientro e sulle molte forme di
rappresentazioni di quella vicenda che "fanno memoria" di quell'evento (cinema,
letteratura, arte, monumenti, web).
Perché
quell'operazione
culturale
di
alta
qualità
e
innovativa,
ha
cozzato
sostanzialmente nel silenzio? Che cosa significa fare politiche e pedagogie della
memoria oltre la commemorazione? Questa è la questione che quella discussione
mancata ci lascia in eredità.
Credo che in Italia oggi questa questione abbia un valore particolare, maggiore che
in altri contesti nazionali europei, perché noi oggi siamo un Paese che non ha più un
calendario di feste pubbliche, collegate alla propria storia, che abbiano una funzione
pedagogica,
riflessiva
e
soprattutto
formativa
di
un
ethos
pubblico.
Paradossalmente, perché siamo il Paese con più date memoriali nel proprio
calendario.
Ha ricordato lo storico Giovanni De Luna (La repubblica del dolore, Feltrinelli) come
negli ultimi dieci anni sull'Italia si è abbattuta una valanga di date. Oltre al 27
gennaio, abbiamo il 10 febbraio il «giorno del ricordo» in memoria delle vittime delle
foibe; il 9 maggio come «giorno della memoria» dedicato alle vittime del terrorismo;
il 12 novembre «giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni
internazionali per la pace». Poi abbiamo il 4 ottobre, «già solennità civile in onore
dei Patroni speciali d'Italia San Francesco d'Assisi e Santa Caterina da Siena»,
dichiarata anche «giornata della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti
a culture e religioni diverse»; il 2 ottobre giorno della Festa dei nonni.
Siamo pieni di tante date di feste e di giorni della memoria, ma abbiamo uno scarso
rapporto critico con la storia. Quella ridondanza rischia di incrementare la
sacralizzazione del passato e l'irrilevanza degli eventi terribili che accadono nel
nostro presente. Si dirà: rispetto a tutte le altre date che ho elencato il «giorno della
memoria» ha stabilito una sua "tradizione". Ci è riuscito in forza di una dimensione
internazionale (il 27 gennaio non è una data che si riferisce a un fatto accaduto in
quel
giorno
in
Italia),
ma
anche
in
forza
di
una
certa
ambiguità.
Nel suo intervento al Parlamento italiano, il 27 gennaio 2010 il Premio Nobel Elie
Wiesel ha sottolineato come porre il problema della memoria significhi come
ricordare e non se ricordare. «A qualsiasi livello della politica e al più alto livello della
spiritualità – ha detto Wiesel – il silenzio non aiuta mai la vittima: il silenzio aiuta
sempre l'aggressore». È un ottimo spunto. Il cuore di questa considerazione,
tuttavia, non sta nel l'uso della parola, bensì nella funzione. Ovvero deve rispondere
alla domanda: che ce ne facciamo della memoria?
Il senso comune fa coincidere il «giorno della memoria» con impegno contro l'oblio.
È lodevole, ma a me pare che la premessa sia errata. Nessuno, né tra i carnefici, né
tra gli spettatori, si è mai dimenticato niente. Semplicemente pensava o che fosse
un merito (perciò l'ha tenuto bene a mente) o che non valesse la pena preoccuparsi
(e l'ha collocato tra le cose viste, ma di secondaria importanza). Nel caso dei
carnefici, sconfitto il nazismo, essendo iniziata dopo una stagione in cui bisognava
nascondere le proprie emozioni e ciò che si era fatto, occorreva sviluppare una
doppia memoria (chi si reinventa un passato da dire in pubblico deve sempre tenere
a mente tutto ciò che dice, non può mai distrarsi). Nel caso di chi ha visto e non ha
fatto niente perché quel problema rimane sullo sfondo rispetto ad altre cose che lo
riguardavano e che ritiene ancora lo riguardino in misura rilevante. Ma se «la
memoria è quel filo che lega il passato al presente e condiziona il futuro»,
l'operazione che connette e condiziona il futuro nasce non già dal ricordare ma dal
disagio che la memoria procura. La memoria è lo strumento che consente di
valutare "gap" tra sapere che cosa sia la verità e la giustizia e la consapevolezza che
il proprio "io" ha mancato in qualche punto. Una questione che mentre si preoccupa
di riappacificarci col passato, apre questioni laceranti con i fatti del nostro presente e
interroga in forma drammatica il nostro agire. L'episodio più eclatante in senso
tragico riguarda Srebrenica e, soprattutto, il disagio che l'Europa ha provato,
facendo di tutto per non confrontarsi con ciò che quelle scene significavano se non
dopo, a evento consumato, quando ormai negare non era più possibile.
Unicef,
l'appello
per
la
raccolta
fondi
"I bambini sono il futuro, salviamoli"
http://www.repubblica.it/solidarieta/cooperazione/2012/01/27/news/unicef_l_appello_per_la_raccolta_fondi_i_bambini
_sono_il_futuro_salviamoli-28856557/index.html?ref=search
Si muore di fame nel Corno d'Africa, come in Sud Sudan, oppure ci si deperisce e
instupidisce di malnutrizione in tanti altri paesi dell'Africa. Ma si muore anche tra i
conflitti civili e violenze tribali in Siria, nello Yemen, in Iraq. Basterebberp 1,3 miliardi
di dollari per salvare 100 milioni di bambini, anche se il percorso del denarom dai
donatori ai beneficiari non è sempre facile, nè trasparente
ROMA -
Ogni
sei
secondi,
un
bambino
muore di fame. Accade nel Corno d'Africa
funestato dalla siccità, ma anche nel Punjab
pachistano piegato dalle alluvioni o nella
Repubblica popolare nordcoreana affamata
da annose carestie. Altri bimbi sono invece
uccisi nel corso dei conflitti, delle violenze
tribali
o
delle
guerre
politiche
che
insanguinano la Siria, il Sud Sudan, l'Iraq, la
Costa d'Avorio, lo Yemen o anche i Territori palestinesi. In questi contesti, altrettanto
vulnerabili appaiono le donne, che sono spesso le madri di questi piccoli denutriti. Per
salvarli tutti, scongiurando altre morti inutili quanto scandalose, servono soldi.
Basterebbero 1,3 miliardi di dollari per salvare cento milioni di bambini. È quanto ha
calcolato e quanto l'Unicef chiede ai ricchi del pianeta nel suo rapporto Humanitarian
action for children 2012 (che Repubblica è in grado di anticipare), redatto dagli uffici
dell'Agenzia delle Nazioni Unite per l'infanzia in quei 25 Stati o territori del mondo
fiaccati dalle crisi più gravi
In Somalia la situazione peggiore. Buona parte di questi fondi, pari a circa un
miliardo di dollari, dovrebbe essere spesa in Africa, il continente più povero e, in
questi mesi, più travagliato da lotte e combattimenti cruentissimi. Il Paese più
bisognoso di soldi, ossia quello dove sono più numerose le persone che necessitano di
cibo e protezione, è la Somalia. Qui, secondo la stima dell'Unicef, andrebbero versati
quasi 300 milioni di dollari, un quarto circa dell'intera cifra di aiuti valutata per l'anno
in corso. Nel 2011, la Somalia è stato il Paese del Corno d'Africa che più ha sofferto la
fame per via di una siccità senza precedenti: mentre 13 milioni di esseri umani e
altrettanti capi di bestiame soffrivano della mancanza di acqua sono morte decine di
migliaia di bimbi. Lo scorso ottobre, le organizzazioni umanitarie presenti sul terreno
avevano valutato che erano ancora a rischio 750mila bambini.
La guerra che si somma alla fame. Sempre in Africa, un altro Paese estremamente
indigente è il Sud Sudan, il quale dopo la tanto desiderata e finalmente ottenuta
indipendenza da Khartum è oggi dilaniato dal rincrudirsi di guerre tribali mai sopite.
Da quando è riuscito ad affrancarsi dal giogo del Nord, 300mila persone sono rimaste
coinvolte negli scontri lungo la linea di confine, e 350mila sono rientrate nella parte
meridionale del Paese. Altra piaga del Continente Nero è la Repubblica democratica del
Congo, in particolare nelle sue regioni settentrionali e orientali, estese come mezza
Europa. Nel rapporto è dettagliatamente spiegato come per salvare le vite dei piccoli
congolesi servano 144 milioni di dollari. Infatti, il decennale conflitto in corso ha
provocato solo negli ultimi mesi la migrazione di un milione e mezzo di persone, la
metà dei quali sono minori. Altri milioni di piccoli, sempre per via della guerra, non
vanno a scuola, e rischiano di finire vittime di stupri da parte delle soldatesche che
infestano quella terra sfortunata. Nei primi nove mesi del 2011, 15mila bimbi sono
stati ricoverati dopo esser sopravvissuti ad abusi sessuali, spesso compiuti da più
militari per volta.
I temporali biblici del Pakistan. Quasi 90 milioni di dollari occorrono invece per
salvare i piccoli pachistani, soprattutto quelli del Punjab, dove, due estati fa, lo
straripamento dell'Indo provocato da temporali biblici spazzò via centinaia di villaggi.
Qui, mezzo milione di bimbi è stato recentemente salvato dallo spettro della
malnutrizione e 6 milioni di essi sono stati vaccinati contro la poliomielite che in
quell'area di mondo è ancora una piaga opprimente. Potremmo citare ancora i 50
milioni di dollari necessari allo Yemen insanguinato da una "primavera" sfociata in
guerra civile, o i 27 milioni di dollari senza i quali morirebbero chissà quanti piccoli in
Costa d'Avorio costretti a vivere nei campi profughi dopo le violenze scoppiate dalle
elezioni del 2010, o ancora i 24 milioni di dollari che necessiterebbero i bimbi
sopravvissuti
al
terremoto
di
Haiti
per
essere
salvati
dal
colera.
Gli ostacoli nel percorso del denaro. Il problema è che solo una percentuale di
questi soldi arriveranno a destinazione, e che quindi solo una parte di questi cento
milioni di bimbi sarà salvata nel 2012. Purtroppo non basta disporre di fondi per far
funzionare l'apparato umanitario. Il lavoro degli operatori dell'Unicef, come quelli di
altre ong, consiste proprio nel superare Paese per Paese, regione per regione, gli
ostacoli logistici, militari o burocratici che si frappongono tra il donatore e la
popolazione da sfamare. Ma rimuovere questi intoppi non è sempre possibile. Lo
scorso anno, per esempio, nello Zimbabwe è arrivato solo il 13 per cento dei fondi di
cui i bimbi del Paese avrebbero avuto bisogno. In Congo ne è giunto il 51 per cento,
mentre in Somalia l'86 per cento.
Un barlume di ottimismo. Può essere letto nelle cifre del rapporto pubblicato oggi e
che illustrano come solo nel 2011 sono stati 36 milioni i piccoli vaccinati nelle aere più
povere, 1,2 milioni sono stati invece curati dalla malnutrizione acuta, 4 milioni hanno
avuto accesso all'istruzione e quasi un milione ha ricevuto protezione. Tutto questo
perché, come dice Rima Salah, vice direttore generale dell'Unicef, "i bambini non solo
rappresentano il futuro, ma sono vulnerabili e meritano quindi un sostegno generoso e
costante da parte dei donatori". A buon intenditore poche parole.
Fermare il massacro! Firma l'appello per popoli dei
Monti Nuba
http://www.nigrizia.it/sito/notizie_pagina.aspx?Id=11362&IdModule=1
Il Kordofan Meridionale (Sudan) è stato teatro di ripetute tragedie. I nuba
hanno subito aggressioni ambientali, economiche, culturali. Oggi Khartoum
sta di nuovo bombardando quelle terre. Nel silenzio del mondo. Serve la
reazione di tutti per evitare un genocidio. Ecco l'appello, a cui si può aderire
inviando un'email a [email protected].
Il 10 novembre, un aereo militare Antonov del governo di Khartoum è entrato nello
spazio aereo del Sud Sudan per circa 15 km e ha bombardato il campo profughi di
Yida, dove oltre 20mila persone nuba - per lo più bambini, donne e anziani - avevano
trovato scampo, dopo essere fuggiti dai loro villaggi nello stato sudanese del Kordofan
Meridionale, perché vittime di una feroce repressione. Almeno 12 i morti; 20 i
gravemente feriti. Le agenzie umanitarie dell'Onu stavano proprio in quei giorni
organizzando l'assistenza dei rifugiati per aiutarli a sopravvivere nel nuovo e ostile
ambiente.
Questa azione, compiuta nella più totale mancanza di rispetto delle leggi internazionali
e contravvenendo a numerose convenzioni internazionali - oggi Sudan e Sud Sudan
sono due nazioni indipendenti e sovrane - è soltanto l'ultimo dei numerosi crimini
commessi dal regime di Khartoum contro il popolo nuba. Il bombardamento ha avuto
luogo poche ore dopo che il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, aveva
condannato un precedente attacco, avvenuto il giorno 8, contro un villaggio della
contea di Maban (7 morti), e accusato il governo di Khartoum di cercare la guerra.
Quel bombardamento di un territorio straniero è stata l'ennesima prova che nulla
fermerà il regime di Khartoum dall'usare ogni mezzo per piegare la volontà dei nuba di
affermare il loro diritto all'autodeterminazione. Pare ormai certo che il governo di
Omar El-Bashir è deciso a riprendere il genocidio culturale e fisico del popolo nuba,
interrotto momentaneamente dal cessate-il-fuoco del 2002 e dall'Accordo globale di
pace del gennaio 2005 tra il regime islamista di Khartoum e l'Esercito/Movimento
popolare di liberazione del Sudan (Spla/m), e forse anche pronto a provocare una
nuova guerra tra il Sudan e il Sud Sudan.
Noi, nuba della diaspora e amici del popolo nuba sparsi nel mondo, seguiamo con
profonda preoccupazione il conflitto armato che è deflagrato nel giugno di quest'anno,
e condanniamo con decisione questi nuovi atti di repressione barbarica da parte del
governo di Khartoum. In passato, lo stato del Kordofan Meridionale è stato teatro di
ripetute tragedie: tratta schiavista, colonizzazione, prolungato isolamento del popolo
nuba, totale privazione dei servizi scolastici e sanitari, negazione del diritto di
proprietà e di uso delle risorse naturali locali... In particolare, i nuba hanno sofferto
innumerevoli
invasioni
di
razziatori
di
schiavi
e
una
forzata
arabizzazione-
islamizzazione. Sono stato costretti con la forza a combattere in guerre che non erano
per la loro difesa, ma per il beneficio di regimi lontani, se non proprio stranieri.
Nonostante queste ingiustizie, i nuba sono riusciti a far fronte a spaventose condizioni
di vita e a sviluppare una straordinaria capacità di ripresa e un forte senso di identità.
Il regime di Khartoum li ha tenuti sotto controllo attraverso una diabolica
combinazione di meccanismi economici, sociali, ambientali e politici, ma non è stato in
grado di spezzare la loro volontà.
In campo economico, Khartoum sta avvantaggiando persone o gruppi disposti a
sposare i suoi orientamenti politici e a servire nelle sue strutture amministrative.
In campo sociale, ricorre alla denigrazione di tutto ciò che non è arabo e alla
diffusione di norme sociali, tradizioni e costumi importati nella regione attraverso o
un'esplicita imposizione dall'alto o matrimoni misti e pratiche religiose.
A livello ecologico, il regime sta gestendo l'ambiente in maniera scriteriata al solo
scopo di avere il totale controllo dei mezzi di sussistenza in materia di cibo e sicurezza
alimentare. Dal punto di vista politico, con una linea programmatica sfacciatamente
discriminatoria, ha impedito ai nuba di svolgere un loro ruolo a livello locale, nazionale
e internazionale.
Infine, la popolazione dei Monti Nuba è stata testimone di vere e proprie aggressioni
culturali, perpetrate per promuovere lingue, religioni, tradizioni, danze, usi e costumi
"altri". Quasi tutte le culture imposte hanno mirato a instillare nei nuba un senso di
inferiorità, quasi dovessero vergognarsi di essere ciò che sono. Tutti i mezzi di
comunicazione, radio e televisione in particolare, sono stati - e sono tuttora monopolizzati da chi detiene il potere e controlla le ricchezze nazionali.
L'Accordo globale di pace del 2005 non ha voluto affrontare il destino del popolo nuba
e di altri gruppi marginalizzati del Sudan, né osato esaminare le molte cause di
conflitto presenti in quelle aree. Questa la ragione principale che sta dietro l'attuale
ritorno alla violenza, il pericolo di una nuova guerra civile e la possibilità di un conflitto
interregionale se non addirittura internazionale. Oggi Khartoum uccide persone
indifese che sono fuggite da zone di guerra, raggiungendole perfino in campo
profughi.
Cosa bisogna fare per fermare le violenze e evitare una nuova guerra? Di sicuro, serve
la partecipazione di molti. Pertanto, ci appelliamo:
1. a tutti i nuba della diaspora, perché sostengano il loro popolo, usando ogni mezzo
possibile per far conoscere le sue sofferenze e le sue lotte, coinvolgendo i mezzi di
comunicazione della nazione in cui vivono, così che il regime di Khartoum non possa
più continuare impunemente a fare ciò che sta facendo sui Monti Nuba e nel Kordofan
Meridionale;
2. alla comunità internazionale e agli organismi non governativi, perché approntino e
inviino subito sui Monti Nuba e nel Kordofan Meridionale commissioni d'inchiesta per
raccogliere documentazioni sui crimini che vi sono commessi, e nello stesso tempo
mandino aiuti ai civili indifesi;
3. alle potenze mondiali e alle agenzie dell'Onu, perché esercitino pressioni sul
governo di Khartoum, affinché consenta il libero accesso alle zone colpite dalle nuove
violenze
e
promuovano
un
dialogo
politico
tra
tutte
le
parti
interessate.
Invitiamo tutti a fare in fretta, ad agire ora, quando un genocidio vero e proprio è
ancora evitabile.
Mohamed Yassin (Diaspora nuba) - Nuba Advocacy group-UK - Acli Cremona - Acli
Milano - Amani Italia - Arci Darfur Milano - Arci Milano - Campagna italiana per il
Sudan - Commissione giustizia e pace comboniani Italia - Fondazione Nigrizia onlus -
Ipsia - Iscos Emilia Romagna - Koinonia Kenya - Koinonia Roma - Nexus Emilia
Romagna - Tavola della Pace.
Cina La faccia sporca della Mela nella fabbrica-lager
degli iPad
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/01/27/cina-la-facciasporca-della-mela-nella.html
Un venerdì sera del maggio scorso un' esplosione ha dilaniato l' Edificio A5. Quando le
tute blu che eranoa mensa sono corse fuori a guardare cosa fosse accaduto, hanno
visto alzarsi fumo nero dall' area nella quale gli operai lucidavano migliaia di tavolette
iPad al giorno. Due sono rimasti uccisi sul colpo e molte decine di altri hanno subito
lesioni. Tra i feriti, uno pareva particolarmente grave: aveva i lineamenti del volto
cancellati dalla forte esplosione. Bocca e naso erano ridotti a una poltiglia rossa e
nera. «Lei è il padre di Lai Xiaodong?», ha chiesto una voce quando il telefono è
squillato nella casa in cui è cresciuto Lai, e dalla quale il giovane ventiduenne si era
trasferito a Chengdu, nel Sud Ovest della Cina, per diventare una delle milioni di ruote
umane del grande ingranaggio che alimenta la più veloce e sofisticata catena di
montaggio sulla Terra. «Suo figlio sta male. Si rechi subito in ospedale». Negli ultimi
dieci anni, Apple è diventata una delle più potenti, ricche aziende di successo al
mondo. Malgrado ciò, gli operai che assemblano iPad, iPhone e altri apparecchi spesso
lavorano in condizioni estreme, secondo quanto affermano i dipendenti delle
fabbriche, i difensori dei lavoratori e alcuni documenti pubblicati dalle stesse aziende.
I problemi vanno da ambienti di lavoro gravosia questioni di sicurezza. Gli operai
lavorano in turni lunghi, fanno molti straordinari, talvolta anche sette giorni su sette, e
vivono in affollati dormitori. Alcuni stanno in piedi per così tante ore che le gambe si
gonfiano al punto da non permettere loro di camminare. Operai in età minorile aiutano
ad assemblare alcuni prodotti Apple, e le fabbriche che la riforniscono hanno smaltito
in modo improprio rifiuti pericolosi e falsificato i registri: a sostenerlo sono alcuni
rapporti aziendali e gruppi di difesa che, in Cina, sono spesso considerati affidabili. La
cosa più preoccupante, però - prosegue la denuncia del gruppo - è che le fabbriche
non tengono in alcun conto la salute degli operai. Due anni fa presso uno stabilimento
Apple della Cina orientale 137 operai si ammalarono gravemente dopo essere stati
costretti a utilizzare una sostanza chimica tossica per lucidare gli schermi degli iPhone.
Nel giro di soli sette mesi l' anno scorso due esplosioni avvenute in altrettante
fabbriche di iPad - una a Chengdu - hanno fatto 4 morti e 77 feriti. L' Apple era stata
avvisata delle condizioni pericolose di lavoro all' interno dell' impianto di Chengdu:
così afferma il gruppo cinese che aveva reso noto l' avvertimento. «Se l' Apple era
stata avvertita e nonè intervenuta,è da biasimare» dice Nicholas Ashford, ex
presidente del National Advisory Committee on Occupational Safety and Health, un
ente che offre consulenze al Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti. L' Apple non è l'
unica società di elettronica a fare affidamento su simili fabbriche e stabilimenti.
Pessime condizioni di lavoro sono state documentate anche negli impianti di
produzione di Dell, Hewlett-Packard, IBM, Lenovo, Motorola, Nokia, Sony, Toshiba e
altri ancora. Dirigenti ed ex dirigenti dell' Apple affermano che negli ultimi anni l'
azienda ha messo a segno significativi progressi nel migliorare gli stabilimenti di
produzione. L' Apple ha un codice comportamentale che gli stabilimenti dei fornitori
sono tenutia rispettare,e che precisa gli standard inerenti al lavoro, alla sicurezza, a
numerose altre questioni. Apple ha anche avviato un' importante campagna di
verifiche e revisioni. I problemi più significativi, però, sussistono. Si è scoperto che
oltre la metà degli stabilimenti che riforniscono la Apple ha violato ogni anno e dal
2007 una almeno delle norme previste. «Alla Apple non è mai interessato altro che
aumentare la qualità del prodotto e abbassare i costi di produzione», dice Li Mingqi,
ex manager alla Foxconn Technology, uno dei più importanti partner della catena di
produzione di Apple. Li, che ha portato in tribunale Foxconn per essere stato
licenziato, ha aiutato a dirigere lo stabilimento di Chengdu dove si è verificata l'
esplosione. Lai Xiaodong sapeva che la fabbrica di Foxconn a Chengdu era particolare:
gli operai costruiscono l' iPad, il prodotto della Apple più innovativo. Ottenuto un posto
per riparare le apparecchiature dello stabilimento, avevano subito notato le luci,
accecanti. I turni di lavoro erano anche di 24 ore al giorno e la fabbrica era illuminata
notte e giorno. Alcuni avevano gambe talmente gonfie da trascinarsi a fatica. Dalle
pareti i manifesti ammonivano i 120mila operai a "sgobbare sodo oggi o a sgobbare
sodo domani per trovarsi un nuovo lavoro". Il codice comportamentale della Apple per
le fabbriche fornitrici prevede che, salvo eccezioni, gli operai non debbano lavorare più
di 60 ore a settimana. A Foxconn, invece, alcuni lavoravano molto di più, come
documentano le buste paga e alcuni sondaggi condotti da gruppi esterni. Gli operai
che arrivavano in ritardo al lavoro spesso dovevano scrivere una confessione di
colpevolezza e copiare citazioni. Da alcune rivelazioni risulta che c' erano "turni
continui". In alcuni dormitori della Foxconn dormono fino a 70mila persone, stipate
anche in 20 in un trilocale. La Foxconn ha definito menzognere le dichiarazioni degli
operai sui turni continui, gli straordinari e gli alloggi sovrappopolati. La mattina in cui
si è verificata l' esplosione, Lai si era recato al lavoro in bicicletta. L' iPad era stato
appena lanciato sul mercato e gli operai avevano l' ordine di lucidarne a migliaia ogni
giorno. Il lavoro nella fabbrica era frenetico. C' era polvere d' alluminio ovunque. Due
ore dopo l' inizio del secondo turno di Lai si è verificata una serie di esplosioni. Alla
fine il bilancio delle vittime sarebbe stato di quattro morti, e 18 feriti. Il corpo di Lai è
stato straziato sul 90 per cento della superficie. La fabbrica ha fatto avere alla famiglia
circa 150mila dollari. A dicembre è esplosa un' altra fabbrica di iPad, a Shanghai. Il
bilancio delle vittime è stato di 59 feriti. Nel rapporto sulle proprie responsabilità,
Apple ha scritto che anche se in entrambi i casi le esplosioni hanno coinvolto polvere
di alluminio combustibile, le cause erano diverse, ma si è rifiutata di fornire dettagli.
Per la famiglia di Lai, molte domande restano senza risposte. (Copyright New York
Timesla Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti) - CHARLES DUHIGG DAVID
BARBOZA
Gli avvoltoi della finanza e la carneficina greca
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-01-17/avvoltoi-finanzacarneficina-greca-215453.shtml?uuid=AaB0XLfE
NEW YORK - Trentottesimo piano della Bank of America Tower, il nuovissimo
grattacielo di vetro nel cuore di Manhattan a un isolato da Times Square. Uffici di
Marathon Asset Management. Appuntamento ogni lunedì mattina alle 7 in sala
riunioni, dove i gestori del portafoglio si confrontano con i responsabili del risk
management per decidere come meglio investire i dieci miliardi di dollari da loro
gestiti. Molto spesso la decisone finale spetta a Bruce Richards, fondatore e presidente
di Marathon.
Una vita professionale trascorsa in un'unica strada - Wall Street - Richards ha
cominciato trent'anni fa a Paine Webber. Per passare a Lehman Brothers, poi a
Donaldson, Lufkin & Jenrette e infine a Smith Barney. In un certo senso è sintomatico
che nessuna di queste banche di investimento esista più. Lehman è implosa, le altre
sono state risucchiate dai giganti del settore - Ubs, Credit Suisse e Morgan Stanley. È
la finanza, baby. Dove il darwinismo regna sovrano. Ma quella di Marathon è forse la
forma di finanza più pura che esiste. Con i capitali non costruisce niente, scommette
soltanto. Il suo è capitalismo d'azzardo.
Marathon non ha un motto. Il più appropriato sarebbe mors tua vita mea. Quello in cui
si cimenta è infatti un gioco a somma zero: se Marathon si arricchisce è perché
qualcun altro si è impoverito. Anzi, peggio, è andato fallito. I profitti più spettacolari
Richards li ha fatti a seguito di alcuni dei più grandi disastri finanziari della storia. A
partire da quello di Long-Term Capital Management, il fondo speculativo del
Connecticut salvato dalla Federal Reserve nel 1998, passando per quello di Enron e
WorldCom.
In occasione dell'ultima crisi finanziaria, quella che adesso rischia di affossare la
Grecia, Marathon fu uno dei primi a ritirare i propri capitali da Bear Sterns
(accelerandone il crack) e a creare un suo fondo per beneficiare dal bagno di sangue
dei mutui subprime. «La liquefazione del mercato dei subprime è stata assolutamente
incredibile. E ha creato opportunità significative» scrisse in quell'occasione Richards in
una lettera ai suoi clienti in cui annunciava la creazione di un nuovo fondo «per
giovarsi della carneficina del mercato subprime con una strategia di acquisto
opportunistico di beni sottovalutati». Parole sue. Che descrivono il modus operandi di
Marathon con un cinismo a cui non sarebbe arrivato neppure a un membro di Occupy
Wall Street.
Ed è la stessa strategia che adesso Richards sta applicando alla Grecia. Marathon è
infatti uno degli speculatori che negli ultimi mesi si sono gettati sui titoli di Stato greci.
Assieme ad altri fondi speculativi come York Capital Management Lp, passato alla
storia per le fortune fatte comprando bond di società fallite, dalla Enron alla Adelphia
Communications, da Tyco International a World Comm.
Cifre precise non sono disponibili. A secondo di chi le fa, le stime dei titoli di Stato
greci nelle mani di speculatori oscillano tra i 10 e i 70 miliardi (quest'ultima cifra,
probabilmente esagerata, è stata fatta la settimana scorsa al Wall Street Journal da un
anonimo «alto funzionario governativo» greco).
A parte Marathon e York, ci sono Och-Ziff Capital Management, CapeView Capital Llp,
Saba Capital management Lp e Vega Asset Management, il fondo spagnolo creato da
un ex trader del Banco Santander. Per tutti costoro il possibile fallimento della Grecia
costituisce adesso un'opportunità. Si badi bene: non per comprare a prezzi stracciati
beni o aziende da ricostruire o rivalorizzare. No, qui si parla di puri e semplici 'acquisti
opportunistici'. E la «carneficina» che potrebbe seguire a un'eventuale bancarotta di
Atene interessa soltanto in quanto potenziale fattore di moltiplicazione del guadagno.
«Può sembrare impietoso, ma della Grecia, dei greci, e del futuro dell'euro, non
importa a nessuno qui. È un investimento come ogni altro: conta solo uscirne con un
congruo bottino» dice una fonte in un fondo hedge «fortemente esposto sulla Grecia».
È una partita a poker. Che si deve concludere ben prima del 20 marzo prossimo,
quando andranno in scadenza 14,4 miliardi di euro di titoli greci. Atene non ha i soldi
per pagare i debitori, né la capacità di piazzare nuove emissioni sostitutive. Per evitare
il default ha bisogno del secondo piano di sostegno europeo. Ma quei 130 miliardi di
aiuti sono subordinati alla ristrutturazione del debito con i privati, il cosiddetto Private
sector involvement, o Psi, il cui negoziato è stato sospeso la settimana scorsa.
Il tempo stringe. Charles Dallara, l'americano a capo dell'associazione che rappresenta
banche e hedge fund nel negoziato, lunedì scorso ha detto che un accordo di principio
deve essere completato entro la fine di questa settimana se si vuole finalizzarlo prima
del 20 marzo. In termini generali agli investitori privati i greci stanno chiedendo di
accettare 'volontariamente' la conversione dei titoli posseduti in nuovi titoli ventennali
o trentennali con maggiori garanzie in caso di default, un tasso di rendimento del 4 o
5% e un valore nominale dimezzato (nel gergo si parla di haircut del 50 per cento).
Per rendere l'affare meno amaro, c'è poi un cosiddetto addolcitore: circa 35 miliardi in
contanti da distribuire al momento dell'accordo.
Il termine 'dimezzamento volontario' del valore di un investimento potrebbe sembrare
un ossimoro. Ma si conta sul fatto che le conseguenze di un default disordinato della
Grecia potrebbero essere peggiori.
La
volontarietà
è
elemento
essenziale
dell'accordo.
Perché
permetterebbe
di
interpretare la manovra non come una vera e propria ristrutturazione del debito, che
farebbe scattare i cosiddetti Credit default swaps, o Cds, cioè i contratti di
assicurazione contro il default. Sarebbe piuttosto un rimodellamento soft senza
ramificazioni
esterne.
Sembrava cosa fatta. Anche perché i Governi e la Banca centrale europea sono
intervenuti sugli istituti finanziari. Ma il vero ossimoro è persuadere gli speculatori.
Anche perché ognuno di loro ha una diversa strategia di quello che Moritz Kraemer,
responsabile per i rating sovrani europei di Standard & Poor's, ha definito «rischio
calcolato».
Chi ha in pancia Cds, non ha interesse ad accettare l'haircut. Ma negli ultimi mesi il
prezzo dei Cds sulla Grecia è salito molto e per fondi iperspeculativi come quelli di cui
stiamo parlando non avrebbe avuto senso dotarsene.
C'è però uno strumento derivato alternativo ai Cds al quale ha fatto ricorso almeno
uno degli hedge fund che ha recentemente investito in titoli greci: il recovery swap. Si
tratta di un prodotto che garantisce un tasso di risarcimento predeterminato nel caso
di default. Se alla fine della procedura di default si recupera meno di quel tasso, la
differenza viene rimborsata dalla controparte dello swap. Se si recupera di più, la
differenza va alla controparte. Un'altra forma di scommessa. Che però garantisce una
copertura seppure parziale.
Poi c'è chi non ha né Cds né recovery swap e ha comprato titoli greci nella primavera
scorsa a prezzi ultrascontati. Avendo beneficiato fin qui dei loro tassi di rendimento
elevati, potrebbe in teoria essere propenso ad accettare l'haircut e portarsi a casa i
contanti dell'addolcitore. Ma non è detto. «Dipende dalla capacità di sopportazione del
rischio» spiega la nostra fonte. «Si può fare anche il ragionamento opposto: poiché si
è recuperato già buona parte dell'investimento, si può rischiare di più e rifiutare
l'accordo Psi sperando che raccolga comunque l'adesione di una larga maggioranza dei
creditori. A quel punto, per chiudere il negoziato con tutti, l'Europa potrebbe essere
indotta a offrire di più a chi si è tenuto fuori». C'è un termine in gergo per costoro:
free rider. Che poi è un'elegante forma inglese per definire gli scrocconi.
In questo momento più che mai puntare a fare i free rider significa essere disposti a
correre forti rischi. Nell'attuale clima politico i governanti europei sono infatti ben poco
propensi a premiare gli speculatori più aggressivi. «Sappiamo bene dei free rider» ci
dice uno dei negoziatori europei. Lo sanno anche i greci. Come ha dimostrato il
portavoce
del
Governo
Pantelis
Kapsis,
il
quale
venerdì
scorso
ha
parlato
dell'introduzione di una «clausola di azione collettiva» che, in caso di approvazione a
maggioranza imporrebbe l'accordo Psi anche a chi non lo ha accettato.
Ma la nostra fonte nel fondo hedge ci spiega che è una minaccia che suona vuota agli
speculatori.
Perché
se
l'accordo
fosse
ritenuto
'non
volontario'
dall'organo
internazionale che valuta i cosiddetti eventi di credito, l'International swaps and
derivatives association, scatterebbero i risarcimenti dei Cds, un'eventualità che le
autorità greche e quelle europee hanno finora cercato di evitare. Anche perché
metterebbe a repentaglio i conti degli istituti finanziari che li hanno venduti
scatenando
una
serie
di
reazioni
a
catena
di
non
facile
gestione.
«È una partita sul filo del rasoio, fatta di misure e contro-misure, mosse e
contromosse» ci dice il negoziatore europeo, non nascondendo la frustrazione per le
energie impegnate a far fronte ai 'fondi avvoltoio'.
Solo all'ultimo si saprà chi l'avrà avuta vinta. Chi perderà è invece già chiaro: i greci. E
con tutta probabilità sarà una carneficina.
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