Novembre / Dicembre 2009 - Associazione Italiana Sommelier

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Novembre / Dicembre 2009 - Associazione Italiana Sommelier
Anno XVI - n. 90 - € 3,50 - Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 - n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
DEVinis
LA COMPETENZA, LA PROFESSIONALITÀ,
LA CULTURA, IL PIACERE,
I PROTAGONISTI DEL BERE BENE
Novembre / Dicembre 2009
PUBBLICAZIONE UFFICIALE DELL’ASSOCIAZIONE ITALIANA SOMMELIERS z www.sommelier.it - [email protected]
Editoriale
2010,
l’anno del rilancio
di Terenzio Medri
a più parti sentiamo dire che il 2010 sarà l’anno del rilancio dell’economia. I timidi segnali
di ripresa registrati negli ultimi mesi (non ultime le previsioni dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) fanno sperare che
il tunnel in cui ci ha cacciato la congiuntura economica mondiale sta per concludersi. Secondo i dati diffusi dall’Ocse l’Italia oltre a mostrare forti segnali di
crescita, ha ormai sorpassato la Gran Bretagna per
prodotto interno lordo ed è la sesta nazione più ricca
tra i paesi industrializzati del mondo.
Questo significa che anche i comparti enologico e
agroalimentare torneranno a sorridere. Ma vuol dire
anche che non bisognerà dimenticare la lezione che
questa crisi ci ha insegnato. Molte cantine hanno ancora le botti piene, numerosi ristoratori ed enotecari
conservano, invendute, bottiglie pregiate molto costose. Tutto questo è figlio del boom incontrollato (e forse
incontrollabile) di qualche anno fa, quando cioè il prezzo non condizionava in modo determinante le vendite. Oggi il consumatore è molto più accorto (ed esperto) e guarda con maggiore attenzione al rapporto qualità prezzo.
In questo processo di crescita culturale la nostra associazione ha avuto un ruolo fondamentale, che continua a svolgere non solo in Italia con i corsi di formazione e le degustazioni organizzate dalle nostre delegazioni, ma anche all’estero dove accompagniamo le
aziende italiane del vino di qualità affiancandole come
comunicatori del prodotto di eccellenza e del loro
territorio di provenienza.
Ecco, per uscire dalla crisi occorrerà puntare proprio
sull’importanza della cultura e della comunicazione.
La nostra associazione, dopo anni di studio e applicazione pratica, in questo senso non teme confronti:
da tutto il mondo alle nostre sedi giungono infatti inviti per partecipare in qualità di relatori a convegni, tavole rotonde, degustazioni; arrivano richieste di articoli
pubblicati da riviste inglesi, francesi, tedesche, spagnole, russe, giapponesi e cinesi.
Non siamo alla ricerca di primati autoreferenziali e
D
propagandistici (non lo siamo mai stati) anche perché
sono sterili e fine a se stessi. La nostra forza è nella
cultura perché ovunque la cultura è necessaria: nella
fase di promozione, di commercializzazione, ma ancora di più nel mantenimento delle posizioni di mercato già acquisite. Fare questo richiede una grande professionalità e una capacità di innovazione permanente, come quelle che hanno dimostrato i concorrenti del
Campionato europeo che si è appena svolto a San
Marino.
Le chiacchiere di chi ha messo in discussione la qualità e il prestigio del concorso scivolano sul piano inclinato della nostra indifferenza. Fortunatamente per
dimostrare di esistere la nostra associazione non ha
bisogno di urlare, c’è e si vede per tutto ciò che ha fatto
e sta continuando a fare non al servizio di se stessa,
ma al servizio del prezioso frutto dell’arte enologica.
Per i chiacchieroni l’augurio è quello di potere, in futuro, fare altrettanto. A tutti gli altri buon Natale e un
felicissimo 2010. Ne abbiamo veramente bisogno!
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AIS Associazione Italiana Sommeliers
Presidente | Terenzio Medri
Vicepresidenti | Antonello Maietta, Rossella Romani
Membri della Giunta Esecutiva Nazionale | Terenzio Medri, Antonello Maietta, Roberto Gardini, Lorenzo
Giuliani, Vincenzo Ricciardi, Catia Soardi, Rossella Romani, Marco Aldegheri, Roberto Bellini.
La competenza, la professionalità, la cultura, il piacere, i protagonisti del bere bene.
Anno XVI novembre-dicembre 2009
Associazione Italiana Sommeliers Editore
Direttore editoriale e responsabile | Terenzio Medri, [email protected]
Coordinamento redazionale | Francesca Cantiani, [email protected]
Per la pubblicità | Roberto Pizzi, [email protected] tel. 02/72095574 – ICE Srl – Corso Garibaldi, 16 –
20121 Milano
Redazione | Associazione Italiana Sommeliers
Viale Monza 9 - 20125 Milano
Tel. +39 02/2846237 - Fax +39 02/26112328 - [email protected]
Segreteria di redazione | Emanuele Lavizzari, [email protected]
Hanno collaborato | Silvia Baratta, Luisa Barbieri, Roberto Bellini, Francesca Cantiani, Luigi Caricato, Riccardo
Castaldi, Alessia Cipolla, Elisa della Barba, Alessandro Franceschini, Natalia Franchi, Katia Giarrusso, Michela
Guadagno, Yuki Kumagawa, Emanuele Lavizzari, Michela Lugli, Maurizio Maestrelli, Letizia Magnani, Angelo
Matteucci, Gian Carlo Mondini, Davide Oltolini, Roberto Piccinelli, Cesare Pillon, Paolo Pirovano, Annalisa Raduano,
Alessandra Rotondi, Isabella Sardo, Thomas Sartori, Lorenzo Simoncelli, Daniele Urso, Franco Ziliani.
Fotografie | Archivio Ais
Per l’articolo a firma di Gian Carlo Mondini foto di Giorgio Salvatori
Per l’articolo a firma di Alessandra Rotondi foto della stessa autrice
Per l’articolo a firma di Alessandro Franceschini foto dello stesso autore
Per l’articolo a firma di Daniele Urso foto dello stesso autore
Per l'articolo a firma Letizia Magnani la foto centrale è di Jeremy Keith
Per l’articolo a firma di Elisa della Barba foto della stessa autrice
Per l’articolo a firma di Thomas Sartori la foto centrale alle pagg. 84-85 è di .and
Per l’articolo a firma di Riccardo Castaldi foto dello stesso autore
Per l’articolo a firma di Michela Guadagno foto di Gianni Lamberti
Si ringrazia la professoressa Ester Acquati per la consulenza nella scelta dell’immagine di copertina.
Reg.Tribunale Milano n.678 del 30/11/2001
Associato USPI
Abbonamento annuo a 6 numeri | ITALIA € 20,00 ESTERO € 45,00
Intestare ad “Associazione Italiana Sommeliers – viale Monza, 9 – 20125 Milano” specificando il motivo del versamento da effettuarsi secondo una delle tre seguenti modalità:
- pagamento tramite c/c postale 000058623208
- bonifico su Banco Posta, codice IBAN IT83K0760101600000058623208 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BPPIITRRXXX)
- bonifico bancario presso “Banca Intesa Sanpaolo, via Costa 1/A, Milano,
IBAN IT26H0306909442625008307992 (aggiungere per versamenti dall’estero codice SWIFT BCITIT22001)
Chiuso in redazione il 16-11-2009
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AIS 2010
Rinnovo quota associativa 2010
E’ possibile rinnovare l’iscrizione nei
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e seguire le istruzioni
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tramite Carta di Credito
(escluso Diners Card).
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c/c postale
n. 58623208 intestato ad
“Associazione Italiana Sommeliers
Viale Monza 9, 20125 Milano”,
indicare nella causale
“Quota associativa 2010”.
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Sommeliers” IBAN
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SWIFT BPPIITRRXXX).
Bonifico bancario
presso “Banca Intesa Sanpaolo,
via Costa 1/A, Milano” intestato ad
“Associazione Italiana Sommeliers”
codice IBAN
IT26H0306909442625008307992
(aggiungere per versamenti
dall’estero codice
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La quota associativa è di 80 euro
e comprende l’abbonamento annuo
alla rivista ufficiale AIS e alla Guida
Duemilavini edizione 2011.
Sommario
Novembre / Dicembre 2009
10
Sul tetto d’Europa
LUCA GARDINI
15
CONQUISTA IL TITOLO CONTINENTALE DEI SOMMELIER
I grappoli del Titano
DEGUSTAZIONE
DELLE ETICHETTE DI
SAN MARINO
19 Aspettando il 2010…
LOCALI
E PROPOSTE PER IL
24
IL
Champagne per tutti!
FASCINO DELLE BOLLICINE FRANCESI
32
LA
Un’altra strada per l’eno-shopping
VENDITA DEI VINI ALLE ASTE
36
La bottiglia al centro della convivialità
LA BASILICATA
40
LE
HA OSPITATO IL
VULTURE
BACCO,
(1629)
DIEGO VELÁZQUEZ,
OLIO SU TELA, CM 165,5 X 227,5
MADRID, MUSEO DEL PRADO
DI
PARTICOLARE
VIAGGIO
E
MATERA
NELLA METROPOLI AMERICANA
Dall’Etna al Carso
VITICOLTURA
56
NAZIONALE
New York imbandisce la tavola
“WINE & FOOD FESTIVAL”
51
43.MO CONGRESSO
Enogastronomia a sostegno del turismo
RICCHEZZE TRA IL
44
TRIONFO
CAPODANNO
AD ALBERELLO IN ITALIA
I segreti dell’isola
IN
SARDEGNA
TRA MARE E VIGNETI
Sommario
Novembre / Dicembre 2009
62
Dal Mar Rosso al Mediterraneo
METE
E PERCORSI ALLA SCOPERTA DELL’EGITTO
67
UNA
Olio, nobile e prezioso
MASSERIA CHE ACCOGLIE UN MUSEO
76
Il distillato degli Incas
IL PISCO,
83
I
PARI
48
60
70
72
74
80
102
112
114
PERÙ
Sulla rotta dei conquistadores
SAPORI DI
90
All’interno
ORGOGLIO DEL
SANTO DOMINGO
Sommelier al femminile
OPPORTUNITÀ ANCHE NEL MONDO DEL VINO
Architettura e vino
Vino e scuola
UN
CONTINUA IL VIAGGIO NELLE CANTINE INNOVATIVE
MASTER IN SOMMELLERIE
Olio CONTRO IL LOGORIO DELLA VITA MODERNA
Birra NATALE, TEMPO DI BIRRE… SPECIALI
Distillati GRAPPA, IL DISTILLATO LEGATO AL TERRITORIO
Acqua L’AMICA DEL FORMAGGIO
Vino e letteratura
IL
NETTARE DEGLI DEI
Sullo scaffale LE NOVITÀ EDITORIALI
Io non ci sto!
MACCHÉ 0,5:
IL
CORSERA
CHIEDE ZERO VINO PER CHI GUIDA
Campionato europeo
Italia
regina d’Europa
NELLA
FINALISSIMA DI
SAN MARINO LUCA GARDINI
SI È LAUREATO MIGLIOR
SOMMELIER CONTINENTALE DOPO UNA SFIDA MOLTO EQUILIBRATA TRA SEDICI
PROFESSIONISTI PROVENIENTI DA ALTRETTANTE NAZIONI
di Paolo Pirovano
targato Italia il gradino più alto
del podio al Campionato europeo dei sommelier. Luca
Gardini si è infatti aggiudicato il concorso “Miglior sommelier d'Europa”
svoltosi nella Repubblica di San
Marino il 14 e 15 novembre. Il ventottenne romagnolo, milanese di adozione, lavora al ristorante Cracco, nel
cuore del capoluogo lombardo.
Gardini ha preceduto Milan Krejci
della Repubblica Ceca e il rappresentante della Scozia Virgilio Gennaro.
La competizione ha messo a confronto le qualificate professionalità di sedici sommelier provenienti da altrettanti Paesi del Vecchio Continente.
Il concorso, tenutosi al Palazzo dei
Congressi della Repubblica sammarinese, si è diviso in due puntate.
Nella semifinale, il primo giorno, i
candidati hanno affrontato diversi
È
test, tra cui un questionario scritto
che, a detta di tutti, è stato molto
selettivo.
La finalissima si è svolta il giorno
successivo, con prove pratiche di servizio, la correzione di una carta dei
vini, sessioni di degustazione con
identificazione di due vini, l’abbinamento cibo-vino e il riconoscimento
di cinque distillati.
«Questa competizione dimostra che
il sommelier è diventato una figura
polivalente, un valido promotore e
un grande comunicatore del patrimonio vitivinicolo mondiale. La nostra
soddisfazione è quella di vedere che
molti giovani professionisti provenienti da tutta Europa sanno interpretare al meglio questo ruolo», ha
affermato Terenzio Medri, presidente della Worldwide sommelier association che con l'Associazione som-
L Il gruppo dei concorrenti insieme ai membri del Comitato
Tecnico del concorso
10
melier della Repubblica di San
Marino ha organizzato il concorso.
«Penso che questa manifestazione
sarà ricordata per gli elevati contenuti tecnici: la finalissima ha emozionato e stupito gli spettatori accorsi al Palazzo dei Congressi – ha
dichiarato il segretario della Wsa
Moreno Rossin – e la competizione
è stata una vetrina rivolta a quelle
numerose associazioni che ancora
non fanno parte della Worldwide sommelier association, ma che hanno già
espresso l’intenzione di unirsi a noi
per organizzare corsi e promuovere
attività all’interno dei loro confini».
E mentre su questa competizione
scorrevano i titoli di coda, dopo la
premiazione avvenuta durante la
cena di gala, Medri ha ricordato agli
ospiti il prossimo appuntamento, il
Mondiale che nel 2010 radunerà i
L Luca Gardini, Milan Krejci e Virgilio Gennaro, i
tre finalisti
A COLLOQUIO
CON IL CAMPIONE
Luca Gardini non è certo nuovo a partecipazioni e successi in concorsi di livello nazionale e internazionale. Ma la vittoria alla competizione europea è sicuramente il titolo più prestigioso che si
aggiunge al suo già ricchissimo palmarès.
Originario di Ravenna, si forma presso l’Istituto Tecnico Agrario Luigi
Perdisia. Diventa Sommelier Professionista poco più che ventenne
dopo anni di gavetta tra hotel e ristoranti della Romagna.
Tra le sue esperienze professionali non si può non citare quella come
chef sommelier presso l’Enoteca Pinchiorri, il famoso Tre Stelle
Michelin in pieno centro storico a Firenze. Attualmente ricopre lo
stesso ruolo al ristorante Cracco di Milano.
È difficile tenere il conto dei concorsi in cui si è imposto: Nebbiolo
2003, titolo regionale e Master Sangiovese nello stesso anno, Miglior Sommelier d’Italia 2004, Premio
alla Carriera Ais 2005 e molti altri ancora.
Abbiamo scambiato qualche battuta con lui il giorno dopo la finalissima.
Miglior Sommelier d’Europa, una grande soddisfazione, non c’è dubbio. Ma quale è stato il momento
più difficile del concorso?
Il momento più complicato è stato poco prima che chiamassero i tre finalisti: avevo un grandissima
tensione! È proprio questo l’aspetto che mi ha messo più in difficoltà. A volte soffro molto questo mio
nervosismo.
Chi tra i concorrenti “temevi” di più?
I sommelier più accreditati erano il ceco, anche lui poi finalista, e il rappresentante della Turchia.
Quanto hai studiato per prepararti a questo appuntamento?
Sarebbe riduttivo definire la durata del mio studio. Certo, negli ultimi mesi mi sono dato parecchio
da fare, ma le mie conoscenze sono frutto di una lunga preparazione iniziata da diversi di anni...
Quando hai capito che il trofeo poteva essere tuo?
Quando sono state lette le risposte mi sono reso conto di aver offerto sul palco una prestazione
importante e le possibilità di vittoria erano reali. Tra l’altro, essendomi esibito per primo, ho avuto poi
la possibilità di sentire quanto detto dagli altri due finalisti.
L’atmosfera tra i partecipanti ha messo in evidenza una grande amicizia tra voi sommelier europei.
Confermi questa nostra impressione?
Sì, certo! Oltre alla competizione, è stata un bella esperienza di amicizia, di stima e di confronto tra
giovani di culture differenti, ma accomunati dalla passione per il vino.
C’è una dedica a qualcuno in particolare per questo successo?
Come ho già fatto subito dopo la premiazione, dedico il trofeo a mio padre Roberto e a colui che
più di tutti mi ha ispirato e appassionato al mio lavoro, Giorgio Pinchiorri. Un ringraziamento speciale
va poi al ristorante Cracco, in modo particolare allo chef Carlo Cracco e ai miei collaboratori
Giacomo Babini e Diego Piergiovanni. Sono loro che mi hanno “allenato” e sostenuto fino all’ultimo
momento prima di salire sul palco!
A cosa hai pensato quando hai sentito che il campione continentale eri proprio tu?
Troppe emozioni per poterne citare solo una...
Progetti per il futuro? In quale Paese straniero ti piacerebbe lavorare?
Tanti!!! Al momento sto bene a Milano. All'estero ci andrò di certo per confrontarmi con le altre culture e approfondire la mia esperienza!
(E.L)
11
Campionato europeo
migliori sommelier del pianeta nella
Repubblica Dominicana.
Sarà senz’altro una esperienza unica,
come quella vissuta in quel lembo
di terra arroccato sul Monte Titano
nella più antica Repubblica del
mondo, terra di istituzioni arcaiche
e di apprezzati prodotti tipici.
Produzioni limitate ma senz’altro uniche, come hanno ricordato i relatori del convegno “1979-2009, 30 anni
di viticoltura a San Marino”, moderato da Franco Maria Ricci, general
manager della Wsa, una tavola rotonda organizzata per celebrare il compleanno del Consorzio Vini tipici di
San Marino.
«Il trentennale è un anniversario veramente speciale – ha detto il segretario di Stato al Territorio, ambiente e
agricoltura Gian Carlo Venturini – per
tutti gli operatori del settore che hanno
saputo unire la passione per la terra
alla professionalità. La scelta compiuta nel 1979 è stata così lungimirante che oggi possiamo tranquillamente affermare che il Consorzio è
parte del patrimonio storico e culturale di San Marino».
Leo Veronesi, vicepresidente del
Consorzio ha invece sottolineato che
da diversi anni il fatturato supera i
due milioni di euro. Il comparto vitivinicolo occupa il 5 per cento (pari a
117 ettari) della superficie agricola
sammarinese: il Sangiovese la fa da
padrone, con 63 ettari, seguito dal
Biancale con 22 e dal Moscato con
8,63. Ad altri vitigni come Ribolla,
Chardonnay, Montepulciano e Cabernet
L Luca Gardini e Carlo Cracco
sauvignon sono riservate aree coltivate più ristrette.
Il vino sammarinese ha cominciato
ad affermarsi negli anni Cinquanta,
con un mercato squisitamente turistico che ha però confermato quanto fossero apprezzati dai visitatori i
prodotti di questa terra.
Con il trascorrere del tempo la consapevolezza di avere delle potenzialità inespresse in campo enologico
ha spinto gli operatori a migliorare
il prodotto, fino ad arrivare nel 1986
al marchio della Identificazione di
origine e ai disciplinari di produzione che, come ha affermato Leonardo
Seghetti, componente del Comitato
tecnico scientifico, «devono essere
ancora più rigidi, per caratterizzare
ulteriormente il vino sammarinese».
«Identificazione di origine – spiega
Leonardo Lonfermini, direttore dell’Ufficio Ugraa – significa identificare il
vino col territorio in modo tale da
farne un tutt’uno. Una simbiosi ine-
L La foto di Marta Penserini, prima classificata al concorso “ Vite Vissute”
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quivocabile, chiara e indivisibile».
«Questo marchio è insomma la massima espressione del legame con il
territorio, della tracciabilità, dell’eccellenza e della tradizione», sostiene
il presidente dell’Associazione sommelier sammarinese Stefano Serra.
«I costanti e capillari controlli condotti dalla Commissione tutela vini
del Comitato tecnico scientifico, messi
in atto sulla filiera vinicola per la produzione dei vini ad identificazione di
origine, sono la garanzia di vigilanza su qualità e tipicità delle produzioni», gli fa eco il responsabile delle
relazioni esterne e internazionali dello
stesso sodalizio Paul Andolina.
Il Consorzio Vini tipici conta oltre 300
soci, in grado di produrre annualmente 14.000 quintali di uve, mentre la produzione totale è stimata in
circa 20.000 quintali.
Il primo documento d’epoca che attesta la cessione di vigne sammarinesi è datato 1253: si tratta di un vero
e proprio contratto di vendita delle
vigne presenti sui terreni agricoli del
Castello di Casole, firmato dal Conte
Taddeo di Montefeltro a favore del
sindaco Oddone Scarito, ma come
ha ricordato scavando nel tempo e
nella storia Remigio Bordini, componente del Comitato tecnico scientifico, non mancano altri esempi, come
un atto di mezzadria del 1253.
Tutto questo non per ricercare sterili primati che si perdono nella notte
dei tempi ma per “certificare” che la
viticoltura e l’agricoltura qui hanno
radici antichissime.
E la tradizione prosegue, come testimoniano gli scatti e i dipinti del concorso fotografico-pittorico “Vite vissute, tradizione, cultura e passione
nei vigneti di San Marino”, organizzato in occasione dell’Europeo dei
sommelier per festeggiare il trentesimo anniversario di fondazione del
Consorzio.
Vite di uomini e donne aggrappate
ai filari, vite di viti, di foglie, di uve
e di vino. Di lavoro e di sacrificio.
Vite che, catturate nell’attimo di un
magico “clic”, diventano immortali o
attraverso il pennello e la leggiadra
fantasia di un artista si trasformano in una sinfonia di colori. Vite da
incorniciare e da ricordare. Perché
la memoria è un paradiso da cui è
impossibile essere scacciati.
I CONCORRENTI
RUDINA
ARAPI
MILAN
KREJCI
DONALD
SINCLAIR
EDWARDS
GLORIA
VIERO
FABRIZIO
PANCHETTI
CONNOR
MCCLAY
YAEL
SANDLER
LUCA
GARDINI
Ristorante Paolo Teverini,
Bagno di Romagna (FC) – Italia
Precedenti esperienze come
barista presso l’Enoteca
Vacchetta a Santa Croce
sull’Arno (PI) e come sommelier
al Ristorante Girarrosto di
Pontassieve (FI).
Bouchon Group, Breton
Restaurant – Londra – UK
Precedenti esperienze presso
l’Ashdown Park Hotel, Forest
Row, e al Brighton Hotel du Vin,
UK.
Baglioni Hotel, Londra – UK
Precedenti esperienze come
sommelier presso il Ritz Carlton
e come barista al Caffé Alba,
Londra, UK.
Gordon Ramsay at Claridge's,
Londra – UK
Precedenti esperienze presso
l’Hamaym Restaurant in Sharon
Beach Promenade, Herzeliya, e il
Tavola Restaurant in Hanassy
St. Herzeliya Pituach, Israele.
Merlot d´Or, Praga – Rep. Ceca
Precedenti esperienze presso il
Ristorante Magic Garden e il
Ristorante Lions Court a Praga,
Rep. Ceca. Nel 2007 e 2008
vincitore del Concorso
Internazionale dei vini spumanti,
Rep. Ceca.
Hindenburg Klassik,
Hannover – Germania
Precedenti esperienze presso il
Ristorante Madrigal di Ibiza,
Spagna.
James Nicholson Wine
Merchant, Downpatrick – UK
Precedenti esperienze presso
Selfridges di Oxford Street e
Threshers Wine Shop, Londra,
UK.
Ristorante Cracco,
Milano – Italia
Precedenti esperienze presso
l’Enoteca Pinchiorri, Firenze, e il
Ristorante The Fat Duck,
Londra, UK.
Miglior Sommelier d’Italia 2004.
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Campionato europeo
I CONCORRENTI
MAKSIMS
MERKULOVS
Galvin Windows Restaurant
Hilton on Park Lane,
Londra – UK
Precedenti esperienze presso il
Latium Restaurant, Londra, UK,
e il Room Restaurant at Clarence
Hotel, Dublino, Irlanda.
Selfridges Wines&Spirits,
Londra – UK
Precedenti esperienze con il
Decanter Magazine e presso il
Roussillon Restaurant, Londra,
UK.
IRIS DELLA
VECCHIA
VIRGILIO
GENNARO
IGOR
SOTRIC
ANGUS
MACNAB
ANGELO
DE RAIMONDO
ALESSANDRO
MARCHESAN
Restaurant San Lorenzo,
Glinde – Germania
Precedenti esperienze in diversi
ristoranti di Amburgo,
Germania.
China Tang, Dorchester Hotel,
Londra – UK
Precedenti esperienze presso il
Cocoon Restaurant, il Drones
Restaurant e il Tamangang
Restaurant, Londra, UK.
Grand Hotel du Golf et Palace,
Valais – Svizzera
Precedenti esperienze presso
l’Hotel Romazzino, Porto Cervo
(OT), l’Hotel Baglioni e il Lucio's
Restaurant, Londra, UK.
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MARCIN
ANDRZEJ
SCHILLING
Locanda Locatelli Restaurant,
Londra – UK
È Freelance Consultant per il
Fine Dining Restaurant, Scozia.
Precedenti esperienze presso il
Magnolia Restaurant e Bejerano
Brasserie at Sopwell House Hotel
St. Albans, Hertfordshire, UK.
The Lanesborough Hotel,
Londra – UK
Precedenti esperienze presso il
Clos Maggiore, il The Plough,
l’Hush Restaurant e la Butlers
Warf Chophouse, Londra, UK.
Zuma Restaurant, Londra – UK
Sommelier e Wine Buyer, dal
2003 lavora presso il ristorante
del gruppo turco.
Degustazioni
I grandi vini
di un piccolo Stato
di Gian Carlo Mondini
na visita a San Marino, che con i suoi 60,57 chilometri quadrati è uno dei più piccoli (e più antichi) Stati d’Europa, si può fare per varie ragioni: per conoscere le tradizioni e la storia di questo paese,
incastonato sulle pendici del monte Titano al confine
delle regioni Emilia Romagna e Marche; per l’incantevole panorama che spazia sull’Adriatico da Ravenna ad
Ancona, fino alle pendici del Montefeltro; oppure per
seguire le numerose proposte culturali, per fare shopping, mentre una motivazione innovativa è senz’altro
la scoperta della gastronomia locale, dei prodotti tipici e dei vini.
La capitale è San Marino (circa 4500 abitanti), cittadina dall’aspetto medievale e ricca di monumenti. Gli altri
centri principali sono Borgo Maggiore, ai piedi del Titano,
che da qui s’innalza quasi a picco, mostrando la vetta
tricuspidale coronata da tre torri e collegato con una
funivia a San Marino, Serravalle e Dogana, il maggior
centro agricolo-industriale del minuscolo Stato che si
trova sull’arteria stradale che porta a Rimini.
Tutto questo è stato possibile ammirare e toccare con
mano durante il Concorso Miglior Sommelier Europeo
Wsa organizzato dalla neonata Associazione sommelier
U
della Repubblica di San Marino in collaborazione con
la Worldwide sommelier association.
Terra ricca e industriosa, vive di turismo (oltre 3 milioni di visitatori all’anno prevalentemente in primaveraestate) anche se sono assai fiorenti diverse altre attività artigianali e industriali come metalmeccaniche,
tessili, elettroniche, ceramiche, mobili, lavorazione della
carta. Altro introito è infine dato dall’emissione di monete e francobolli, molto ricercati dai collezionisti.
Probabilmente proprio per questo fino a poco tempo
fa si era ridotto l’interesse verso l’agricoltura, attività
tradizionalmente povera e faticosa. Da un po’ di anni
si registra un cambiamento di tendenza, grazie alle
opportunità offerte da un turismo sempre più attento
alle tipicità, in particolare verso l’enogastronomia, portando benefici economici e valorizzando le peculiarità
locali.
Alcune delle proposte gastronomiche tipiche di San
Marino, sono la piadina, il pane nazionale, i pregiati
salumi e il prosciutto del Montefeltro, per passare poi
ai classici passatelli in brodo e strozzapreti gratinati,
agli stringhetti al prosciutto e tartufo, alle lasagnette al
ragù d’agnello e fonduta di formaggio (una reinterpre-
15
Degustazioni
tazione moderna della tradizionale lasagna). Per i secondi piatti a base di carne, la tagliata di manzo al tartufo
e il petto d’oca al ginepro, sono particolarmente gustosi e saporiti.
Tra i dolci, da non lasciarsi sfuggire, il casatello, una
preparazione a base di crema, il bustrengo, tradizionale dolce invernale e il dessert di mascarpone.
Particolarmente interessante sia la produzione di olio
extra vergine di oliva sia quella del miele vergine integrale. Quest’ultimo, ottenuto con le tecniche più antiche e nel pieno rispetto della natura e delle tradizioni
artigianali, è presente sul mercato nelle tipologie millefiori, acacia, castagno, di bosco, girasole, eucalipto e
tiglio. Ma San Marino è anche terra di vini. Non è certo
una affermazione nota ai più, eppure è così. La repubblica più antica del mondo ha da sempre una passione per la vitivinicoltura e da qualche tempo l’interesse
per questo settore è ulteriormente accresciuto.
I vini sono prodotti esclusivamente dal Consorzio Vini
Tipici di San Marino, nello stabilimento enologico di
Valdragone. Il Consorzio, nato nel 1979, conta oggi 180
soci ed è, in pratica, l’unica cantina di vinificazione e
imbottigliamento del territorio. La produzione di vini è
piuttosto varia: i bianchi vanno dai prodotti beverini, a
quelli più complessi, agli spumanti, al moscato dolce,
al passito; anche tra i rossi si trovano sia quelli di pronto consumo sia quelli affinati a lungo. Il consistente
flusso turistico fa sì che buona parte della produzione
sia assorbita dal mercato interno, ma è in continuo
16
aumento la percentuale che raggiunge i consumatori
di Giappone, Svizzera, Inghilterra, Germania Stati Uniti
e ovviamente Italia.
I soci conferiscono annualmente una media di 1.500
tonnellate d’uva, che rappresenta oltre il 70 per cento
della produzione dell’intera Repubblica. Con la Legge
31/10/1986 n. 127 si è intrapresa la strada della valorizzazione delle produzioni vitivinicole e con l’istituzione del marchio d’identificazione d’origine sono state
gettate le basi per la qualificazione dei vini di San
Marino, ottenuti secondo le norme stabilite nei disciplinari di produzione, dando così, al consumatore, certezze e garanzie di qualità.
La parte del leone, nella base ampelografica, la fanno
le uve rosse (70 per cento) rappresentate in gran parte
dal sangiovese. In ogni modo, il panorama varietale
comprende per i vitigni a bacca rossa sangiovese, pinot
nero, ancellotta, syrah, cabernet sauvignon, mentre i
vitigni a bacca bianca sono moscato, ribolla, chardonnay, pinot bianco, biancale, canino, cargarello, pignoletto, sauvignon, vermentino.
Importante e basilare il lavoro compiuto in questi anni
nel vigneto per ottenere vini di assoluta qualità, in grado
di affrontare i mercati internazionali pur conservando
alcuni caratteri classici, ovvero una propria identità,
lontani dalle mode, dove la finezza e l’eleganza prevalgono sulla possanza, vini senza timori reverenziali, convinti di potersi confrontare con il resto del mondo
enologico. Vini pieni di sorprese e pronti a stupirci.
LA DEGUSTAZIONE
I VINI DI SAN MARINO
Spumante Brut Riserva del Titano
Uve: Chardonnay 60%, Ribolla 35%, Sangiovese vinificato in bianco 5%. Alcol 12%
Ottenuto con metodo Charmat lungo, si presenta di un colore giallo paglierino
intenso con riflessi dorati e brillanti, perlage fine e delicato. Naso complesso e fragrante nei profumi di banana, ananas, fiori di pesco, acacia, tiglio, il tutto elevato
da note di lieviti, fine. Al gusto è cremoso e di piacevole morbidezza, adeguata la
struttura, equilibrata da freschezza e marcata sapidità. Di riguardo la persistenza
con chiusura di nocciola tostata e frutta esotica. Da servire a 8° C . Bene come
aperitivo, ottimo anche da tutto pasto con menù di pesce. Prezzo indicativo in
enoteca 7,50 euro. Bottiglie prodotte 20.000
Biancale di San Marino I. O. 2008
Uve: Biancale 100%. Alcol 13%
Giallo paglierino intenso con riflessi brillanti, denota ottima consistenza. Intenso nei
profumi floreali e fruttati, si riconoscono mimosa, gelsomino, biancospino, fruttato
di susina gialla, pesca, con note di erbe aromatiche, intenso e fine. Al gusto conferma da subito un buon equilibrio tracciato da ottima mineralita, caldo e morbido con freschezza che si prolunga nel finale di corrispondenza gusto olfattiva.
Servire a 10 ° C. Abbinare a crostacei, molluschi, risotto con gamberi, strozzapreti
con salse bianche. Prezzo in enoteca 6,50 euro. Bottiglie prodotte 20.000
Roncale di San Marino I.O. 2008
Uve: Chardonnay 50%, Ribolla 50%. Alcol 13%
Giallo paglierino con riflessi verdi, cristallino con consistenza in evidenza. Naso che si
protrae in profondità, fruttato di ananas, mela golden, frutta tropicale, susina ,
banana, con finale che vira al burro di arachidi. Ingresso al palato pieno, caldo e
morbido, struttura che si regge su un apprezzabile equilibrio con sapidità e freschezza, persistente e chiusura su toni di frutta matura e di macedonia tropicale. Servire
a 10/11° C. Proporre con passatelli in brodo , zuppa di pesce, fritto misto, baccalà
con patate. Prezzo indicativo in enoteca 8,00 euro. Bottiglie prodotte 20.000
Caldese vino bianco elaborato in barrique
Uve: Chardonnay 70%, Ribolla 30%. Alcol 13,8%
Fermentato in tonneau di rovere francese e lasciato ad affinare sui lieviti, presenta
un colore giallo dorato e brillante, aderisce al calice formando lacrimazione lenta
e stretta. Naso di notevole complessità con profumi di albicocca, pesca sciroppata, miele, vaniglia, scorze candite, cenni floreali di ginestra e camomilla e chiusura di nocciola e mandorla tostata. Ingresso al palato avvolgente, morbido ed
equilibrato con sapidità in buona evidenza. Vino pieno e persistente, e di corrispondenza gusto olfattiva, armonico. Servire a 12° C. Abbinare a risotto di pesce,
grigliate di mare, zuppe, coniglio al tegame. Prezzo indicativo in enoteca 16,00
euro. Bottiglie prodotte 6.000
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Degustazioni
Sangiovese di San Marino I.O. 2007
Uve: Sangiovese 100%. Alcol 13,5%
Colore rosso rubino con riflessi violacei, limpido, archetti che denotano
struttura. All’olfatto è intenso e tipico nei profumi del vitigno: si riconoscono ciliegia, prugna,viola, rosa canina, mandorla amara, floreale di geranio e note mentolate e di sottobosco. Al palato a ingresso pieno, caldo e
di buona morbidezza, tannini eleganti in equilibrio a freschezza e sapidità,
persistente e piacevolmente ammandorlata la chiusura gustativa. Pronto,
per un ulteriore evoluzione di 2/3 anni. Servire a 16° C.
Servire con lasagnetta al ragu d’agnello, trippa in umido, costine, grigliate
di carni. Prezzo indicativo in enoteca 7,50 euro. Bottiglie prodotte 32.000
Brugneto di San Marino I.O. 2007
Uve: Sangiovese 90%, altre uve 10%. Alcol 13,5%
Il 50% viene affinato in barrique per almeno un anno, colore rosso rubino
cupo, limpido, di consistenza importante.
Corredo olfattivo complesso e fine, con sentori di frutta matura, confetture e gelatine di mora, prugna, ciliegia, note speziate di chiodi di garofano, pepe nero, peonia, rosa appassita e un finale minerale di graffite e
china. Servire a 18° C.
Abbinamenti con tagliatelle al castrato, polenta con cacciagione, arrosti,
formaggi di media stagionatura. Prezzo indicativo in enoteca 9 euro.
Bottiglie prodotte: 50.000
Tessano di San Marino I.O. riserva 2005
Uve: Sangiovese 80%, altre uve 20%. Alcol 14%
Affinamento del 70 per cento in barrique per almeno un anno, ha colore
rosso granato poco trasparente, limpido e di ottima estrazione. Al naso subito complesso e profondo, intensa coesione di aromi di confettura di prugna,
ciliegia sottospirito, spezie dolci, vaniglia, cannella, seguite da note balsamiche di eucalipto e una chiusura di radice di liquirizia e caffè. Al gusto si propone con forza e potenza, esprime un equilibrio ancora di gioventù con
tannini vellutati e morbidi integrati nella importante struttura. Il lungo finale ci
conduce a note di tabacco e cacao in polvere. Servire a 18°C.
Abbinamento carni rosse, stinco di maiale, brasato, intingoli, faraona farcita
al tartufo. Prezzo indicativo in enoteca 18 euro. Bottiglie prodotte 12.000
Oro dei Goti Vino passito 2006
Uve: Moscato bianco 100%. Alcol 16%
Appassimento fatto esclusivamente in vigna con vendemmia a inizio ottobre, viene fermentato e affinato totalmente in barrique e tonneau.
Splendido colore giallo dorato con riflessi oro verde, brillante, consistente.
Naso complesso, si evidenziano le note aromatiche di agrumi, cedro candito, muschio, salvia, fiori d’arancio supportate da un ventaglio di note
speziate e mielate di cera d’api , cannella e cardamomo. Palato dolce e
avvolgente, si confermano le note agrumate, freschezza e sapidità gli
conferiscono un buon equilibrio, persistente, il finale è lungo con chiusura
su note di burro di cacao e di pasticceria. Servire a 12° C. Abbinamento
a strudel di pere, latteruolo, bustrengo, crostate. Prezzo indicativo in enoteca 20 euro. Bottiglie prodotte da 0,375 l. 4.000
18
Tendenze
Capodanno
“grandi attese”
di Roberto Piccinelli
lzi la mano chi ha un rapporto idilliaco con la notte di San
Silvestro. Chi, ormai, non la
guarda con una sorta di timore reverenziale, quasi fosse una montagna
da scalare, un esame da superare,
una divinità da ossequiare… Il fatto
è che la voglia di divertirsi, di festeggiare in allegria ed evadere dal solito tran tran sono talmente forti da
comportare grandi aspettative, spesso e volentieri disilluse da serate ai
limiti dell’imbarazzante. Per di più,
quest’anno interviene anche la speranza di veder coincidere lo scoccare della mezzanotte con la definitiva fine di una crisi economica che
ha attanagliato il mondo intero.
L’attesa è ancora più grande del solito. Ragion per cui, il prossimo
Capodanno va affrontato con un pizzico di scaramanzia e molta attenzione in più, al fine di rompere con
il recente passato, esorcizzare il futuro ed eliminare rischi inutili. Urgono
consigli mirati ed emozioni garantite.
A
Non è vero ma ci credo
“Non hai vinto. Ritenta, sarai più
fortunato!”. Chi ha qualche anno
sulle spalle non può non ricordare
la mitica frase che negli Anni ’70
ci inseguiva ovunque, dal retro dei
tappi dell’aranciata alle cartine dei
bubble gum, per ricordarci che vincere non è mai semplice e farci anzi
tramutare in tanti, arrabbiatissimi
Paperino, in perenne lotta con il fortunello, Gastone. Che, per contro,
faceva incetta di premi, dal semplice lecca lecca al motorino ultimo
19
Tendenze
tipo. Così, rivedersela sulla sorta di
Gratta e Vinci ideato dalla pasticceria Scaringi, al fine di omaggiare la
sua clientela con qualche tazza di
cappuccino in più, fa un certo effetto. Sì, quella frase innesca un effetto di déjà vu, che ci spalanca le porte
dell’emisfero vintage, in versione
portafortuna. Del resto, ricerca della
fortuna e voglia di scaramanzia sono
fra i pochi punti fermi di un “divertimentificio” in fase di turbinosa
mutazione: a dare un’occhiata ai
prossimi veglioni di Capodanno pare
proprio che regni tuttora sovrano il
“Non è vero, ma ci credo” coniato da
Peppino De Filippo agli albori degli
Anni ’50. Il rifugio La Maison Vieille
organizza uno scanzonato transfer
dal fondo valle con motoslitta e/o
gatto delle nevi, un aperitivo con
ostriche e vino bianco, un cenone e
un dance party ma non si sogna
minimamente di tralasciare l’happy end a base di lenticchie e zampone porta fortuna! Alle lenticchie,
ipotetiche portatrici di benessere fin
dall’antichità, quando erano considerate un bene di lusso e avevano
pure un valore monetario, pensano
anche La Lampara e Triestina, i cui
menù del 31 dicembre si ritrovano
a non poterne fare senza, anzi, a
essere totalmente asserviti, nel
nome di una serie infinita di benefici presunti. Stessa storia per slip,
culottes, boxer, mutande o perizoma di colore rosso, che il privè del
Villa Prati, ben diretto dal bravo
Sauro Moretti, prevede come indispensabile e beneaugurante dress
code. Sembra incredibile ma in un
mondo che ormai viaggia a tecnologia avanzata, a cavallo degli ultimi
giorni dell’anno tutti gli abitanti si
ritrovano nei negozi di intimo e a
indossare praticamente gli stessi
indumenti, solo perché pare porti
bene avere qualcosa di rosso a contatto con la pelle… Ma non finisce
qua, perché sulla scia del Cafè Witch
di Bilbao, intrigante pub a base di
musica alternativa e look esterno
imperniato sul colore viola e su
murales stregati, da noi fa furore
l’Oies, panoramicissimo show food
alpino, che in una stube colleziona
orsacchiotti di peluche ma nell’altra si lascia caratterizzare da una
miriade di streghette benefiche: hai
visto mai? E che dire del St. Patrick's
20
di Tallinn o dell’Irish Pub di
Philadelphia, dotato di una clientela femminile da urlo, il primo ispirato a un look anglo-fashion, il
secondo, ma entrambi votati al quadrifoglio come nume tutelare, al pari
dell’italico Celtic Druid? Per non parlare del Billabong, australian pub
che piazza sopra il bancone un grande boomerang bianco, simbolo di
good luck, del ristorante Ragno
d’Oro, che sceglie il nome pensando al detto “ragno porta guadagno”
e di un locale che, tanto per non perdere tempo, si regala un’insegna eloquente quale Fortuna Pub. Non si
può, però, parlare di fortuna e derivati senza tirare in ballo cornetti e
peperoncini, i quali ultimi sono stati
sfoderati come centrotavola dal
ristorante Aurora in occasione di
una recente festa di compleanno di
Antonio D’Amato, imprenditore ed
ex presidente di Confindustria. «Una
maniera originale per tenere lontano il malocchio da ospiti importanti», ha sempre tenuto a precisare
Lucia, la titolare. Quanto ai cornetti, una sorpresa: chi ha detto che
Napoli è la patria dei cornetti rossi
anti-jella? Con un’infinità di pezzi
prodotti in un anno, è incredibilmente Predan, azienda dell’interland milanese, la vera culla del più
ambito degli amuleti contro la sfortuna! Il giovane imprenditore
Claudio Predan ha capito l’antifona
e, preso a cuore il prodotto, lo ha
realizzato in sette differenti formati, con un mix segreto di sette resine plastiche. Il formato più vendu-
to è quello da sette virgola sette centimetri, anche se per le maxi-jatture è consigliabile quello gigante,
lungo trentatrè centimetri e pesante circa nove etti. Attenzione però,
per funzionare appieno il cornetto
deve essere regalato, altrimenti il
risultato potrebbe essere esattamente il contrario…
III Emozioniamoci!
Alla ricerca di emozioni e brividi sulla
pelle. È questa l’ultima, vera mission dell’anno. Una mission che
punta diretta verso locali in grado
di far sognare, inebriare, intrigare,
stupire, affascinare e deliziare. Che
ne dite di iniziare con un american
bar che propone un cocktail con le
perle? Si chiama Nottingham Forest
e non solo offre un drink a base di
polvere di perla ma presenta sul
fondo una perla naturale di circa 7
mm e lancia perfino una promozione natalizia, grazie alla quale un
cliente che arriva a raccogliere 63
perle può cambiarle con una collana vera e propria, dotata di garanzia di qualità e completa di elegante confezione regalo! Da una chicca preziosa a un locale fascinoso, un
ristorante celato all’interno di un
faro, sito oltretutto sull’isola
dell’Amore, una minuscola lingua di
sabbia lasciata libera dalle acque nel
bel mezzo del delta del Po. Ma la
magia de La Lanterna non si esaurisce nella location, perché il viaggio in barca a remi, magari in mezzo
alla bruma, regala attimi di romanticismo crepuscolare… Stupore
con tanto di affreschi, suppellettili
e urne cinerarie…
Consigli ad hoc
Per finire, ecco qualche suggerimento mirato, evidenziato dalla caratteristica intrinseca dell’evento.
Programmare il prossimo 31 dicembre in base a gusti e carattere non
solo è possibile ma anche auspicabile…
superstar, invece, al Caffé Turrisi,
pub dedicato all’organo genitale
maschile. Si dice che nella mitologia greco-romana il membro virile
stesse a rappresentare le divine energie, la creazione e la fecondità
umana, animale e agricola: detto
fatto, in un delizioso borgo sopra
Taormina c’è un locale che ha pensato bene di celebrare il prezioso elemento maschile. Intendiamoci bene,
non di locale a luci rosse si tratta,
bensì di ritrovo per famiglie e comitive di amici, in vena di ridere di
fronte a falli di forme, dimensioni e
materiali inconsueti. Un pene di oltre
un metro di lunghezza per 20 centimetri di diametro appoggiato sul
tavolo principale, pupi siciliani alti
30 centimetri con improbabili protuberanze da 25 centimetri appesi
al muro e simboli fallici a go go rendono l’ambientazione particolare e
divertente, allo stesso tempo. D’altro
canto, chi non riderebbe, trovandosi di fronte a salviette di carta che
riproducono le caricature degli ipotetici membri di Hitler, De Gaulle,
Churchill e un menù a base di specialità denominate “Ammosciato
Freddo” ed “Eccitato Caldo”? Per di
più, tutte le nuove clienti devono sottostare a una piccante cerimonia
d’iniziazione, che vede come protagonista assoluto e reattivo un puttino di terracotta… Un viaggio indietro nel tempo consente, invece, il
pub Bam Bam, dotato di un suffisso illuminante, “Ristosauro”.
Varcandone la soglia, si ritorna
all’età della pietra con ironia e alle-
gria. Intorno al grande braciere centrale impazzano un banco bar a
zanne di mammuth, sgabelli maculati e colonne a forma di ossa di
dinosauro, che paiono usciti dalla
matita di Hanna&Barbera, quelli di
“Wilma, dammi la clava”! A ispirare la filosofia vitale sono gli ambienti paleolitici lanciati dal geniale interior designer Andy Martin, artefice
del gettonatissimo Opal. Bere una
birra o mangiare una pizza fra stalattiti e stalagmiti accende la fantasia, garantito. Come pure la permanenza in un fascinoso casale di
campagna risalente al 1300 che,
dotato di un vero e proprio osservatorio astronomico, offre la possibilità di passare la notte a guardare le
stelle, mano nella mano. Stiamo parlando dell’agriturismo L’Uva e le
Stelle, che di giorno propone corsi
mirati a garantire una corretta interpretazione delle mappe astrali, mentre di sera si fa intrigante, invitando a una dolcissima visione del cielo
stellato. Non mancano i brividi di
piacere e paura. Piacere, per l’esibizione dell’unica pizzaiola-stripper
del mondo al Son Amar. Oriana
Tirabassi è una campionessa di
pizza acrobatica ma visto che è
bionda e alta un metro e ottanta centimetri, ha messo a punto uno spettacolo che prevede evoluzioni a
tempo di musica con pasta, pomodori e mozzarella, accompagnate dal
suo strip tease. Paura, per la cena
al Re Tarquinio, ristorante scavato
nella roccia, ma soprattutto ricavato in una sorta di tomba etrusca
III Pazzesco
In una piccola torre, costruita nel
1150 come fortilizio di difesa prende vita una cena davvero folle: l’aperitivo viene servito direttamente in
bocca, tramite uno spruzzatore a
spalla solitamente utilizzato dai contadini per cospargere i campi di anticrittogamici. Il primo intermezzo è
garantito da un trattorino con motore a scoppio, cavalcato da due animatori con sombrero, in vena d’impennate. I primi e i secondi arrivano in tavola dentro carriole da muratore e vengono serviti nei piatti con
le cazzuole, per non parlare dei dessert che, neri, cremosi e conservati
dentro vasi da notte, sono spiaccicati nelle mani dei clienti, previa
fasciatura con carta igienica. Il tutto,
accompagnato da un crescendo
musicale live, che porta i commensali a cantare e ballare all’impazzata. Dulcis in fundo, la serata del
Ciabot (Strada Cappelletta 2,
Rivanazzano-PV. Tel. 0383/91313;
0383/93157) si chiude con l’apertura della vetrata che dà sul cortile
e l’entrata in sala di tre somari in
carne e ossa, pronti a girare fra i
tavoli, solidarizzare con i presenti e
perfino mangiarne gli avanzi…
III Rilassante
Aperto da Miriam Maltagliati, Knit
(307 E 14th New York 212/3870707)
è un innovativo locale dove si lavora a maglia, con pareti caratterizzate da montagne di gomitoli di lana
di tutti i colori. Lo sferruzzare, non
è però inteso come lavoro della
nonna, perché da più parti, anche
autorevoli, se ne parla come una
nuova forma di joga e, quindi, di
relax totale. A disposizione della
clientela, latte e caffé bio ma anche
bicchieri di vino e cocktail alla moda,
che fanno da contraltare a talk show
a sorpresa, che prendono le mosse
21
Tendenze
Al locale Knit di New York
il lavoro a maglia è diventato
una nuova forma di yoga
da quello, di gran successo, incentrato sul sesso e su Howard Stern,
autore del libro She comes first: The
thinking man’s guide to pleasuring
a woman. Quanto a presenze previste per il 31 dicembre, basti dire che
tante sono le attrici e le indossatrici che hanno sposato la filosofia dello
spazio: Cameron Diaz, Julia Roberts
e Sarah Jessica Parker, per esempio…
III Bifronte
Come ben lascia presagire il nome
stesso, Il Sorpasso (via Giustiniani
2, Genova. Tel. 010/8686568) è un
locale, peraltro di recentissima inaugurazione, che si ispira all’omonimo
film di Dino Risi e, di conseguenza,
agli Anni ‘60 in generale. Ma ciò che
ne caratterizza davvero l’atmosfera
e il party è il fatto che le due sale
in cui si suddivide seguono i nomi e
l’essenza vitale dei due protagonisti,
Bruno e Roberto, magistralmente
interpretati da Vittorio Gassman e
da Jean-Louis Trintignant. Ovvio,
quindi, che tutti voi possiate scegliere la zona e le modalità di festeggiamento in base al vostro essere: in
definitiva, vi sentite più esuberanti
e guasconi o timidi e introversi?
III Panoramico
In Italia, fortunatamente, ci sono
tanti locali dotati di vista magnifi-
ca e che quindi possono promettere una notte magica, eppure c’è un
albergo che non teme confronti.
Perché? Presto detto, si affaccia sul
carcere più famoso d’Italia,
l’Ucciardone… Lo slogan recita
testualmente “Prigionieri del relax a
Palermo”. Il logo gioca su una grata
stilizzata. Il nome, Ucciardhome (Via
Enrico Albanese 34/36, Palermo.
Tel. 8488/36766; 091/7302738), fa
di necessità virtù e ironizza su una
vicinanza, che diventa spettacolo
essa stessa. Questo sì che vuol dire
saperci fare!
III Tecnologico
Sculture luminose, pareti scherma-
INDIRIZZI
Aurora Via Fuorlovado 18/22,
Capri. Tel. 081/8370181
Bam Bam Strada Trasimeno
Ovest 159/z, Perugia.
Tel. 075/5173315
Billabong Via Monte Grappa 70,
Costabissara (VI).
Tel. 0444/557550
Café Witch Cosme Echevarrieta 4,
Bilbao (Spagna). Tel. 0034 424 10 23
Caffé Turrisi Via Pio IX 16,
Castelmola (ME).
Tel. 0942/28181
Celtic Druid Via Caduti di
Cefalonia 5/c, Bologna.
Tel. 051 227518
Fortuna Pub Via Spiaggia
del Lago 1, Castelgandolfo
(Roma). Tel. 06/93020891
Irish Pub 2007 Walnut Street,
22
Philadephia (USA).
Tel. (215) 568-5603
L’Uva e le Stelle Loc. Boccetta,
Porano di Orvieto (TR).
Tel. 0763/374781; 335/8384294
La Lampara Via De Gemmis 1,
Trani (BA). Tel. 0883/488385
La Lanterna Loc. Faro, Gorino
Ferrarese (FE). Tel. 336/363322
La Maison Vieille Col Checrouit,
Courmayeur (AO).
Tel. 337/230979; 0165/809399
Nottingham Forest Viale Piave 1,
Milano. Tel. 02/798311
Oies Loc. San Leonardo, via
Oies 17, Pedraces (BZ).
Tel. 0471/839671
Opal 36 Gloucester Road,
Londra. Tel. 0044/02075849
Predan Via Caldara 17, Trezzano
sul Naviglio (MI).
Tel. 02/4451788
Ragno d’Oro Via Trieste 18, Villa
Vicentina (UD). Tel. 0431/96058
Re Tarquinio Via Alberata Dante
Alighieri 12, Tarquinia (VT).
Tel. 0766/842125
Scaringi Viale Monza 32, Milano.
Tel. 02/2840445
Son Amar Via C. Ulpiani 5,
Spinetoli (AP). Tel. 0736/898021
St. Patrick’s Suur-Karja 8, Tallinn
(Estonia). Tel 6418 173
Triestina Piazza della Libertà 1,
ang. via Roma, Gaeta (LT).
Tel. 0771/460043
Villa Prati Loc. Capocolle, via
Nuova 2447, Bertinoro (FC).
Tel. 0543/445523
L Terapie ayurvediche per iniziare il nuovo anno
te ed effetti laser di ultima generazione fanno comprendere di primo
acchito che il Kabaret’s Prophecy
(16-18 Beak Street, Londra. Tel.
020/74392229), discoteca di recente inaugurazione e magnificamente posizionata nel cuore pulsante di
Soho, punta molto su giochi di luce
e tecnologie a essa connesse. Ma
non solo, perché il dance floor in
resina, l’atmosfera elitaria e la musica all’avanguardia ne fanno una
disco bella e impossibile. Bella come
la clientela, anche blasonata, che
l’affolla, impossibile come le file,
sempre molto lunghe, che ne caratterizzeranno l’ingresso… Meglio prenotare!
III Trascendentale
La new-age fa proseliti e le aziende
agrituristiche si adeguano.
Strutture che prima proponevano
solo trekking o passeggiate a cavallo adesso vanno dietro all’ultima
moda in fatto di scelte di vita.
Karma (via Palatina 7, MontagnosoMS. Tel. 0585/821237) ad esempio, punta a far raggiungere l’armonia interiore ai propri clienti
offrendo cibi ayurvedici, massaggi
shiatsu e un pacchetto di corsi che
parte dalla cucina spirituale per toccare la dietetica, la meditazione e
le terapie antifumo: natura e filosofia orientale dimostrano ancora
una volta di essere fatti l’una per
l’altra. Ma le vere chicche di questo
agriturismo trendy sono rappresentate dai corsi sul massaggio di coppia e, soprattutto, da quello eloquentemente intitolato “Introduzione
alla reincarnazione”.
Mica male l’idea di trascorrere i
giorni a cavallo del nuovo anno,
garantendosi un futuro a oltranza,
non vi pare?
III Orientale
L’India misteriosa conquista Nino
Puglia & co. che trasformano il loro
Ma (via Vela 6/8, Catania. Tel.
095/341153) in un tempio magico, dove l’acre odore dell’incenso
regna sovrano. Gruppi di finti Hare
Krishna convivono con splendidi
modelli americani e dolcissime animatrici inglesi ballano coperte da
pochi trasparenti veli sulle orientaleggianti musiche di dj fatti arrivare dalla terra di Indira Gandhi.
Nonostante un’atmosfera impostata sulla spiritualità, il colpo d’occhio
sarà di quelli speciali come pure il
ritmo.
III Intrigante
Struttura e festa dedicate a una
mitica pin up degli Anni ‘50, il cui
nome è peraltro trascritto come
riportato nel libro-icona di Richard
Foster, The Real Bettie Page! Detto
del look rosso e nero, delle scarpe
con tacchi a spillo collocate su boiserie total white, della gigantografia
della regina del locale e di un bel
menù illustrato, alle coppie per metà
frou frou e per metà romantiche consigliamo una visita al piccolo terrazzino affacciato sul mare e sui bastioni cittadini: semplicemente delizioso. Il Bettie Page (Piazza Municipio
6, Molfetta-BA. Tel. 347/5156933)
vince e convince.
23
Speciale Bollicine
Lo Champagne
declinato
al femminile
24
di Roberto Bellini
apparizione della parola Champagne e la sua simbiosi con la Francia ha una storiografia segnata
dal sesso femminile, investendone non solo l’aspetto enologico ma anche quello territoriale e del consumo.
L’ex contea carolingia dello Champagne fu definitivamente unita al dominio reale di Francia dalla volontà (forse
non del tutto condivisa) di due donne, Giovanna I di
Navarra che sposò nel 1284 Filippo il bello e, successivamente, di Giovanna II a cui occorse l’obbligo di cedere
al dominio reale le Contee dello Champagne e di Brie,
per salvare parte dei possedimenti su cui aveva diritto di
reclamo come discendente diretta.
In questi secoli non si può ancora parlare di Champagne
effervescente, ma queste due donne, pur involontariamente, hanno innescato una diatriba e un dualismo enologico tra due territori enologici per il predominio della
vendita del vino alla corte di Francia: Champagne e
Borgogna. I vignaioli dello Champagne aspettavano i mercanti di ritorno dalla Borgogna, in viaggio verso le fiandre, e vendevano loro del vino rosso chiaro, aciduleggiante, ma dal prezzo molto concorrenziale. Il commercio andò
avanti per qualche secolo, ma la qualità invece di migliorare regrediva, tanto che i medici alla corte di Parigi ne
sconsigliavano l’uso; come porre rimedio a tutto cio?
Semplice, si cambò stile di vino! Arrivarono così i primi
abiti lunghi a interessarsi di vino, applicandovi un empirismo scientifico e una provvidenziale preghiera per innalzare al cielo un’indulgenza per una scostante e nervosa
qualità.
I primi abiti lunghi dello Champagne non furono indossati da donne, ma da monaci, a cui va l’iniziale merito di
aver aperto un passaggio enologico al vino frizzante dello
Champagne, senza però avere avuto la possibilità di incrementare la gradevolezza complessiva del vino. Le donne
in quel periodo erano destinate ad altri lavori, meno concettuali e più pratici, come la vendemmia, la cernita dei
grappoli, la pulizia delle bottiglie, la scelta dei tappi di
sughero, la pulizia del vigneto coltivato “en foule” (in
massa). Quando lo Champagne concretizzò la propria
indole a dover mussare, furono le donne ad appropriarsi di questa novità non del tutto approvata dai conservatori dell’epoca.
L’
Guillaume de Chaulei fu poeta sopraffino, amante di
Champagne e di donne, a lui si deve, nel 1700, l’abbinamento Champagne-donna. E che donna, la Duchessa di
Bouillon. Da questo momento lo Champagne si fa donna
e la contessa di Parabère ne faceva scorrere a fiumi a
Versailles, alle feste organizzate per Filippo di Orleans:
“beviamo flute su flute, fino a quando il grande calore non
ci abbraccerà”, si cantava al Palais-Royal.
L’uso dello Champagne riesce ad accomunare la parte
regale e raffinata della società a quella villana e grezza.
Alla Contessa di Parabére fa contrasto Madame de Tencin
che a Château Saint-Claud dirigeva un lupercale con
Champagne. Il comune denominatore era comunque l’idea
di uno stile di donna e di un sex-appeal la cui griffe era
siglata Champagne. Lorette e grisette prima, mondaines
e demi-mondaines poi, furono dispensatrici di avventure
erotiche condite con coppe di Champagne. Di serate e
nottate ne ha vissute e viste molte lo Champagne, dispensando frivolezze e inquietudini nei paradisi artificiali parigini di Montparnasse, di Notre-Dame de Lorette e degli
Champs-Élysées.
Furono soprattutto le “filles”, come le classificò Alexandre
Dumas, a far progredire il consumo delle champagne nella
ricca borghesia, nell’aristocrazia e tra gli artisti tra la
fine del 1800 e l’inizio del 1900. Nelle maison-close come
Le One-Two-Two oppure a Le Sphinx, in Boulevard
E.Quinet, le “filles” riuscivano in certe serate a far consumare ai loro clienti fino a mille bottiglie di champagne,
evitando addirittura di salire ai piani superiori.
La Bella Epoque consacrò il mariage Champagne e femmine, con una espansione del consumo nelle grandi serate mondane in cui brillavano le gioie della duchessa di
Gramont, di Boni de Castellane e della principessa di
Broglie. Sempre in questo periodo le cronache raccontano che le “filles” che svolazzavano nelle maison-close vendevano più bottiglie di champagne di tutti i ristoranti parigini messi insieme.
Da una parte c’era quindi una componente femminile che
metteva in concorrenza la propria bellezza con la grazia
e la piacevolezza dello Champagne, sfoggiando appariscenti scollature nei templi della mondanità parigina, dall’altra quelle signore che vivevano il territorio. Il contributo al consumo e l’innalzamento dello Champagne a status-symbol del savoir-vivre è d’indubbio merito femminile, ma a ciò va aggiunta la strategica opera di quelle donne
Poster della Belle Époque
25
Speciale Bollicine
che invece di vivere nei salotti dell’aristocrazia e dell’effimero abitavano le
campagne della Marne, camminavano le vigne e odoravano le crayéres
delle proprie Maison.
Una delle prime presenze è del 1740
ad Avenay, dove una diciottenne,
Maria Gabriella, dirigeva la sua piccola proprietà, occupandosi delle vigne
e della vendita, prestando attenzione
al vino con la mousse e a quello senza.
La prima donna ad apportare una
significativa spinta al miglioramento
del vino, in termini di commercio e
di produzione, fu Nicole-Barbe
Ponsardin, che alla morte del marito, a soli 27 anni, si trovò a dirigere
l’azienda.
Nicole-Barbe era donna risoluta, dalla
forte ed energica personalità, ma soprattutto amava bere lo Champagne, solo
quello da lei prodotto, e si imbestialiva per l’assenza di limpidezza. A lei si
deve l’invenzione del remuage prima
del dégorgement, a lei sembra imputabile la creazione dello Champagne
rosè. Al coraggio dei suoi venditori si
deve l’implemento delle vendite in
Russia. La sua immagine commerciale si è così saldata nella storia del vino
che quando gli anglosassoni chiedono
il prodotto base della Maison VeuveClicquot-Ponsardin lo chiamano
“widow” e noi italiani “vedova”.
Altre seguirono il suo esempio.
Apolline Godinot in Henriot apportò
all’azienda del marito, una volta dipartito, l’antica competenza del canonico Godinot, a cui va il merito di aver
26
parlato di Champagne con un libro
del 1718: “Manière de cultiver la vigne
et de faire le vin en Champagne”.
Claude-Joseph Devaux, nata Ducray,
divenne vedova a 39 anni nel 1843 e
la Maison A. Devaux è stata diretta
per molti anni da donne, fino all’acquisizione del marchio da parte di una
cantina dell’Aube.
Nel 1840 ecco apparire un’altra grande gentildonna dello Champagne:
Jeanne-Alexandrine Mélin, che succedette al marito nella conduzione
della Maison Pommery-Greno e procurò un grande salto qualitativo alla
lavorazione del vino. Comprese l’importanza di far affinare il vino nelle
“crayéres”, modernizzò il trasporto dei
panieri delle bottiglie in cantina.
Mostrò grande attenzione anche al
gusto dello Champagne che inviava in
Inghilterra; si deve a lei il decremento del sapore dolce e l’immissione sul
mercato del brut (1874) che procurò
grandissima fama alla Maison.
Mathilde-Emilie Perrier, a cui si deve
la Maison Laurent-Perrier, riuscì a
comprendere l’importanza di un rapporto più stretto con i vigneron fornitori delle uve per ritirare sempre
frutti migliori. Mathilde-Emilie Perrier
comprese anche l’importanza di cambiare il gusto dolce dominante nello
Champagne, ne diminuì la presenza
e creò il «Grand Vin Sans-Sucre». Una
delle ultime signore dell’epopea è
Madame Bolly: al secolo Elisabeth Law
de Lauriston-Boubers. E’ suo il merito di aver mantenuto la tradizione eno-
logica della Maison Bollinger, con uso
di legno e allevamento di una parte
dei vin de réserve in vetro.
Infine anche un’intuizione che inciderà profondamente nella cultura enologica dello Champagne; nel 1952 decise di lasciare a lungo il vino sui lieviti dopo lo presa di spuma, creò l’RD
che presentò a Londra nel 1961.
Il lancio della cuvée RD “Récemment
Dégorgé” sconvolse certi stili enologici e si cominciò con più frequenza a
pensare a Champagne più complessi, con un’armonia gusto olfattiva
meno graffiante in acidità. Sempre a
Madame Bolly si deve la creazione
della cuvée “Vielles Vignes Francaises”;
era il 1969 quando decise di usare
solo uve proveniente da vigne a piede
franco e coltivate “en foule” a pinot
nero, nelle parcelle Chaudes Terres
e Clos St. Jacques ad Aÿ e alla Croix
Rouge a Bouzy.
La presenza femminile all’interno dei
meccanismi Champenoise è proseguita anche negli anni Duemila con eccellenti esempi dirigenziali e di responsabilità, due su tutti: Monique
Charpentier alla Maison Mercier, la
prima chef de cave e Carol Duval, a
capo della Duval-Leroy.
Lo Champagne ha trovato il modo di
ricompensare le signore che l’hanno
aiutato ad affermarsi, sia che abbiano operato alla luce dei riflettori, sia
nell’intimità delle Maison, a loro sono
state dedicate eccellenti cuvée de prestige che rappresentano un riconoscimento del valore del loro lavoro.
Le Bollicine “in rosa”
La Grande Dame della Maison Veuve Clicquot Ponsardin è la chiara testimonianza del valore femminile
nello Champagne. Creata nel 1972 per celebrare il bicentenario della fondazione, è composta di norma
dal 62% di pinot noir e 38% di chardonnay; è un millesimato di originale eleganza, ampio nei raffinati profumi di cioccolato bianco e nocciola. E’ creato per offrire un gusto cremoso, setoso, burroso e briochè;
un’opulenza fruttata con le note minerali dei vigneti di Mesnil e Oger. Nel 1988 uscì La Grande Dame
Rosé. In questa cuvée millesimata si fondono tutte le armonie del femminile: ha il colore di morbide
guance sfumate di arancio/sangue, ha profumi che possono odorare solo le vellutate pelli delle donne,
ha il sapore di un bacio sbocciato improvviso su soffici labbra imburrate di rossetto Lançon. E’ un vino per
estive serate romantiche.
Elisabeth Salmon fu meno in vista della “vedova”, però fu co-fondatrice della Maison Billecarte-Salmon; a
lei è stato dedicato, nel 1988, uno Champagne rosé: Rosé Cuvée Elisabeth.
E’ un rosé di straordinaria tempra. 45% pinot noir e 55% chardonnay, abbina alla sua gioventù un’impressionante eleganza fruttata e un florealità intrisa di solarità primaverile. E’ nel gusto che si mette a nudo
l’essenza, sapore di fico bianco, sofisticatamente cremoso e speziato, con finale di gusto seducente e
sexy. Nell’evolversi la sua fragranza si modella, come il corpo delle donne prende forma e sostanza,
diventa sinuoso e crea il famosissimo tastingappeal. Femme de Champagne di Duval-Leroy è
un omaggio al mondo femminile moderno, dall’espressività gustativa smussata e addolcita, dal profumo di frutta tostata e dalla fragranza caramellata, dal finale di gusto elegante grazie all’89% di
chardonnay presente nella cuvée.
Joséphine di Joseph Perrier è una cuvée ispirata
alla Belle Époque, non nel gusto ma nell’etichetta;
è un omaggio all’intramontabile voglia d’eleganza
femminile. Ha profumi ricercati, di pesca, d’albicocca, di mandorla bianca, il suo equilibrio gustativo è costruito per rendere sensuali i sapori di miele,
di sciroppo di zucchero e di menta dolce.
L’omaggio al femminile della Maison Vranken è sfociato addirittura nella creazione di una linea:
Champagne Demoiselle. E’ un prodotto che esalta
l’aspetto giovanile della femminilità, con colori brillanti, sfumati profumi di fiori primaverili, un gusto
brioso che attira il sorriso. Creata nel 1985, si presenta con una bottiglia dalla forma inusuale e con
una etichetta la cui sagoma sembra un taglio di
culotte.
La Goutte d’Or con il marchio Paul Goerg ha
invece reso omaggio alle dame dello Champagne
con la Cuvée Lady. La grazia e la leggiadria dello
chardonnay (85%) incontrano la potenza, ma
anche il fair play, del pinot noir per creare un’assonanza gusto olfattiva di pura classe, come una
dark lady.
Altre Maison hanno intitolato le loro cuvée alle
donne, altre lo faranno, altre donne si interesseranno alla produzione e alla commercializzazione
dello Champagne, ciò potrà rendere perpetuo
questo vino il cui consumo e la cui degustazione è
sempre ottimale in compagnia di una donna.
27
Speciale Bollicine
Champagne,
cadoles e case
a graticcio:
tre“C”
dell’Aube
le
28
di Roberto Bellini
Aube deve il suo nome a uno dei principali fiumi to di un’attività che consente ancora di mantenerle in
da cui è attraversato il dipartimento: fu creato vita. Ma com’è lo Champagne dell’Aube? Di sicuro è
nel 1790 sottraendo del territorio alla Borgogna uno Champagne che non ha avuto un agevole viaggio
e allo Champagne. Il paesaggio ha un’ondulazione molto per affermarsi, ha una storia turbolenta, fatta di rivolparticolare, con situazioni collinari di basso profilo. La te e canti inneggianti all’internazionale, specialmente
massima altezza è di 366 metri sul livello del mare a quando assegnarono al territorio dell’Aube l’appellatile Bois-du-Mont. Queste colline vanno a confondersi vo di Champagne deuxieme zone (Champagne seconcon l’altopiano di Langres e con la Côte d’Or e marca- da zona), confinando i vignaioli in un limbo enologico
no la linea dello spartiacque tra i corsi d’acqua che sci- da cui sembrava non ci fossero vie d’uscita. “E’ lotta
volano verso l’Oceano, o in direzione Mediterraneo con- nella Champagne/ su, lottiamo e domani/un confine
normale/ ci restituirà i nostri pani”, fu il canto che
fluendo nella Saône e nel Rodano.
Il territorio dell’Aube vive anche un’altra situazione par- accompagnò i rivoltosi negli anni di lotta per rivenditicolare, d’origina climatica: trovandosi di fatto a metà care il nome Champagne, una battaglia durata dal 10
strada tra il polo nord e l’equatore ha un clima stra- febbraio 1911 al 22 luglio 1927.
no. E’ assai lontano dal mare per non avere accenni L’Aube dovette in quegli anni abbandonare tutti i vitigni
marittimi, ma è altrettanto vero che le sue colline non invisi dai vigneron della Marne, gamay in testa, e allarlo separano completamente cosicché non ha un vero gare la coltivazione al pinot nero a Bar-sur-Seine e Bare proprio clima continensur -Aube e allo chartale: clima séquanien lo
donnay a Montgueux.
definiscono gli abitanti,
E’ in questo terreno non
derivante dal nome latino
gessoso, ma argillosodella Senna, Sequana.
calcareo, che il pinot
Il freddo però non manca,
nero sta trovando una
mediamente un grado in
dimensione enologica
meno rispetto alla Valle
propria, diversa da
della Marne, situata 130
quella della Montagna
km più a nord. Ed è per
di Reims e ha iniziato
ripararsi dal freddo du in questi ultimi anni un
rante il lavoro nei vigneti
tentativo per uscire
che furono costruite le
dalle cuvée delle afferCadoles, capanne in piemate Maison della
tra a secco, una specie di
Marne per ritagliarsi
tenda indiana di media
un’identità organolettialtezza, a forma di cono,
ca attraverso il lavoro
con un buco alla sommità
dei vigneron del luogo.
per far uscire il fumo.
Il vino da pinot nero
L Aube, Maison à pans de bois
dell’Aube manca di
Il territorio ne presentava
molte prima della fillossera. Il reimpianto dei vigneti quella irruenza acidula e tagliente che troviamo nella
che ne seguì ne fece abbandonare molte in quegli appez- Marne. Anziché un’espressione fresca carica di piccozamenti in cui non furono reintrodotte, e oggi sono li frutti selvatici (ribes bianco, uva spina) è più efficadiventate degli oggetti ricercati e sottoposti a salva- ce nella acidità fruttata che ricorda il gusto delle pera,
della mela, della pesca bianca; ha minore connotazioguardia.
Fresche d’estate, calde d’inverno, le cadoles sono com- ni di sottobosco e un vegetale meno selvatico, si potrebposte da quasi 2 tonnellate di pietre, tolte dalle vigne, be definire un pinot nero più mansueto, più incline a
e hanno strette similitudini con la cabotte di Borgogna raggiungere un equilibrio nel medio periodo.
e il ciabot del Piemonte. Dalle “microcase” delle vigne Anche lo chardonnay ha diverse affinità con quello della
alle “macrocase” dei villaggi il passo e breve, ma l’ar- Côte de Blanc e di Sezanne; è mediamente meno esuchitettura cambia, passando dal primordiale al sofisti- berante nel fruttato e con più effluvio nel tono floreacato, con le case a graticcio, ovvero maisons à pan de le. Infine il pinot meunier. In questo territorio rapprebois. Queste case fanno parte della tradizione dell’Aube, senta poco più dell’8% della coltivazione e non ha un
e a Troyes, a Celles s/Ource, a Bar sur Aube e in molti peso significativo nella composizione delle cuvée.
altri villaggi ne troviamo degli splendidi esemplari. Le Diversa è anche la costante minerale: la Marne ha un
facciate sono cesellate da assi di legno (bois), mentre denominatore di gesso, l’Aube di pietra focaia e di legl’interno è giocato su travi e travicelli a formare l’inte- gero idrocarburo. Lo Champagne dell’Aube è reallaiatura di sostegno; i giochi finali di colore di ogni fac- mente diverso da quello prodotto più a nord. Già l’asciata edificano un corredo architettonicamente vario- senza o la minima presenza del pinot meunier crea una
pinto e graziosissimo. Cadoles e maisons à pan de bois situazione gusto-olfattiva molto particolare, in cui il
entrano a pieno titolo nella vita e nella storia dello dualismo pinot nero – chardonnay sgretola certe conChampagne dell’Aube, le prime come utile struttura venzioni organolettiche e fonde nuove versioni di proper il lavoro del tempo che fu, le seconde come risulta- fumi, con intrecci saporiferi molto particolari.
L’
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Speciale Bollicine
LA DEGUSTAZIONE: CHAMPAGNE DELL’AUBE
BRUNO LEROY, BRUT
Pinot nero e Chardonnay
Il colore giallo paglierino si ravviva con bollicine finissime. L’impatto fruttato è intenso
nei sentori di mela e pera ben mature, fiori gialli e miele siglano il finale odoroso. Il gusto
è semplice, pungenza non aggressiva, un po’ troppo afflosciata l’acidità e sufficientemente espressiva la sapidità. Il finale di gusto ricorda il sapore del distillato di prugne.
NATHALIE FALMET, BRUT LE VAL CORNET
Pinot nero
Uva da un solo vigneto per un colore paglierino rossiccio. Intensamente profumato di
fruttato, sorba, mirabelle, frutta esotica e un raffinato boisè. Nel finale il miele dà una
dolcezza che lascia un’interpretazione agrumata tanto vicina al cedro. Sapidità e acidità s’equilibrano al palato, la CO² si fonde con le sostanze morbide, il finale ha il sapore della mora bianca di gelso e della pasta di mandorle.
MOUTARD PÉRE ET FILS, CUVÉE DE SIX CEPAGE
Arbanne, Petit meslier, Pinot blanc, Chardonnay, Pinot noir, Pinot meunier
Sei uve per un colore paglierino. Al profumo la famiglia fruttata offre sensazioni di pera William,
di pesca noce e pesca gialla. Decisamente singolare il tono vegetale, paglia secca, sottobosco,
champignon e un tocco di tartufo. La trama olfattiva chiude con il dolce profumo del fiore di
camomilla. Al gusto l’acidità ha il sapore della susina gialla quasi matura, la sapidità è molto
minerale, la persistenza del gusto lascia spazio a un morbido e fragrante retrogusto.
R. DUMONT ET FILS, SOLERA RÉSERVE BRUT
Chardonnay
Vivace paglierino con riflessi verdolino. Il profumo dei fiori di acacia domina la parte iniziale, poi si raccolgono sentori di frutta a pasta gialla (ananas) e mela; chiude con un
soffio di pietra focaia. Ben fresco al gusto, come un morso di mela appena matura; ha
buona sapidità e discreta lunghezza di gusto con finale di pesca bianca.
R. DUMONT ET FILS, BRUT TRADITION
Pinot nero 85%, Chardonnay 15%
Colore paglierino con riflessi sabbia chiara. All’olfatto s’impone un profumo di forno,
di farina e di lieviti. Le note di sottobosco ricordano la felce e il fruttato, ha il sapore
degli agrumi. Il gusto ha un’impronta di freschezza elegante, con succosa sapidità e
un sorprendente equilibrio con le partite morbide.
DAVID LEBOUCHER, BRUT
Pinot nero e Chardonnay
Limpidezza cristallina, spuma finissima, sabbia chiara il colore. Acute sensazioni olfattive che
richiamano i piccoli frutti, gli agrumi e le foglie secche danno un’impronta complessa. Altre
espressioni odorose navigano su sentori di tarte tatin e di albicocca. Un solco sapido lascia una
rinfrescante sensazione di aspic di frutta e chiude con un dolce ricordo di agrumi canditi.
MOREL PÉRE ET FILS, BRUT
Pinot nero e Chardonnay
Tre annate compongono la cuvée dal colore paglierino brillante. Fiori e frutta salgono
al naso supportate da note tostate di biscotti al miele e caramelle al burro. La freschezza del gusto offre un sapore di susina e di ananas, l’impronta sapida è ben marcata e il finale di gusto ha aromi di granaglie.
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NATHALIE FALMET, BRUT
Pinot nero e Chardonnay
Vignaiola ed enologa di nuova generazione, crea un colore giallo paglierino caldo, dorato.
L’olfatto ha sfumate sensazioni di frutta dolce, di fiori gialli, di popcorn, di amido; il tutto
crea un bouquet complesso, rafforzato da uno spunto di calvados. Il gusto è cremoso, l’acidità si fonde con la CO² e lascia spazio a una sapidità addolcita da ricordi di biscotti all’uva.
RICHARD CHEURLIN, CUVÉE JEANNE
Pinot nero 100%
Vivacissimo colore paglierino limone, la spuma crea raffinati merletti. Le note agrumate danno un’intensa impressione odorosa, abbinate a finissime sfumature di foglie di
tabacco dolce, di distillato di prugne e di nespole. E’ cremosamente sapida la sensazione che si crea sulla parte iniziale del palato, segue una fresca vivacità nell’acidità per
chiudere con una vellutata morbidezza, che ricorda la gelatina di limone.
MOREL PÈRE ET FILS, CUVÉE GABRIEL
Chardonnay 100%
Giallo paglierino con nuances giallo limone. L’impatto minerale è imperioso e copre il
floreale e il fruttato. Pietra focaia e un leggero spunto di zolfo impattano non del tutto
positivamente. Il gusto si scioglie in un’acidità un po’ aggressiva, la persistenza gusto
olfattiva lascia una scia di funghi champignon freschi.
PIERRE BRIGANDAT ET FILS, BRUT TRADITION
Pinot nero 100%
E’ una cuvée di tre annate dal colore paglierino limone. L’intensità minerale, pietra focaia e zolfo non si fonde con le altre sensazioni olfattive e fa soffrire l’agrumato e il fruttato. Il gusto è un po’ barcollante nella qualità acida, lascia un residuo finale di fieno
umido.
BREUZON, GRANDE RESERVE
Pinot nero 90%, 10% Chardonnay
Brillante la limpidezza, giallo limone chiaro il colore. Finissime note agrumate creano un
effetto olfattivo rinfrescante e fragrante, ai sentori di mela verde e di fiore d’acacia; silex
e pietra focaia rifiniscono il tono minerale. Struttura gusto olfattiva fresco/sapida intensa e prolungata, la persistenza aromatica chiude con un finale al sapore di uva spina.
LS CHEURLIN, BRUT
Pinot nero 70%, Chardonnay 30%%
Paglierino con bordi verdolino. I sentori vegetali si miscelano con i profumi dei fiori bianchi primaverili, con la buccia di pompelmo e la pesca. Il gusto si delinea con una semplicità fresca e sapida, con un finale fruttato e chiusura al gusto di ribes.
PETIT-CAMUSAT, BLANC DE BLANC
Pinot bianco 100%
Una vera curiosità enologica. Colore verdolino giallastro di media intensità. La nota olfattiva è molto burrosa, ricorda il roux. Nel fruttato domina la sfumata sensazione di albicocca, di mela e pera. Sensazione molto cremosa al palato, con percezioni a tendenza
acido/sapida a comporre un finale di gusto al sapore di fico bianco e di biscotti al burro.
R. DUMONT ET FILS, BRUT 2002
Pinot nero 60%, Chardonnay 40%
Paglierino luminoso al colore. Complessa sensazione olfattiva dimensionata nel minerale, nel fruttato e floreale, con chiusura fragrante e traccia di lievito di birra. Ancora la
costante del terroir (zolfo e silice) dà una sapidità esuberante al palato, un’acidità carica di un vivace effetto fruttato e un finale lungamente segnato dall’agrumato.
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Vino e finanza
Aste,
lo shopping
è solo agli inizi
di Lorenzo Simoncelli
LA
CRISI FINANZIARIA
SEMBRA AVERE
AGEVOLATO LA VENDITA
ALL'ASTA DEI VINI.
LA QUALITÀ È INVARIATA
MA A PREZZI PIÙ BASSI.
VANNO SEMPRE FORTE
BORDEAUX E
BORGOGNA,
BENE ANCHE I ROSSI
PIEMONTESI
E I SUPERTUSCANS.
L’OPINIONE DI DAVID
ELSWOOD, DIRETTORE
INTERNAZIONALE DEL
DIPARTIMENTO VINI
DI CHRISTIE'S
L David Elswood, direttore internazionale
del dipartimento vini di Christie's
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ome è andata la vendita all'asta del vino durante il credit crunch? I
collezionisti si sono messi paura o hanno continuato a investire
su quello che ormai si può definire un bene rifugio? E i prezzi hanno
subito la stessa flessione della vendita al dettaglio oppure hanno resistito
alla recessione? A guardare dai risultati delle principali case d'asta internazionali l'impressione è che gli amanti del vino non si siano messi paura.
Anzi sembrano approfittare della congiuntura favorevole. Se, infatti, produttori e distributori piangono, per i collezionisti è il momento di comprare. Secondo le stime di Christie's e Sotheby's le flessioni dei prezzi in
sede d'asta si attestano tra il 20 per cento e il 40 per cento. Questo non
significa che si acquistano etichette esclusive (Borgogna e Bordeaux) a
prezzi stracciati, ma a buon mercato sicuramente.
Una cassa di Château Haut-Brion del 1989, che nel 2007 si poteva acquistare per 20 mila dollari, ora è venduta a circa 9.500 dollari. Prezzo ancora elevato rispetto alle quotazioni più realistiche degli anni 2004-2005,
quando la stessa cassa si portava via con 5 mila dollari. Identico discorso
per un'altra etichetta nobile come il Romanée-Conti annata 1990, che nel
2007 è arrivata a raggiungere quota 22 mila dollari, valore più che triplicato rispetto al 2005 quando con 6.500 dollari la si portava a casa. Ora il
suo valore si aggira sugli 8.000 dollari a bottiglia. Come nella finanza, dunque, back to basic: anche nel vino si torna ai fondamentali, ai corretti prezzi di mercato, perché le bolle tanto prima o poi scoppiano, che si tratti di
prodotti finanziari o di vino il risultato non cambia.
C
L Un'asta della Pandolfini
III LE ECCEZIONI DEL CASO
C'è tuttavia da dire che i Paperon de’ Paperoni non mancano neanche in tempi di crisi. Ad Hong Kong, principale piazza internazionale per la vendita all'asta di etichette pregiate dopo la detassazione del vino, succede
che un compratore anonimo, nel giorno dopo la dichiarazione ufficiale secondo cui Hong Kong è in recessione, acquisti tre Jeroboams di un rosso La Tache Vintage
1990 per un totale di 118.628 dollari. Durante la stessa asta dell’Acker Merrall & Condit presso l’Island
Shangri-La Hotel di Hong Kong, un altro acquirente
ha pagato 274.718 dollari per una collezione di 144 bottiglie Domaine de la Romanée-Conti, cioè circa 2.000
dollari a bottiglia. Esempi di come le mine vaganti che
alterano il mercato sono sempre presenti, crisi o non
crisi.
Ma come mai gli indicatori classici del vino sono tutti
negativi e invece le vendite all'asta fanno registrare il
tutto esaurito in ogni parte del mondo? E perché molti
dei collezionisti possono fare qualche rinuncia, ma non
riescono a dire di no al vino?
DeVinis, in esclusiva, ne ha parlato con David Elswood,
direttore internazionale del dipartimento vini di Christie's.
“Quello dei vini continua a essere uno dei mercati più
vivaci nel mondo perché genera un forte interesse su
due fronti”, spiega Elswood. “Innanzitutto ci sono le etichette rare, prodotte in quantità limitate, capaci di attrarre gli appassionati dei vini migliori e introvabili. Poi c'è,
naturalmente, il fatto che i grandi vini costituiscono un
bene dal valore concreto e stabile”. Ma quali sono le
piazze dove la vendita all'asta sembra sentire meno i
morsi della recessione e perché? “Attualmente la piazza più forte e dinamica è senza dubbio Hong Kong”, commenta il direttore internazionale del dipartimento vini
di Christie's, “infatti, non solo abbiamo assistito a un
interesse sempre crescente da parte dei collezionisti
orientali, ma il fatto che, dal 2008, ad Hong Kong il vino
sia esente da tasse rende le vendite dedicate alla categoria più vantaggiose. Per questa ragione tutte le principali case d'asta, Christie's in testa, e anche altre minori, vi offrono regolarmente aste di vino. Molti dei nuovi
compratori di Christie's a Hong Kong provengono dalla
Cina, ma non mancano clienti ormai abituali da
Singapore, Taiwan, Corea del Sud e Giappone”.
III ANCHE I RICCHI PIANGONO
Se le aste dunque sembrano beneficiare della crisi finanziaria, c'è chi però proprio a causa di quest'ultima è
costretto a vendere le etichette più prestigiose per fare
cassa. Sono in aumento, infatti, le partite provenienti
dalle cantine private di persone in crisi che sono costrette a impegnarle per ricevere in cambio contanti, ma che
poi non sono più in grado di riscattarle. A Parigi, un’importante agenzia di pegni nazionale, Le Crédit Municipal,
ha indetto la prima asta di vini di pregio. Si tratta di
nobili disperati, collezionisti di vino, ma anche semplici appassionati, che hanno dovuto a malincuore rinunciare a bottiglie di un certo valore. Nel catalogo dell’asta
LE TOP 10 ETICHETTE VENDUTE ALL'ASTA
DEL 10/10/09 DI GELARDINI & ROMANI
1 Ornellaia, Tenuta dell’Ornellaia
2006, 1 bottiglia Salmanazar (9lt),
17 mila euro
2 Ch. La Mission Haut Brion, Pessac
Leognan 1975, 1 bottiglia
Imperiale, 10.782 euro
3 Ch. Mouton Rothschild, Pauillac
2000, 3 bottiglie, 1.916,80 euro
4 Ch. Cheval Blanc, St. Emilion 1990,
3 bottiglie, 1.797 euro
4 Masseto, Tenuta dell’Ornellaia 2006,
3 bottiglie, 1.797 euro
5 Petrus, Pomerol 1987,
3 bottiglie, 1.677,20 euro
5 Masseto, Tenuta dell’Ornellaia
2001, 3 bottiglie, 1.677,20 euro
6 Ch. La Mission Haut Brion, Pessac
Leognan 2000, 3 bottiglie,
1.557,40 euro
7 Ch. Lafite Rothschild, Pauillac1990,
3 bottiglie, 1.497,50 euro
8 Ch. Latour, Pauillac 1990, 3 bottiglie, 1.437,60 euro
Le aggiudicazioni riportate sono inclusive di diritti d'asta e iva.
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Vino e finanza
L Un'asta di Christie's
si trovano Champagne d’annata, vecchie bottiglie di
Chateau Lafite e prestigiosi Armagnac risalenti a fine
Ottocento. Secondo il direttore generale del Crédit
Municipal è più facile andare in cantina e prelevare qualche buona bottiglia di vino piuttosto che tirare giù i quadri dal soggiorno o togliere la collana dal collo della
moglie.
III LE ASTE IN ITALIA
Visti i numeri, 1.58 miliardi di euro di fatturato per
l'esportazione nei primi sei mesi del 2009 e 9 milioni
di ettolitri di produzione, e vista la qualità, verrebbe
da pensare che le aste dei vini in Italia siano delle vere
e proprie bagarre per accaparrarsi il lotto migliore. E
invece se si va ad analizzare il panorama delle case d'asta
internazionali ci si accorgerà che nessuno dei prestigiosi brand ha deciso di puntare sul nostro Paese. “I migliori vini rossi italiani sono presenti in tutte le nostre principali sale d'asta internazionali, da Hong Kong a New
York a Londra”, spiega Elswood, “tuttavia solo una piccola percentuale dei compratori italiani che frequentano le nostre vendite risiede effettivamente in Italia. È
per questo che noi di Christie's crediamo sia più importante offrire le nostre aste nei luoghi presso i quali sono
più attivi i nostri clienti”. “Malgrado ciò”, conclude
Elswood, “tramite le nostre consolidate relazioni con i
produttori e con i collezionisti, siamo da sempre molto
ben connessi con il mercato italiano dei grandi vini”. Ma
allora come possono, collezionisti e non, comprare vini
all'asta in Italia? Sono due le realtà leader nel settore:
Pandolfini, casa d'asta fiorentina con oltre settant'anni di storia e Wine Auction di Gelardini & Romani, nata
nel 2004 a Roma.
III NUMERI A CONFRONTO
Per avere una corretta visione del giro d'affari che ruota
in Italia intorno alla vendita del vino all'asta bisogna
partire dal presupposto che i risultati realizzati all'estero non sono un termine di paragone. Ricavati superiori al milione di euro non si sono mai realizzati in Italia,
dove invece la soglia media si attesta sui 100 mila euro.
Questo notevole disavanzo tra le aste italiane e quelle
estere è uno dei principali motivi per cui le grandi case
d'asta internazionali sono state sempre scettiche sulle
34
potenzialità del nostro Paese.
“Il mercato italiano è carente di capitali e ha una recezione inferiore rispetto all'estero”, commenta Francesco
Tanzi, responsabile dipartimento vino della Pandolfini,
“anche a seguito della difficoltà di reperire etichette
importanti come Romanèe Conti o Leroy. I Supertuscans
e i grandi rossi piemontesi, infatti, non riescono a raggiungere cifre elevate come i rossi francesi”. Che sia il
momento giusto di comprare ne sono la dimostrazione
gli ottimi risultati riscontrati dalle recentissime aste realizzate a Firenze e a Roma nei primi d'ottobre e a cui
DeVinis era presente. “Abbiamo avuto un venduto pari
al 90% dei lotti presenti in catalogo con un ricavato che
ha sfiorato i 160mila euro”, analizza il responsabile
del dipartimento vino della casa d'asta fiorentina
Pandolfini, “i lotti italiani sono stati praticamente tutti
venduti con incremento sui prezzi di stima pari a un 510 per cento”.
Tra i lotti degni di nota vanno segnalati una bottiglia da
sei litri di Lupicaia Castello del Terriccio 2005 aggiudicata a 1.180 euro, sei bottiglie de I Sodi di San Niccolò
Castellare di Castellina 1990 vendute a 2.206 euro e sei
bottiglie di Barolo Monfortino Giacomo Conterno 1990
battute a 2.360 euro. Per quanto riguarda la sessione
francese, da segnalare che i vini vintage sono stati i più
richiesti con incremento anche del 100 per cento sul
prezzo di stima. Da evidenziare in particolare le tredici
bottiglie selezione Grand Cru Domaine de la Romanée
Conti 2006 aggiudicate a 12.980 euro. Esito altrettanto positivo ha avuto l'asta realizzata da Gelardini &
Romani Wine Auction a Roma dove è stato aggiudicato
il 102 per cento del valore di base d'asta con incrementi medi per lotto del 34 per cento.
“La scelta di presentare un catalogo incentrato sui Grand
Cru di Bordeaux e d’Italia ha incontrato il favore del
mercato (vedi tabella con graduatoria delle top 10 etichette vendute)”, spiega Raimondo Romani, cofondatore Gelardini & Romani Wine Auction, “dal nostro punto
di osservazione del mercato la domanda è in crescita e
lo è innanzitutto per i Supertuscan, con il Masseto in
testa, quindi Le Pergole Torte, Oreno, Messorio,
Desiderio, Tiganello, Solaia, Ornellaia, Sassicaia
Giramonte, sempre più protagonisti del mercato internazionale dei vini “Collectibles”.
Congresso nazionale 2009
bottiglia
La
al centro
della convivialità
di Emanuele Lavizzari
n viaggio alla scoperta di un territorio ricco di storia, tradizioni e sapori. Dal 30 settembre al 4 ottobre un Congresso nazionale, il 43.mo, è stato ospitato per la prima volta in Basilicata. Tra il Vulture e
Matera circa trecento congressisti si sono dati appuntamento per vivere insieme intense giornate di lavoro e di
approfondimento, di ricerca e di degustazioni.
«Per cinque giorni – ha sottolineato Vito D’Angelo, presidente dell’Ais Basilicata – la nostra regione è stata al
centro del panorama enologico italiano. La risposta che
abbiamo avuto dai soci, dagli appassionati e dai rappresentanti del mondo politico e l’attenzione rivoltaci dai
mass media dimostrano che attraverso la cultura del
vino e delle tipicità enogastronomiche locali si può svolgere una reale ed efficace azione di marketing territoriale a vantaggio dell’intero comparto turistico».
A Vito D’Angelo e alla sua formidabile squadra di sommelier va l’applauso e il ringraziamento di tutta l’associazione per l’ospitalità, l’organizzazione e, aspetto rilevante, per aver saputo presentare in così poco tempo le
innumerevoli bellezze della regione e per aver coinvolto
i principali produttori del posto. Sono state parecchie
infatti le cantine che hanno aperto i cancelli ai sommelier e offerto le eccellenze vitivinicole locali: Eubea, Cantine
del Notaio, Paternoster, Terre degli Svevi, Terra dei Re
e Feudi di San Gregorio hanno imbandito le tavole con
le proprie etichette per banchi d’assaggio e cene a base
dei prodotti tipici del territorio.
Oltre ai tour nelle aziende vitivinicole, gli ospiti sono stati
coinvolti nelle visite delle principali attrazioni culturali
e paesaggistiche: dai suggestivi laghi di Monticchio al
castello di Pirro del Balzo, dall’abitazione del poeta latino Orazio a Venosa alla casa di Giustino Fortunato a
Rionero in Vulture, fino al fascino dei Sassi di Matera e
all’austerità del castello di Melfi.
U
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L Apertura in prima pagina per il presidente Medri!
L Il tavolo dei relatori all'assemblea generale presso il Castello di Melfi
Proprio nella roccaforte in cui soggiornò anche Federico
II di Svevia si è svolta l’Assemblea nazionale, il cuore
pulsante del congresso in cui si tracciano le linee guida
per l’anno a venire. «Il mondo del vino sta attraversando un profondo cambiamento – ha sottolineato il
presidente nazionale Terenzio Medri – determinato da
molteplici fattori». La sovrapproduzione mondiale, il
dilagante appiattimento del gusto sui vini internazionali, il calo delle vendite, l’orientamento verso prodotti di basso prezzo e, non da ultimo, la rigida campagna
contro l’alcol e le severe sanzioni ai trasgressori sono
tutti elementi a discapito del messaggio di cui da sempre l’associazione si fa portatrice: “Il bere poco ma bene”,
“il bere consapevole”. «In questo contesto – ha proseguito il presidente Medri – l’Ais riveste un ruolo di grande autorevolezza, esito di un investimento costante e
approfondito sulla dimensione culturale. La cultura,
ovvero il patrimonio di conoscenze e competenze, tradizioni e innovazioni, passione e creatività, che fanno
del mondo del vino italiano, del “vigneto Italia”, una
realtà unica e irripetibile, senza eguali al mondo». La
figura del sommelier in questo senso può farsi portatore di valori positivi a salvaguardia della qualità dei
prodotti italiani e a contrasto di quegli aspetti già elencati che sembrano invece danneggiare il comparto vitivinicolo del nostro Paese.
“La bottiglia di vino al centro della tavola e della convivialità”: è questo lo slogan che il presidente ha utilizzato per riassumere la funzione che i sommelier sono
chiamati ad assolvere. Il compito è quello di allargare
i confini della propria azione culturale, di rivolgersi al
vasto pubblico dei consumatori che, sempre più spesso, si muove senza conoscenze, senza riferimenti e dunque senza certezze.
Numerosi sono poi gli elementi indicati dal presidente
per tracciare percorsi futuri che presto l’Ais intraprenderà. Innanzitutto la creazione di una grande “banca
dati nazionale” per monitorare lo stato di salute dei prodotti nostrani e dei vitigni autoctoni, per studiare tendenze e orientamenti del mercato. Investire poi su comunicazione e cultura, attraverso collaborazioni con istituti, università e riviste specializzate, per giungere anche
all’offerta di prodotti didattici multimediali e alla diffusione di sapere on-line. Una sfida importante sarà anche
quelle di convocare gli “Stati generali” del mondo del
vino, un Forum nazionale di cui l’Ais sarà promotrice
e coordinatrice. Fondamentale sarà anche l’attenzione e l’impegno su tre progetti strategici per il futuro dell’intero settore agroalimentare: il Vinitaly Tour, la campagna promozionale Magic Italy del Ministro del turismo Michela Vittoria Brambilla e la tanto attesa Expo
2015 di Milano.
L Una canzone romantica anche
per Franco Ricci
Una serenata dedicata al presidente Medri e alla sua consorte
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Congresso nazionale 2009
L Terenzio Medri e Vito D'Angelo alla consegna del diploma di
Sommelier onorario a Vito De Filippo, presidente della Regione
Basilicata
I progetti dell’Ais avranno naturalmente sempre l’occhio puntato su quel già avviato processo di internazionalizzazione che fa della Worldwide Sommelier
Association uno straordinario canale per il rilancio
del vino italiano e che porterà il prossimo anno un nostro
rappresentante al concorso “Miglior Sommelier del
mondo” a Santo Domingo.
Tanti quindi i contenuti emersi nell’assemblea che
ora andranno portati all’attenzione della società e del
L Luca Martini, Miglior Sommelier d'Italia 2009
mondo politico. E, a proposito di politica, è da segnalare che nel corso del congresso il presidente della
Regione Basilicata, Vito De Filippo, è stato insignito
dallo stesso presidente Medri del titolo di Sommelier
Onorario per il suo impegno in passato come assessore regionale all’Agricoltura e per la sua attuale attività
a sostegno del settore agroalimentare lucano.
Dopo il soggiorno nel Vulture e l’assemblea di Melfi i
congressisti, come previsto, si sono spostati a Matera
IL TROFEO BERLUCCHI VA IN TOSCANA
È Luca Martini il Miglior Sommelier d’Italia 2009. Ventinove anni, nato ad Arezzo, ha vinto il Trofeo Guido
Berlucchi, aggiudicandosi la competizione svoltasi a Matera nell’auditorium del Conservatorio Duni.
Maître sommelier presso l’Osteria da Giovanna di Arezzo, Miglior Sommelier della Toscana 2007, semifinalista nello stesso anno e finalista nel 2008, Martini raggiunge così il gradino più alto della sommellerie italiana. Nel corso della gara ha preceduto Davide Staffa e Andrea Balleri, i due professionisti che insieme
a lui hanno dato vita a una finale intensa e appassionante. Da sottolineare il clima di collaborazione e
stima tra i partecipanti emerso durante e dopo il concorso, come dimostrato dal gesto sincero e spontaneo di Martini che, subito dopo la premiazione, ha voluto chiamare e ringraziare di fronte al pubblico
l’amico, maestro e compagno di studio Cristiano Cini.
L’edizione 2009 del concorso ha visto la partecipazione alle semifinali di ben 18 sommelier, mai così
numerosi negli ultimi anni. Tutto a dimostrazione degli ottimi risultati che l’Ais sta raccogliendo con i corsi
didattici diffusi su tutto il territorio nazionale. «Il livello medio di preparazione dei candidati – ha dichiarato
il presidente Terenzio Medri – è stato molto elevato, come dimostrano i punteggi ottenuti nel corso delle
semifinali. Il vincitore, come
in tutte le competizioni, è
uno solo, ma ci tengo a
sottolineare la professionalità dei numerosi concorrenti, a dimostrazione che il
lavoro dell’Ais di questi ultimi anni sta portando i suoi
frutti. La nostra grande soddisfazione è quella di vedere sommelier giovani e preparati che interpretano alla
perfezione il ruolo di comunicatori e divulgatori delle
eccellenze del grande
vigneto italiano».
Il prestigioso trofeo è stato
consegnato da Paolo
Ziliani della Guido Berlucchi
& C. in occasione della
cena di gala organizzata
dall’Ais Basilicata negli
splendidi saloni di Palazzo
L Da sinistra, Paolo Ziliani della Berlucchi, il presidente nazionale Ais Terenzio
Venusio a Matera.
Medri, Luca Martini, Davide Staffa e Andrea Balleri
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L Davide Staffa serve Gabriele Ricci Alunni, presidente
Ais Umbria, e Carmen Giuratrabocchetta, responsabile
dei servizi Ais Basilicata
L Il passaggio di consegne tra Vito D'Angelo e Gabriele
Ricci Alunni, presidente Ais Umbria. Il prossimo congresso, infatti, si svolgerà a Perugia
per assaporare il fascino di una passeggiata notturna
tra i celebri e già citati Sassi e per assistere alla finale
del Trofeo Guido Berlucchi. Al termine di un’intensa
competizione durata più di tre ore, l’aretino Luca Martini
si è aggiudicato il titolo di il Miglior Sommelier d’Italia
2009, precedendo i colleghi Davide Staffa e Andrea
Balleri in un confronto davvero appassionante.
Anche in questa edizione, dopo la positiva esperienza
di un anno fa a Catania, le fasi congressuali sono state
raccontate in tempo reale sul blog ufficiale dell’evento
curato dall’instancabile Franco Ziliani. Se non l’avete
ancora fatto, potete consultarlo all’indirizzo web
http://blog.sommelier.it.
Un simbolico passaggio di testimone in chiusura dei
lavori tra Vito D’Angelo e Gabriele Ricci Alunni, presidente dell’Ais Umbria, ha ufficializzato la sede della
prossima assise: sarà Perugia a ospitare il 44.mo
Congresso nazionale dal primo al 4 ottobre 2010.
“LA RICERCA DELL’ECCELLENZA”
DELLA BONAVENTURA MASCHIO
Per il sesto anno consecutivo la Distilleria Bonaventura Maschio di Gaiarine (Tv) in collaborazione con
l’Ais si è fatta promotrice di una iniziativa di rilievo allo scopo di incentivare i giovani sommelier ad approfondire le tematiche legate al mondo della distillazione. Come nel campo dei vini, anche in questo particolare settore l’Italia vanta nel mondo una riconosciuta competenza e un indiscusso primato di tipicità,
che anche le nuove generazioni sono chiamate a conoscere e apprezzare. E ciò soprattutto in un
momento nel quale da più parti si invoca la moderazione nell’uso delle bevande alcoliche che in buona
sostanza è un invito, da parte delle aziende più qualificate, a bere poco e a bere bene, privilegiando i
prodotti migliori.
La Bonaventura Maschio ha messo a disposizione tre borse di studio assegnate ai tre sommelier (Nord,
Centro, Sud) risultati primi nei rispettivi master di specializzazione sulle acquaviti dal titolo “La ricerca
dell’Eccellenza”. Lezioni
pratiche e teoriche tenute
da esperti del settore riguardo la conoscenza dei distillati italiani e stranieri, le tecniche di distillazione in uso, le
sperimentazioni che vengono attuate all’interno
delle aziende, per finire con
l’arricchimento delle competenze professionali nel
campo delle degustazioni,
alle quali i sommelier sono
chiamati.
Maria Teresa Bertocco di
Mestre (Ve), Carlo Pagano di
Isernia e Donato Malacarne
di San Mauro Forte (Mt) sono
stati i tre vincitori e hanno
ricevuto le borse di studio da
Andrea Maschio venerdì 2
ottobre durante la cena di
gala tenutasi presso l’azienL Donato Malacarne, Vito D'Angelo. Terenzio Medri, Andrea Maschio, Maria da vitivinicola “Terra dei Re”
di Rionero in Vulture.
Teresa Bertocco e Carlo Pagano
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Congresso nazionale 2009
Quando
l’enogastronomia
traina
il
di Cesare Pillon
Q
turismo
uesta è la cronaca di un evento annunciato
ma non avvenuto e che pure si è realizzato lo
stesso, giorno per giorno, silenziosamente,
senza proclami, per così dire sotto traccia,
durante il 43.mo Congresso nazionale dell’Ais. Si tratta del workshop ch’era in programma alle 16,30 di
venerdì 2 ottobre, subito dopo l’assemblea nazionale,
nella Sala del Trono del Castello di Melfi, sul tema
“Agricoltura, turismo e prodotti eno-gastronomici, leve
efficaci di promozione e marketing”. La contemporanea presenza in Basilicata del Presidente della
Repubblica, che proprio quel pomeriggio era nelle vicinissima Rionero in Vulture, aveva determinato l’assenza giustificata di vari personaggi che avrebbero dovuto animare il dibattito. Ma anche se fossero stati presenti difficilmente avrebbero avuto il tempo per affrontare a fondo il tema: il dibattito congressuale si era
infatti protratto ben oltre il previsto.
C’è stato quindi solo il tempo perché Giuseppe Dagrosa,
funzionario del Dipartimento Agricoltura della Regione,
e Gerardo Ferretti, presidente della Comunità montana Alto Basento, porgessero il benvenuto ai congressisti accennando brevemente alle iniziative sperimentate dai loro enti. L’intervento di Ferretti, tuttavia, ha
40
riservato una sorpresa: nessuno si aspettava che esordisse, come ha fatto, esprimendo con spontaneità un
inatteso apprezzamento per il modo in cui s’era svolto il congresso. “Venendo qui”, ha detto, “mi aspettavo di ascoltare una relazione sui risultati conseguiti
dall’Ais, anche perché immagino che con 43 anni di
storia il materiale a cui attingere non manchi. E invece ho trovato tutto il contrario: non un’associazione
chiusa in se stessa a celebrare il proprio passato, ma
un’associazione aperta al mondo che sa guardare al
futuro, anzi addirittura innovativa, capace di lanciare sfide coraggiose e impegnative”.
Visto dall’esterno, effettivamente, più che il 43.mo congresso, il dibattito che s’era appena svolto poteva sembrare l’assemblea costituente di una nuova Ais. Un’Ais
che si è data come compito la diffusione della cultura
del bere non più limitandosi a presidiare l’alta qualità, come ha fatto finora, ma aprendosi “al vasto pubblico dei consumatori che si muove senza conoscenze
e dunque senza certezze”, come aveva esortato a fare
il presidente Terenzio Medri nella sua relazione. Una
relazione, ha sostenuto Ferretti nel suo intervento,
da prendere come esempio. “E lo dico”, ha sottolineato, “come amministratore di un organismo pubblico”.
L Vigneti nel Vulture
Per quanto stringati, gli interventi di
Dagrosa e Ferretti
sono serviti ai congressisti Ais per rendersi conto che puntando su agricoltura, turismo e prodotti eno-gastronomici la Basilicata non fa altro che realizzare la propria vocazione più autentica: intende così
esprimere tutto il suo potenziale valorizzando nel contempo le straordinarie risorse storiche, culturali e artistiche di cui dispone. E in questo modo conta di spezzare l’isolamento che ne ha fatto finora una piccola
regione lambita dalle autostrade ma priva di aeroporti, dove si passa ma non ci si ferma, difficile da raggiungere dalle altre zone della penisola, come hanno
personalmente sperimentato tutti i delegati Ais che
provenivano da altri territori.
Il workshop doveva essere un momento di riflessione
nel corso di un’esperienza molto articolata, perché l’intero congresso era stato organizzato all’insegna delle
sue tematiche: gli edifici scelti per ambientare gli eventi, i paesaggi da contemplare durante i trasferimenti
Il presidente
Terenzio Medri
durante
l'assemblea
generale
in pullman, i menu
messi a punto per i
pasti, il contenuto
delle visite programmate, tutto era stato
studiato non soltanto per illustrare in
che modo agricoltura, turismo e prodotti eno-gastronomici possono diventare leve di promozione e marketing per la regione, ma
anche per sollecitare il contributo che i sommelier possono dare affinché questo obiettivo venga raggiunto.
La Basilicata, come ha ricordato nel suo intervento
Giuseppe Dagrosa, per incrementare il turismo dispone sia di ambienti marini sia di ambienti montani. Fino
a ieri però sono stati solo i primi (Maratea innanzitutto) a fornire risultati promettenti. Ma nel girovagare
tra Rionero e Barile, Venosa e Melfi, i congressisti hanno
potuto rendersi conto fin dal primo giorno che l’Aglianico
del Vulture, con il suo attuale successo, può rappresentare un’alternativa concreta, perché può svolgere
un ruolo decisivo nell’attirare turisti e quindi contribuire allo sviluppo del territorio da cui scaturisce. Che
è un territorio di straordinaria suggestione: con le sue
41
Congresso nazionale 2009
L L'Abbazia di San Michele domina
i Laghi di Monticchio
Peperoncino lucano tra i vicoli
dei Sassi di Matera
sette cime disposte a semicerchio intorno a due piccoli laghi craterici, il Massiccio vulcanico del Vulture offre
scenari di struggente bellezza, ancora incontaminati,
che gli itinerari turistici convenzionali ignorano.
Quando si dice che ogni vino esprime i valori del luogo
che gli ha dato vita non si fa della retorica. I congressisti hanno potuto verificarlo di persona: nell’Aglianico
del Vulture si percepisce il misticismo dell’Abbazia di
San Michele, costruita da monaci italo-greci intorno a
una grotta scavata nel tufo alle falde del vulcano, che
i membri della Giunta esecutiva Ais hanno visitato mercoledì 30 settembre; si avverte la cultura che aleggia
a Rionero nelle sale del palazzo di Giustino Fortunato,
scrittore, politico, storico, dove s’è riunito il Consiglio
nazionale il giorno successivo; si rivive l’appassionante storia del Castello di Melfi, caro a Federico II di Svevia,
dove nel 1089 fu bandita la prima
Crociata e 920 anni dopo s’è tenuta
l’Assemblea generale dell’Ais.
Vini di questo tipo, capaci di evocare
memorie e suggestioni, offrono straordinarie opportunità per mettere in
moto l’economia del territorio di cui
sono espressione, entrano in sinergia
con il turismo già in atto e stimolano l’arrivo di un nuovo tipo di visitatore, l’enoturista. I lucani se ne sono resi conto e perciò negli ultimi anni hanno quadruplicato la loro offerta di vini di qualità: accanto all’Aglianico del Vulture,
che resta ovviamente il loro fiore all’occhiello, hanno
ottenuto il riconoscimento per tre nuove Doc, Terre
dell’Alta Val d’Agri (merlot, cabernet, aglianico), Matera
(aglianico, sangiovese, primitivo per i rossi, greco e malvasia per i bianchi) e Grottino di Roccanova (sangiovese, ciliegiolo, barbera per i rossi, malvasia, moscato,
trebbiano per i bianchi).
Sono vini tutti da scoprire ma con cui i delegati Ais
hanno avuto modo di entrare in contatto sia a tavola
sia mediante degustazioni appositamente organizzate.
L’impressione che ne hanno riportato è di vini che stanno magari ancora cercando un’identità più nitida ma
che vale la pena di far conoscere non soltanto per la
loro qualità intrinseca, che ne fa delle novità interessanti, ma anche perché sono contrassegnati da un favo42
revole rapporto qualità/prezzo, caratteristica che nell’attuale periodo di crisi li rende particolarmente appetibili.
Se il sommelier è importante per diffondere la conoscenza dei vini, è addirittura indispensabile per suggerire l’abbinamento con i cibi con cui essi entrano in
simbiosi. Ecco perché durante gli intensi cinque giorni del congresso, ai delegati Ais sono stati fatti conoscere non soltanto i piatti più importanti della saporita cucina lucana ma anche le più significative specialità agro-alimentari che la Basilicata è in grado di
offrire, e con cui l’Aglianico del Vulture e i suoi fratelli hanno ovviamente un rapporto privilegiato.
Si tratta di una gamma di prodotti tipici della dieta
mediterranea, a cominciare dall’olio extravergine d’oliva, che si produce in tre zone di particolare vocazione:
nel Materano, in bassa Val d’Agri e
sulle Colline del Vulture.
Delicatamente fruttato, quest’ultimo
ha il vantaggio di nascere nella stessa zona dell’Aglianico e di godere indirettamente del prestigio che circonda
il vino. Di particolare interesse anche
i formaggi: il caciocavallo podolico di
Viggiano, il pecorino canestrato e il
cacioricotta di Moliterno con la variante, per quest’ultimo, del casieddu. Nella regione in
cui è nato il più antico insaccato della storia, che
proprio per questo si chiama lucanica (o luganega),
non possono mancare tra i prodotti tipici i salumi: la
soppressata di filetto suino, specialità di Tricarico, e
la salsiccia pezzenta, di cui va orgogliosa Rionero in
Vulture.
Un ruolo insolitamente importante, tra le eccellenze
della Basilicata, se lo sono conquistati però anche due
prodotti dell’orto: i fagioli di Sarconi e i peperoni di
Senise. Particolarmente intriganti questi ultimi, rossi
e di piccola dimensione, molto diversi però dai peperoncini calabresi (e abruzzesi) perché sono di sapore
piuttosto dolce. Possono essere di tre tipi, appuntiti, a
tronco o a uncino, ma hanno in comune un pericarpo sottile e un basso contenuto di acqua, tali da consentire una rapida essiccazione senza che il gambo si
distacchi dal frutto. Hanno avuto grande successo tra
i congressisti Ais preparati secondo un uso tipicamente lucano, cioè passati in olio bollente e
salati. In questa versione sono chiamati “cruschi”,
cioè croccanti, e vengono proposti, freddi, per
accompagnare formaggi e verdure fresche, come
fave o insalate, ma i sommelier li hanno particolarmente apprezzati perché durante le degustazioni sono serviti a pulire la bocca quando si passava da un tipo di vino a un altro.
Il modello di sviluppo che persegue oggi la
Basilicata ha l’obiettivo di replicare una, due,
cento volte la positiva esperienza di Matera, che
a partire dal 1993, quando l’Unesco ha iscritto
nella lista dei patrimoni dell’umanità lo storico
quartiere dei Sassi, con le sue abitazioni scavate
nella roccia, è diventata una città che vive, e
vive bene, di turismo. E poiché è proprio a Matera
che s’è svolta durante il congresso la finale del
Trofeo Berlucchi ed è stato proclamato il miglior
sommelier d’Italia 2009, i delegati Ais hanno avuto
modo di verificare di persona che si tratta di un
turismo colto e consapevole, affascinato in egual
misura dalle Chiese rupestri sparse lungo i pendii delle gravine e dal pane di Matera, un’autentica specialità alimentare che si produce con farina di grano duro e viene cotta in forno a legna.
Matera ha una straordinaria capacità di attrazione perché offre al turista un “paesaggio culturale”, come l’ha definito l’Unesco, in cui è condensata una storia millenaria iniziata addirittura nel
Neolitico: qualcosa di unico al mondo, insomma. Ma qualcosa di unico al mondo lo si può creare anche oggi: basta avere l’idea giusta. E c’è chi
l’ha avuta, in Basilicata. L’idea è quella del Volo
dell’Angelo e consiste in due semplici cavi d’acciaio, sospesi tra le vette delle Dolomiti Lucane,
che collegano in modo insolito due borghi,
Castelmezzano e Pietrapertosa. Legato in tutta
sicurezza a un’imbracatura agganciata a uno dei
cavi, il turista può trasferirsi da un paese all’altro provando l’ebbrezza del volo: partendo da un’altitudine di circa mille metri e arrivando 130 metri
più in basso, percorre i 1450 metri che separano un borgo dall’altro a una velocità che lungo il
percorso arriva ai 120 chilometri all’ora. Se non
soffre di horror vacui sorvolando uno strapiombo di 450 metri, può godere di un panorama indimenticabile provando un’emozione irripetibile.
Nel suo intervento ai congressisti Ais, Gerardo
Ferretti ha raccontato la sua personale esperienza, confessando di aver affrontato con una certa
apprensione il Volo dell’angelo, che essendo presidente della comunità montana non poteva esimersi dallo sperimentare di persona, il giorno in
cui l’impianto fu inaugurato. Ma i suoi timori erano
infondati: dopo 250 mila lanci non si è mai verificato un solo incidente. Evidentemente, l’angelo
del volo sa compiere miracoli. Ne ha fatto un altro
ancora più sensazionale, ha raccontato Ferretti:
gli abitanti dei due piccoli comuni montani,
Castelmezzano e Pietrapertosa, che prima di essere collegati dai cavi si detestavano, anzi non si
rivolgevano neppure la parola, oggi vanno d’amore e d’accordo.
Se la Basilicata ha trovato perfino gli angeli disposti a darle una mano, perché non dovrebbero dargliela anche i sommelier dell’Ais?
Eventi
La
Grande
Mela
celebra
le
eccellenze
italiane
di Alessandra Rotondi
New York i brindisi di fine anno si cominciano a fare almeno due mesi prima. Per il
secondo anno consecutivo la Big Apple ha
ospitato il Wine & Food Festival, una quattro giorni di eventi tipo Vinitaly e Salone del Gusto uniti
insieme, dove certamente non sono mancati calici innalzati e cin-cin augurali. L’area che ha ospitato il W&F Festival è quella del Meat Packing
District e Chelsea Village che i fans di Manhattan
sanno essere i quartieri della vita notturna, delle
nuove tendenze, un tempo sede dei mercati generali e ora crocevia di atelier e locali cool.
L’organizzatore è stato Food Network, il canale televisivo che trasmette in chiaro 24 ore su 24 programmi di enogastronomia facendo share di ascolto pari a quelli registrati dalle nostre reti pubbliche e private per dirette sportive o fiction. Basti
dire che i reality show che vanno per la maggiore
sono quelli basati su competizioni tra cuochi come
A
L La Regione Veneto alla Grand Central
44
Iron Chef America che la domenica sera tiene incollati tutti, molto più delle varie isole, grandi fratelli o fattori x. Forte di questi successi, Food Network
– che ha devoluto tutti gli incassi a Food Bank
for NYC e a Share Our Strength, organizzazioni
benefiche per la soluzione di situazioni di indigenza e malnutrizione – ha organizzato questo festival pieno di tutto: seminari, dimostrazioni culinarie, incontri con gli chef, wine maker, giornalisti,
cene, concerti e balli e infine un Grand Tasting di
vini di tutto il mondo, bevande alcoliche in genere e cibo a volontà. Ogni sessione del Tasting, mattutina o pomeridiana, costava 150 dollari a persona; tutti gli altri eventi del festival si pagavano a
parte, con biglietti ad analoghe tre cifre. Ma gli
appassionati hanno riempito i padiglioni, sottoponendosi a file interminabili per accedere all’evento prenotato. Nel caso del Grand Tasting, la gratifica è arrivata dalla grande abbondanza di aziende presenti, tra cui le firme italiane di Antinori,
Zonin, Mionetto, Ruffino, Folonari, più tutte quelle importate e distribuite da Palm Bay International
tra cui Planeta, Bertani, Mazzei, Cinzano. C’erano
anche i vini “Italian Sound”, come i “Directors” di
Francis Ford Coppola (e come avrebbero potuto
chiamarsi?) o i “Traviata” sloveni. In ambito cibo,
lo stand Barilla con i suoi assaggi di pasta è stato
tra i più visitati. Il Grand Tasting ha permesso
anche conoscere prodotti appena lanciati sul mercato caratterizzati da packaging stravaganti per
attirare l’attenzione dei consumatori, tra cui la
“Crystal Head Vodka” dalla bottiglia a forma di
teschio; quelli insoliti come il saké frizzante infuso con birra o la bevanda alcolica fatta con un basilico viola africano e le infinite varietà di vodka tra
cui quella rosa shocking o azzurro cielo entrambe nate da misteriosi blend oppure i vini ammiccanti come i californiani “Ménage à Trois”, in cui
comunque il tre riguarda le contee che forniscono
le uve: S. Barbara, Mendocino e Monterrey o i
“Sogno” firmati dalla “ingambissima” Savanna, presente anche in etichetta. La festa inaugurale si è
svolta al Chelsea Market, il quartiere generale di
Food Network: un’antica struttura al chiuso che
Eventi
L Giada De Laurentiis e Paula Deen, famose esperte di
cucina della tv americana
L Gli chef Alain Ducasse e Pierre Schaedelin
L Il salotto Illy all'aria aperta
L Una prova culinaria di Martha Stewart
46
ospita, oltre alla sede dell’emittente, anche negozi enoalimentari in un percorso di pietra, acciaio e giochi
d’acqua, evocando ambientazioni da Blade Runner.
Degustazioni di tutto, musica dal vivo e possibilità di
cominciare a incontrare le stars del festival, cioè gli
intrattenitori degli show enogastronomici che il pubblico venera più di quanto si riesca a immaginare:
Guy Fieri, Paula Deen, Rachael Ray, Bobby Flay,
Martha Stewart – la regina degli americani – o la nostra
Gaia de Laurentiis, nipote di Dino, molto apprezzata
perché brava, bella e italiana d’origine, e quindi sinonimo di buona cucina. La loro popolarità deriva dal
fatto che propongono in televisione, e poi nei libri,
ricette alla portata di tutti e che l’abilità in cucina sia
considerata una dote straordinaria concessa a pochi.
Nel corso del festival, molti sono stati gli eventi all’aperto come “Un Caffè con…”, organizzato da Illy: un vero
salotto allestito nella piazzetta del Meatpacking antistante la Brasserie Pastis, con divanetti e persino un
letto, in cui si sono seduti a rotazione chef blasonati
come Daniel Boulud, Jean George Vongerichten e
Alain Ducasse che, molto alla mano, si sono sottoposti alle domande di media e di appassionati. Con
Ducasse – titolare di circa venti ristoranti tra Parigi,
Londra, Giappone e New York, quasi tutti Tre Stelle
Michelin – si è tirato un sospiro di sollievo: infatti, pur
essendo stato il primo a introdurre, due anni fa, nel
suo Adour di Manhattan, una carta dei vini computerizzata e proiettata su un bancone bar futuristico
in cui ogni vino è spiegato e selezionabile tramite il
touch screen (ora imitato da molti) ha dichiarato che
il sommelier in sala rimarrà una figura irrinunciabile: cambia il modo di proporre la wine list – su schermo invece che su carta – ma il responsabile di cantina e il comunicatore dei vini in sala sarà sempre un
professionista colto ed elegante, dotato soprattutto di
qualcosa che è insostituibile rispetto al computer:
occhi, naso e palato. Le manifestazioni che hanno
fatto il pienone sono state la Gara degli Hamburger e
“Meatball Madness” – Pazzi per le Polpette – in cui si
L Albero di Natale italoamericano
sono contraddistinte le creazioni dello chef toscano Cesare Casella, amatissimo dai newyorkesi. Per
capirne il successo, vale la pena ricordare che le
svizzere e le polpette – nonché la carne in barbecue in genere – stanno agli americani come la pasta
e la pizza stanno agli italiani. Infine, presso City
Winery – grande winebar di Tribeca dove si fa concretamente il vino, dalla pigiatura all’imbottigliamento – il sold out si è avuto con “Vini e Bob Dylan”
a cura del sommelier e ristoratore italiano Joe
Bastianich, che si è esibito nell’insolita veste di
chitarrista e suggeritore degli abbinamenti ideali
per Blowing in the Wind e altre. Ma il Wine & Food
Festival è stato solo uno degli eventi conviviali di
grande coinvolgimento di papille gustative, dell’inizio inverno newyorkese. Si è svolto infatti in concomitanza delle seguitissime celebrazioni per la
commemorazione della scoperta dell’America alle
quale ha partecipato massicciamente anche la
Regione Veneto organizzando, per oltre dieci giorni, Wine Tasting presso la Stazione Centrale sulla
42ª Street. Grande affluenza di pubblico che ha
conosciuto, in una Piazza San Marco ricreata per
l’occasione, il patrimonio culturale e imprenditoriale veneto, assaggiando stuzzichini di saor, fegato, polenta veneziana, scaglie di Grana Padano e
selezioni di Prosecco, Ripasso della Valpolicella,
Pinot Grigio e tanti Spritz, ancora sconosciuti ai
palati americani. E, per ricordare che le feste si
avvicinano, un enorme albero di Natale decorato
con vetri di Murano ha accolto i visitatori all’ingresso della Vanderbilt Hall. O era forse un “Albero
della Cuccagna”, visto che a New York tra un Wine
& Food Festival e l’altro, si mangia e si beve sempre? Comunque sia: cheers… anzi, salute e auguri a tutti!
Vino e architettura
Quando
cantina
la
unisce
esperienza
e cultura
di Alessia Cipolla
ttraversare la bellezza dei nostri paesaggi costituisce già un enorme piacere ma conoscere da
vicino un prodotto enogastronomico, vedere chi
lo produce e capire come nasce rappresenta un’esperienza importante nella costruzione della relazione personale tra il prodotto e
l’appassionato enocultore. La nostra percezione della realtà dipende dai sensi ma restiamo molto più “impressionati” dalle cose che
ci emozionano.
La visita in azienda
rappresenta non solo
una gita fuori porta ma
anche un’esperienza
privata che lega il consumatore al vino. Le
cantine non sono più
solo un luogo di produzione ma anche l’occa-
A
48
sione per presentare e comunicare al meglio il prodotto e l’impresa che lo produce, un luogo di scambio di
culture ed esperienze.
Molte aziende hanno inserito all’interno del loro percorso in cantina anche dei piccoli locali di vendita diretta, spazi che necessitano di esperienza e cura
progettuale spesso trascurata, in quanto non
rappresentano soltanto un luogo di esposizione e distribuzione
ma identificano il punto
di incontro tra il prodotto, l’azienda e il consumatore.
Nuovi luoghi familiari
ed emotivamente coinvolgenti, dove accogliere piacevolmente i
clienti, spazi relazionali e di svago in grado di
attirare l’attenzione per la forte personalità, organizzati per emozionare e intrattenere, aree dove
introdurre un nuovo sistema progettuale di vendita creativa attraverso il marketing sensoriale,
che mira a stimolare il pubblico, e il Visual merchandising, “visualizzazione della merce” : assieme alla vista, il canale principale verso il quale
indirizzare le informazioni, si può comunicare un
prodotto anche coinvolgendo nel progetto l’udito,
l’olfatto, il tatto e il gusto.
Il Visual merchandising, un modo di pensare a
come valorizzare al meglio il prodotto e il punto
vendita, è un insieme di metodi che concorrono
a dare al prodotto un ruolo nuovo utilizzando i
sensi come la vista, dove le immagini non sono
quelle che percepisce la retina ma l’elaborazione
fatta dal nostro cervello; l’udito con la musica come
via di comunicazione ad alto contenuto emotivo;
l’olfatto dove la miscelazione di trentuno odori primari può dare origine a migliaia di odori diversi ;
il tatto dove il contatto fisico suscita emozioni che
perdurano nella mente più delle emozioni date
dalle immagini e dalle parole e infine il gusto, in
tutte le sue sfaccettature.
Oggi il consumatore desidera interagire con tutto
ciò che lo circonda e vuole scegliere, sperimentare, creare, capire. Un’immagine, un suono, un profumo, una sensazione tattile, un sapore bastano
ad attivare il naturale percorso di analisi e a ogni
stimolo sensoriale deriva una serie di conseguenze di acquisto.
Gli spazi vendita dovrebbero quindi arricchirsi di
funzionalità e diventare delle vere e proprie vetrine, creando una particolare atmosfera identificativa dell’azienda attraverso elementi progettuali fondamentali, quali la razionale gestione degli
spazi, il corretto posizionamento delle strutture
espositive, l’adeguata suddivisione delle merci per
destinazione e stile e un’appropriata scelta dei
colori, dell’illuminazione, della temperatura, delle
immagini, della musica e della comunicazione.
Continua il percorso all’interno delle nuove cantine italiane realizzate tra il 2001 e il 2009 nelle
diverse regioni d’Italia scelte secondo la qualità
architettonica e funzionale, oltre che al rispetto
e alla valorizzazione del paesaggio circostante.
Azienda Agricola Petra – Suvereto (LI)
Un architetto svizzero di fama internazionale e un
grande imprenditore, non nuovo al mondo del vino,
legati da lunga amicizia: l’architettto Mario Botta
e Mario Moretti, già figura importante dei vini di
Franciacorta, oltre che costruttore.
La cantina Petra, come pietra in latino, è stata
progettata a Suvereto, nel cuore della maremma
toscana, in uno dei paesaggi più affascinanti
d’Italia, in località San Lorenzo Alto, e si estende
per 300 ettari, composti da vigneti, boschi e ulivi.
Mario Botta ha dato forma e vita alle idee iniziali
del proprietario, insistendo sulla realizzazione di
un complesso architettonico equilibrato sia negli
Vino e architettura
La barricaia
aspetti pragmatici e funzionali della cantina con
tutte le sue lavorazioni, sia
negli elementi costruttivi,
inserendo i brevetti del
gruppo Moretti-Industria
delle Costruzioni, sia in
quelli compositivi attraverso le scelte formali di
un elemento architettonico forte inserito in un paesaggio pieno di fascino.
Il progetto è stato realizzato sul pendio di una
zona collinare, con il fronte principale che accoglie
il visitatore a valle, l’accesso dei trattori e dell’uva a monte a un livello superiore.
Quasi un logo, perfettamente visibile da lontano, un
elemento compositivo immediatamente riconoscibile
con una identità comunicativa precisa. L’edificio, interrato su tre lati, viene quasi accolto e abbracciato dalla
collina.
Il complesso fuori terra si presenta con una figura centrale cilindrica, alta 25 metri con un diametro di 42
metri, dove si svolge il processo di vinificazione e sono
stati ubicati anche gli uffici e il laboratorio, e due ali
laterali, perfettamente simmetriche, all’interno delle
quali si trova nell’ala destra uno spazio per mostre temporanee e una sala meeting, oltre alla zona di invecchiamento del secondo anno e, a sinistra, l’area per l’invecchiamento in bottiglia con una capienza di circa
200mila bottiglie, lo spazio per il ciclo dell’etichettatura, il magazzino e lo stoccaggio.
Il corpo centrale si presenta come una figura pura, un
cilindro in pietra, un anello, sezionato con un piano
inclinato decrescente verso l’accesso principale, una
scalinata esterna al termine della quale si può avere
una visione dall’alto di tutto il territorio.
Il corpo cilindrico è un luogo austero, con muri prefabbricati esternamente ricoperti in pietra e con pilastri
Gli interni L
La suggestiva galleria lunga 70 metri 50
interni che sorreggono
grandi travi lamellari e i
setti in calcestruzzo armato della corona circolare
sui quali poggiano le travi
secondarie in legno lamellare decrescenti verso l’acceso principale. Tra una
trave e l’altra filtra la luce
naturale zenitale, conferendo a questo spazio una
certa solennità.
L’uva viene convogliata nel
piazzale retrostante il
corpo centrale, al piano
primo, da dove, attraverso nastri trasportatori, è
trasportata verso la sala di diraspatura dalla quale le
uve vengono fatte cadere, attraverso dei chiusini, direttamente nella zona di vinificazione al piano terra dentro le vasche in acciaio. Al secondo piano con accesso
visivo verso la cantina e il piazzale esterno si trovano
anche gli uffici amministrativi e il laboratorio.
Al piano terra, nel retro dell’area di vinificazione è collocata la barricaia che contiene fino a 1000 barriques
utilizzate per la fase di invecchiamento del primo anno.
Il locale è costituito da un’unica volta prefabbricata di
18 metri, appositamente brevettata dal gruppo MorettiIndustria delle Costruzioni. I pavimenti sono lastre in
calcestruzzo armato nelle quali, in fase di prefabbricazione, sono stati inseriti elementi di calpestio in cotto.
Da questo locale si accede verso la scenografica galleria lunga 70 metri, scavata nella roccia, in cui sono
state disposte circa 500 barriques da invecchiamento.
Nell’ala destra, l’area invecchiamento di un anno, è
stato utilizzato un altro brevetto costruttivo del gruppo Moretti, una copertura a crociera prefabbricata con
maglia regolare di 6 per 6 metri.
Un progetto dalla forma immediatamente identificativa
e riconoscibile, che comunica e si esprime all’interno di
un paesaggio meraviglioso dalla forte personalità.
Degustazioni
La coltivazione
ad alberello,
Etna
al resto d’Italia
dall’
di Alessandro Franceschini
econdo Giovanna Morganti “forma e sostanza nell’alberello vanno insieme”. Paolo Vodopivec è convinto che attraverso l’allevamento ad alberello ci
sia più “continuità vegetativa della pianta” e insieme
si attui un mantenimento, quasi romantico, di un patrimonio culturale e storico insieme. Cristina Geminiani
ha creduto così tanto nell’alberello da aver convertito,
dopo 5 anni di sperimentazione su 40 ettari, l’85 per
cento delle viti della sua azienda con questa forma, perché “è un sistema selettivo che non consente errori”.
Chianti classico, Carso e pendici dell’Appennino toscoemiliano: tre territori diversi per storia ampelografica,
tre testimoni innamorati di un sistema di allevamento
che se ci è più familiare pensare di trovare altrove, magari nel comprensorio tra Manduria e Sava, piuttosto
che sulle pendici dell’Etna, appare strano ai più immaginare di vederlo invece così ben radicato nella filosofia produttiva di tre aziende come Podere Le Boncie,
Vodopevic e Fattoria Zerbina.
Eppure era proprio questo l’obiettivo di chi ha organizzato (Tiziana Gallo ed il Comune di Milo) il convegno
dal titolo “Passato e futuro della viticoltura ad alberello. Il marketing e l’esperienza dei produttori” all’interno del ricco programma che ha animato la 29.ma edizione di ViniMilo nel piccolo comune ai piedi dell’Etna:
unire le storie di produttori diversi, italiani piuttosto
che francesi, accomunati non solo dall’esperienza della
coltivazione ad alberello nelle proprie vigne, ma anche
da un sentire comune, non privo di incognite e rischi.
“Perché questa peculiarità sembra non essere percepita? Perché lavoro in Emilia?” si chiede ancora Cristina
Geminiani. Difficile rispondere così come pensare che
il convegno abbia potuto offrire soluzioni di facile rea-
S
lizzazione, come spesso capita, d’altronde, in questi casi.
Per Silvio Cardinali, docente di Marketing all’Università
Politecnica delle Marche e Michela Pallonari, esperta in
wine Marketing presso l’Università di Macerata, relatori del convegno, il tema della comunicazione è sicuramente uno dei punti di debolezza, non solo di tutta la
filiera vitivinicola italiana, ma soprattutto di quelle piccole e medie aziende italiane che rappresentano poi la
vera ossatura di tutto il comparto nostrano.
Da un’indagine empirica, eseguita attraverso interviste
telefoniche e questionari sottoposti a 22 produttori specializzati in parte o integralmente nella coltivazione ad
alberello emerge un panorama tanto vitale quanto disgregato al suo interno: “Esiste la volontà di fare alleanze,
ma poi al lato pratico non esiste nulla di realmente operativo”. Le stesse Strade del Vino (organismi territoriali nati nel 1999 e regolamentati da una legge nazionale con l’intento di valorizzare i territori italiani a particolare vocazione vinicola), secondo i due docenti, non
sembrano venire in aiuto per comunicare efficacemente tratti distintivi e peculiarità di chi ha sposato l’alberello per motivi prettamente tecnici piuttosto che per
recuperare e valorizzare antichi retaggi culturali che
rischiavano l’estinzione, anche in considerazione del
fatto che circa “il 50 per cento di queste non sono operative affatto”. Salvo Foti, enologo di riferimento della
viticoltura etnea, non ha dubbi circa il grande lavoro di
recupero di questa tradizionale forma di allevamento,
specie sulle pendici del vulcano siciliano: “Con l’alberello ricostruisci le terrazze, riscopri antiche maestranze e salvi dall’abbandono un intero paesaggio dimostrando come la meccanizzazione non sia sempre necessaria
a tutti i costi”. Nonostante questo, continua l’enologo
51
Degustazioni
Vigneti ad alberello L
siciliano, “questa forma specifica di
allevamento della vite non assicura
automaticamente la qualità”. Una
sottolineatura tanto scontata se
vogliamo, quanto necessaria, immersi come siamo in un mondo, quello
vitivinicolo, che pensa troppo spesso che siano singoli e distaccati elementi a determinare il successo o
meno di una denominazione piuttosto che di uno specifico vino, quanto invece non quel saper fare complessivo che unisce esperienza e storia, territorio e vitigni. Spiazzante, a
questo riguardo, la risposta di un
rappresentante dell’azienda francese Cave de Pyrenne alla domanda se
in Francia ci si interroghi o meno sul
tema dell’alberello: “In Francia il tema
dell’alberello non è un tema, semplicemente perché non è un‘eccezione
come in Italia”. L’Etna, da questo
punto di vista, rappresenta un’eccezione a tutto tondo, oramai consapevole non solo della sua forza e delle
sue future potenzialità, quanto del
ruolo determinante nel recupero dell’alberello per fare qualità: “Oggi 65
aziende imbottigliano vino sull’Etna,
contro le 12 di qualche anno fa” afferma Giuseppe Spina, direttore del
Parco dell’Etna, “Si è sbagliato, tempo
52
fa, quando abbiamo puntato alla
meccanizzazione dei vigneti e quindi
all’allevamento a spalliera”. Oggi c’è,
invece, da queste parti, una sorta
di ritorno al passato, a coltivazioni
tanto “antiche” quanto con chiara
evidenza più conformi al desiderio di
salvaguardare un paesaggio unico e
un recupero della qualità piuttosto
che della quantità.
L’alberello etneo
tra passato e presente
“Esiste un metodo scientifico per prevedere che un’eventuale colata lavica non distruggerà il mio vigneto?”.
“Certo, non lo pianti sull’Etna!”. La
risposta diretta e tranchant che Salvo
Foti diede a un imprenditore non
locale che stava comprando vigneti
sull’Etna riassume bene quello che
è lo spirito di chi si trova nell’incredibile situazione di dover lavorare
le vigne su un terreno vulcanico, con
alle spalle un gigante in continuo
movimento, che a cadenze più o
meno regolari fa sentire la propria
presenza con sbuffi, ceneri e colate
che possono provenire dalle bocche
principali poste a più di tremila metri
di altezza, così come da feritoie laterali e a bassa altitudine che hanno
la forza di attraversare un paese in
due senza che nessuno possa opporre grande resistenza, come successe
nel 1981 quando una colata nel versante nord dell’Etna tagliò il comune di Randazzo e si fermò, cambiando improvvisamente direzione, davanti a un vigneto, attualmente in
produzione, circondato da montagne
di pietra lavica. Sfida e al tempo stesso rispetto: la presenza del vulcano,
che segna indelebilmente la vita di
moltissimi comuni adagiati tra gli
ottocento e i mille metri, non ha mai
frenato non solo la coltivazione della
vite, quanto quelle di tante altre specie che qui hanno trovato un habitat
unico in grado di formare una biodiversità sorprendente per varietà e
bontà. Meli, castagni, ciliegi, noccioleti (quest’ultimi ben presenti specie
nelle zone dove la vite non trova la
miglior dimora) segnano il territorio
e si alternano alle viti, circumnavigando il vulcano da sud a nord, passando dal versante orientale.
“Nel 1800 l’Etna produceva cento
milioni di litri di vino” ci dice sempre Salvo Foti. “I vini poi finivano nei
cosiddetti riposti, cioè porti sul mare
dai quali poi venivano spediti”. Dove?
Un po’ ovunque: erano ricchi di tan-
nino e acido malico e si erano guadagnati col tempo l’appellativo di
“vini navigabili”, proprio per la loro
propensione a reggere i lunghi spostamenti specie sulle flotte inglesi,
che li prediligevano proprio per queste caratteristiche. La coltivazione
della vite in questo territorio, con
tipici terrazzamenti e vigne ad alberello maritate a pali di castagno, era
talmente diffusa che ancora tra le
due guerre mondiali sovente si usava
la dinamite per rompere la roccia
lavica sì da recuperare terreno utile.
Un terreno, quello etneo, che ovviamente, sebbene abbia caratteristiche simili, quindi sabbia e lava un
po’ ovunque, è lungi dall’essere omogeneo e facilmente classificabile:
colate diverse in epoche diverse con
affioramenti distinti, anche a pochi
metri di distanza, fanno si che ci si
trovi nel regno della diversità: “a volte
la pietra pomice crea come una granellina di pietra, altre volte sabbia”.
Non c’è calcare e l’acqua è subito
dilavata “quindi non ci si infanga
dopo la pioggia” racconta Foti. Dopo
la fine della prima metà dello scorso millennio arriva il decadimento
e l’abbandono della vite, come in
molte altre parti d’Italia d’altronde.
Tuttora, nonostante la vivacità e il
dinamismo attuale, è facile imbattersi in vigneti abbandonati.
La meccanizzazione portò al decadimento della qualità media, specie in
vitigni unici come quelli presenti
da queste parti: nerello mascalese
e cappuccio per i vini rossi e carricante per i bianchi. “Sull’Etna non
c’è mai stato storicamente il nero
d’avola, anche se è pur vero che
prima della fillossera, che comunque
da queste parti non si è mai mossa
e propagata agevolmente, esistevano almeno 35 varietà diverse di vite”.
Il vitigno nel cuore dei produttori
etnei, ma non solo (si pensi alla non
lontana denominazione di Faro in
provincia di Messina), è indiscutibilmente il nerello mascalese (che trae
il nome dal comune di Mascali): speziato e ricco di tannino sa evolvere
nel tempo. L’altro nerello, il cappuccio o mentellato (prende il nome dal
suo portamento, cioè dalla sua forma
a mantello) è sì ricco di frutto al naso,
ma povero di tannini e non dà grandi soddisfazioni se vinificato in purezza. Ecco perché il blend tra i due è
L Vigneti ad alberello a 1.300 m di altitudine
da sempre tradizionale qui. Oggi il
50 per cento del vigneto etneo è stato
recuperato all’antica coltivazione ad
alberello, anche se un tempo non
solo qui, ma praticamente in tutta
Europa, era di casa questa particolare forma di allevamento, che trova
la sua massima espressione, anche
estetica, secondo Salvo Foti, nella
disposizione a quinconce (dal latino
quincunx) che consiste nel disporre cinque piante, quattro delle quali
come ai lati di un immaginario quadrato, e una al centro, esattamente
come è raffigurato il numero cinque sulla faccia di un dado.
“La piantagione di un vigneto ad alberello a quinconce costituisce una
sorta di griglia che ci dà un'immediata e al tempo stesso piacevole lettu-
ra del paesaggio” sostiene il nostro,
e in effetti, nel caso etneo si riscontra un’ulteriore armonia dovuta al
fatto che la simmetria delle quinconce tende ad annullare il dislivello
dovuto ai terrazzamenti. Perché l’alberello non è più così diffuso?
Sostanzialmente per due motivi, sia
di ordine economico sia umano: poiché non meccanizzabile, la gestione
risulta più costosa e in più richiede
professionalità e specializzazione
locale, spesso difficile da recuperare
e tramandare. “Il viticoltore deve
avere una conoscenza molto approfondita, acquisita di generazione in
generazione”. Ecco, quindi, il risvolto se vogliamo culturale, di recupero di antiche maestranze, tema da
sempre caro a Salvo Foti.
53
Degustazioni
LA DEGUSTAZIONE
Il banco d’assaggio organizzato a latere del convegno è stato occasione per testare, fianco
a fianco, vini accomunati dal comun denominatore dell’alberello, indipendentemente dalla
loro provenienza, non solo etnea. Ne abbiamo scelti 10.
Tenuta di Castellaro - Bianco Pomice Igt Sicilia 2008
Quattropani Lipari (Me)
Vitigni: 90% Malvasia di Lipari, 10% altri vitigni autoctoni
Situata sull’isola di Lipari, l’azienda prende il nome dal primo insediamento, Castellaro
per l’appunto. Fedeli all’alberello, con la consulenza di Salvo Foti allevano malvasia, nero
d’avola e corinto. Il Bianco Pomice fermenta in acciaio inox e barriques usate e, come
richiama il nome stesso, ha nella spiccata mineralità il suo tratto distintivo, insieme ad
eleganti note floreali. Sapido, di gran bella chiusura e lunghezza, convince per aromaticità e complessità.
Vodopivec – Vitovska anfora 2005
Colludrozza Sgonico (Ts)
Vitigno: 100% vitovska
Il carattere del giovane Paolo Vodopivec trova piena rispondenza in questa vitovska di
grande personalità, suadenza e incisività. Note di anice, ananas, bergamotto e buccia di
mandarino e un centro bocca ricco, sapido e dal finale di gran razza. Questa versione fermenta lentamente per sei mesi in anfore interrate a contatto con le bucce senza il controllo della temperatura, per poi affinare due anni in botte.
Cooperativa Riviera dei Fiori - Rossese di Dolceacqua Superiore Doc 2007 Maixei
Dolceacqua (Im)
Vitigno: 100% rossese
Maixei, cioè la forma dialettale locale con la quale si indicano i muretti a secco che sostengono i terreni. Lievemente scarico con tonalità tra il rubino e il granato, questo rossese
ha nella sobrietà e nella delicata finezza i suoi tratti caratteristici. Spezie, un’accennata
vinosità e poi la prorompente mineralità insieme ai frutti di lampone e ciliegia maturi di
bella definizione. Grande slancio anche in bocca, chiusura fresca e ritorni floreali. Dodici
mesi di affinamento in botte come vuole il disciplinare da uve interamente allevate ad
alberello.
Podere Le Boncie – Chianti Classico Docg 2006 Le Trame
Castelnuovo Berardenga (Si)
Vitigni: sangiovese 90%, 10% foglia tonda, colorino e mammolo
Tattile, sapido con un tannino da sangiovese di razza, ruspante ora, ma di gran bella tessitura in grado di sorreggere una materia prima di bella stoffa. Bella la distensione aromatica, con note di ciliegia mature ricche e ben definite. Un vino ancora scalpitante e in
fieri, ma già ora godibilissimo.
Fattoria Zerbina – Sangiovese di Romagna Superiore Doc 2005 Torre di Ceparano
Marzeno Brisighella (Ra)
Vitigni: sangiovese (85-90%), syrah 5-10%, merlot (5-10%), cabernet sauvignon (massimo 5%), ancellotta (massimo 2-3%)
E’ il secondo vino di casa Zerbina, ottenuto da alcune partite provenienti dalle selezioni
utlizzate per la produzione del Pietramora e del Marzieno. Ottima la definizione del frutto, dolce e maturo con delicate note speziate. Tannino potente, a tratti ancora asciugoso, ma di buona tessitura.
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Morella – Primitivo di Manduria Doc 2006 Old Vines
Manduria (Ta)
Vitigno: 100% primitivo
Potenza e controllo. Da alberelli di 75 anni, Lisa Gilbee, enologa australiana innamorata di Manduria e del suo compagno Gaetano Morella, ne ricava un primitivo di rara eleganza, poderoso quanto equilibrato. Note di carruba, mandorle e mallo di noce, così come
tabacco e prugne sotto spirito. Avvolgenza e freschezza per un campione di oltre 15% di
alcol, affinato per 12 mesi in barrique.
Gulfi – Nero D’Avola Nerosanlorè Igt Sicilia 2005
Chiaramonte Gulfi (Rg)
Vitigno: 100% nero d’Avola
Come tutti i cru di Gulfi, anche questo esemplare, proveniente da vigne che sentono maggiormente l’influenza del mare vista la vicinanza, non manca di carattere e grande incisività. Note di acciuga, di salmastro e iodio irrompono olfattivamente in modo deciso,
insieme a un quadro di frutti rossi maturi di ciliegia. Potente e minerale in bocca, nasce
da viti di più di 40 anni con rese inferiori ai 40 quintali per ettaro dalla vigna San Lorenzo.
Fattorie Romeo del Castello – Etna Rosso Doc Vigo 2007
Randazzo (Ct)
Vitigni: nerello mascalese e cappuccio
La vista del vigneto lambito e graziato dalla colata lavica del 1981 impressiona e oramai
lo contorna quasi a protezione. Il Vigo, da vigne allevate a 700 metri di altitudine, colpisce per complessità e forza espressiva. Note di tabacco e prugna, piacevoli quanto eleganti. Vigoroso nella sua bella trama tannica, chiude sapido con un centro bocca fitto e
di bella potenza.
Biondi – Etna Rosso Doc Outis 2007
Trecastagni (Ct)
Vitigni: nerello mascalese e cappuccio
Da vigne di più di 40 anni allevate sul versante est dell’Etna a circa 600 metri di altitudine, Ciro Biondi ricava questo classico blend di nerello mascalase e cappuccio, fitto e
ricco di sfumature: macchia mediterranea, note di cuoio e rabarbaro e una bocca di grande tessitura, terrosa, con un tannino di ottima grana e un finale deciso e fresco.
Ferrandes – Passito di Pantelleria Doc 2005
Contrada Tracino Kamma Pantelleria (Tp)
Vitigno: 100% zibibbo
Dalle contrade di Mueggen e Acque Dolci, da zibibbo appassito tradizionalmente al sole
per 15 giorni e fermentato senza lieviti selezionati, uno straordinario passito di Pantelleria,
cha rasenta la perfezione quanto a equilibrio e fresca dolcezza. Al naso è un’esplosione
di fichi, datteri e uva passa. Sapido, fresco e con un’avvolgenza zuccherina di grande precisione. Persistenza quasi interminabile.
55
Viticoltura
La
passione
per i vini
“radicata”
nel
cuore
56
Paolo Dettori, patron dell'azienda
di Daniele Urso
l viaggio comincia dove tutto finisce. In
Romangia, da uno dei produttori più controversi dell’isola. Chilometri lungo le
strade della Sardegna, in cerca dei suoi vini
e dei suoi profumi. Seguendo la costa che guarda verso
la Spagna, fatta di sali-scendi e di un paesaggio mutevole, affascinante, talvolta inospitale, dove però nascono grandi bottiglie. Un viaggio che vale la pena fare, prendendosi il tempo di vivere anche da semplici turisti. Ruolo
facile da recitare su strade come quella meravigliosa che
unisce Bosa e Alghero: una sequenza di rocce rosse a
picco sul mare che al tramonto si trasformano in un paesaggio mozzafiato.
Lo sguardo segue l’andamento delle colline. Sembrano
sovrapporsi, come le onde del mare che si vede in lontananza, a cinque chilometri di distanza. Si scorge un
bel tratto di costa, che sale verso i bassi rilievi collinari
ricoperti di vigne. Qui si coltivano Vermentino di Sardegna
e Moscato di Sorso per i bianchi, Cannonau e Monica per
i rossi. Siamo intorno ai trecento metri di altitudine, forse
qualcosa di più. Spira il maestrale ma è insolitamente
quieto. Giusto un refolo per cacciare via il caldo e godersi un bicchiere fresco di bianco. Sull’etichetta, che ricorda quelle di alcuni rossi di Bolgheri, c’è scritto “Dettori”.
Siamo in Romangia, spicchio di Sardegna nordoccidentale, incastrato tra Sassari, Porto Torres e Castelsardo.
Al tavolo c’è anche Paolo Dettori, patron dell’omonima
azienda. Nei calici il 2004 del suo Vermentino di Sardegna
in purezza. Fa 14 gradi, quasi non ci si vede attraverso.
È come chi lo ha fatto. Paolo non è un uomo facile e
non lo sono nemmeno i suoi vini, che però raggiungono
valutazioni d’assoluta eccellenza.
Senza troppi convenevoli, Dettori comincia a parlare e
mostra la sua azienda. All’appello manca il figlio
Alessandro, che divide con il genitore oneri e onori della
gestione aziendale. Il padre spiega che si è appena sposato e si sta godendo qualche giorno di relax in santa
pace. Prima che la sua terra lo richiami all’ordine. Prima
che la vite, che non aspetta, lo riporti in cantina. Il suo
pensiero però lo si può leggere a chiare lettere sulla home-
I
page del suo sito: «Io non seguo il mercato,
produco vini che piacciono a me, vini del mio
territorio, vini di Sennori. Sono ciò che sono
e non ciò che vuoi che siano». Una “dichiarazione di guerra” così contraria alle mode
del vino, da essere quasi… di moda. Di scelte comode però non ce ne sono, a partire da
quelle fatte proprio in vigna e in cantina. Paolo Dettori
la pensa come il figlio: «Uno si deve distinguere». Nessun
compromesso.
Alla fine degli anni ‘90, l’uva dei loro terreni finiva al consorzio ma i risultati non erano soddisfacenti. Padre e figlio
allora decidono di provarci da soli. «E ora l’azienda produce 60.000 bottiglie l’anno», spiega Paolo, «il quaranta
per cento va all’estero, il resto in Italia, da Palermo a
Trieste». Un risultato frutto di un sistema che affonda le
radici nella tradizione. Sulle colline l’uva si raccoglie rigorosamente a mano. Ovunque la vite è coltivata ad alberello e le rese sono bassissime. Il produttore snocciola
qualche dato: «Per il Vermentino (da cui nasce il Dettori
Bianco) 35 quintali per ettaro; il Cannonau tra i 20-30
quintali per ettaro; per Tenores e Dettori Rosso e tra i
45 e i 50 per il Tuderi». Poi l’uva finisce sul camioncino
frigo e arriva in cantina. Lì si studia al “microscopio” ogni
singolo grappolo. «La soddisfazione è non delegare a nessuno, sempre in prima linea, durante la vendemmia e al
banco di selezione, dove non passa nemmeno un acino
che io o Alessandro non abbiamo approvato di persona»
spiega orgoglioso Paolo Dettori. L’uva viene solo diraspata e fatta macerare a temperatura controllata. «Tra i
7 e i 10 giorni per i rossi», continua il patron, «e un paio
per i bianchi a temperatura controllata in vasche d’acciaio». Decantazione e maturazione avvengono sempre in
vasche d’acciaio per i bianchi. I rossi, invece, la fanno in
piccole vasche di cemento. «I vini non vengono né chiarificati, né filtrati, né stabilizzati». Niente legno, né quello grande, né la barrique. L’ultimo e unico enologo che ha
provato a imporlo è stato licenziato. In cantina fanno bella
mostra delle botti ma in cemento. Sono sessantaquattro
e Paolo le ha prese nel Bresciano. Secondo lui sono perfette e servono allo scopo. Che è poi produrre Vermentini
da 14 gradi e Cannonau da almeno 16. «Basta avere
una buona materia prima, perché se non c’è il vino non
57
Viticoltura
Tramonto dal gazebo
dell'agriturismo di Dettori
si fa. Anzi, mi devono spiegare quelli che lo fanno, come si può produrre un Cannonau da soli 12 gradi»
sbotta il produttore.
Anche l’imbottigliamento è artigianale: «È una grande festa. Si lavora tutti insieme, dieci persone in
linea, tra parenti e collaboratori,
che preparano 4.000 bottiglie al
giorno».
I vini poi riposano e maturano per
anni (in commercio ora c’è il 2004)
nei magazzini, prima di essere
pronti a finire sugli scaffali delle
enoteche. A prezzi importanti.
Perché i vini Dettori sono tra i più
cari di tutta l’isola.
Paolo lo sa e non lo nasconde:
«Quando abbiamo iniziato, siamo usciti con una bottiglia diversa rispetto ai costi medi del mercato sardo. Con
un prezzo importante, perché la resa dei nostri vitigni è
volutamente bassa e va pagata. Se potevano farlo piemontesi e toscani, allora potevamo farlo anche noi. L’idea
fu di mio figlio». Quando racconta la scelta di marketing,
è già tornato sotto il gazebo di fronte al nuovo agriturismo appena terminato. A pochi metri ci sono le vigne e
l’imprenditore indica orgoglioso l’erba alta tra le viti. «Qui
non si usa diserbante, guardatela, è alta un metro. Non
c’è ancora stato tempo di tagliarla. Siamo una famiglia
di pastori e contadini, che usa ancora la zappa».
Scelte che possono sembrare d’altri tempi,
almeno per molti, ma che, per certi
versi, sono anche la chiave del
successo di questa picco-
58
la azienda. Una medaglia però ha
anche il suo rovescio. L’annata dell’anno scorso infatti è stata un
disastro. «La peronospora ha mandato in malora l’intero raccolto»
spiega Dettori. Il fungo ha attaccato le viti e non c’è stato nulla da
fare, «anche perché non usiamo
“sistemini”. Diamo solo lo zolfo tre
volte l’anno. Di solito, grazie al
maestrale che tira sempre non c’è
problema. Spazza via l’umidità ed
evita che si formino funghi. Tranne
l’anno scorso». Si sono salvati
2.200 litri di vino ma il produttore non ne fa un dramma:
«Coltivando così, da un anno all’altro ci sono differenze. E queste si
presentano anche in bottiglia». Differenze che, malattie
della vite a parte, si registrano anche nei vini. Tra Dettori
Bianco e Rosso, Tuderi, Tenores e Muscadeddu è difficile trovare un’annata identica all’altra. E anche Chimbata,
creato da Alessandro per festeggiare i cinquant’ anni del
padre, e Ottomarzo (Pascale in purezza) sembrano avere
la stessa caratteristica. Così quando si chiede a Paolo
Dettori se non sarebbe più semplice produrre vini più
“facili”, la risposta è figlia di una saggezza contadina intrisa di marketing: «Facciamo vini che piacciono a noi. Nel
mondo siamo in tanti a bere vino. Secondo me
60mila persone che la pensano come noi
ci sono». Anche affidandosi alla
sola statistica, difficile dargli torto.
Viaggio tra i vini della Sardegna
Con un occhio sempre a Ponente, da sud a nord, dal Sulcis fino alla Gallura, si può disegnare la
mappa dei vini di questa regione. Partendo dal Carignano, vitigno introdotto dai Fenici, che
sull’Isola di Sant’Antioco è ancora coltivato a piede franco. Grazie infatti ai terreni sabbiosi la
filossera non è riuscita ad allungare i suoi minacciosi artigli, visto che il temibile afide in queste
condizioni non riesce a completare il proprio ciclo. Un vitigno, il Carignano del Sulcis, che l’enologo Giacomo Tachis, grande amante della Sardegna, indicava come una delle perle più
preziose dell’isola. I vigneti ad alberello sono ben visibili lungo le strade della zona e i rossi che vi
nascono sono diventati di più di una semplice comparsa nella terra del Cannonau. Salendo
lungo la Statale 126, dopo una breve tappa per conoscere il Campidano di Terralba, la seconda tappa del viaggio è Oristano, terra della Vernaccia. Uno dei vini più suggestivi della
Sardegna. Nato dall’omonima uva a bacca bianca (forse autoctona), la vinificazione, la maturazione e il lungo affinamento seguono un processo antico. Il prodotto finale può ricordare
vagamente lo Sherry spagnolo: bianco secco, leggermente profumato e con evidenti note
ossidative, dalla tipica nota pungente. Con gli anni perde i suoi spigoli e fa emergere sentori più
dolci, che sfumano nella mandorla. Lasciandosi alle spalle Oristano e seguendo la costa
frastagliata e ricca di scogliere, si arriva a Bosa, dove la Malvasia è tornata a far parlare di sé.
Vino dolce prodotto in piccole quantità e che migliora con il tempo, cresce sui terreni calcarei e
ricchi di potassio nelle valli orientate verso il mare. Dopo una tappa ad Alghero, dove il fascino
della rocca sul mare si sposa con la spumeggiante vita notturna, si entra in Romangia e poi
nella terra del Vermentino, la Gallura. Il bianco più famoso della Sardegna ormai ha conquistato
fortuna e gloria anche al di fuori dei suoi confini. Merito sia dei produttori storici, come Argiolas e
Capichera, sia di quelli emergenti come Giovanni Cherchi. Discorso a parte meriterebbe il
Cannonau, il vitigno più coltivato e conosciuto della regione e rosso principe dell’isola. I riflessi
rubino e i profumi intensi di frutti di bosco (spesso mora e mirtillo), liquirizia, spezie, hanno fatto
del vino prodotto da quest’uva di origine, pare, spagnola, uno dei rossi italiani con maggiori
potenzialità. Un compagno ideale per la cucina di terra della perla del Mediterraneo. Ma
soltanto una delle tante gemme nascoste, che un viaggio in Sardegna può offrire.
Vino e scuola
Un master
in sommellerie
di Letizia Magnani
“Q
uesto matrimonio s’ha
da fare”. L’Associazione
italiana sommeliers e
Alma, la scuola internazionale di
cucina italiana, organizzano insieme e per la prima volta il master di
sommelier, quarto livello del corso
Ais, indirizzato a tutti i professionisti che hanno voglia di pensare
che il proprio futuro sia veramente
nel mondo del vino.
L’accordo è stato fortemente voluto
dal presidente Ais, Terenzio Medri,
e dal presidente di Alma, Albino
Ganapini, sulla base di un progetto
didattico ideato dal sommelier Ais,
Luigi Bortolotti, che è già insegnante di Alma e che dirigerà il master.
«La sfida», dice il presidente di Alma,
Ganapini, « è quella di unire il nostro
modello didattico, con i contenuti
professionali dell’Ais a un livello
superiore. Abbiamo infatti ideato un
master, il primo nel suo genere, che
vuole essere il quarto livello per l’Ais».
In altri termini ci si può iscrivere solo
L Albino Ganapini, Presidente di Alma
60
al termine di un percorso di studio
e di conoscenza del mondo del vino
che i sommelier professionisti conoscono bene e che garantirà ai venti
iscritti di trovare occupazione nei
migliori ristoranti internazionali ma
anche nelle cantine e non solo.
Nelle intenzioni sia di Alma sia
dell’Ais, infatti, il master dovrà formare persone che “masticano” di
enogastronomia e di turismo, cioè
che sappiano sapientemente de streggiarsi sia nella gestione, che
nella comunicazione del vino e dei
suoi abbinamenti.
«Tutti elementi», aggiunge il presidente dell’Ais, Terenzio Medri, «sui
quali noi sommelier lavoriamo da
tempo. Esiste già una cultura della
qualità e del vino. L’Ais vi insiste da
tempo e cerchiamo di insegnarlo e
di spiegarlo da anni in dibattiti e
convegni a livello nazionale e internazionale. Questo incontro con Alma
è quindi quanto di meglio si possa
auspicare per il mondo dell’enogastronomia in generale».
Ed è proprio questa capacità professionale che ha convinto l’amministratore delegato di Alma, Riccardo
Carelli, ad aprire le porte della grande scuola di Colorno, a due passi da
Parma (e vicinissima a Milano) ai
sommelier Ais.
«Esiste già», spiega Carelli, «un livello di preparazione costruito nel
tempo con i tre livelli Ais ma noi
andiamo a completarlo, proponendo un master che sia in grado di
dare ai corsisti le chiavi sia della
comunicazione sia della gestione.
Il vino va conosciuto prima di tutto
e poi comunicato, ai clienti di un
ristorante, ai visitatori di una cantina, a chiunque voglia conoscere la
storia e la cultura di una bottiglia
ma anche di un abbinamento».
È questo il “plus” sul quale Ais e
Alma si sono accordate e che ha fatto
pensare a entrambe che sia questo
il momento di investire in figure altamente professionali.
La formazione superiore è ormai una
risorsa per il nostro Paese in molti
settori, ma in quello del turismo e
dell’enogastronomia le università
forse latitano. Sono nati nel tempo
molti master di comunicazione e di
gestione, di economia e di marketing del territorio, ma nessuno si è
spinto a formare davvero top manager del vino. Il sommelier professio-
nista invece ha la cultura e le conoscenze giuste, in termini di prodotti, cantine, produttori, etichette e
abbinamenti per rispondere alla
sfida con il futuro.
Per il presidente Albino Ganapini
infatti «c’è un grande bisogno di alte
professionalità nel mondo del vino.
Per comunicare occorre conoscere
approfonditamente storia, cultura,
territorio e prodotti. Venendo ad
Alma Angelo Gaia ha detto che è
sempre più un bene comunicare
l’identità del prodotto enogastronomico. Ecco, questo è il modello formativo che proporremo nel master».
L’inizio delle lezioni sarà a febbraio
e la durata del master, che avrà un
costo indicativo di quattro mila euro
più Iva, sarà di un anno. Oltre alle
ore di lezione frontale, 500 in tutto,
che si svolgeranno il lunedì, sono
previsti anche momenti laboratoriali, stage, ore di formazione a distanza e di visita ad aziende, cantine e
strade dei vini e dei sapori. L’Ais inoltre garantirà ai corsisti anche uno
stage altamente qualificato e qualificante. Internet e la conoscenza
della lingua inglese saranno fondamentali per la nuova figura professionale prevista dal master. È nel
web e in inglese infatti che si muove
il mercato internazionale del vino.
«Ogni anno», spiega Riccardo Carelli,
«formiamo ad Alma un migliaio di
studenti che vogliono approfondire
i temi della cucina e della gastronomia. Non formiamo solo cuochi ma
esperti e conoscitori dei prodotti,
delle tradizioni culinarie, dell’accoglienza e della ristorazione. Grazie
a questo modello formativo che si è
consolidato negli anni e ai contenuti dell’Ais siamo certi di poter colmare un vuoto».
Non c’è niente di più bello quando
si è tavola di avere qualcuno che sia
in grado di raccontarci ciò che c’è
dietro quello che mangiamo e beviamo. Si tratta spesso di una storia
che racchiude in sé numerose altre
storie interessanti e appassionanti. Il professionista che hanno in
mente Ais e Alma sarà in grado di
comunicare tutto ciò che è racchiuso nella scelta dell’abbinamento fra
un piatto e un vino ma anche quello che va oltre l’etichetta e che è dentro la bottiglia. Tecnica, linguaggio, capacità gestionali e sensibilità
nell’accoglienza faranno del nuovo
professionista una persona realmente ricercata nel mondo della sommellerie internazionale e dell’alta
ristorazione. Una cosa viene insegnata ad Alma da sempre, che il buono
è anche bello. E queste due qualità
faranno da cornice anche ai corsi
dell’Ais, da oggi con il master sommelier quarto livello, che unirà il bello
e il buono per fare della professionalità un valore esportabile e sul quale
puntare davvero. A novembre si svolgerà presso l’Alma il consiglio nazionale dell’Ais, a dimostrazione che la
collaborazione fra la scuola internazionale di cucina italiana e
l’Associazione italiana sommelier è
tutt’altro che formale.
Info sul master: 0521-525211 (Alma)
e 02-2846237 (Ais).
61
Turismo
Egitto:
turismo
per rilanciare
il
mito
Il Tempio di Horus, particolare L
di Elisa della Barba
hiedete a un bambino attorno agli otto anni quale periodo storico è il più affascinante, domandate a un adulto di menzionare una delle sette meraviglie
del mondo. Sollecitate un amico che
odia l’inverno a dirvi dove andrà per
le vacanze di Natale. Nel 90 per
cento dei casi, vi sentirete rispondere in quest’ordine: il periodo egizio, la Piramide di Cheope, Sharm
El Sheikh.
L’Egitto ha pervaso la nostra memoria, specie quella degli Italiani, perché molto di quello che rende magico il paese del nord-est africano
appartiene in fondo anche alla storia e alla bellezza della nostra civiltà ed è rimasto oggi prepotente a
ergersi – quasi immortale in tutto il
suo splendore – sulla caducità della
vita umana ma anche sulle opere
architettoniche contemporanee che
durano un battito di ciglia in confronto alle migliaia di anni delle pira-
C
62
midi. Secondo nella classifica delle
migliori destinazioni turistiche del
Medio Oriente, grazie all’organizzazione di conferenze e festival all’interno della Gulf Incentive Business
- Travel & Meeting Exhibition in
Egitto (2007), non sorprende che
l’Egitto sia meta turistica rilevante
specialmente per l’Europa e quindi
competitor dell’Italia.
Pur avendo registrato una forte crescita economica negli ultimi anni,
va detto che, nonostante questo sviluppo indubbiamente positivo, il
Paese mostra ancora un estremo
divario fra ricchi e poveri, che rappresentano la stragrande maggioranza.
Questa condizione è dovuta al
sovrappopolamento, problema non
affrontato adeguatamente dalle
autorità governative.
L’Egitto dipende moltissimo dagli
aiuti stranieri (oggi principalmente
forniti dagli Stati Uniti, dopo che i
ricchi Paesi arabi hanno tagliato ogni
collaborazione in seguito al trattato di pace dell’Egitto con Israele del
1979) e dagli egiziani che lavorano
all’estero, in particolare nei paesi
arabi produttori di petrolio.
Nota positiva è il turismo che rappresenta attualmente l’11,3 per
cento del prodotto interno lordo del
paese, il 40 per cento delle esportazioni totali dei beni di consumo e il
19,3 per cento dei ricavi da valuta
estera dell’Egitto (7,6 miliardi di dollari nel 2007).
Data l’importanza del ruolo di questo settore per l’economia dell’intero Paese, il ministero del Turismo
ha ideato un piano per incrementare la qualità del turismo egiziano e
fare sì che diventi competitivo a livello globale e attragga più turisti.
La scadenza è vicina: entro il 2010
l’obiettivo è riuscire ad attrarre 14
milioni di turisti, raggiungere 140
milioni di pernottamenti, mettere a
L Il tempio di Abu Simbel
disposizione altre 24.000 stanze
d’hotel, guadagnare 12 miliardi di
dollari di ricavi turistici e fornire 1,2
milioni di posti di lavoro.
Naturalmente per raggiungere questi traguardi si dovranno creare rapporti di collaborazione con i principali tour operator del Paese per
incrementare le vendite dirette al
cliente e migliorare le relazioni pubbliche internazionali attraverso uffici esteri, procurando servizi turistici di eccellente qualità.
Un passo avanti si potrebbe fare
partendo dalle infrastrutture, sviluppando le aree della costa e le zone
desertiche localizzate al di fuori delle
grandi città, cercando di appoggiarsi il più possibile, nel processo di
pianificazione e realizzazione dei progetti, ai settori privati, che oggi investono in strade, elettricità, acqua,
strutture sanitarie e aeroporti ben
3,3 miliardi di lire egiziane.
Impossibile menzionare l’economia
senza ricordare l’attuale crisi finanziaria globale, che sicuramente non
ha aiutato l’Egitto ma ha spinto il
Paese a riforme politiche ed economiche importanti. Questo ha permesso di reagire discretamente bene
e in tempi rapidi al momento difficile.
L’Egitto rimane comunque un paese
con una popolazione di circa 77
milioni di persone, su cui grava un
tasso di disoccupazione del 9,1 per
cento (2007) rispetto al 7 per cento
dell’Italia (2007). È migliorato il tasso
di disoccupazione per i non laureati, diminuito notevolmente negli ultimi anni.
La maggioranza della popolazione è
impiegata nel settore dei servizi,
come il turismo, seguito dall’agricoltura e dalla produzione industriale. Un terzo della manodopera è
impiegata direttamente nell’allevamento.
Il presidente Mubarak si è più volte
espresso sulla necessità di raggiungere un equilibrio fra stipendi e costo
della vita – equilibrio cui dovrebbe
aspirare anche l’Italia – ma resta il
fatto che a oggi il 40 per cento degli
egiziani si trova nelle fasce da estremamente povera (3,8 per cento) a
quasi povera (21 per cento).
Diversificata l’offerta turistica per
settore, si potrebbero creare nuovi
posti si lavoro. L’Egitto ha dalla sua
anche una grande forza: il clima
moderato tutto l’anno. Possiamo
paragonarlo alla situazione del Sud
Italia e delle isole: le possibilità per
un turismo a 360 gradi ci sarebbero, sono i mezzi economici che mancano.
Inoltre il paese dispone di un patrimonio archeologico e culturale inestimabile e unico: possiede un terzo
dei monumenti più importanti conosciuti al mondo.
Ecco che allora il ventaglio di alternative sulle quali l’Egitto investe,
63
Turismo
L Una delle numerose spiagge di Sharm El Sheikh, perfette per le immersioni o lo snorkeling
anche se per ora non abbastanza,
è piuttosto ampio: turismo ricreativo, culturale, balneare, religioso,
terapeutico, ecologico, da golf, safari, desertico, da yacht e marittimo.
C’è però un tipo di turismo su cui
l’Egitto ha puntato moltissimo negli
ultimi anni, perché sa di rappresentarne l’eccellenza: il diving ovvero le
immersioni subacquee.
Sharm El Sheikh è uno dei più
famosi centri di immersione del
mondo ed è stata premiata come
L La bandiera egiziana
64
migliore destinazione per immersione subacquea del globo nel 2007.
Per il suo particolare ambiente naturale e marino, infatti, attrae turisti
egiziani e internazionali.
La rinomata località turistica non
offre solo fondali di barriera corallina ma anche temperature molto
più calde e prezzi decisamente più
abbordabili dell’Italia, ragione per
cui molti europei hanno deciso di
investire in proprietà sul Mar Rosso
o di trascorrere comunque lunghe
vacanze invernali nel territorio, a
costo davvero contenuto. Chi è giovane e non si può permettere di
investire molto tempo e denaro può
puntare sulla multi-proprietà, tornata in voga a Sharm El Sheikh, cioè
l’usufrutto di uno stesso appartamento organizzato tra diverse famiglie che lo occuperanno a rotazione
in periodi differenti. Opzione interessante che non è molto in uso in
Italia e che invece il nostro paese
dovrebbe considerare maggiormente, visto che uno dei motivi addotti
dai turisti nazionali e stranieri che
rifuggono il nostro Paese è quello
che il pernottamento è molto più
caro rispetto ad altri paesi che non
hanno il nostro patrimonio artistico ma possiedono forse più senso
degli affari.
Anche il turismo congressuale ha
riscosso successo negli ultimi anni,
contando solo al Cairo 665 eventi,
incluse 132 conferenze anche internazionali, 235 mostre e 298 cerimonie; i festival rivestono una parte
importante: il Cairo International Song
Festival, il rinomato International Film
Festival (la città del Cairo è chiamata
la Hollywood del Medio Oriente) e il
Festival del Turismo e dello Shopping
hanno dato un buon ritorno in termini di frequenza.
Per l’Egitto siamo dunque a metà
strada: non si tratta di reinventare
un sistema ma di potenziare settori già esistenti che promettono bene
e, se possibile, da questi creare nicchie ancora più specializzate, in
modo da accontentare la più vasta
domanda possibile. Per ora il turismo egiziano copre il 23 per cento
del turismo nel Medio Oriente: 11,1
milioni di turisti hanno raggiunto il
paese nel 2007.
Nella classifica dei Paesi che visitano l’Egitto al primo posto c’è la
Russia, seguita dalla Germania,
dall’Inghilterra, dall’Italia e dalla
Francia. Sesta la Libia, prima nell’elenco fra i Paesi arabi.
Segno che l’Egitto ha qualcosa da
insegnare anche ai Paesi limitrofi
che riconoscono la grandezza del
suo patrimonio storico. E non sbagliano: nel 2008 l’Organizzazione del
L Le spezie sono un souvenir perfetto
Uno dei tipici supermarket egiziani M
Turismo mondiale ha premiato le
Piramidi di Giza come migliore attrazione turistica del mondo. Oltre alle
piramidi, i siti storici più famosi sono
Saqqara, complesso funerario dell’antica capitale egiziana Menfi;
Luxor, l’antica Tebe, che è stato
spesso chiamato “il più grande
museo a cielo aperto”, con il gruppo monumentale di Karnak; il tempio di Abu Simbel, sito archeologico risalente al XIII secolo a.C.
Ovviamente da non perdere è la
capitale, il Cairo, caotica ma affascinante e con essa il Museo egizio,
il più importante del mondo nel settore. E poi il deserto (Siwa, Bahariya,
Farafra, Dakhla, Kharga e Fayum
le principali oasi d’Egitto), la valle
del Nilo, da esplorare magari con
una mini-crociera, e le spiagge.
Tutto questo senza trascurare la
gastronomia. La cucina egiziana è
prettamente mediterranea e fa largo
uso di verdure, di legumi (ful) e di
prodotti locali. Le spezie sono parte
integrante delle pietanze come in
tutto il Medio Oriente, in particolare il cumino e il coriandolo, che rendono i piatti molto saporiti ma non
piccanti, e il sesamo: l’ingrediente
principale di una salsa tipica, la
tahina.
Il pasto inizia dagli antipasti, chiamati mezze, serviti con un pane spe65
Turismo
Tramonto sul Nilo L
ciale (shami) molto simile alla pita
greca, che sostituisce l’uso delle
posate.
Vengono serviti ravioli fritti ripieni
di carne o formaggio (sambousek),
involtini di pasta sfoglia infarciti di
carne o formaggio (fila); polpettine
di pasta di fave e spezie fritte (felafel), rape e cetrioli sotto aceto (turaci) e una crema di melanzane al
forno mischiata alla thaina e condita con limone, aglio e olio d'oliva
(baba ghannouj). Agli antipasti si
accompagna l’arak, un liquore d’anice molto rinfrescante.
Per quanto riguarda il pesce, quello del Nilo non è commestibile, mentre quello delle zone costiere è ottimo. Si trovano facilmente calamari, scampi, acciughe, sogliole, che
vengono cucinati sia fritti sia alla
brace.
La carne è sicuramente l’alimento
più utilizzato nelle cucine dei ristoranti ma per gli abitanti è molto
costosa e viene accompagnata da
riso e verdure. Le carni più comuni
sono quelle di montone e agnello,
cucinate alla griglia. L’agnello è
usato così spesso perché in passato, quando non era possibile l’utilizzo dei congelatori, la sua carne
era l’unica a non fare male anche
66
una volta deteriorata. La carne di
maiale è bandita poiché è proibita
dalla religione ufficiale dell’Egitto,
l’Islamismo. Tra i piatti più saporiti, gli spiedini di agnello macinato
(kofta meshweya), fettine sottili di
carne speziata con prezzemolo, grigliata su uno spiedo verticale
(kebab), fegatini fritti o cotti alla griglia e contornati da verdure (kalauwi).
Nei dolci, come nel tè, è smisurato
l’uso dello zucchero. Da provare le
L Tè egiziano
sfoglie di finissima pasta fillo con
ripieno di pistacchi, condito da sciroppo zuccherino (baklava).
Tornando alle bevande, gli alcolici
sono proibiti dalla religione. Si beve
caffè turco (ahwua) servito già zuccherato e il tè è la bevanda ufficiale. Per quanto riguarda l’enologia, il
vino ha fatto parte della cultura egiziana dall’inizio dei tempi: veniva
offerto insieme alle vivande ai sacerdoti. I vini prodotti erano soprattutto rossi, come dimostrano le raffigurazioni antiche che mostrano uva
dal colore scuro, tipica dei climi temperati.
L’Egitto oggi produce circa 20.000
ettolitri di vino all’anno, più o meno
la produzione dell’Inghilterra (bassissima in confronto a quella
dell’Italia). Ma si trovano vini di alta
qualità: per i bianchi, ottimo è lo
Shaharazade (12,5 per cento), dall’aroma delicato e fruttato, da provare rosè. Per i rossi, un vino molto
giovane ma meritevole è il Giannaclis
“Omar el Khayam”.
Numerose dunque le facce dell’Egitto
da esplorare, senza dimenticare però
che di storia, enogastronomia e cultura, anche se forse le facciamo
pagare un po’ care, ne ha da vendere anche il nostro Paese!
Oli d’Italia
La
nobiltà
dell’olio
di Francesca Cantiani
opo il grano e il vino, è l’olio il
prodotto più strettamente legato al nostro Paese. Su una
media produttiva nazionale di 6,5-7
milioni di quintali, le regioni del Sud
D
L Il museo dell'olio
Italia, Puglia, Calabria e Sicilia, hanno
un’incidenza sulla produzione italiana di circa il 90 per cento di tutto l’olio
di oliva che si produce ogni anno. Il
resto con una certa rilevanza se lo dividono la Toscana, la Liguria, l’Umbria
e l’Abruzzo. Quasi un terzo degli uliveti italiani risulta dislocato in Puglia,
dove intere aree sono punteggiate dalle
chiome argentee degli ulivi che, come
monumenti naturali, dai fusti millenari, contorti e nodosi, sfidano lo scorrere del tempo.
Attorno alla coltura dell’extravergine
pugliese sono nate, nei secoli, realtà
straordinarie, di cui un segno tangibile sono le masserie, quasi antiche
fattorie fortificate, che hanno fatto dell’olio d’oliva la loro stessa ragione di
vita. Una di queste si trova ad Andria,
nel cuore delle Murge, struggenti colline affacciate sul mare. A pochi passi
da Castel del Monte, lungo la via Appia
Traiana, nella contrada Torre di Bocca,
sorge la masseria Terre di Traiano.
L’imponente struttura si staglia netta
nella pianura dei campi di grano, circondata da distese immense di uliveti. Con il suo corpo completamente bianco domina i poderi e il paesaggio dell’Adriatico fino ai contrafforti
dell’Appennino. È un vero pezzo di storia, un passato che traspare dal quel
suo essere insieme raffinato palazzo
nobiliare e casa colonica.
L’architettura massiccia conserva
qualche lieve tratto moresco che con
il tempo si è addolcito, senza farle perdere però il suo fascino struggente e
solitario. Il patron dell’azienda è il
conte Ascanio Spagnoletti Zeuli, che
con la sua terra ha uno stretto legame, consolidatosi negli anni.
«L’olio per la Puglia rappresenta da
una parte una storia millenaria e dall’altra il 40 per cento dell’extravergine prodotto in Italia», dichiara. Ma per
chi è figlio di questa terra arida eppure generosa ha anche un altro significato. «Per me rappresenta un pae-
67
Oli d’Italia
L Il museo dell'olio
saggio dal quale non mi so più privare, perché pur essendo cresciuto a
Roma e avendo vissuto tra questi uliveti da sempre, oggi mi sento a disagio se, dopo una settimana, non vedo
il verde davanti agli occhi e non sento
il terreno morbido sotto i piedi. Forse
è l’età» scherza. «Gli anni portano a
riscoprire emozioni che da giovani non
si apprezzano. Sono sensazioni che
maturano con il tempo». E proprio il
tentativo di salvaguardare oggetti e
strumenti del lavoro contadino che il
tempo ha risparmiato, ha portato il
conte a creare un vero e proprio museo
dell’olio, con i pezzi di una tradizione
rinnovata, legata alla coltura locale
per eccellenza.
Le vecchie mole nel cortile già segnalano al visitatore che l’olio è di casa e
tuttora l’azienda si distingue per la
sua produzione. «Girando la Penisola»,
spiega Spagnoletti Zeuli, «avevo visto
musei bellissimi in Ligura, in Umbria,
nel Lazio, in Sicilia e in Abruzzo e mi
stupivo che la Puglia non coltivasse
con la debita attenzione quella che era
la storia dell’ulivo e delle tradizioni
delle generazioni passate. Forse anche
suggestionato dal fatto che mia moglie
è storica dell’arte e ha diretto la
Galleria Borghese a Roma, ho pensato che il museo fosse uno strumento indispensabile per le future generazioni, per capire la fatica dei padri
nel portare innovazioni di volta in
volta. Ho scoperto poi, con mia stessa sorpresa, che quello che è partito
come un sapiente restauro di archeologia industriale in realtà si è risolto
in un’operazione che ha salvato l’ultimo dei frantoi meccanici degli anni
Trenta presenti in questo territorio.
Era come se avendo trovato in garage
una vecchia Balilla invece di rottamarla, avessi deciso di restaurarla e di
68
Ascanio Spagnoletti Zeuli, titolare L
dell'azienda, a destra, con il
nipote Tommaso Meschini
costruirvi intorno la storia della tradizione della lavorazione e della sua
cultura». Il museo è collocato in tre
ampie sale, in quelle che alla fine
dell’Ottocento erano le scuderie e la
rimessa delle carrozze, e ospita circa
settecento pezzi, messi insieme dal
2001 dallo stesso proprietario, che ha
raccolto ciò che esisteva nella masseria, tirando via la polvere del tempo
e aggiungendo gli oggetti che spesso i
visitatori facevano arrivare dalle zone
limitrofe, affascinati dall’idea che nulla
andasse perduto e che il museo potesse testimoniare un passato importante per la storia della regione. «Negli
anni Trenta» aggiunge il patron dell’azienda, «la meccanizzazione aveva
fatto molti progressi, per cui si è ritenuto opportuno dedicare questi spazi
a qualcosa che rappresentasse quel
periodo. L’occasione di una nave in
disarmo nel porto di Bari ha offerto
il motore, costruito a Darmstadt in
Germania nel 1920, che è stato trasportato qui e ha consentito, attraverso il suo funzionamento, di muovere
tutti gli ingranaggi: le pompe, le pesanti macine di granito, le presse e la
dinamo, quest’ultima utile a generare, per la prima volta in un frantoio,
energia elettrica per l’illuminazione».
Il museo non è un semplice “contenitore” di oggetti ma esso stesso è
testimonianza del passato. Si possono osservare le presse utilizzate per la
prima spremitura. Il funzionamento
avveniva mediante carrelli su cui
erano impilati i fiscoli carichi di pasta
di olive macinata, che spinti su rotaie e attraverso un sistema di ingranaggi inseriti nel pavimento bianco di
L Alcune anfore conservate nel museo dell'olio
tufo calcareo, tipico della zona, venivano sistemati sotto le presse. L’olio
misto all’acqua di vegetazione si raccoglieva poi in canalette che lo convogliavano all’apposita vasca di raccolta e decantazione. L’olio si separava
per semplice affioramento.
«Quel sistema di lavorazione dell’olio
è un esempio della prima fase dell’industrializzazione dell’agricoltura pugliese» spiega il creatore del museo.
«La mia sensazione è stata che il frantoio meccanizzato con la vecchia macchina doveva essere restaurato e salvaguardato. Aveva lavorato fino al
1980, poi era rimasto fermo per vent’anni, a quel punto la macchina era
già storica e andava salvaguardata.
La scelta è stata saggia. Oggi non esiste più nessuno di questi frantoi, perché sono stati tutti smantellati; alcu-
ni dopo la caduta del Muro di Berlino
sono finiti oltre cortina, venduti ad
albanesi o ad altre popolazioni oltre
Adriatico. Da noi ormai erano macchine obsolete, lì invece sono state
usate per diversi anni». Ma lo spazio
espositivo, oltre a mostrare la lavorazione dell’olio in tutte le sue fasi,
con le enormi macine, le presse e i
macchinari, traccia una vera e propria storia del territorio. L’occhio si
perde tra le centinaia di lucerne, lampade, contenitori, ferri, oliere di vari
tipi, oggetti di uso comune, misure per
l’olio. E ancora ceramiche, ampolle,
giare, immagini, saponi, unguenti e
profumi all’olio di oliva, che provengono anche da paesi lontani. In gran
parte sono oggetti del secolo scorso
ma numerosi sono i frammenti di
anfore romane ed etrusche. «Sono con-
Il museo dell'olio L
servate antiche lucerne e vasi unguentali recuperati nelle tombe di Ruvo e
anfore olearie romane che si trovavano lungo le coste dell’Adriatico. Una
collezione che si è arricchita con donazioni ad hoc. Dalla nostra passione di
collezionisti il risultato è stato questo
museo».
Tutto ciò permette un fantastico viaggio nel tempo dove un filo d’olio rappresenta il filo di Arianna che conduce tra miti greci, usi e tradizioni
pagane e cristiane.
Ma c’è sempre un oggetto al quale si è
più legati. «Sì» confessa Spagnoletti
Zeuli. «Mi ha colpito molto un quadretto di una Madonna con il Bambino che
regge in mano un rametto di ulivo. È
dell’Ottocento e non è altro che la riproduzione della Madonna dell’Oliveira,
venerata nella chiesa di Santa Maria
del Mar a Barcellona, nel centro storico. Mi sono reso conto di quanto fossero vicine queste due culture: quella
pugliese (la Puglia è stata vicereame
della Spagna) e quella spagnola, con
la città di Barcellona. Inoltre da qualche anno uno dei miei figli lavora proprio a Barcellona e forse non avrei scoperto questo legame se non fosse stato
per il motivo affettivo».
Ma in fondo l’amore per la terra è una
grande passione o anche un pizzico di
business?
«Credo che per fare diventare business
l’agricoltura oggi ci voglia coraggio perché è un periodo in cui si preferisce
vendere le aziende. Ricordo mio padre
che diceva: “Badate bene che la terra
non ha mai dato calci”. Oggi capisco
che è così, che bisogna amarla e attraversare i momenti di alti e bassi, come
in qualsiasi altro ciclo economico, ma
che tutto sommato questi momenti
non sono mai né troppo alti né troppo bassi. Esattamente come la terra».
69
Oli d’Italia
Contro il logorio
della vita moderna,
l’olio di qualità
di Luigi Caricato
Q
uando si dice spiazzare la gente. A me capita spesso di mettere in difficoltà le persone nel momento in cui esprimo un pensiero in pubblico. Amo
stupire, mettendo in crisi coloro che vanno avanti per la
propria strada convinti di avere la verità dalla propria
parte, fatta di certezze inespugnabili. E così accade che al
minimo tentennamento, alcuni di questi signori dalla verità preconfezionata su misura, si irrigidiscano in maniera
perfino comica, entrando subito in crisi, e dimostrando di
non avere risposte razionali e credibili per sostenere le
proprie tesi. Vi spiego subito cosa intendo dire con ciò. Di
questi tempi in cui va molto di moda la pubblica denuncia, alcuni signori entrano volentieri a far parte di quella
neo categoria di persone che io definisco “talebane”, che
tendono ad accusare volentieri quelle aziende che per meriti guadagnati direttamente sul campo, e cioè sui mercati, diventano via via sempre più grandi, crescono e si affermano diventando realtà produttive importanti, quanto
però incomprese. Incomprese, visto che per alcuni detrattori tali aziende di successo sarebbero colpevoli di essere
proprio per questo “disoneste”, solo perché acquistano
l’olio da terzi e lo rivendono, diventando “industriali”
(che brutto e infelice termine). Ma è evidente che diventando grandi, queste aziende non sono più aziende produttrici in senso stretto, poiché si trasformano in realtà
commerciali. Andranno dunque a cercare olio in giro, da
poter imbottigliare, e talvolta si renderà necessario ricorrere anche a oli esteri, pur di soddisfare l’offerta. Dov’è
dunque il problema? È che vi sono soggetti che pur di avere
visibilità pubblica, si trasformano in moralizzatori e in
detrattori di queste grandi aziende, tendendo così ad attribuire loro tutte le anomalie del comparto olio di oliva. E
così si addossa ai grandi marchi, tutto ciò che di torbido
esiste all’interno del comparto, fino ad attribuire loro un
profilo di prodotto di scarsa qualità, se non rivolgere addirittura l’accusa di immettere in commercio dei finti extra
vergini. Non è così. Per mia natura faccio il possibile per
smontare punto per punto alcune di queste stupide e inutili dicerie che si ascoltano in giro. Purtroppo, ciò che non
si comprende è il motivo per cui per tutti gli alimenti le
grandi aziende non spaventano, per l’olio invece sì. È strano, o no? Si va a comperare la pasta, il riso, il tonno, i sott’oli e quant’altro serva per nutrirci, senza stare tanto a
sottilizzare se l’azienda sia di tipo indutriale o meno ma
70
sull’olio è guerra aperta. È un conflitto che dura da decenni, che non riguarda certo i consumatori ma un gruppo
ristretto di soggetti dediti per vocazione a comportarsi da
talebani, sostenendo che piccolo sia bello e sano e che ciò
che è grande sia cattivo e corrotto. Non è così, non cadete nelle trappole di chi getta fango sul comparto. C’è spazio per tutti, per il piccolo, per il medio e per il grande. È
un falso problema quello sollevato da chi denigra le grandi aziende. La questione delle frodi e delle sofisticazioni
dei prodotti agroalimentari può riguardare chiunque.
Per nostra fortuna esistono organismi di controllo efficienti e capaci, che svolgono un lavoro egregio e non facile. C’è
da essere sicuri, l’importante è non scegliere solo in funzione del prezzo. La qualità ha più volti e i prezzi di conseguenza oscillano in base al prodotto verso cui ci si orienta: c’è quello di alta gamma, quello di qualità media e quello che si attesta invece su livelli minimi che rientrano però
nei parametri previsti dal legislatore. Anche quest’ultimi
oli hanno una loro dignità: sono gli oli destinati al consumo di massa e non possono essere vituperati. Ciò che
si deve pretendere da un olio extra vergine di oliva è che
sia genuino, verace, non frutto di cialtronerie. È su questi termini che ci si deve confrontare, non su meschinerie che sfociano in accuse assurde e meschine. In ragione del mio ruolo super partes, difendo perciò a spada tratta tutti gli attori della filiera, dai piccoli ai giganti, senza
distinzioni né preferenze. Ai piccoli dedico spazi significativi. Grande è la sfida condotta, ad esempio, da un uomo
spettacolare che risponde al nome di Josephus Mayr. A
Bolzano – proprio così: in Alto Adige! – il vignaiolo Mayr
produce da qualche anno a questa parte un ottimo extra
vergine, seppure con la paura di perdere tutto da un
momento all’altro per qualche possibile gelata. Noi gli auguriamo grande fortuna, visto che aiuta sempre gli audaci.
Non per questo si devono denigrare gli oli delle grandi
aziende di marca. Occorre onestà intellettuale e riconoscere la pluralità di espressione. Ciò che conta è che sulle
tavole vi siano oli puri e genuini. Non lasciatevi ingannare da chi getta fango sul comparto, separando i vari protagonisti. Ritorneremo sull’argomento, per fare maggiore
chiarezza. Per intanto, sull’onda di uno spot televisivo, vi
invito ad apprendere l’arte di distinguere e apprezzare le
differenti qualità dell’olio: contro il logorìo della vita moderna, affidatevi a extra vergini dalla qualità certa.
GLI ASSAGGI
“Unterganzner” è un blend ottenuto dalla molitura di oltre venti varietà differenti di olive, tra cui Cima di Melfi, Leccino e Pendolino.
Nel bicchiere. Giallo, è limpido alla vista. Al naso ha note fruttate di
media intensità, che si aprono pulite e fresche, con netti sentori erbacei. In bocca ha buona fluidità e morbidezza, gusto vegetale di carciofo e richiami di frutta bianca e mandorla, nelle sensazioni retrolfattive. Nel complesso è armonico, con una sensazione di dolce al
palato. In chiusura punta di piccante e rimandi al limone.
L’abbinamento. Tagliatelle di zucca, insalata di chioggia con mela
verde e finocchi, trote al cartoccio con cavolfiore alle noci.
ALTO ADIGE
ERBHOF UNTERGANZNER MAYR
Erbhof Unterganzner di Josephus Mayr: 39053 Bolzano, frazione Cardano,
via Campiglio 15, tel. 0471. 365582, [email protected]
GUERRIERI RIZZARDI
Nel bicchiere. È giallo oro dalle lievi sfumature verdoline, limpido alla
vista. Al naso ha profumi che rimandano alla frutta bianca e note
erbacee marcate e persistenti. Al palato è morbido e rotondo, equilibrato nelle sensazioni amare e piccanti. In chiusura una lieve punta
di piccante e chiari rimandi alla mela e alla mandorla.
L’abbinamento. Spaghetti al pesto di olive, frittata di cipolle, involtini
di fesa di tacchino con cremolata di verdure.
VENETO
“Guerrieri Rizzardi”, Dop Garda Orientale, da olive Casaliva, Leccino
e Pendolino.
Azienda agricola Guerrieri Rizzardi, 37011 Bardolino (Verona), via Verdi 4,
tel. 045.7210028, [email protected], www.guerrieri-rizzardi.com
FRANTOIO GALANTINO
Nel bicchiere. Giallo oro e limpido alla vista, al naso ha profumi fruttati di media intensità, con rimandi netti all’erba di campo. Al gusto
è armonico e morbido, pulito, con note amare e piccanti in ottimo
equilibrio. Sapido e dal gusto vegetale, ha buona fluidità e potere
condente. In chiusura una punta piccante e una nota di mandorla.
PUGLIA
“L’Affiorato” è ottenuto dalla molitura di olive Ogliarola, Coratina e
altre.
L’abbinamento. Orecchiette al pomodoro, purea di fave e cicorie,
orzotto con fiori di zucca e mozzarella.
Frantoio Galantino, 70052 Bisceglie (Bari), via Vecchia Corato 2, tel.
080.3921320, [email protected], www.galantino.it
“Rocca de’ Rossi” è un blend da olive prodotte in Sicilia (Nocellara e
Biancolilla) e in Abruzzo (Dritta).
Nel bicchiere. Giallo dai riflessi verdolini, è limpido all’aspetto. Al naso
ha profumi fruttati intensi con chiari sentori vegetali e netti rimandi al
pomodoro. Al palato è morbido e tendenzialmente dolce al primo
impatto, ha gusto mandorlato e note amare e piccanti ben dosate.
In chiusura il ritorno dei toni vegetali, unitamente a una lieve e persistente punta di piccante.
L’abbinamento. Couscous alle carote con maggiorana e olive, insalata di farro con asparagi e zucchine, tagliata alla rucola.
Coppini Arte Olearia-L’Albero d’Argento, 43017 San Secondo Parmense
(Parma), strada Al Grugno 3-4, tel. 0521.8776, [email protected]
SICILIA E ABRUZZO
L’ALBERO D’ARGENTO
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Birra di qualità
Natale,
tempo di birre…
speciali
di Maurizio Maestrelli
PRODUZIONI
PARTICOLARI
PER UN PERIODO
DELL’ANNO SPECIALE.
UNA
TRADIZIONE,
QUELLA DELLE BIRRE
DI NATALE, TIPICA DEI
PAESI NORD-EUROPEI,
CHE HA PERÒ
INCONTRATO
L’INTERESSE ANCHE
DEI NOSTRI BIRRAI.
ECCO
ALLORA
QUALCHE ETICHETTA
DA NON PERDERE…
L Divina, versione natalizia
72
Q
uando inizia il Natale? È una domanda che mi faccio tutti gli anni
assistendo al posizionamento sugli scaffali di panettoni, pandori,
torroni e panforti già alla metà di ottobre. La legge dei supermercati è, a mio avviso, ansiogena. Sei appena rientrato dalle vacanze estive ed ecco
le castagne autunnali, con il moderno corredo di zucche per Halloween. Non
fai nemmeno in tempo ad accendere il fuoco, per le castagne ovviamente, che
arriva il simpatico vecchietto con relativa barba bianca e sacco sulle spalle.
E il giorno dopo l’Epifania è già Carnevale. Mastichi rapidamente un paio di
frittelle e già pensi alla colomba e all’uovo di Pasqua. Alla fine fai solo in tempo
ad acquistare una piscina gonfiabile, prima di andare in ferie e ricominciare
questo sincopato ottovolante del consumismo di inizio del Terzo Millennio.
Forse è necessario rallentare un po’. E proprio il Natale mi sembra il periodo
ideale. I parenti, il calore della casa, il freddo fuori, un paio di giorni almeno
di riposo assoluto con l’unico assillo di fare tombola. Il momento perfetto
per assaggiare con la dovuta calma produzioni un po’ speciali quali sono le
cosiddette “birre di Natale”. La calma è quello che ci vuole perché, pur non
essendo qualificabili come un vero e proprio stile, le birre di Natale hanno
molto spesso un’alta gradazione alcolica. La tradizione vuole che siano caratteristiche dei paesi del Nord Europa, sicuramente hanno avuto e hanno tuttora molto successo in Belgio e da lì si sono poi “allargate” alla Gran Bretagna,
agli Stati Uniti e, finalmente, anche all’Italia. Alta gradazione alcolica, spesso anche alta fermentazione, non raro utilizzo di spezie per una netta intensità di profumi e aromi, un gusto tendenzialmente dominato dalla dolcezza,
un corpo notevole con la vena alcolica che “riscalda”: questo potrebbe essere, a grandi linee, il ritratto di una birra di Natale. Perché in realtà, prima di
andare avanti, si deve fare una premessa sull’argomento. Ovvero le birre di
Natale non sono quelle birre che riportano sull’etichetta il Babbo del Polo Nord,
renne volanti, agrifoglio e spruzzate luccicanti di neve, piuttosto quelle che in
primo luogo sono stagionali ossia si fanno in un determinato periodo dell’anno e corrispondono suppergiù all’identikit che avete letto qualche riga
sopra. Una precisazione doverosa perché altrimenti si rischia di far passare
per “ricetta speciale” quello che invece è abile soluzione di marketing. Perché,
in effetti, le birre di Natale piacciono anche dalle nostre parti. Piacciono tanto
agli stessi birrai artigiani che si sono messi di buzzo buono a inventarne alcune di molto pregevoli. Ci sono tuttavia certamente delle birre commerciali che
ci sentiamo di consigliare: la notevole Samichlaus Bier, ad esempio, svizzera
di nascita e austriaca di adozione da ben 14% vol. prodotta nel giorno dedicato a San Nicola, il 6 dicembre, e capace di stagionare in cantina per anni.
Oppure la Bush de Noël, 12% vol. di colore ambrato e splendido equilibrio.
E ancora la Affligem Nöel, con la quale si scende un po’ di gradazione (9%
vol.), o la Gordon Christmas, 8.8% vol. Per quanto poi non siano propriamen-
te considerate delle birre di Natale, l’idea di poterle sorseggiare seduti comodi sul divano o mettendo a rischio i
propri molari su del torrone tradizionale, ci fa pensare e
suggerire un barley wine, tradotto “vino d’orzo”, come la
Thomas Hardy’s Ale, 12% vol. “ideali prima di coricarsi”
come suggeriva lo stesso Michael Jackson. Oppure, sempre di barley wine si tratta, la Anchor Old Foghorn, californiana di grande carattere. Infine, magari anche solo per
stupire i parenti, cercate la canadese Quelque Chose, birra
da 8% vol. e speziata alla ciliegia che la tradizione vuole
servita calda se non addirittura bollente come un buon
vin brulé.
Citiamo etichette facilmente reperibili nel nostro Paese,
nei tanti beershop aperti nella Penisola perlomeno ma che
non esauriscono certamente le possibilità di sperimentare birre “natalizie”. Mancano infatti le birre artigianali italiane che abbiamo menzionato e che rappresentano uno
dei tanti sintomi della creatività di questi piccoli ma effervescenti produttori. In Piemonte, ad esempio, i fratelli
Borio, Enrico e Alessandro, con il loro Beba (www.birrabeba.it) producono la Birra di Natale e la Re Magi; sempre in Piemonte il birrificio omonimo (www.birrificiopiemonte.com) realizza per le feste invernali comandate la
Natalina, aromatizzata con miele di castagno, il Le Baladin
(vedi scheda di degustazione) la Noel, il Birrificio Torino
(www.birrificiotorino.com) fa la sua Birra di Natale aromatizzandola con cannella e altre spezie e il Troll di
Vernante, in provincia di Cuneo (www.birratroll.it), risponde con la Stella di Natale, scura ad alta fermentazione
di 10.5% vol. In Lombardia il Bi-Du di Rodero, Como
(www.bi-du.it), produce in stagione uno straordinario barley wine chiamato Xtrem, il Doppio Malto (www.doppiomalto.it) sempre nel comasco fa la sua Little Bells con
scorze d’arancia e miele, il Lambrate (vedi scheda di degustazione) la Brighella, la Manerba Brewery (www.maner-
babrewery.it) la Bon Noel, una belgian strong ale scura.
E, ancora, il Birrificio Menaresta (www.birrificiomenaresta.com) di Carate Brianza (Milano) propone la Figueira,
una triple rifermentata con fichi secchi, l’Orso Verde di
Busto Arsizio (www.birraorsoverde.com) una Birra di
Natale da 8% vol. Infine altre birre natalizie sono riconducibili al ligure Maltus Faber (www.maltusfaber.com),
al bolognese Beltaine (www.beltaine.com), ai parmigiani
Panil (www.panilbeer.com) e Birrificio del Ducato (www.birrificiodelducato.it), al grossetano Birra Amiata (www.birraamiata.it) e al senese Birrificio L’Olmaia (www.birrificioolmaia.com), fino ai laziali Birra del Borgo (www.birradelborgo.it), Birrificio Turbacci (www.birraturbacci.it) e
Birrificio Ostiense Artigianale (www.boabirra.it), all’abruzzese Almond ‘22 (www.birraalmond.com), al siciliano La
Terra e il Sole (www.laterraeilsole.it) e al sardo Barley
(www.barley.it).
Insomma, un elenco quasi interminabile e sicuramente
non completo ma anche un compendio molto intrigante
per spingersi nell’avventura dell’assaggio delle specialità
birrarie natalizie o invernali volendo un po’ allargare la
definizione. L’importante, come sempre, è trovare la qualità e incontrare il proprio gusto. Ma, soprattutto, concedersi e concedere alla birra scelta il tempo necessario
per poterne apprezzare il profilo aromatico o, magari, l’azzeccata combinazione con qualche dolce: certe birre natalizie si sposano bene anche con il panettone tradizionale
a base di uvetta e canditi o con qualche formaggio stagionato. Il tutto con la dovuta calma che si ottiene, o si
dovrebbe ottenere, nei giorni clou delle feste. Poi, una
volta conquistati come speriamo, la vostra migliore birra
di Natale vi sarà di conforto per altri giorni ancora, aiutandovi magari a superare leggeri gli acquisti per l’Epifania
e quelli per la Pasqua. In merito alla piscina gonfiabile
però, non possiamo davvero assicurare nulla.
SCHEDE DI DEGUSTAZIONE
Brighella
Nöel Baladin
Produttore:
Birrificio Lambrate - Milano
(www.birrificiolambrate.com)
Produttore:
Birrificio Le Baladin
(www.baladin.it)
Birra natalizia del noto brewpub milanese, disponibile
anche in bottiglia. Si presenta di bel colore
dorato, con riflessi
aranciati e una
bella schiuma
compatta. Intensa
e fruttata, con evidenti note di miele
al naso, ha una
bella struttura supportata dagli 8.2% vol. e
un finale assai lungo,
ancora dominato da
dolci note fruttate. Si
può sperimentare abbinandola
a un tagliere di formaggi stagionati o con delle penne al gorgonzola dolce e noci.
La birra di Natale firmata
da Teo Musso ha avuto un
tale successo da trasformarsi in produzione
annuale e perciò sempre
reperibile sul mercato.
Malto d’orzo, da filiera
moralmente controllata,
luppolo, lievito e zucchero
di canna grezzo, da commercio Equo e solidale,
per una birra di alta fermentazione e di 9% vol. davvero sontuosa
e godibile, speziata e caratterizzata da note di tostatura e di
caffè. Ottima come dopocena, si
sposa bene con brasati e cacciagione. Da provare anche la
Nöel Café, aromatizzata proprio
con una miscela di caffè.
Mönchshof
Weihnachtsbier
Produttore:
Kulmbacher Brauerei
Distributore: Kulmbacher Italia
(www.kulmbacher.de)
Disponibile sul mercato solo
da ottobre a dicembre, la
Weihnachtsbier è uno dei
gioiellini di questa birreria
bavarese nota per una
costante produzione di
qualità e per l’attaccamento alle tradizioni brassicole della zona. Poco alcolica, 5.6% vol., per essere
una birra di Natale la
Weihnachtsbier compensa
con il suo aroma finemente luppolato e un corpo piacevole ed
equilibrato. Una scura che si beve
bene anche come aperitivo precenone o, in versione informale,
con una bistecca alla valdostana.
73
Distillati
Grappa,
il distillato legato
al
territorio
di Angelo Matteucci
origine della grappa, come per molti altri distillati, è sconosciuta anche se c’è ragione di credere che nacque tra la povera gente probabilmente nel Medioevo quando il vino era bevanda dei
nobili e dei proprietari terrieri mentre ai braccianti e ai
contadini rimaneva lo scarto del mosto per ricavarne
un vinello e per essere distillato, producendo così uno
spirito atto a compensare la propria dieta limitata e
povera. La principale produzione avviene tuttora nel
Settentrione e spazia dal Piemonte al Friuli. La Sardegna,
con “Filu ‘e Ferru”, è nota da tempo per il suo distillato di vinaccia.
Negli ultimi decenni, comunque, la distillazione di grappa si è estesa ad altre regioni del territorio italiano. Per
potersi definire grappa, termine destinato esclusivamente all’Italia (e al Canton Ticino) il distillato deve
essere prodotto da vinacce provenienti da uve coltivate in Italia e distillate nel nostro paese in alambicchi
discontinui per la produzione artigianale o continui prevalentemente utilizzati dall’industria, seguendo regole
dettate dal regolamento ministeriale.
È per gli italiani il simbolo del distillato legato al territorio, al nostro retaggio, al freddo, alla nebbia, al tabarro. Prodotta come specificato quasi esclusivamente
nell’Italia settentrionale, raggiunse una notorietà tra i
soldati durante il Primo conflitto mondiale con la concentrazione nel Triveneto di giovani italiani. Sono
L’
74
Le distillerie artigianali Nonino a L
Ronchi di Percoto (UD)
proprio i soldati che, al loro ritorno a casa, furono i
primi “ambasciatori” del nostro distillato nelle varie provincie. Occorre attendere, comunque, la fine del Secondo
conflitto mondiale per trovare una distribuzione nazionale della grappa con fasi alterne di grande sviluppo e
di recessione. In auge durante il boom economico italiano, subì una notevole flessione negli anni Ottanta.
In quel periodo vi erano molte grappe in commercio di
qualità non idonea al buon nome del nostro distillato.
Oggi, per fortuna, la produzione è notevolmente migliorata grazie all’impegno iniziale di un numero ristretto
di grandi maestri distillatori che, con la loro tenacia
lungimiranza, adottarono alcune regole fondamentali,
utilizzando esclusivamente vinaccia fresca, non ammuffita (è impossibile nascondere l’odore e il gusto di muffa
che giunge fino al prodotto finito). In passato la raccolta delle vinacce avveniva alla rinfusa senza distinzione
tra uva bianca e rossa con tempi di consegna alla distilleria particolarmente lunghi rispetto alla pressatura
delle uve bianche e alla vinificazione delle uve rosse.
Alla distilleria le vinacce venivano inserite in grandi
vasche di cemento attendendo anche qualche mese
prima di essere distillate. Malgrado l’abilità dei distillatori e l’elevata tecnologia degli alambicchi, il risultato non era sempre soddisfacente. Occorre ricordare che
a partire dagli anni Cinquanta cominciarono i viaggi
per un sempre più ampio strato della popolazione che
Cristina Nonino in una fase
della distillazione
venne a contatto con altre culture. Si venne a conoscenza, in quel
periodo, che in altri Paesi certe
distillazioni avvenivano con tecniche più attente allo scopo di
raggiungere il miglior risultato.
Ci si accorse, ad esempio, che
nell’area della produzione dello
Champagne, le vinacce venivano
lavorate praticamente poche ore
dopo aver effettuato la soffice
spremitura per la vinificazione in
bianco. Il prodotto distillato in
questa regione è conosciuto come
“Marc de Champagne”. Alcuni
distillatori italiani decisero di
rivolgersi ai vicini viticoltori per
avere disponibili le vinacce di uva bianca appena terminata la spremitura soffice e la vinificazione in bianco. Ciò significa che le vinacce a quel punto freschissime, contengono praticamente solo mosto e le bucce
sono ancora ricche dei freschi aromi tanto utili per ottenere un prodotto finito con un’ampia gamma olfattiva
e tretrolfattiva. I mastri distillatori iniziarono quindi a
vinificare le vinacce di uve bianche, riducendo al minimo il pericolo di ossidazione e di deperimento della
materia prima. La distillazione di queste vinacce generalmente avviene oggi separatamente dalle altre a uva
rossa.
Quest’ultime, che contengono alcol, essendo rimaste
con il mosto durante la vinificazione, normalmente sono
poste in silos o compresse in sacchi ermetici per essere distillati al più presto. In alcuni casi troviamo ancora le vasche di cemento indicate sopra. L’industria utilizza in genere esclusivamente distillatori continui a
colonna mentre le più piccole aziende artigianali usufruiscono di alambicchi a vapore o a bagnomaria e, in
casi ormai rari, a fuoco diretto. Se le vinacce non possono essere conservate nelle migliori condizioni e soprattutto se la distillazione si protrae nel tempo può crearsi una concentrazione di alcol metilico eccessiva che
è eliminata con un ulteriore passaggio in colonne di
demetilazione o rettificazione.
In questo caso, oltre all’alcol metilico, sono eliminati
anche esteri e altre sostanze con il conseguente maggiore appiattimento del prodotto finito dal punto di vista
olfattivo. Questo nuovo
distillato, in alcuni casi,
è miscelato con grappa
proveniente da alambicco tradizionale.
Si è accennato al fatto
che alcuni distillatori,
con il loro impegno,
hanno modificato in
meglio la nostra grappa.
È doveroso citare la
famiglia Nonino che per
prima, nel 1973, distillò la grappa monovitigno (la prima fu con il
famoso vitigno Picolit), creando
un nuovo metodo di concepire la
grappa, sempre contadina ma
allo stesso tempo rinnovata e
innalzata all’attenzione del più
sofisticato consumatore.
La grappa così prodotta da un
unico vitigno ha tracciato un
nuovo sentiero che in questi trentacinque anni è diventato un’autostrada. L’idea iniziale è stata
quella di vinificare separatamente vinacce di uva aromatica (vedi
moscato) ma oggi purtroppo si è
allargata a molteplici uve senza
peraltro avere un vero e proprio
significato dal punto di vista
olfattivo e gustativo.
Anche se in passato alcune marche di grappa erano
notevoli, possiamo asserire che le migliorie effettuate
in questi lustri hanno portato un maggior numero di
marchi a livello apprezzabile. Resta tuttavia ancora
molta strada da percorrere.
Le grappe disponibili sul nostro mercato sono:
N grappa giovane o grappa bianca che riposa in recipienti di acciaio inox per almeno sei mesi
N grappa affinata in legno che riposa da 6 a 12 mesi in
botti o barili
N grappa invecchiata che matura oltre 12 mesi in botti
o barili. Dal legno riceve il colore
N grappa riserva o stravecchia che matura almeno 18
mesi in botti o barili
N grappa monovitigno, univitigno, di vitigno prodotta
con almeno l’85 per cento di vinaccia da uva di singolo vitigno indicato in etichetta
N grappa aromatica prodotta da vinacce di uva aromatica quali moscato, gerwurtztramminer o semi aromatica quali muller-thurgau, prosecco, sauvignon
blanc
N grappa aromatizzata con aggiunta di erbe, radici, ecc.
che donano al prodotto specifiche caratteristiche
N È consentita l’aggiunta di caramello come colorante
naturale
N È consentita l’aggiunta di massimo il 2 per cento di
zucchero per ammorbidire il prodotto, rendendolo
meno secco.
Quando troviamo la dicitura “Acquavite di vinaccia” il
prodotto potrebbe essere distillato all’estero o comunque con vinacce da uva non prodotta in Italia.
Le definizioni per aree di produzioni riconosciute sono
le seguenti:
N grappa del Piemonte o piemontese
N grappa di Barolo
N grappa della Lombardia o lombarda
N grappa del Trentino o trentina
N grappa dell’Alto Adige o Sudtiroler Grappa
N grappa del Veneto o veneta
N grappa del Friuli o friulana
N grappa di Sicilia o siciliana
N A queste tipologie si aggiungono grappe distillate in
altre regioni, non specificate in etichetta.
75
Distillati
Pisco,
tradizione e orgoglio
del
Perù
di Riccardo Castaldi
l Pisco è un distillato di mosto d’uva fermentato, prodotto sul versante occidentale del Sudamerica, la
cui origine è motivo di un’annosa disputa tra Perù
e Cile. I numerosi documenti storici non danno però
adito a dubbi, assegnando la paternità di questa acquavite al Perù.
Per delineare la storia del Pisco si deve partire dall’arrivo della vite sul suolo peruviano, avvenuta attorno al
1550 non direttamente dalla Spagna ma dalle Isole
Canarie.
Secondo quanto riportato dallo storico Garcilaso de la
Vega, il primo vino venne prodotto nel 1555 a Cusco,
capitale dell’Impero Incas situata sulla Cordigliera delle
Ande a 3.400 metri sul livello del mare, nei tenimenti
di Bartolomé de Terrazas.
La nascita del distillato viene invece verosimilmente
collocata verso la fine del XVI secolo mentre, anche se
il primo documento ufficiale in cui viene menzionato è
il testamento di un cittadino di Ica, Pedro Manuel “el
Griego”, datato 30 aprile 1613, nel quale si fa riferimento a un lascito comprendente sia Pisco sia una serie
di attrezzature per la sua produzione.
La produzione di Pisco, iniziata in sordina e per un consumo poco più che familiare, conobbe un repentino
aumento a partire dalla metà del XVII secolo ovvero
dopo che la corona spagnola, sotto la forte pressione
I
76
dei produttori della madrepatria, impose misure protezionistiche che di fatto impedivano l’importazione di
vino dal Perù, divenuto in pochi decenni il principale
produttore di vino sudamericano e un temibile competitore, per via dei più bassi costi di produzione. A seguito di questa azione, i produttori di vino peruviani si trovarono improvvisamente a dover gestire un significativo surplus produttivo per cui, oltre a cercare nuovi
sbocchi di mercato nelle altre colonie, diedero impulso
alla distillazione.
Il Pisco divenne ben presto l’acquavite prediletta dai
lavoratori e dai marinai che facevano la spola tra il Perù
e la Spagna o tra il Perù e le altre colonie, soprattutto
in virtù del prezzo contenuto rispetto a quello di altri
distillati ritenuti a quei tempi più pregiati. Grazie proprio ai marinai, la sua popolarità e il suo consumo crebbero enormemente anche in altri paesi, tanto che le
esportazioni arrivarono in breve tempo a eguagliare
quelle del vino.
III Un nome preispanico
Come ampiamente documentato, il nome “Pisco” è indiscutibilmente peruviano in quanto non appartiene alla
lingua spagnola ma bensì alla lingua quechua, anticamente diffusa in Perù assieme all’aymara, e significa
“piccolo uccello”. Gli Incas utilizzarono la parola “Pisco”
L Il Pisco
Un alambicco
per indicare l’area costiera che si estende a circa 200 chilometri a sud di Lima,
nella quale si diffuse la coltivazione
della vite dopo l’arrivo dei conquistadores, in quanto particolarmente ricca
di avifauna.
Non è da escludere però che il nome
possa derivare dalle bottiglie di argilla nelle quali il distillato veniva inizialmente commercializzato dagli spagnoli ovvero i piskos, manufatti tradizionali che venivano prodotti già oltre duemila anni fa dall’omonima comunità
indios che popolava la regione.
Il legame del nome al territorio peruviano è sancito definitivamente dal fatto che “Pisco”,
oltre ad essere il nome di un fiume, è il nome della
cittadina costiera situata vicino a Ica e alle famose linee
di Nazca, dal cui porto il distillato veniva imbarcato,
tanto che originariamente era conosciuto come “aguardiente de Pisco”.
III A sud di Lima ma non solo
L’area di produzione a denominazione d’origine, che
ricalca la zona viticola peruviana, si estende a sud di
Lima e comprende, oltre al dipartimento della capita-
le, anche quelli di Ica, Arequipa
Moquegua e Tacna; circa l’80 per cento
dei distillatori si concentrano nel dipartimento di Ica, nel quale rientrano i
distretti di Pisco e Chincha. Esistono
tuttavia alcune località di produzione
anche al nord della capitale, quali
Moro, Ancash e La Libertad, che rivendicano l’allargamento dell’area a denominazione d’origine al loro territorio.
In Perù si contano circa 180 distillatori che producono un milione e mezzo
di litri di Pisco, anche se la produzione è di fatto in mano a una decina di
aziende, spesso produttrici anche di vino, che hanno
la capacità di commercializzare il loro prodotto su tutto
il territorio nazionale e soprattutto di esportarlo; tra
queste aziende si ricordano Bodegas Vista Alegre,
Bodegas de Viñedos Tebernero, Viña Tacama e Santiago
Queirolo. La maggioranza delle aziende produttrici
hanno carattere artigianale e in molti casi commercializzano il loro prodotto sfuso o con un confezionamento approssimativo, sul mercato locale. Il livello qualitativo proposto da molti di questi piccoli produttori è
comunque eccellente, per cui può essere interessante
lasciarsi condurre - da viaggi organizzati o da taxi
77
Distillati
L Una pressa peruviana
non abusivi - alla scoperta del Pisco, in uno scenario
caratteristico, fatto di piccole distillerie ubicate in molti
casi in vecchie costruzioni dall’aspetto pittoresco; il
migliore periodo per visitare la zona è febbraio - marzo
ovvero quello concomitante con la vendemmia.
III Otto vitigni per quattro tipologie
La quasi totalità dei produttori ha vigneti in proprietà, anche se è piuttosto diffuso l’acquisto di uva sul
mercato nelle annate in cui vi è forte richiesta del prodotto. Le varietà di uva contemplate dalla norma tecnica che regolamenta la produzione del Pisco, menzionate come uvas pisqueras, sono rappresentate da
Quebranta, originatasi sul suolo peruviano per mutazione, da Negra corriente, diffusa anche in Cile e in
California e ritenuta il primo vitigno introdotto dagli
Spagnoli, e da Mollar, Italia, Moscatel, Albilla, Torontel
e Uvina.
Il Pisco viene classificato in quattro categorie, riportate in etichetta; la tipologia “Pisco Puro” viene ottenuto
da uva non aromatica ovvero Quebranta, Uvina, Mollar
e Negra corriente, mentre la tipologia “Pisco Aromático”
si elabora a partire da Albilla, Italia, Moscatel e Torontel
e prende il nome direttamente dal vitigno, ad esempio
“Pisco Italia”. Vi sono poi il “Pisco Mosto Verde”, che ha
la particolarità di derivare dalla distillazione di mosti
non completamente fermentati, e il “Pisco Acholado”,
che si distingue per il fatto di essere ottenuto a partire da un uvaggio o dal taglio di mosti di varietà aromatiche e non aromatiche. Il Pisco viene commercializzato con una gradazione che può essere compresa tra 38°
e 48° alcol. La gradazione alcolica raggiunta con la distillazione è quella definitiva di commercializzazione, dato
che il disciplinare di produzione, a differenza di quello di altri distillati prodotti in Sudamerica, non consente di raggiungere gradazioni superiori e di abbassarle
tramite l’aggiunta di acqua.
Questo distillato è l’ingrediente base del cocktail nazio78
nale peruviano, il Pisco Sour, inventato nel suo bar di
Lima dall’americano Victor Morris. La ricetta prevede
che siano shakerati energicamente 2 parti di Pisco, 1
di succo di lime, 1 di sciroppo, 1 di albume d’uovo e
ghiaccio; dopo aver versato il contenuto dello shaker in
un bicchiere ghiacciato, vi si aggiungono alcune gocce
di Angostura.
III Dai lagares alle tinajas
Anche se i produttori di più grandi dimensioni si sono
dotati di attrezzature moderne per la lavorazione dell’uva, come ad esempio diraspatrici, presse pneumatiche e cisterne in acciaio, buona parte del Pisco continua ad essere prodotto secondo la caratteristica metodica tradizionale. L’uva vendemmiata viene riposta in
casse e trasportata fino alla cantina, la bodega, dove è
distribuita all’interno di una platea in cemento delimitata da un muretto in pietra, chiamata lagare, nella
quale viene pigiata con i piedi da una squadra composta in genere da sei pisadores o trilladores, che operano dall’imbrunire fino all’alba, per evitare le alte temperature giornaliere. Nel corso della pigiatura gli addetti, tra canti e scherzi, si dissetano con il chinguerito,
un cocktail ottenuto con mosto fresco, Pisco, limone,
chiodi di garofano e cannella. Terminata la pigiatura si
procede alla pressatura con la cosiddetta prensa de
palo, un torchio di legno di guarango che sormonta il
lagare stesso. Il mosto ottenuto, tramite una serie di
canalette giunge all’interno della cantina e viene raccolto nella puntaya, un contenitore dove sosta brevemente al fine di consentire il deposito delle fecce più
grossolane prima di essere smistato verso le tinajas,
contenitori di terracotta della capienza variabile tra 300
e 400 litri, nei quali avviene la fermentazione alcolica.
III Tra alambicchi e falcas
Appena terminata la fermentazione, il vino ottenuto è
avviato alla distillazione, in modo che il processo abbia
L Tinajas, contenitori di terracotta in cui avviene la fermentazione alcolica
inizio prima che possa raffreddarsi. La distillazione
avviene utilizzando tre tipi di alambicchi ovvero alambique simple, alambique con calientavinos e falca. La
prima tipologia è l’alambicco classico, costituito da una
caldaia di rame, riscaldata a gas o a gasolio, dove viene
collocato il vino, la quale è sormontata da un capitello
da cui si diparte un collo d’oca che raccoglie i vapori e
li convoglia in una serpentina refrigerata, dove si ha
la condensazione e l’ottenimento del distillato; la seconda tipologia si compone dei medesimi elementi, con l’aggiunta di una seconda serpentina che si diparte direttamente dalla caldaia, la quale viene refrigerata con
vino, che è così immesso in distillazione già preriscaldato. Il distillatore tradizionale è la falca, inizialmente
concepita per far fronte alla difficoltà di reperire alambicchi. La particolarità delle falcas è infatti quella di
avere una camera di ebollizione costruita con mattoni
e cemento, chiusa inferiormente da un paiolo di rame
e superiormente da una volta in muratura; nella volta
è presente un’apertura, chiusa ermeticamente durante la distillazione, dalla quale viene immesso il vino da
distillare. Sotto al paiolo si trova invece il forno a legna,
nel quale si brucia generalmente legna di algarrobo,
un’essenza molto diffusa nell’area costiera del Perù.
Dalla parte superiore della camera di ebollizione si diparte il cañón, una condotta conica di rame, leggermente
inclinata verso il basso, che raccoglie i vapori e, attraversando una vasca di acqua fredda detta alberca, ne
consente la condensazione. Nella parte inferiore del
paiolo è presente una seconda condotta, che viene utilizzata per lo sgrondo delle fecce a fine distillazione e
delle acque di lavaggio. Le falcas, in uso presso i produttori più piccoli, consentono di ottenere le produzioni considerate più fini, ricercate dagli amanti del Pisco.
Prima di essere imbottigliato e avviato al mercato, il
Pisco soggiace a un periodo di affinamento di almeno
tre mesi in contenitori di vetro o di acciaio, come previsto dalla norma tecnica.
III Un nome per due prodotti
La controversia tra Perù e Cile si basa sul fatto che il
governo peruviano considera il nome “Pisco” una denominazione d’origine legata al proprio territorio, rivendicandone di conseguenza l’esclusività di utilizzo, mentre il governo cileno lo considera un nome generico di
distillato, al pari ad esempio di brandy, ritenendosi in
diritto di utilizzarlo liberamente. Il Cile ha dalla sua
parte il fatto di utilizzare il nome già da lungo tempo e
di avere ottenuto il riconoscimento ufficiale del suo
distillato da parte di molte nazioni, grazie al proprio
peso a livello internazionale. In realtà il Pisco prodotto in Cile, pur provenendo sempre dalla distillazione
del vino, presenta un profilo organolettico estremamente differente da quello peruviano, come conseguenza
sia dei vitigni impiegati sia della tecnica produttiva adottata. Il Pisco cileno viene prodotto nella III e IV regione, nelle aree di Atacama e Coquimbo, partendo dalla
distillazione di vini ottenuti da Moscato giallo, Moscato
bianco precoce, Moscato d’Alessandria, Moscato
d’Austria, Moscato di Canelli, Moscato di Frontignan,
Moscato d’Amburgo, Moscato nero, Moscato rosa,
Moscato arancio, Pedro Jiménez e Torontel. La produzione è di tipo industriale e avviene utilizzando alambicchi di rame, con i quali si ottiene un distillato grezzo con una gradazione generalmente compresa tra
55° e 60° alcol ma che può spingersi fino a 70° alcol.
Dopo un invecchiamento in botte di alcuni mesi, che
può protrarsi più a lungo per i prodotti di maggior pregio, il distillato viene eventualmente tagliato per migliorarne le caratteristiche, diluito con acqua demineralizzata al fine di ottenere una gradazione compresa tra
30° e 50° alcol, quindi filtrato e imbottigliato.
Il Pisco cileno viene classificato in quattro categorie in
funzione esclusivamente del contenuto alcolico; troviamo così il “Pisco Corriente o Tradicional” con 30° alcol,
il “Pisco Especial” con 35° alcol, il “Pisco Reservado”
con 40° alcol e il “Gran Pisco” con 43° alcol.
79
Acqua
L’acqua
amica
del
formaggio
di Davide Oltolini
abbinamento cibo-acqua è, senza dubbio, uno
dei temi oggi maggiormente innovativi a livello
enogastronomico. Estremamente affascinante
è l’abbinamento con i prodotti caseari. Ricordiamo che
acque che appaiono gradevoli da bere da sole acquisiscono un particolare interesse se correttamente abbinate, aumentando, in questo modo, il piacere offerto al
palato.
Una corretta analisi delle caratteristiche organolettiche
del cibo, che vengono evidenziate tramite un esame visivo, olfattivo e gustativo, unitamente a un giudizio sull’equilibrio tra queste diverse sensazioni è, chiaramente, indispensabile ai fini della realizzazione di un opportuno abbinamento, proprio come avviene per i prodotti della viticoltura. Per quanto riguarda le acque, proprio come per il vino, lo sviluppo delle attitudini percettive, appare assolutamente indispensabile.
La conoscenza da parte del sommelier delle corrette tecniche dell’accostamento cibo-acque, oltre a essere sinonimo di preparazione professionale, permette una maggior sicurezza nell’approccio con il cliente. Nel corso
della degustazione del cibo vengono percepiti vari, diversi, sentori che, con il seguente assaggio dell’acqua, possono equilibrarsi con essa o, in alternativa, a seconda
della correttezza o meno dell’abbinamento, evidenziarsi con una maggiore intensità. Ai fini dell’accostamento con le acque, in merito alle caratteristiche degli
alimenti, all’aspetto gustativo verrà assegnato un rilievo superiore rispetto agli aspetti visivi, olfattivi e retrolfattivi.
L’
80
Come più volte rammentato, per quanto concerne
l’aspetto visivo si dovranno, ovviamente, prendere in
considerazione gli stimoli meccanici, quali ad esempio
la succulenza, quelli chimici e quelli gustativi propriamente detti, cioè i quattro sapori primari, ovvero
dolce, salato, acido, amaro, ma anche, in particolare
per i prodotti caseari, l’umami, il cosiddetto “quinto
gusto”. Anche per le acque, come per i prodotti enologici, la presenza di una certa freschezza, cioè di una
sensazione di acidità, equilibrerà la tendenza dolce presente nel formaggio, offrendo un ottimale bilanciamento di tale sensazione organolettica. La “grassezza”
tipica del formaggio, come pure di molti altri alimenti,
crea una sorta di sottilissima patina, la cui entità varia
a seconda del cibo preso in considerazione, che va a
ricoprire le papille gustative. Tale particolare fenomeno può essere mitigato dall’acidità della bevanda ma
anche dalla pungenza dell’acqua stessa, dovuta, nelle
acque effervescenti, alla presenza di CO2. Per queste
ultime, ai fini dell’abbinamento, deve essere presa in
considerazione, oltre alla percentuale di anidride carbonica disciolta nella bevanda, anche il cosiddetto “perlage”, ovvero l’aspetto e le dimensioni delle bollicine presenti. Queste possono essere minute, cioè appena percettibili alla vista, di media grandezza oppure grossolane e particolarmente evidenti. Un’altra peculiarità,
che riveste un’enorme importanza per la scelta fra le
diverse acque, è quella dei sali in esse contenute oltre,
naturalmente, alla loro quantità.
Proprio come accade per il vino sarebbe, perciò, utile,
nonché necessario da parte del sommelier, osservare
sempre le etichette delle differenti acque, verificandone il contenuto e le caratteristiche. Per quanto riguarda i formaggi, come per gran parte degli altri alimenti,
è impossibile pensare a un unico abbinamento che risulti idoneo per le numerosissime, diverse, tipologie presenti sul mercato. Volendo generalizzare, con tutte le
evidenti controindicazioni che tale modalità di operare comporta, non conoscendo in anticipo quale prodotto caseario ci verrà sottoposto, potremmo ipotizzare un
accostamento con un’acqua di collina, lievemente salina, dal fine perlage, che potrebbe rappresentare un
buon compromesso per l’accostamento a molti, differenti formaggi. Volendo addentrarci maggiormente nelle
tematiche dell’abbinamento “idrico” potremmo ipotizzare l’abbinamento di prodotti caseari freschi con acque
oligominerali ovvero con un tenore in sali minerali compreso tra 50 e 500 mg/l (anche se ci orienteremo, preferibilmente, verso acque dal residuo fisso non superiore a 250 - 300 mg/l), che siano piatte (cioè lisce) o
solo leggermente effervescenti. Per prodotti caseari stagionati opteremo, invece, sempre per acque oligominerali (ma con un tenore in sali a partire da 250 – 300
mg/l) o per acque cosiddette mediominerali, cioè con
un residuo fisso intermedio tra quello delle acque oligominerali e quello delle acque ricche di sali minerali,
e che risulterà, pertanto, essere tra i 500 ed i 1.500
mg/l.
Il numero dei diversi formaggi presenti sul mercato è,
però, elevatissimo, tanto da consentire o meglio da
richiedere necessariamente, ulteriori livelli di approfondimento. Prodotti freschi o prodotti usualmente poco
stagionati, quali Burrata, Robiola, Quartirolo lombardo, Crescenza o Salva cremasco preferiranno acque
morbide, dalla ridotta acidità e dalle caratteristiche
gustative che non evidenzino una particolare persistenza. Prodotti dalle caratteristiche gusto – olfattive più
intense, quali Bitto, Asiago d’allevo, Emmental ed
Emmentaler, Fontina, Gruyere o Castelmagno apprezzeranno acque di buona struttura, dalle note gustative maggiormente marcate e, in taluni casi, dalla maggiore acidità. Peculiarità queste ultime che, in linea di
massima, ben si adattano anche a formaggi erborinati quali il Roquefort, lo Stilton o il Gorgonzola, tipologia casearia per la quale la corretta scelta dell’acqua
risulta, comunque, di una certa difficoltà e richiederebbe una valutazione maggiormente ponderata caso
per caso. Formaggi a lenta maturazione come il Pecorino
Romano, il Montasio, il Grana Padano o il Parmigiano
Reggiano amano, invece, acque con una certa sapidità e persistenza, oltre a un “importante” residuo fisso.
Un discorso a parte meritano, infine, i prodotti caseari approntati con latte diverso da quello vaccino come,
ad esempio, i formaggi di capra. Questi, in particolare,
si caratterizzano per le classiche sensazioni olfattive e
gusto – olfattive di particolare intensità, le quali possono, però, essere validamente equilibrate da acque che
evidenzino una buona corposità dovuta a un residuo
fisso di una certa rilevanza il quale doni, nel contempo, un’ottimale complessità alla bevanda stessa.
81
Novità editoriali
Duemilavini,
il libro guida
ai vini d’Italia
stata presentata a Roma l’edizione 2010 di
Duemilavini, il testo guida allo straordinario
momento che il vino italiano sta attraversando.
La pubblicazione, che si riconferma a livelli di assoluto prestigio, si propone a un pubblico di amatori, di
appassionati e di professionisti. Un testo eccellente che
si distingue dalle altre guide perché è senza pubblicità
e vede la sua realizzazione grazie al lavoro di oltre sessanta degustatori dell’Associazione italiana sommelier
e di una redazione composta da docenti dell’Ais.
Duemilavini, Il Libro Guida ai Vini d’Italia è suddiviso in
tre sezioni. La prima illustra la tecnica della degustazione e dell’abbinamento cibo-vino. Segue una parte storica e di ricerca sul territorio in cui, regione per regione, vengono indicate le Doc e le Docg, i prodotti Dop e
Igp. La terza parte, fulcro della pubblicazione, presenta le aziende e i vini prodotti: circa 1.600 le aziende
È
82
recensite, oltre 16.000 i vini descritti. Una pagina per
ogni azienda completa di logo, descrizione, scheda con
tutte le informazioni utili al lettore: dalla data di fondazione a come arrivarci, la degustazione di tutti i vini prodotti, le relative valutazioni, gli abbinamenti con i cibi
e infine le etichette dei vini premiati con i 5 Grappoli.
E dopo il grande successo dell’esordio dello scorso anno,
ritorna la nuova edizione de I Ristoranti di Bibenda.
Questa pubblicazione si pone l’obiettivo di fornire notizie utili su luoghi deputati a far vivere il vino in armonia con il colore, il profumo e il gusto dei piatti che rappresentano il patrimonio del nostro Paese.
Sono 1.800 i ristoranti recensiti in tutta Italia, con l’indicazione di indirizzo, telefono, sito internet, numero di
coperti e di etichette in carta, giorni di chiusura, prezzo medio e, ovviamente, la valutazione espressa in Baci,
da 2 a 5.
Sommelier nel mondo
Paese che vai,
usanze
che trovi!
di Thomas Sartori
idea dei Caraibi, per coloro che non hanno avuto
la possibilità di verificare di persona, è associata a spiagge meravigliose e vita spensierata.
Perlomeno è così che li descrivono tutti i cataloghi dei
tour operator. In realtà, quando si abbandona l’aspetto turistico, ci si accorge presto che si tratta di luoghi
in cui la quotidianità è simile, per
molti aspetti, a quella di altri
Paesi. Come nella maggior parte
delle economie di queste aree esiste un forte divario tra le fasce
sociali, con enormi differenze tra
ricchi e meno abbienti; il numero di persone facoltose è assai
ridotto rispetto alla massa, però
detiene un potere d’acquisto
enorme che, in termini di vino,
si traduce in cifre inimmaginabili e terribilmente attrattive,
soprattutto in un momento di difficoltà e di crisi nelle vendite a
livello internazionale.
L’Ais Caribe, per la realizzazione
L’
dei corsi ufficiali, si è appoggiata, ad esempio, alla principale compagnia, El Catador, che, con un portafoglio
di circa cento cantine da tutto il mondo e un fatturato
di varie decine di milioni di dollari, detiene più del 60
per cento del mercato della Repubblica Dominicana.
Questi numeri sono ridicoli se paragonati al più grande importatore di vino e bevande di Puerto Rico che con le sue
seicento cantine e un fatturato
di circa 600 milioni di dollari rappresenta la “follia pura” se si considerano gli appena 4 milioni di
abitanti dell’isola.
L’Ais Caribe ha intrapreso una
relazione con questa compagnia
per iniziare a operare anche a
Puerto Rico con corsi ufficiali in
spagnolo. La scelta di queste collaborazioni si deve a un motivo
fondamentale: l’importanza delle
pubbliche relazioni per il conseguimento dei risultati. Si tratta
di Paesi dove senza il potere di
83
Sommelier nel mondo
Thomas Sartori, relatore dei corsi Ais a Santo Domingo
“leva” dei leader non si ottiene alcun
risultato.
Ripensando all’inizio di quest’avventura, che si è trasformata ben presto
nella mia vita, ricordo come se fosse
oggi, nonostante siano passati già tre
anni, che quando pensavo alla carta
dei vini del ristorante che dovevo
gestire a Cap Cana in Repubblica
Dominicana, l’Amarcord, per quella
parte di cuore e spirito legati alla
Romagna, (uno dei progetti turistici
più importanti, fagocitato anch’esso
dalla crisi internazionale), immaginavo diverse pagine
dedicate ai vini bianchi più importanti e interessanti
del mondo, visto che, secondo logica, dovevano rappresentare il connubio ideale con la grande quantità di
pesce che può regalare il mare attorno all’isola. Proprio
la logica rappresenta la parola chiave di questo mondo...
perché di un mondo differente si tratta. Come mi hanno
insegnato appena sbarcato dall’aereo: dove finisce la
logica, inizia la Repubblica Dominicana, con i lati positivi e quelli negativi.
Il vino bianco, se includiamo anche i vini spumanti,
forse arriva a rappresentare il 20 per cento del consumo. Il gusto del dominicano è fortemente sbilanciato
verso il vino rosso e, in particolare, verso quei vini che
rappresentano l’opulenza, molto spesso senza il supporto dell’eleganza. Un palato educato a suon di Jack
Daniels e Brugal è difficile da convertire, in poco tempo,
alle sensazioni che regalano un grande vino di Cȏte
de Beaune, un aromatico altoatesino o un Riesling della
Rheingau.
L’Ais Caribe ha accettato la sfida. Da circa un anno
abbiamo dato una svolta alla delegazione caraibica con
importanti cambi gestionali e abbiamo iniziato a dedicarci alla diffusione della cultura del vino con corsi di
tutti i tipi, attività, degustazioni, conferenze, fiere e
manifestazioni. I risultati sono sorprendenti, nei primi
mesi del 2010 arriveremo, se tutti i candidati supereranno l’esame finale, ad avere quasi un centinaio di
sommelier Ais in più nei nostri tabulati; siamo riusciti a realizzare il primo concorso miglior sommelier della
Repubblica Dominicana e il vincitore parteciperà al
prossimo concorso miglior sommelier del mondo 2010.
L Una Casa de Colón
84
L’altro lato del mondo enogastronomico è la cucina, assai diversa e lontana
dalla nostra, anche se, sotto alcuni
aspetti, molto interessante, soprattutto per l’interessante uso della frutta
come accompagnamento (ananas,
aguacate, mango).
La gastronomia dominicana è abbastanza semplice, con ingredienti poveri che non possono mancare durante
i pasti principali. Uno dei piatti tipici
si chiama proprio la “Bandera dominicana”: si tratta di riso bianco alla
“criolla”, fagioli rossi e carne (principalmente manzo o
maiale). Impossibile che un dominicano non mangi
almeno una volta al giorno questi alimenti. Sempre pensando alla famosa logica, l’ultima cosa che, ad esempio, un italiano vorrebbe mangiare, in un Paese dove
la temperatura media è di 35 gradi, è una zuppa. E non
parliamo di un brodo vegetale ma di una vera bomba
calorica: il “Sancocho”. È realizzato con carne mista
(maiale, manzo, pollo), patate, platano, zucca, yuca
(mandioca), legumi, mais e, a volte, anche pesce. Si
serve bollente e accompagnata con il tradizionale riso
bianco. Abbinamento? Cerveza e solo della marca nazionale Presidente, una pilsner gradevole e fresca che si
lascia bere con estrema facilità... anche troppa!
Temperatura di servizio, un paio di gradi sopra lo zero,
tanto che quando si stappa, lo sviluppo di CO2 all’in-
L I Tostones
terno ne provoca il congelamento con immediata sostituzione.
Esiste poi un ingrediente che rappresenta un importante elemento nella dieta del dominicano: il platano.
Nella versione verde, si prepara in ricette differenti. Tra
le più popolari ci sono i deliziosi e dietetici “Tostones”,
in cui viene tagliato a rondelle, fritto, schiacciato e fritto una seconda volta, e il famoso “Mangu”, un puré che
rappresenta la colazione tipica dominicana, accompagnato da uova fritte, cipolla fresca passata in aceto, formaggio fritto e salchicha (una interpretazione criolla di
grano molto più sottile della salsiccia tradizionale). Nella
versione “maduro” si prepara in fettine sottili e fritte,
molto interessante come accompagnamento quando si
ha bisogno di sensazioni più dolci da abbinare al piatto principale. Esiste una credenza popolare sul platano secondo la quale questo frutto inibisce o addirittu-
La Bandera Dominicana L
ra danneggia le cellule celebrali. Non ho mai approfondito l’argomento però, considerando che risulta molto
appetitoso, preferisco gustarmelo e morire un po’ più
stupido... D’altronde non è pur vero che le cose che
fanno male sono quelle più gustose?
Una cosa i dominicani non sanno fare: rispettare gli
alimenti in relazione alle cotture, soprattutto delle carni.
Se si chiede un filetto di manzo “termino medio” ci si
troverà di fronte a una carne che risulta stracotta.
Per non sbagliare, se si desidera che la carne rimanga
succulenta, si deve usare il “termino vuelta–vuelta”,
che significa praticamente scottata, e arriverà una carne
che avrà superato il tempo di cottura ideale e risulterà abbastanza succosa. Ciò chiaramente non succede
in alcune steak house di stile americano dove le cotture sono quasi sempre corrette.
I dominicani non sono amanti del pesce e se lo mangiano il sapore deve essere coperto con salse e condimenti. È molto facile che un cliente che si trovi a mangiare pesce fresco, si lamenti perché “sa di pesce”, un
aroma di mare che qualsiasi chef vorrebbe salvaguardare. La mancanza di cultura in tema di pesce viene
dal fatto che non esiste nella Repubblica Dominicana
una flotta di pescatori che offra al mercato prodotti di
qualità. I pescatori sono improvvisati e la famosa catena del freddo per garantire la qualità del prodotto non
esiste. Il pesce, prima di entrare in un frigorifero, può
anche passare un paio di giorni in un camion con ghiaccio che, chiaramente, si scioglie dopo alcune ore.
Nella cucina popolare esiste l’abitudine di marinare con
spezie, erbe e aceto le carni, trasformandone e alterandone il sapore; questa pratica si rende necessaria poiché le “macellerie” o “pescaderie” delle fasce meno
abbienti sono, in realtà, chioschi lungo la strada, senza
frigorifero o ghiaccio per la conservazione... La carne si
appende al sole in attesa dei clienti.
Pur essendo estremamente legati al riso e ai fagioli, i
dominicani adorano la cucina italiana, con una predilezione per la pasta e in particolare la lasagna.
Apprezzano la pizza che non vedono come un pasto
principale ma come uno snack o un accompagnamento durante la cena.
L’emozione di girare il mondo non è data solamente
dalla possibilità di scoprire luoghi diversi: la crescita
più importante è riuscire a integrarsi con una cultura
differente senza dimenticare le proprie origini e, soprattutto, senza pretendere che la cultura e le tradizioni
di un popolo si adeguino alle nostre, poiché siamo lì in
veste di ospiti.
85
Vino che passione!
Sangiovese,
sintesi della Romagna
e del buon vivere
di Annalisa Raduano
a tendenza lo stile di vita sano,
il lifestyle e anche il vino si
adegua alle tendenze salutiste. Negli ultimi tempi infatti è un
fiorire di buone abitudini che investono i consumatori sempre più
attenti alla qualità. Si predilige la
spesa nei mercati contadini o l’acquisto direttamente in azienda, la
tracciabilità delle produzioni, i marchi di tutela, va alla grande l’orto dietro casa e i prodotti genuini: abitudini queste che riflettono il mutamento sociale in atto, tutto a favore di una filosofia di vita ispirata al
benessere. E la Romagna, terra cele-
F
L Nerio Alessandri, Fondatore e
Presidente di Technogym e socio di
Altavita
86
bre per l’ospitalità e il buon vivere,
può essere la sintesi di questa nuova
filosofia, dove anche le cantine si
adeguano, coniugando produzioni
d’eccellenza e marketing mirato.
Ne è un esempio la cantina Altavita,
che si trova a Cesena, nel cuore della
Romagna. La cantina nasce nel
2006, acquisita dagli attuali proprietari che hanno dato vita a un progetto ispirato proprio al lifestyle,
all’alta qualità della vita. Ne sono
soci l’imprenditore Nerio Alessandri,
patron di Technogym (azienda celebre nel mondo per la produzione di
attrezzature per il wellness) e l’agri-
Enrico e Alessandro Giunchi L
coltore Enrico Giunchi. Il marchio
Altavita deriva dallo spunto iniziale
“Alla Vita”, ellissi di “Io brindo alla
vita”. In questo caso il significato è
legato all’anima aziendale, che vuole
essere portatrice di valori come il
benessere, la cura dell’anima e del
corpo, in quanto filosofia di vita diffusa nel territorio dell’azienda.
I vigneti di Altavita si estendono per
circa 20 ettari sulle prime colline
cesenati, tutti ordinatamente sparsi in un lembo di territorio che termina sotto l’ombra del suggestivo
castello di Sorrivoli. Una fascia altimetrica compresa tra 100 e 300
metri, fatta di terreni calcarei attraversati in alcuni casi dalla vena del
gesso, che si riflette con caratteristiche davvero particolari sulle uve.
Allevati a cordone speronato con una
densità di impianti compresa tra
3.500 e 5.500 ceppi per ettaro, i
vigneti di Altavita sono di diverse età.
La conduzione dell’azienda è biologica, le rese bassissime, proporzionate alle piccole produzioni previste
di vino, di olio, di grappa e altre tipicità. Questa è infatti la valle delle
eccellenze, un giardino fiorito di alberi da frutta che colorano le campagne come uno dei migliori dipinti
impressionisti dove sull’orizzonte non
manca un richiamo alla costa festaiola, la riviera dista solo 12 chilometri da qui. La cantina Altavita è volu-
tamente sobria nello stile architettonico degli ambienti e nella produzione di vino, così come lo è la
Romagna, che cela gelosamente forti
tradizioni rurali. Essa è collocata
in una suggestiva vallata, proprio
all’ombra dell’abbazia del Monte di
Cesena, antica, austera e affascinante emblema religioso e sociale di una
città ricca di storia. L’Abbazia di S.
Maria del Monte si trova sul Colle
Spaziano, a dieci minuti dal centro
di Cesena. La struttura è prevalentemente rinascimentale, anche se le
origini del complesso risalgono all’anno 1000. Spicca la raccolta di tavolette votive (ex-voto), con esemplari
che vanno dal XV secolo ai giorni
nostri. Altavita si trova nel mezzo
di un percorso naturale, frequentatissimo (i Gessi) ed è a solo due
minuti dal centro della città. Una
città storica che vede testimonianze importanti come la Malatestiana,
la più antica biblioteca al mondo
voluta da Malatesta Novello, signore della città. La “libraria Domini”
viene portata a termine nel 1452
ed è rimasta l’unico esempio di
biblioteca a tre navate, conservata
integralmente nell’architettura. I
volumi custoditi sono circa 300.000.
Un patrimonio al quale si aggiunge
il corpus malatestiano con 341 codi87
Vino che passione!
ci manoscritti dei secoli IX-XV e 48
volumi a stampa dei secoli XV-XVIII.
Visitando il centro storico (la
Cattedrale, il Palazzo del Ridotto, la
Piazza del Popolo, il Palazzo Albornoz,
la Loggetta veneziana) non può mancare una visita alla Rocca Malatestiana, possente struttura difensiva
che domina la città e la pianura.
All’interno della Rocca si può cogliere lo stretto legame tra agricoltura,
tradizioni e territorio visitando il
Museo di Storia dell’agricoltura. Così
come la storia di Cesena anche la
cantina Altavita è bella e impregnata di tradizioni, riviste con la rimodernizzazione degli ambienti, seguita alla nuova società tra i Giunchi
e la famiglia Alessandri. Una cantina in chiave moderna che sposa la
filosofia del buon vivere e che racconta di amore per la propria terra,
proporzionata alle piccole produzioni previste. «La conduzione della
nostra azienda è biologica», spiega
Enrico, che di professione fa l'agricoltore, accogliendomi sulla veranda ventilata, dove si vinifica il passito. Quella del passito è una bella
storia rurale ed Enrico la racconta
con poesia: «La strana corrente che
caratterizza il pergolato della cantina ha un potere nascosto che rende,
in termini vinicoli, più qualità di ogni
teoria enologica. Il vento infatti porta
consiglio e chi ascolta i ritmi della
natura non può ignorare i venti, così
insieme con mio fratello abbiamo
messo al bando la teoria e applicato
88
la tradizione: facendo l’appassimento delle uve sotto il nostro pergolato, poi scelto il giorno di San Martino
per la pigiatura (l’estate di San
Martino è l’11 novembre) con un
risultato eccezionale che ha sorpreso anche il nostro enologo. Il vino
battezzato Solesia viene, non a caso,
dedicato al sole, elemento essenziale per la qualità delle uve. La poesia “San Martino” del Carducci non
poteva descrivere meglio la nascita
di Solesia: colline spesso velate dalla
nebbia, il maestrale che soffia sotto
il pergolato e... tra mito e realtà si
genera un miele liquido che diverrà
poi vino dalle intense sensazioni».
Le uve derivano da un vecchio vigneto dall’eccezionale esposizione. Si
tratta di 100 per cento Albana.
L’appassimento è su graticci all’aria
per due mesi, la schiacciatura è
manuale e la pressatura soffice, la
fermentazione in rovere francese così
come l’affinamento che sigilla il nettare per 18 mesi e poi la passa in
bottiglia. Sugli abbinamenti con
Solesia, ci si può sbizzarrire, accostandolo alla pasticceria tradizionale, da queste parti la ciambella romagnola la fa da padrone, ma è piacevole anche con formaggi erboinati,
con il formaggio di Fossa Dop, caratteristico di questo territorio. Come
già detto l’espressione più tipica della
Romagna è il Sangiovese, se riuscirà ad affermarsi definitivamente nei
mercati internazionali, potrà essere il prodotto più rappresentativo
di questa terra: il Sangiovese come
sintesi liquida della Romagna.
Non a caso il primo vino prodotto
da Altavita è Evoca, un Sangiovese
di Romagna Doc Superiore 2007 presentato al Vinitaly 2008 in degustazione e in commercio da maggio, con
9.999 bottiglie prodotte (più 1, in
casa Alessandri) e 900 Magnum. Il
vitigno è 100 per cento Sangiovese,
la fermentazione e l’affinamento
avvengono in vasche di acciaio inox,
passa poi in bottiglia per non snaturane i sentori. A tavola è ottimo con
il pollo romagnolo alla cacciatora, i
formaggi, gli affettati, perfetto con le
tante varianti gastronomiche che si
richiamano alle tradizioni che si
incontrano nei numerosi ristori lungo
la via Emilia, celebre strada impregnata di sapori. Sempre Sangiovese,
ma Doc Superiore Riserva, è Tempora
che nasce da un’attenta selezione
delle uve raccolte nelle aree più vocate e soleggiate. «Anche per questo
vino, il nome gioca con significati etimologici. Per scegliere i nomi dei vini
infatti, c’è stato un ragionamento
aziendale ispiratosi alla descrizione
del vino stesso, in una logica di positività: Tempora fa una sosta in barrique – spiega Alessandro Giunchi,
fratello di Enrico – ha un procedimento più complesso, è un Sangiovese più strutturato che come dice
il nome stesso, ha bisogno di tempo.
È fitto al colore e al profumo, trova
buona morbidezza da contrapporre
alla sua struttura tannica». Tempora
lega con piatti forti: il cinghiale in salmì, la polenta e l’agnello farcito. Riguardo ai bianchi, in azienda si produce Diapente, un IGT: «Particolarissimo»
dice Enrico, che durante la visita in cantina si
alterna nel ruolo di cicerone al fratello. «Si tratta
di tre diversi vitigni (Sauvignon blanc, Albana,
Trebbiano), poi il rovere francese e la particolare
cura che dedichiamo alle uve danno origine a quello che etimologicamente significa “per 5” (diàpènte) che si caratterizza per la componente aromatica carica di frutti e i sentori tipici del
Sauvignon Blanc. Anche in questo caso la fermentazione avviene in barriques di rovere francese.
Rimane in botte per altri tre mesi su fecce nobili
dove si svolge anche la fermentazione malolattica. Poi l’affinamento in acciaio e in bottiglia». Un
matrimonio eccellente nel piatto passa con abbinamenti di pesce azzurro e la brezza di mare quando soffia forte arriva sin qua su!
Enrico fa l’agricoltore da quando aveva 16 anni
mentre il fratello Alessandro, laureato in Scienze
dell’alimentazione, sposa la vitivinicoltura al sapere della qualità. «Abbiamo ribaltato il concetto
della frutta di qualità sull’uva» sottolinea
Alessandro indicando gli alberi da frutto che vestono la vallata, poi mette in risalto l’esperta manualità che serve nella raccolta della frutta e nella
cura con cui anche l’uva deve essere vendemmiata. La Romagna infatti, e Cesena soprattutto, è
tra le più importanti produttrici di frutta, anche
biologica e, quindi, alta è l’attenzione alla filosofia del buon vivere così come la stessa cantina
Altavita promuove. Dunque è coniugando la dinamicità imprenditoriale di questi due giovani eredi
agricoltori e quella manageriale di Mister
Technogym, che Altavita si affaccia al mondo
del vino da protagonista e lo fa con il suo stile,
perché uno come Mister Technogym non poteva
certo cadere nella trappola della banalità.
Curiosità
gusto
Il
dolce-amaro
della
sommelière
di Isabella Sardo
a società di oggi ha accettato molte novità
nel corso degli ultimi anni, però nel mondo
del vino c’è ancora qualcuno che si stupisce che una donna possa essere sommelier. Non
che ci si scandalizzi sul serio ma spesso ci si
meraviglia, ponendo domande del genere: «Tu
che sei donna non ti ubriachi subito?». Interrogativo che si aggiunge ad altri non meno curiosi del tipo: «Come mai a una donna può passare per la testa di fare il sommelier? Ma ce ne sono
davvero?».
In realtà le donne sommelier in Italia sono numerosissime (attenzione: molte di più che in Francia
ma di meno rispetto all’Inghilterra, agli Stati Uniti
o al Canada) e risultano altrettanto competenti
dei colleghi uomini.
Per chi ama i numeri, si può sottolineare che su
2.424 sommelier professionisti Ais, 505 sono
donne, con una loro prevedibile e netta rimonta nei prossimi anni: tra i 13.133 aspiranti sommelier ci sono ben 4.212 future donne sommelier (o sommelières, alla francese, che è più chic
e più sintetico).
Ma qual è la marcia in più, l’arma segreta sfoderata dalle donne professioniste quando si trovano a dover degustare un vino?
L
90
A livello sensoriale le donne possiedono una più acuta capacità di
percepire gli odori. Laura Tonatto
(celeberrimo “naso”, creatrice di profumi artistici di fama mondiale) nel
suo libro Storia di un naso (edito
da Einaudi) afferma: «Già a livello
fisiologico, le donne possono vantare un olfatto migliore di quello
maschile, tanto che individuano gli
odori a concentrazioni molto più
basse dei maschi». Una teoria antropologica accreditata asserisce che
questo “primato olfattivo femminile” serviva alla donna per individuare e scegliere il “suo” maschio.
Inoltre e più semplicemente, le sommelières sono agevolate dai ricordi sensoriali legati alla crema da
notte agli estratti di iris e malva,
alla maschera antirughe alla mandorla dolce e alla ricetta segreta
super veloce del pesto alle erbe aromatiche e pomodori secchi. Non si
deve trascurare, inoltre, il fatto che
l’arte dell’abbinamento è da sempre un gioco: fin da bambine imparano a esercitare l’occhio, per esempio per catturare le nuances di colori, per accostarle, per scegliere il
miglior abbinamento vestito-golfino, borsetta-stivale. Sin da piccole sono spinte dai genitori a comportarsi con gentilezza, grazia ed
eleganza. Doti particolarmente
apprezzate, se non essenziali, in un
sommelier. E, come se non bastasse, l’arte della comunicazione è
donna e quindi le sommelières riescono a svolgere un ruolo essenziale di svecchiamento e semplificazione nella presentazione di quel
prodotto talvolta di difficile approccio qual è il vino.
A voler essere onesti fino in fondo,
l’essere donna è un grosso vantaggio, in molte occasioni della vita di
un sommelier. Perché?
In primo luogo per quanto le degustatrici possano essere numerose ,
resta il fatto che sono comunque di
meno rispetto ai colleghi maschi e
quindi la professionista-donna è più
“rara”, più “esotica”, in grado di dare
un tocco originale allo staff di un
grande ristorante o di un’enoteca
prestigiosa.
A riprova del fatto che, come spesso accade, l’essere una minoranza
non è per forza di cose penalizzante, poche professioni al mondo sono
intrinsecamente legate ai cinque
sensi quanto quella del sommelier…
più un “sesto senso”: la sensibilità
che fa rima ed è etimologicamente
legata alla sensualità. E la donna
in fatto di sensualità non ha eguali e la presenza di una sommelière
in un ristorante o in una sala degustazione trasmette un diffuso senso
di benessere. Fa chic, punto e basta.
Non a caso il più alto numero di
sommelières si concentra nelle due
capitali del “trendy” per eccellenza:
New York e Londra.
Tutto questo può giocare a suo favore ma anche a sfavore, a seconda
della sobrietà della singola professionista. Perché come può risultare gradevole la sua presenza, al contrario, può essere decisamente sgradevole la consapevolezza o il dubbio che il suggerimento su un accordo o sulla qualità di una degustazione passino in secondo piano
rispetto al fatto che la sommelière
porti una gonna più o meno attillata.
Irrigidite dal timore (spesso infondato) di non essere prese abbastanza sul serio, proprio perché
donne o, ancora peggio, perché giovani e carine, talvolta le sommelières danno il meglio di sé comunicando con le altre donne. Ciò ha
portato a uno splendido circolo virtuoso destinato a creare equilibri
nuovi in un mondo in cui è l’uomo
a occuparsi della scelta del vino,
L Adua Villa, sommelier Ais
e volto noto del programma tv
''La Prova del Cuoco''
91
Curiosità
L Nicoletta Gargiulo,
Miglior Sommelier d'Italia 2007
92
dimenticando di interpellare e di
coinvolgere la commensale.
In realtà il ruolo della sommelière è
pari a quello di qualsiasi donna che
lavori in contesti da sempre retaggio degli uomini. Esistono però delle
peculiarità proprie soltanto di questo ambito lavorativo: caricare casse
di vino per trasportarle lungo scale
ripide in cantine semibuie non è,
obiettivamente, una delle attività
che si accordano con il gentil sesso.
Anche se l’etimologia della parola
sommelier riporta a questi gravosi
doveri professionali, come dimostra
la radice stessa di bestia da “soma”,
in francese antico “somme”.
Nel servizio la sommelière accusa
qualche altra difficoltà ignota ai colleghi. Per esempio quando si trova
alle prese con bottiglie di grande o
di grandissimo formato e con tappi
particolarmente tenaci, in particolare con i famigerati tappi a fungo.
Per questi ultimi esiste naturalmente l’ausilio della pinza, difficile
tuttavia da estrarre dalla tasca della
divisa perché troppo voluminosa (e
a tale proposito l’appello che si
inventi al più presto una super -
mini-pinza universale, modello ultra
piatto e ultra leggero).
L’impossibilità di ricorrere all’amica pinza o l’impaccio nel maneggiare
una jéroboam potrebbero risultare
di cruciale importanza durante un
concorso. Fortunatamente questi
possibili inconvenienti non stanno
impedendo una plateale riscossa
delle concorrenti ai grandi concorsi nazionali e internazionali. Ne sono
una prova sommelières come Nicoletta Gargiulo, miglior sommelier
d’Italia 2007, Veronique Rivest,
miglior sommelier del Canada 2006,
Aurelie Degaul, miglior sommelier
del Belgio 2007, Claire Thevenot,
miglior sommelier del Regno Unito
2006, Elyse Lambert, miglior sommelier d’America 2009, Agustina de
Alba, miglior sommelier d’Argentina
2008 e Pascaline Lepeltier, che, pur
non avendo vinto, nel 2008 è stata
la prima donna finalista in un concorso francese, raggiungendo un
traguardo che la stampa d’Oltralpe
ha addirittura definito “epocale” (il
che la dice lunga sull’ancora saldissimo maschilismo della sommellerie transalpina).
COL SAN MARTINO
L Isabella Sardo, Miglior Sommelier
del Lussemburgo 2008
Non solo, ma nell’edizione 2007 del premio come
migliore sommelier del mondo, le candidate donne
erano sette (affiancate, però, da trentotto concorrenti uomini).
Sorvolando sul fatto che la professione del sommelier, come tutte quelle legate alla ristorazione,
non incoraggia chi vorrebbe riuscire a salvaguardare uno standard decoroso della propria vita
familiare (il che rende più ricorrente la figura della
sommelière-docente, piuttosto che quella della
sommelière che fa servizio in sala), più che in ogni
altro lavoro, pesa sulle spalle delle sommelières
una pesante spada di Damocle: la gravidanza.
Non molte categorie sono così poco tutelate per
le controindicazioni. Infatti, in linea generale, in
gravidanza bisognerebbe astenersi dal vino. Non
tutti gli esperti sono d’accordo sull’eventualità che
un solo bicchiere di vino rosso possa nuocere al
feto ma per le sommelières il rischio è diverso. La
neonatologa Lina Catalano dell’ospedale pediatrico Santo Bambino di Catania afferma: «In realtà nel caso della gestante sommelière, il problema è legato non al bicchiere occasionale ma alla
continuità nell’assunzione di alcol anche se non
in grande quantità. Dal momento che il pericolo
maggiore si ha nei primi mesi di gravidanza ed è
legato alla sindrome fetoalcolica (con rischio di
aborto, ritardo fisico e intellettivo nel bambino,
parto prematuro, nascita sottopeso, disturbi alcolici del feto), è più che opportuno, durante la gestazione, astenersi del tutto dal bere vino». Le altre
donne possono dunque lavorare fino all’ottavo
mese ma questa opportunità non vale per le sommelières. E se decidessero di allattare il neonato,
dovrebbero rinunciare a bere ancora per mesi.
Comunque nonostante queste “limitazioni” le sommelières aumentano in misura esponenziale, pronte a portare la propria professionalità in giro per
il mondo con la grazia, la determinazione e la femminilità che le contraddistingue.
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Mappamondo
Koshu,
vitigno autoctono
del
Sol
Levante
94
di Yuki Kumagawa
al cuore di Tokyo si prende
il treno sulla linea Chuo e
si viaggia verso ovest per
due ore circa. Si giunge così a
Katsunuma, località vitivinicola
principale nella regione Yamanashi,
il territorio nativo e unico del vitigno autoctono giapponese Koshu.
L’inizio dell’anno scorso, finalmente, il vino bianco nipponico ha ottenuto l’autorizzazione per essere
esportato nel mercato europeo.
D
Un po’ di storia
Katsunuma è situata all’estremo est
della Conca Koshu, a nord del Monte
Fuji. Ma da quando si coltiva l’uva
a Katsunuma e nei suoi dintorni?
La leggenda vuole che nell’VIII secolo d.C. un monaco buddista di alto
rango, di passaggio nella zona, stava
facendo meditazione su una roccia
lungo il fiume Hi. Raggiunto il nirvana vide apparire il Yakushinyorai
(il Budda guaritore) con un grappolo di uva nella mano destra. Commosso, il monaco insegnò ai paesani come coltivare l’uva, considerata
all’epoca solo come medicinale. Da
allora Katsunuma si è sviluppato
come paese dedito alla viticoltura.
Qui esiste un antico tempio buddista dedicato al Yakushinyorai, chiamato Daizenji, che ancora oggi conserva la scultura in legno del budda
creata dal monaco.
Da allora il vitigno Koshu è presente a Yamanashi ma bisogna precisare che fino a poco più di un secolo fa l’uva in Giappone veniva prodotta esclusivamente per il consumo a tavola. Infatti nel diario di un
missionario portoghese giunto nel
Sol Levante, troviamo le sue la mentele per la mancanza di vino
e lo scarso entusiasmo per il sa ké. Nell’epoca Edo (1600-1867)
Katsunuma era già famosa per la
produzione di uva da tavola di alta
qualità e Koshu era l’uva scelta dalla
famiglia imperiale.
La cultura della vinificazione è stata
introdotta in Giappone nella seconda metà dell’Ottocento, quando il
Paese finalmente si era aperto di
nuovo al mondo occidentale dopo
circa 200 anni di auto isolamento
internazionale, trasformandosi in
una nazione moderna (la fine del
tempo dei samurai e l’inizio della
società capitalistica). Alcune persone vennero mandate all’estero per
apprendere la tecnica e la cultura
vinicola e in diverse zone del Paese
si cominciò a produrre vino sia con
l’uva da tavola di cui già disponevano, sia con quella importata dall’estero. Tuttavia i primi produttori
giapponesi ebbero non poche difficoltà, a partire dal fatto che il vino
non si diffondeva tanto facilmente
tra le abitudini del popolo nipponico. Consideriamo che i giapponesi
fino ad allora mangiavano principalmente pesce, verdura, riso e vari
prodotti derivanti dalla soia, per
nulla abituati ai cibi grassi come formaggi o carne, ai quali si abbina
bene il vino. Inoltre avevano l’abitudine di bere il saké, una bevanda
con leggera tendenza dolce assunta soprattutto come aperitivo insieme a qualche spuntino, piuttosto
che in accompagnamento al pasto.
Quindi c’era una totale inadeguatezza della cultura enogastronomica nei confronti del vino secco. In
effetti il vino giapponese prodotto
nei primi tempi era in maggior parte
amabile o dolce, ottenuto con l’aggiunta di zucchero o di altre sostanze dolci. Tra l’altro i vitigni europei
introdotti in Giappone a quel tempo,
oltre che aver subìto l’attacco della
filossera, non riuscirono ad attecchire molto bene, mentre quelli americani si erano ambientati in modo
soddisfacente.
Durante la Seconda guerra mondiale, il governo giapponese costrinse
a trasformare numerosi frutteti del
Paese in altre coltivazioni agricole
per affrontare la carenza di viveri
ma i vigneti di Yamanashi non furono oggetto di tale tragedia: dicono
che per le componenti elettroniche
delle armi segrete dei militari giapponesi, ci fosse bisogno di acido tartarico, contenuto nell’uva. Insomma,
la vera cultura della vinificazione in
Giappone cominciò a svilupparsi
dopo la Seconda guerra mondiale,
quando la società si occidentalizza
in senso vero e proprio.
95
Mappamondo
Koshu vitigno da vinificazione
Da oltre mille anni, quindi, Koshu è stato coltivato e
consumato in Giappone come uva da tavola ma in realtà, per nostra sorpresa, Koshu è di specie “vitis vinifera”: unico tra i vitigni autoctoni giapponesi. Non è ancora chiaro come possa aver raggiunto Yamanashi
dall’Europa nel corso dei secoli. Si presume che abbia
attraversato la Strada della Seta in Cina ma fino ad oggi
non si conosce nessun vitigno parente di Koshu in Cina.
I suoi acini sono piuttosto grossi e quando matura il
grappolo prende un colore rosa grigio, proprio come il
Pinot grigio. Koshu è un vitigno di maturazione tardiva: si vendemmia verso l’inizio di ottobre.
Oggi il vitigno Koshu è principalmente utilizzato per
la vinificazione. Tuttavia, la produzione del vino Koshu
è ancora fortemente condizionato dall’abitudine di coltivare l’uva per il consumo da tavola.
A Katsunuma, una cittadina di circa 90.000 abitanti,
ci sono una trentina di produttori di vino ma la maggior parte di queste aziende non possiede vigneti propri sufficienti per poter sostenere tutta la produzione
(fino al 1988 la legge giapponese vietava il possesso di
campi per uso agricolo a una persona giuridica): hanno
quindi bisogno di comprare le uve dai contadini locali. Ciò vuol dire che il novantanove per cento dei vigneti di Koshu è ancora a tendone, così come si utilizzavano nella coltivazione dell’uva da tavola. Sebbene le
aziende invitino i contadini a diradare la resa, ancora
96
oggi una pianta di Koshu distende mediamente i propri rami per un raggio di 5-10 metri e produce circa
800 grappoli!
Naturalmente nel corso del tempo alcune aziende hanno
cominciato a rinnovare i propri vigneti con la coltivazione guyot o a cordone speronato, mentre molti contadini non si sentono di fare questo cambiamento anche
a causa del grande investimento iniziale che richiede.
Basti pensare al fatto che in un ettaro di vigna coltivata a tendone si trovano circa ottanta piante, mentre
il guyot o il cordone speronato ne richiedono circa 4.150.
Per di più il prezzo all’ingrosso dell’uva da tavola è almeno tre volte più alto (per certe specie anche dieci volte)
di quello dell’uva da vinificazione. Non pochi contadini scelgono di tagliare le piante di Koshu per coltivare
uve più proficue. La coesistenza tra le aziende vitivinicole e i contadini locali è un tema cruciale per il futuro del Koshu in particolare a Katsunuma, proprio a
causa della tradizione millenaria della produzione
dell’uva da tavola.
Koshu è un vitigno che fatica a sviluppare abbondanti zuccheri (il grado zuccherino arriva in media ai 1618 per cento) perciò i produttori hanno avuto sempre
difficoltà nel creare un vino secco di qualità. In passato la tipologia più diffusa era abboccato e amabile. Il
cambiamento è avvenuto nel 1983, quando una delle
aziende vitivinicole principali a Katusnuma, la Mercian,
ha introdotto il metodo “sur lie” per la vinificazione
del Koshu, migliorandone notevolmente la qualità.
Per di più lo hanno reso pubblico in modo che anche
altri produttori locali potessero utilizzarlo. È stato un
gesto coraggioso e solidale: i dirigenti della Mercian
erano consapevoli dell’esigenza di miglioramento collettivo del vino Koshu per la sopravvivenza dell’intero
territorio.
Nel calice il Koshu si presenta di colore giallo paglierino molto tenue con profumi fruttati (pompelmo, lime,
pesca bianca), floreale (gelsomino), minerali (sfumatura di ghiaia) e una leggera nota di spezie (pepe bianco); mentre in bocca offre una piacevole freschezza in
giusto equilibrio con la morbidezza, anche se la persistenza non è molto elevata.
Grace Winery: «Siate pronti a fare kamikaze insieme a
Koshu»
Insieme alla Mercian, un’azienda dalle dimensioni di
grande industria, a Katsunuma c’è un’altra cantina storica a gestione famigliare che ha un altrettanto importante ruolo di forza trainante per la crescita del vino
Koshu: la Grace Winery.
L’attuale titolare, Shigekazu Misawa (60 anni) ha rilevato la gestione dell’azienda da suo padre nel 1982.
Ricordandosi dell’epoca, racconta: «Vent’anni fa la situazione era completamente diversa... Il mercato giapponese era schiacciato dai vini stranieri dal prezzo molto
competitivo e a Katsunuma c’era una certa atmosfera
di tristezza: molti si avvicinavano all’idea di abbandonare Koshu per passare ai vitigni internazionali come
Cabernet Sauvignon, Merlot e Chardonnay. Ma se si
pensa al patrimonio del territorio e all’originalità, non
ci rimaneva che il Koshu».
Misawa, che allora faceva anche il presidente della
Commissione della tutela del vino a Katsunuma, ha
osato chiedere agli altri membri di essere pronti a «fare
kamikaze insieme a Koshu». Da allora la lunga sfida
per ridare dignità e vitalità a Katsunuma non si è mai
fermata. «Con il boom internazionale della cucina giapponese e la tendenza culinaria sempre più leggera e
sana, negli ultimi cinque anni finalmente la caratteristica piuttosto delicata e fine del Koshu comincia a essere riconosciuta e apprezzata». Una svolta particolare
per la Grace Winery fu, nel 2004, la collaborazione con
il professor Denis Dubourdieu dell’Università di
Bordeaux, autorità mondiale del vino bianco. Misawa
spiega: «La tendenza del mercato giapponese, che preferisce un vino strutturato, spingeva i produttori di
Koshu a fare un vino di titolo alcolometrico volumico
rinforzato (13-14 per cento) mediante l’aggiunta di zucchero e acido durante la vinificazione. Ma Dubourdieu
ha creato un Koshu senza aggiunte, rivolgendo tutta
l’attenzione a una prima materia di qualità. Siamo rimasti colpiti dal gusto opulento del suo vino naturale col
titolo alcolometrico volumico di 9,9 per cento. Ci siamo
resi conto che per produrre un vino ricco non basta
aggiungere lo zucchero per alzare il grado alcolico».
Oggi la Grace Winery produce circa 250.000 bottiglie
all’anno, di cui due terzi sono le linee Koshu. Hanno
97
Mappamondo
un vigneto di 0,6 ettari a Toriibira,
cosiddetto “gran cru” di Katsunuma:
450 metri sul livello del mare, esposto a sud-ovest, terreno argilloso
ciottoloso, con buon drenaggio, forte
escursione termica, in cui il Koshu
è coltivato a tendone con l’originale potatura di resa bassa ichimojitansho. La parola giapponese ichimojitansho contiene i concetti “uno”
(più precisamente la forma grafica
del numero “1”) e “ramo corto” e sta
a indicare una potatura vicina al tradizionale “tendone” adattata alle esigenze di una migliore resa. In particolare vengono mantenuti due rami
principali contrapposti (180º) che
formano una linea retta (come un
“1”) da cui partono rami secondari
corti.
Di recente la Grace Winery ha acquistato altri vigneti da dedicare alla
coltivazione del Koshu per un totale di 3,6 ettari nella zona ovest di
Yamanashi, Akeno: a 700 metri sul
livello del mare, è la zona più soleggiata della regione. Qui hanno voluto, dopo qualche anno di prova,
intraprendere seriamente la coltivazione del Koshu a cordone speronato (a partire da quest’anno). I contadini in contratto che forniscono
l’uva alla Grace Winery sono circa
40, di cui 6 sono in stretta collaborazione di fiducia. Lo scorso aprile
il vino Koshu di bandiera della Grace
Winery, il “Grace Koshu”, è stato
selezionato come vino ufficiale per
la cerimonia del terzo anniversario
di papato di Benedetto XVI presso
l’ambasciata vaticana a Tokyo e successivamente è stato consegnato alla
Santa Sede in onore del papa.
98
Una particolarità del lavoro instancabile dei giapponesi nei vigneti è
che durante l’anno, per evitare che
i grappoli si ammalino a causa della
pioggia, verso l’inizio di luglio viene
posta una sorta di ombrellino di
carta cerata sopra ogni grappolo di
uva.
Verso il futuro
Il Koshu, nato dalla collaborazione
con il professor Dubourdieu, viene
ora esportato in Inghilterra, anche
se ancora in piccolissima quantità
(480 bottiglie). Misawa auspica nel
breve futuro una maggiore visibilità del Koshu nel mercato europeo:
«Stiamo sviluppando un approfondito studio di mercato per identificare la migliore strategia di vendita. In tre anni vogliamo cominciare
a sbarcare seriamente nel mercato
europeo, a partire da quello britannico. Il Koshu è un vino bianco che
si abbinerebbe molto bene alla cucina giapponese. Conquistare il riconoscimento all’estero servirebbe
anche ai consumatori giapponesi
per rivalorizzare i prodotti domestici».
Il prezzo di una bottiglia del Koshu
in Giappone varia da 10 a 20 euro
circa, a seconda delle aziende e delle
tipologie; non si può ancora sapere
che prezzo assumerebbe questo
vino, una volta importato in Europa.
Possiamo ben sperare che il vino
bianco autoctono nipponico sappia incuriosire e stupire piacevolmente i consumatori europei e che
riesca a seguire il successo che il
cibo giapponese sta godendo nei ultimi anni a livello mondiale.
Vernaccia di Serrapetrona
Il
vino
che piaceva
al
mercenario
L Botti di Robbione con ''lu cantarì''
di Michela Lugli
erre fertili, ricche di storia e
tradizioni quelle delle colline
marchigiane che hanno lasciato tracce antiche e profonde come i
solchi che nei secoli hanno portato
alla luce la loro fertilità. Si narra
infatti, che già nel Medioevo un soldato mercenario originario della
Polonia, esaltasse le straordinarie
doti di un vino prodotto nella terra
allora chiamata Borgiano. Trattavasi
della Vernaccia di Serrapetrona, oggi
legata indissolubilmente all’omonimo comune in provincia di Macerata.
Poco più di mille abitanti, una Doc
e una Docg sono la carta d’identità
di un territorio collinare o montuoso racchiuso in trentasette chilometri quadrati, dove l’ulivo trova le sue
migliori condizioni di sviluppo e la
vite prospera.
A Serrapetrona vanno cercate le ori-
T
gini del vitigno Vernaccia Nera, di
cui nell’Annuario generale per la viticoltura e l’enologia del 1893, si legge
essere «uno dei vitigni caratteristici
della regione marchigiana, troppo
disconosciuto dai nostri viticultori».
Gli anni, più di cento, non hanno
lavorato per diffondere questa produzione che continua, fortunatamente, a essere di nicchia ma lo studio e la dedizione dei produttori locali hanno sicuramente sortito l’effetto di aumentarne la fama, portando
la conoscenza di questo vino su tutto
il territorio nazionale e in parte anche
estero. Unico spumante rosso a fregiarsi di una Docg, la Vernaccia di
Serrapetrona serba innumerevoli
sorprese a quanti, per la prima volta,
rivolgano la propria attenzione a un
vino ottenuto con lunghe procedure di fermentazione e appassimento
delle uve. Tra le sue particolarità,
oltre a quella più evidente di essere
uno spumante rosso, vi è quella relativa alle modalità di vinificazione. Il
disciplinare Docg prevede infatti, che
debbano essere utilizzate minimo
l’85 per cento di uve Vernaccia Nera
(il restante 15 può provenire da vitigni a bacca rossa ammessi alla coltivazione nella provincia di Macerata)
e che almeno il 40 per cento del vino
base da sottoporre a spumantizzazione provenga dalla fermentazione del mosto di uve appassite su graticci con grappoli legati a due a due
(così almeno vuole la tradizione). A
mosto e vinacce di uve passe raccolte a fine dicembre, verrà aggiunta la
quota di vino ottenuta dalla normale vendemmia di ottobre; ripartirà
quindi una seconda, lenta fermentazione che proseguirà per circa due
99
Vernaccia di Serrapetrona
mesi. A questo punto, dopo la fermentazione malolattica e la filtrazione, ha inizio il processo di spumantizzazione in autoclave secondo il
metodo Charmat con fermentazione naturale. Tre quindi le fermentazioni necessarie affinché questo vino
rosso spumantizzato acquisti il
carattere morbido, sapido, caldo e il
caratteristico retrogusto amarognolo associati a un colore rosso rubino più o meno intenso. Poco più di
cinquanta gli ettari iscritti alla Docg,
per altro ottenuta grazie alla tenacia dei produttori con che non si
sono accontentati del riconoscimenti Doc avuto nel 1971, ricadenti in
parte dei comuni di Belforte del
L Botti di Robbione con ''lu cantarì ''
100
Chienti, San Severino Marche e,
naturalmente, Serrapetrona.
I produttori sono sette in tutto, tra
loro, il giovane Paris Rocchi che con
il padre Orlando e la sorella Silvia
porta avanti l’omonima azienda di
famiglia nata alla fine degli anni ‘70.
«Siamo partiti con tre ettari di cui
circa la metà di Vernaccia ma, trovandosi il vigneto nella zona di
Caldarola, quindi fuori dalla Docg
Serrapetrona, solo recentemente
siamo riusciti a partire con la produzione Docg Vernaccia di Serrapetrona»
racconta Paris, che oltre ad essere
titolare è anche l’enologo dell’azienda. «Il vigneto è aumentato lentamente e oggi abbiamo 15 ettari di cui la
metà si trova a Caldarola, dove produciamo la Doc rossa Sòdére San
Ginesio, la Vernaccia Nera San
Ginesio dolce e ferma e Bréccètti, un
Igt bianco. I restanti ettari, ricadenti nella zona della Vernaccia di Serra
Petrona, impiantati nel 2003, sono
la porzione di vigna più recente. Nel
2005 inoltre, abbiamo dovuto costruire una nuova cantina» spiega Paris,
infatti, il disciplinare prevede che la
vinificazione della Vernaccia avvenga nella zona di pertinenza. «L’anno
scorso abbiamo fatto in totale circa
mille quintali di uve, suddivise in
40mila bottiglie di Vernaccia di
Serrapetrona Docg e 50mila di San
Ginesio Doc». La fase cruciale dell’appassimento, l’azienda vitivinicola
Rocchi, la fa in cassettine tipo amarone; circa 100 i quintali di produzione per ettaro di cui il 40 per cento
minimo va in appassimento, il
restante 60 per cento, come da disciplinare, va subito vinificato e, quando l’uva raggiunge i 13 gradi di alcol
si può togliere e ammostare. «La vinificazione della porzione appassita
avviene separatamente», prosegue
Paris, «solo alla fine, prima di mettere tutto in autoclave, assembliamo
le due masse». Qui il vino rimane per
almeno otto mesi a temperatura controllata quindi, viene imbottigliato a
seguito di microfiltrazione. «La pastorizzazione», aggiunge, «ne annullerebbe la freschezza». Affinato in bottiglia per un paio di mesi (a seguito
del processo di microfiltrazione il vino
subisce una sorta di stress), «viene
commercializzato nel minor tempo
possibile, così da mantenere la fragranza e gli aromi primari dell’uva e
del vino» puntualizza Paris. «Si tratta di un vino difficile da produrre
in quanto il disciplinare è complicato soprattutto per quanto riguarda
la fase di appassimento. Il residuo
zuccherino è di circa 60 grammi litro,
quindi risulta abbastanza dolce con
il tipico retrogusto leggermente amarognolo; la gradazione oscilla tra i
12,5 e i 13 gradi». In quanto al mercato, la Vernaccia di Serrapetrona
dell’azienda Rocchi, ha una diffusione prevalentemente nazionale, «ma»,
dice Paris, «siamo sul mercato con
questo vino da un anno e mezzo,
quindi non siamo ancora a regime;
il San Ginesio Doc, al contrario, lo
produciamo da 30 anni e oltre alla
commercializzazione nazionale, lo
esportiamo anche in Germania».
Tra i principali rischi per il vigneto,
Paris che tra l’altro è agronomo,
annovera l’insorgenza di botrite nella
fase di appassimento; si tratta di un
vitigno tardivo con buona resistenza all’oidio e alla peronospora che
però, per via del grappolo serrato,
quindi poco arieggiato, soprattutto
in caso di piogge a fine estate è molto
sensibile alla botrite.
Alla versione dolce (contenuto minimo di zucchero residuo 10 grammi
litro), si affianca una versione secca
non spumantizzata che si fregia del
titolo di Doc e che va a pescare nella
tradizione del vino un tempo prodotto dai contadini della zona con uve
di Vernaccia Nera di Serrapetrona e
che non prevedeva il processo di spumantizzazione, introdotto solo verso
la metà del secolo scorso.
Negli scritti storici, si parla della
Vernaccia Nera di Serrapetrona come
del miglior vitigno a bacca scura
delle Marche adatto alla produzione di vini fermi.
Federico Giotto, enologo della cantina Colli di Serrapetrona, la tradizione l’ha lungamente studiata e,
aggiungendo iniziativa alle tecniche
moderne, ha dato vita alla produzione di un vino molto vicino a quello originario. Cinque i figli del suo
lavoro: il Robbione Doc, 100 per cento
uve Vernaccia Nera di Serrapetrona,
affinato per diciotto mesi in botti di
rovere da 25 litri; il Collequanto Doc,
95 per cento Vernaccia Nera di
Serrapetrona e 5 per cento Merlot; il
Sommo Igt, 100 per cento Vernaccia
Nera di Serrapetrona affinato otto
mesi in barriques e due in bottiglia
e due rosati, uno Igt, 100 per cento
Vernaccia Nera di Serrapetrona, e uno
spumante, metodo Charmat, 100 per
cento Vernaccia Nera di Serrapetrona.
Tra i vini della cantina, nata nel
2003 su iniziativa di Armando De
Angelis e Alfiero Sabbatini, presidente il primo e vicepresidente il secondo, particolare menzione meritano i
rossi Robbione e Sommo che, come
per la Vernaccia Docg, prevedono
l’impiego di uvaggi passiti. «Si tratta di una viticoltura piuttosto estrema in quanto siamo attaccati alle
montagne e c’è una forte escursione termica tra giorno e notte. Si arriva fino a un’altitudine di 600 metri
L Silvia e Paris Rocchi nel punto vendita aziendale di Caldarola
sul livello del mare» dice Andrea
Marchionni che qui lavora come cantiniere. «Robbione e Sommo sono i
due vini ottenuti da uve passite e da
uvaggi freschi. Il Robbione», spiega
scrupolosamente Andrea, «subisce
un appassimento di due mesi: raccogliamo ad ottobre e vinifichiamo
a fine dicembre o primi di gennaio,
a seconda del livello di appassimento dell’uva».
L’appassimento è computerizzato e
quando possibile sfrutta le condizioni di temperatura, umidità e vento
naturali, quando queste non fossero ideali, deumidificatori e ventole
entrano in funzione per un appassimento continuo dell’uva. Quindi,
si effettua una vinificazione con
macerazione delle bucce per circa
dieci-quindici giorni. Padre del
Robbione, tanto vicino all’amarone
per procedimento di vinificazione
(l’appassimento avviene in cassettine dal fondo coperto e non attaccando due grappoli a un tralcio come
vuole la tradizione), è l’enologo
Giotto, che ha importato nelle
Marche l’esperienza fatta nelle cantine di Treviso e Verona. Si tratta
di un vino secco con residuo zucche-
rino nullo, dotato di grande struttura e intensità, morbido ma con
un’elevata componente tannica cui
deve il nome: il Robbione è infatti
una pianta molto presente in questa zona, un tempo utilizzata per
estrarre il tannino con cui venivano
tinte di rosso le pelli.
L’invecchiamento (da 12 a 18 mesi)
avviene in botti di rovere francesi
grandi da venticinque ettolitri. Qui,
dove il Robbione riposa, la temperatura e l’umidità sono ben controllate e “lu cantarì”, come viene chiamato in dialetto marchigiano, canta
e borbotta come un anziano signore, a dirci che, appollaiato sopra la
sua botte, sta prendendosi cura del
prezioso nettare. Ma c’è un pegno da
pagare per il gravoso lavoro e anche
la botte vuole la sua parte: ogni settimana, a seconda che si tratti di
botti nuove o usate, il tributo da
pagare per dissetarla è di circa un
litro nel primo caso e mezzo nel
secondo. Perché, come si suol dire,
la botte beve e allora non resta che
imitarla e lasciarsi incantare dai
sapori di queste terre marchigiane
che tanto piacciono anche a botti e
soldati mercenari.
101
Vino e letteratura
Ode
al
di Katia Giarrusso
vino
er riuscire ad apprezzare correttamente un buon
vino è necessario fare un passo indietro e conoscerne la provenienza, le origini e tutto ciò che vi
ruota attorno, il territorio e l’annata, insomma la sua
storia. Una storia che affonda le sue radici nel passato, in tempi in cui era addirittura considerato un dono
divino fatto agli uomini e celebrato con feste, banchetti e poesie.
E in effetti la poesia si è trovata a confrontarsi fin dai
suoi albori con il vino, a partire dall’Epopea di Gilgamesh,
poema scritto nel XII secolo a.C., durante il regno di
Nabucodonosor I. Qui il vino ricopre un ruolo essenzialmente liturgico e fa la sua comparsa durante riti e
cerimonie importanti. Ancora nei versi dell’Iliade e
dell’Odissea il vino resta un “personaggio” fondamentale. Ma è tra il VII e il VI secolo che il prezioso nettare trova la sua sede d’elezione in Grecia.
Il dio greco Dioniso da sempre rispecchia il protettore
della vite e a lui furono dedicate diverse
feste religiose, tra cui le Oscoforie, che
si tenevano ad Atene il 7 ottobre come
ringraziamento per il buon raccolto dell’uva e delle olive.
Si narra che mentre cercava riposo nella
grotta delle Ninfe ricoperta di vite, il dio
cominciò a giocare con i grappoli d’uva e,
spremendone alcuni in un calice, scoprì
il gusto unico di quel liquido rossastro
e così tutti intorno a lui, ninfe e satiri,
cominciarono a bere quella delizia.
Consapevole della straordinarietà della
sua scoperta, si recò dagli dei e dagli umani
per offrirne loro un assaggio.
Dioniso divenne così dio del vino a tal punto
che i greci spesso indicarono la bevanda con il suo
nome e venerarono entrambi come essenze divine, in
un’unione indissolubile.
Nacque così il simposio, un appuntamento in cui era
possibile bere in compagnia, condividere momenti
gioviali, scambiare considerazioni e pensieri tra com-
P
102
mensali su argomenti di vario genere.
Un vero e proprio rituale, dove il cibo era bandito, insomma, una ubriacatura autorizzata, dove i poeti facevano fluire pensieri e componevano, con entusiasmo dionisiaco, i loro famosi versi.
Lo stesso Platone (427 a.C.-347 a.C.), che al simposio
ha dedicato uno dei suoi dialoghi, si esprime sostenendo che in quella circostanza era possibile conoscere
realmente i pensieri altrui; in questo modo egli attribuisce al simposio un valore pedagogico poiché le imperfezioni della natura intellettuale e morale dei partecipanti venivano messe in luce e vi era così la possibilità di correggerle. Questa visione platonica del simposio coincide con quella che sarà poi anche di Orazio (65
a.C.-8 a.C.), espressa in sintesi con la sua celebre citazione “In vino veritas”, che vede il vino e la verità come
uno parte imprescindibile dall’altra.
Con il tempo il simposio divenne un momento impor-
Il cratere di Euphronios,
vaso attico a figure
rosse, datato intorno
al 510 a.C.
Dioniso, raffigurato su un vaso greco, con una brocca (kantharos) colma di vino e simbolo dell'ebbrezza
M Dioniso
tante nella vita collettiva greca poiché univa la dimensione sacra a quella sociale, grazie anche ai riti sacrificali che avevano luogo prima che il banchetto avesse
inizio.
Durante le guerre e le conquiste, il vino rappresentava inoltre il legame con la madrepatria e il segno della
propria civiltà sul territorio invaso. “Chi usa vino è civile, chi non ne beve è barbaro” erano infatti soliti sostenere i greci, riferendosi ai popoli non colonizzati e per
tanto non ritenuti civilizzati che facevano invece uso di
birra.
Essendo un dono divino però il suo consumo era soggetto ad alcune regole. Sappiamo che il bere in compagnia era una di queste ma un’altra buona norma era
quella di diluirlo con acqua perché puro era ritenuto
distruttivo per il corpo. Nelle Leggi (773 C-D) Platone
dichiara: “La popolazione di uno stato deve essere mescolata come il vino nella coppa, il quale appena versato
ferve e spumeggia ma se viene temperato da un altro dio
sobrio… dà corpo a una bevanda salutare e moderata”.
Sulla tavola venivano disposte perciò brocche, misurini e un grande recipiente, il cratere, per la mistura.
Le proporzioni predilette dai greci erano di tre porzioni di acqua e una di vino oppure di due porzioni di acqua
e una di vino, come ci ricorda Alceo (630 a.C.) in uno
dei suoi Frammenti. “Beviamo, perché aspettare le lucerne? Breve il tempo. / O amato fanciullo, prendi le grandi coppe variopinte, / perché il figlio di Zeus e di Sèmele
/ diede agli uomini il vino / per dimenticare i dolori. /
Versa due parti d’acqua e una di vino; / e colma le coppe
fino all’orlo: / e l’una segua subito l’altra”.
Pratica poco apprezzata invece dal poeta latino Catullo
(84-54 a.C.) che nelle sue liriche scriveva: “Coppiere che
viene col vecchio Falerno versami calici più amari… E tu,
via, dove vuoi vattene, acqua rovina del vino; con gli astemi va a stare. Questo è puro Bacco”.
Le decisioni di come diluire e di come organizzare l’intero rito erano affidate al simposiarca, una figura scelta di volta in volta dagli stessi commensali.
La più dettagliata descrizione del simposio è certamente quella rappresentata da Senofane (570 a.C.- 475 a.C.)
in una delle sue Elegie:
“Il pavimento lustra: mani, tazze pulite. / Uno ci pone in
capo le ghirlande, / un altro tende fiale di balsamo. / Il
cratere troneggia, pieno di serenità. / Altro vino promette di non tradirci mai: / è in serbo nei boccali, sa di fiore.
/ L’incenso spira tutt’intorno una fragranza / di tempio,
è chiara, fresca e dolce l’acqua. / Ha ciascuno il suo pane
biondo: / la salda mensa è carica di cacio e miele denso.
/ C’è nel mezzo l’altare coperto di fiori, / la casa è avvolta di festa e di musica”.
Nonostante l’invito alla moderazione, erano frequenti
gli eccessi che portavano poi a sbornie e a zuffe; lo stesso Dioniso, come riportato in una commedia di Eubolo,
poeta ateniese del IV secolo a.C., raccomandava:
“Tre coppe di vino e non di più, miscelo per i bevitori
assennati. La prima ad essere svuotata è per la salute, la seconda risveglia l’amore e il piacere, la terza invita al sonno. Bevuta questa, chi vuol essere saggio, se ne
torna a casa. La quarta non è più per me, ma per l’eccesso, la quinta urla, sei significa ormai schiamazzi, sette
occhi pesti, otto arriva lo sbirro, nove sale la bile, dieci
si è perso il senno, si cade a terra privi di sensi. Il vino
versato troppo spesso in una piccola coppa taglia le
gambe al bevitore”.
Gli effetti violenti e rissosi che erano soliti manifestarsi in queste riunioni collettive, ci fanno supporre che il
vino di un tempo contenesse una forte gradazione alcolica. Il poeta latino Catone nel suo De agri cultura
(160 a.C.) racconta che il vino greco spesso era ottenuto mescolando al mosto una quantità di acqua marina:
si diceva che questa ricetta producesse benefici fisici
quali l’attivazione dei succhi gastrici e l’aiuto alla digestione.
Dunque ogni qualvolta si degusta un vino, è bene ricordare che stiamo per rendere omaggio alla tradizione e
assaporiamo un pezzo di storia ed è forse proprio questo il retrogusto amabile che rimane in bocca. Perché
il vino è poesia e la poesia è vino.
103
Pillole
G&G Gattinara e Ghemme:
degustazioni Docg
La delegazione provinciale
dell’Associazione italiana sommelier del Verbano-Cusio-Ossola
(http://www.aisvco.it/homepage.htm) organizza, in collaborazione con il Consorzio Tutela
Nebbioli Alto Piemonte, per la
giornata del 28 febbraio 2010, la
prima manifestazione a carattere nazionale dedicata alla presentazione e degustazione dei vini
delle due Docg Gattinara e
Ghemme, due perle della produzione agricola dell’Alto Piemonte, che si affaccia sull’area dei
laghi Maggiore e Orta, sinonimo di un turismo di alta
qualità. Un incontro tra vino e turismo per la promozione di un territorio da sempre conosciuto nel
mondo per la sua accoglienza e di due vini di antica produzione, altrettanto apprezzati in tutto il
mondo. Per questo incontro tra due vini di eccellenza, che si terrà dalle 15 alle 20,30, è stata scelta la
104
sede prestigiosa del Grand Hotel Des Iles
Borromées, a Stresa, dove un folto gruppo di produttori avrà il piacere di offrire
in degustazione ai visitatori una selezione delle due Docg dell’Alto Piemonte.
Tre esperti moderati dal vicepresidente Ais
Piemonte affronteranno, in un incontro
aperto al pubblico, un tema da tempo
dibattuto: “Gattinara e Ghemme unicità
del territorio, con una produzione di vini
lontani da mode e tendenze: un’occasione persa o un’opportunità?”. Un enologo e
un noto giornalista del settore, condurranno inoltre
una degustazione orizzontale per far conoscere
un’annata speciale a un numero ristretto di esperti e
appassionati. In uno spazio apposito una delegazione di produttori del Verbano-Cusio-Ossola permetterà ai visitatori di assaggiare una selezione di salumi,
formaggi e prodotti tipici di alta qualità.
(F. Z.)
IL PROGRAMMA DETTAGLIATO
Area espositiva produttori G&G – sala Camelie – con la presenza delle aziende
14,00 - 15,00 registrazione e apertura riservata alla stampa
15,00 - 20,30 registrazione e apertura al pubblico Area espositiva aziende agricole del VerbanoCusio-Ossola – sala Gritti
14,30 - 20,30 apertura al pubblico Area Incontri e dibattiti – sala Banchetti
15,00 - 16,00 dibattito sui Nebbiolo dell’Alto Piemonte. Tema: “L’Unicità del territorio, l’integrità dei
suoi vini, lontani da mode e tendenze: un’occasione persa o un’opportunità? G&G
(Gattinara e Ghemme) antidoto all’omologazione?”. Conduttori: Emilio Bellossi, delegato Ais del VCO; Otello Facchini, vicepresidente Ais Piemonte; Filippo Parmigiani,
enologo e produttore; Franco Ziliani, giornalista e degustatore.
16,30 - 17,30 degustazione guidata di Gattinara e Ghemme Docg 1999.
Costo ingresso, comprensivo di bicchiere e tasca porta bicchiere € 10,00 soci Ais, € 12,00 non soci Posti
disponibili 40. Costo degustazione guidata € 30,00 soci Ais, € 35,00 non soci. All’ingresso verrà consegnata la guida della manifestazione con l’elenco delle aziende e dei vini presenti in esposizione oltre
a una scheda di registrazione che permetterà di eleggere il vino G&G 2010. Nei giorni successivi alla
manifestazione, verrà proclamato il vino G&G 2010 e sarà estratta tra tutti i votanti una scheda di registrazione che si aggiudicherà un doppio magnum del vino vincitore. Il premio al vino G&G 2010 e il
doppio magnum verranno consegnati lunedì 29 marzo, in occasione della cena del G&G, durante la
quale saranno esposti i risultati della manifestazione 2010 e presentata l’edizione del 2011.
Per informazioni e prenotazioni: Emilio 340.7191650 – Paolo 348.3135827 – [email protected]
Pillole
Davide Staffa premiato del presidente
Ais Umbria Gabriele Ricci Alunni
A Montefalco
il Gran Premio
del Sagrantino 2009
Emozionante la terza edizione del
Gran Premio del Sagrantino, appuntamento enologico annuale realizzato in
collaborazione tra il Consorzio Tutela
Vini Montefalco e l’Associazione italiana sommelier.
A sfidarsi quindici professionisti Ais provenienti da tutta Italia. I sommelier
candidati hanno affrontato due prove
consistenti in una degustazione
descrittiva di tre vini con riconoscimento e punteggio, seguita dalla correzione di una carta di vini composta
da etichette del comprensorio. A esibirsi sul palco del Teatro San Filippo
Neri sono stati i tre finalisti, che hanno
concluso con la terza e ultima prova
di decantazione e servizio.
La giuria del Gran Premio del
Sagrantino, formata dal presidente Ais
Umbria, Gabriele Ricci Alunni, dai consiglieri nazionali Romeo Mancini e
Roberto Gardini e da Patrizia Crociani,
presidente del Consorzio di Tutela Vini
Montefalco, ha premiato i primi tre
classificati con un riconoscimento
rispettivamente di 2000 euro al primo,
1000 al secondo e 500 al terzo classificato.
Davide Staffa, Maurizio Zanolla e
Roberto Anesi sono saliti sul podio di
questa edizione e sono stati dichiarati
“Esperti sommelier del Sagrantino di
Montefalco”.
Una vita per lo Champagne
Un libro sullo Champagne. “Ancora!”
verrebbe da esclamare. Poi una sorpresa: è un libro diverso. È un racconto che
si snoda attorno alla personalità e
all’esperienza dell’autore, narra il suo
viaggio emozionale, culturale e professionale dentro il mondo dello
Champagne: un’odissea enologica
lunga trenta anni.
I capitoli scorrono e si alternano tra la
narrazione della storia dello Champagne,
piuttosto che dell’evoluzione del gusto di
questo vino attraverso 350 anni di vita. Nel
capitolo dedicato alle uve usate per comporre le cuvée, ben evidente è lo sforzo
colturale dei vignerons per forgiare una
qualità aristocratica. Molto efficace è il
capitolo dell’assemblage champenoise,
dove il lettore può acquisire informazioni
decisive per comprendere quale qualità
attendersi dalle oltre 45mila tipologie di
Champagne annualmente prodotte. Il capitolo della tecnica della degustazione mette
in evidenza il differente criterio descrittivo e
di indagine da impiegare per raccontarsi e
raccontare un vino, in cui la presenza e la
sostanza delle bollicine ne determina il livello
di gradevolezza, disegnando arabescate
eccellenze oppure offuscanti mediocrità.
Infine l’abbinamento cibo-Champagne.
Scopriamo ancora una volta – ammesso
che ce ne fosse bisogno, e quindi diventa
un’ulteriore conferma – la versatilità d’uso di
questo vino. Si passa dalle alleanze privilegiate e di tradizione come fegato d’oca e
Champagne demi-sec, all’impiego con la
pizza, con la pasta, con la carne bianca e
rossa, con i formaggi e i dessert. La lettura
produrrà un cambiamento nell’uso dello
Champagne, certi dettagli prima tralasciati
diventeranno cardini di qualità, alcune consolidate certezze saranno tralasciate ma alla
fine varrà sempre l’incancellabile motto: lo
Champagne che più vi piace è sicuramente
il migliore.
Autore di Champagne e Champagnes
(Bibenda Editore – Roma) è Roberto Bellini,
che mette a frutto un’esperienza trentennale nel modo del vino e dello Champagne,
passando attraverso i corsi per sommelier Ais
in Italia e all’estero, e si concretizza con il
titolo di “ambassadeur du Champagne” nel
2005 e nella creazione della École de
Champagne. Il brindisi al libro è doveroso, gli
auguri all’autore una ritualità, l’invito alla lettura un caldeggiato suggerimento.
107
Pillole
Il vino è salute
Al Med Centro Congressi di Capri si è tenuto il
convegno “Vino e Salute, Vino è Salute, Vino?
Salute!” sugli aspetti patologici, benefici e ludico
del vino, un incontro fortemente voluto dal
presidente Ais Campania, Antonio Del Franco, e
dal presidente nazionale Ais, Terenzio Medri, per
dimostrare quanto un giusto e consapevole
consumo di vino non arrechi danno alla salute,
propria e di terzi.
In un momento in cui parlare di tassi alcolemici e di
etilometri è sempre più di attualità, in un mercato
invaso dal consumo di mix di bevande alcoliche e
di superalcolici, illustri ospiti del mondo del vino e
delle istituzioni hanno ragionato su quanto un
moderato consumo di vino sia importante e ne
apporti anzi beneficio. Dagli interventi di Adriana
Monzo, psicoterapeuta e componente gruppo
lavoro Dieta Mediterranea della Fondazione
“Alberto Fidanza” di Roma e referente
dell’associazione “Farmagourmet” di Salerno, di
Roberto Sgalla, direttore del Servizio di polizia
stradale, di Lucio Mastroberardino, vicepresidente
Unione Italiana Vini, e dalle conclusioni di Terenzio
Medri, moderati da Luciano Pignataro, giornalista
de «Il Mattino» ed esperto enogastronomo, autore
di guide di settore, emerge che il vino fa bene, non
108
solo, ma che aiuta alla socialità e alla cultura.
Ma cosa incide sulla salute psicofisica e
sull’andamento regolare alla guida di
un’automobile dopo i consentiti due bicchieri per
non superare la soglia dello 0,5 ammesso dalla
legge? Bisogna distinguere anzitutto che il vino è
un alimento che dà il giusto complemento a un
pasto equilibrato e viene assorbito dall’organismo
in misura fisiologica, mentre alcolici e superalcolici
incidono sullo stato di ebbrezza alla guida di un
autoveicolo e il test dell’etilometro effettuato in
sala, poi risultato negativo, ha ottenuto la
concentrazione dei presenti. Un adulto
responsabile sa moderare e gestire la quantità di
alcol e anche smettere, se è il caso, prima di
mettersi su strada. Ma per i giovani è diverso. Da
qui, dunque, un’educazione e la diffusione di una
cultura che sappia sensibilizzare e coinvolgere
anche il mondo giovanile. Un progetto da attuare
in collaborazione con la pubblica sicurezza è
quanto è emerso a chiusura della giornata di
lavori. Inoltre un’attenzione particolare va data al
mercato di un comparto trainante per l’economia
italiana, quale quello del vino, e la figura del
professionista di settore nella divulgazione e nella
conoscenza del sistema vino assume una
centralità fondamentale. Non demonizzare, quindi,
una bevanda che fin dall’antichità ha la sua
letteratura ma capovolgere la questione e
formare una ragionata consapevolezza.
Nel pomeriggio, al Capri Palace Hotel di Anacapri,
un laboratorio di degustazione sui vini delle isole di
Capri, Ponza, Ischia e Pantelleria, e incentrato sulla
viticultura delle piccole isole mediterranee, spesso
eroica per le sue difficoltà di coltivazione, è stato
guidato dalla campionessa nazionale Nicoletta
Gargiulo e dai campioni regionali Angelo Di
Costanzo e Salvatore Correale, fiore all’occhiello di
una Campania felix che sa bere e promuovere le
eccellenze del proprio territorio.
(Michela Guadagno)
Il premio Villa Sandi
punta sui giovani
Si confermano creatività, professionalità e spirito di iniziativa i requisiti per selezionare i giovani sommelier
che da nove anni il premio internazionale “Innovazione nella professione”, voluto da Villa Sandi di
Crocetta del Montello, nel Trevigiano, insieme all’Associazione italiana sommelier, riconosce, innalzandoli
nell’Olimpo dei professionisti del settore.
Anche quest’anno il prestigioso appuntamento è andato in scena nella villa seicentesca, sede della
casa vinicola di Giancarlo Moretti Polegato. Un’edizione dal sapore decisamente internazionale: dallo
scorso anno, infatti, il premio va oltre confine e viene esteso ai sommelier under 29 che lavorano
all’estero e sono quindi i portavoce per eccellenza del vino italiano nel mondo.
Tre le borse di studio assegnate a
Riccardo Sgarra, capo sommelier alla
“Locanda nel Borgo Antico” a Barolo,
nel Cuneese, al padovano Daniel
Marzotto, assistant manager head
sommelier all’ “Osteria dell’Angolo” di
Londra e a Diego Meraviglia, assistant
wine director del ristorante “Il Moro” di
Los Angeles. Londra e Los Angeles,
dunque, emblema di due fra i più
importanti mercati per l’export dei vini
italiani, assieme a Inghilterra e Stati Uniti.
Preziose le indicazioni fornite dai
sommelier sulla loro esperienza in queste
due grandi metropoli: sia Marzotto che
Meraviglia hanno confermato il
momento felice per il prosecco che
continua a crescere e a riscuotere
consensi da un mercato sempre più
ampio.
Su giovani come loro occorre dunque puntare, a parere della giuria che li ha voluti premiare. Ne hanno
fatto parte Giancarlo Moretti Polegato, presidente di Villa Sandi; Terenzio Medri, presidente
dell’Associazione italiana sommelier; Nicola Dante Basile, giornalista de «Il Sole 24 ore», esperto di
agroalimentare; Alberto Schieppati, direttore di «Food and Beverage»; Paolo Pirovano, giornalista
televisivo, collaboratore della rivista dell’Ais «DeVinis»; Mauro Remondino, giornalista del «Corriere della
Sera»; Bruno Gambacorta di «Eat Parade-Rai 2».
I giurati si sono espressi in una serata di grande atmosfera, impreziosita dall’esecuzione delle più
importanti arie di Maria Callas e dalla degustazione di un menù con piatti ispirati ai sapori della Grecia,
curato dall’Hotel Terme di Vittorio Veneto e accompagnato da ottimi vini. Protagonista della serata,
Opere Trevigiane, lo spumante metodo classico di Villa Sandi, insieme al Cartizze Vigna La Rivetta, nastro
d’oro al concorso nazionale spumanti d’Italia del forum spumanti.
(Luisa Barbieri)
Diego Meraviglia, Daniel Marzotto e
Riccardo Sgarra premiati da Terenzio
Medri e da Giancarlo Moretti Polegato
109
Pillole
Cento cantine per riscoprire
la Mitteleuropa
Un’unica location, tre manifestazioni. Dall’1
al 3 marzo 2010, presso il Molino Stucky Hilton
Venice a Venezia si terrà Gusto in Scena,
appuntamento ideato da Marcello Coronini
per proporre tre eventi in uno: “Chef in
Concerto”, congresso gastronomico,
“Seduzioni di Gola”, selezione di prodotti
gastronomici di tutta Italia, e “I Magnifici
Vini”, rassegna di cento cantine italiane,
austriache e slovene. Proprio “I Magnifici
Vini” si rivolgerà anzitutto ai sommelier di
tutta Italia. In degustazione vi saranno circa
400 vini presentati dalle aziende, disposte
secondo la classificazione mare, montagna,
pianura e collina. Studiato da Marcello
Coronini con il contributo scientifico del
professor Attilio Scienza, tale ordine
permetterà di capire, durante la degustazione, come un diverso ambiente influenzi il vino e
quanto le differenze derivino dalla storia e dalla tradizione di quel luogo. Un aspetto che assume
quindi una valenza culturale oltre che geografica. L’Italia, infatti, non presenta un solo mare o
una sola montagna ma molti ambienti diversi, frutto di secoli di lavoro e della fatica degli abitanti
del posto. Seguendo questa disposizione, si potranno degustare i vini di Italia, Austria e Slovenia,
Paesi che, idealmente, faranno rivivere lo spirito della Mitteleuropa. Si terranno poi le degustazioni
“speciali”. Fra tutte, segnaliamo due spettacolari verticali: una di Grüner Veltliner e Riesling
austriaci dagli Anni ‘50 ad oggi, la seconda “dedicata all’Italia”, che vedrà protagonista il Pinot
Bianco della Cantina di Terlano a partire dall’annata 1954.
Con esse si dimostrerà che i grandi bianchi hanno una longevità pari ai grandi rossi. La presenza
dei vini non sarà però limitata al banco
d’assaggio. L’evento Gusto in Scena,
infatti, è stato ideato per creare un
dialogo fra due mondi
strettamente dipendenti fra
loro, che difficilmente si
incontrano: quello dei
produttori di vino e quello
dei ristoratori.
Nell’edizione 2010 ci sarà
quindi una stretta
relazione fra il congresso
gastronomico “Chef in
Concerto”, cui
prenderanno parte chef
stellati di tutta Europa, e “I
Magnifici Vini”.
Durante il congresso, ogni intervento degli chef relatori sarà affiancato alla presentazione di due
vini delle aziende presenti al banco d’assaggio. Ognuno potrà poi valutare se l’abbinamento è
centrato. Non mancherà il dibattito, anche perché “Chef in Concerto” farà confrontare chef
relatori e platea su un tema originale: trovare una definizione alla cucina italiana, che ancora
manca. Se la francese è la cucina che ha codificato le basi delle cucine europee, la spagnola è
creatività e sostanze innovative, quella italiana come può essere definita? Questo sarà il quesito.
A Gusto in Scena tutti i grandi cuochi presenti saranno invitati a dare la propria risposta.
Obiettivo? Uscire dal congresso con una definizione della nostra identità in cucina.
Per informazioni: www.gustoinscena.it - [email protected] - Tel. 02. 29404086
110
Libri
SULLO SCAFFALE
AUTOCTONO SI NASCE
A cura di: Francesco Falcone
Editore:
Go Wine Editore
Prezzo:
12,00 euro
di Natalia Franchi
I PROFILI DEL VINO
Alla scoperta
dell’analisi sensoriale
Autore: Mario Ubigli
Editore: Edagricole
Il Sole 24 Ore Business Media
Prezzo: 23,00 euro
Un viaggio dal nord al sud dell’Italia con 100 vitigni segnalati e oltre 270 vini offerti alla conoscenza di appassionati e aspiranti tali. Strumento prezioso, questa guida, per quanti vogliano stupire i
commensali citando terroir poco noti ma di pregio (inclusi nella guida al pari dei più rinomati) o,
più semplicemente, desiderino addentrarsi con il
piede giusto nell’universo generoso del vino, le
cui radici affondano nelle
origini della civiltà dell’uomo. Un assunto molto chiaro all’autore del volume,
Francesco Falcone, giovane
degustatore e giornalista il
cui cognome e le cui origini pugliesi evocano la fiamma indomita di un certo
sud: orgoglioso e votato con
puntiglio alle grandi cause.
La guida muove dall’intento fondante l’Associazione
Go Wine, che la edita: valorizzare il patrimonio ampelografico del Paese, rispettare i vini di terroir, celebrare il tema/valore del
viaggio e favorire la conoscenza di piccoli coraggiosi produttori estranei alle logiche del business massificato. Falcone specifica che la selezione dei vitigni e dei vini è stata subordinata a tre fondamentali condizioni. La prima, che la varietà fosse vinificata in purezza. In secondo luogo che il
vitigno/vino in questione fosse facilmente reperibile sul mercato, per evitare di disorientare il consumatore e consentirgli una prova sul campo. In
ultimo, l’assaggio diretto, che ha precluso l’inserimento nella guida di vini meritevoli ma non “testati” e dunque comprensibilmente esclusi. Ad ogni
vitigno sono dedicate due pagine, con una grafica
pulita che facilita la lettura: un completo repertorio delle sue caratteristiche con una ampia serie di
dati di carattere divulgativo e conoscitivo (i sinonimi presunti e le altre grafie, la principale area di
coltivazione e le principali denominazioni in cui è
protagonista, il suo profilo in campagna, nel bicchiere e al ristorante) e, a fianco, una selezione di
vini, accompagnati dall’immagine dell’etichetta, che
maggiormente esprimono, secondo l’autore, le qualità e le caratteristiche del vitigno medesimo (il
primo anno di produzione, l’altitudine del vigneto
e la tipologia del terreno, la forma di allevamento
e il tipo di viticoltura, il periodo di raccolta e la
maturazione, le bottiglie prodotte e il prezzo in enoteca).
A dieci anni dalla prima edizione del volume, eccone la
terza, arricchita di due interessanti capitoli. Ne scrive
nella prefazione, non senza orgoglio (dovuto anche all’assegnazione alla prima edizione del Prix OIV – Organisation
Internazional de la Vigne et du Vin di Parigi), l’autore
Mario Ubigli, enologo di lungo corso e, dal 2003, direttore incaricato del Cra (Centro di ricerca per l’enologia)
di Asti. Alla scientifica e precisa trattazione di come,
dove, quando e addirittura con chi debba avvenire l’assaggio del vino e la relativa analisi sensoriale, Ubigli
aggiunge a questa edizione, comunque aggiornata nei
capitoli già esistenti, il doveroso inserimento di quanto, ormai alla base di un vivace dibattito internazionale ricco di risvolti tecnici, è diventato un problema – quello che noi
Italiani chiamiamo gusto di tappo –
assurto ad aspetto da valutarsi e da
includersi a pieno titolo nell’analisi
sensoriale del vino. Seconda new
entry, l’assaggio dell’uva di vino,
prassi empirica ormai divenuta
metodo ma attorno alla cui imperfezione ancora resta molto da fare.
Colori, odori, gusti e sapori del vino
vengono passati in rassegna con una
puntigliosità e un trasporto che solo
una grande passione rendono possibile, quella per l’universo del vino,
condivisa dai lettori di DeVinis. Il capitolo dedicato ai
gusti del tappo esordisce con il chiarimento di un’inesattezza: quello di tappo non è un odore, bensì un sapore. Quello della muffa che trova nel tappo il substrato
preferito. Un sapore che possiamo trovare anche in
vini che il tappo non l’hanno mai visto. Sottoposto a
numerosi controlli di qualità, il tappo sano differisce da
vino a vino e non è inerte, contribuendo all’insieme delle
caratteristiche di un vino imbottigliato, conferendo allo
stesso sostanze volatili che partecipano alla complessità aromatica del prodotto. In buona sostanza, il sapore
di tappo, non è un difetto nell’economia della bontà di
un vino, ma una caratteristica da analizzare e “gestire”.
Il capitolo dedicato all’assaggio dell’uva pone in rilievo
le difficoltà di una identificazione standardizzata di
uve sane, idonee a conseguire buone produzioni di vino.
Appare infatti difficile evidenziare i complessi meccanismi che mettono in relazione alcune caratteristiche fisiche dell’uva con la qualità del vino ottenuto. Al lettore
del volume, la scoperta dei metodi più efficaci per affinare la tecnica.
Vernaccia e Schioppettino senza veli.
Anche per le volpi, l’uva ha smesso di essere verde.
112
SCENARI DI MARKETING
DEL VINO
Una prospettiva
al femminile
A cura di: Andrea Rea
Editore:
Franco Angeli
Prezzo:
25,00 euro
Non è un caso se la collana Fine Food & Beverage
di cui il presente volume fa parte, assegni all’universo femminile quella prospettiva di cambiamento che
i più recenti studi sociologici vedono nell’operato delle
donne. Una capacità che emerge sempre più chiaramente nel contesto globalizzato dell’economia mondiale: affollamento dei mercati, continuo progresso
delle tecnologie e delle opportunità di comunicazione, richiedono non solo abilità competitive, ma la
creatività e il senso pratico che le donne hanno saputo dimostrare nei secoli.
E dal momento che globalizzazione – come potrebbe sembrare – non è sinonimo di omologazione, bensì
di confronto tra saperi
diversi e complessità,
ecco emergere il reale
valore aggiunto del sesso
femminile, che lungi dal
reclamare a gran voce
una uguaglianza di genere (ci accontenteremmo
di una uguaglianza di
diritti) fa della tutela e
dello sviluppo della propria diversità la chiave
per promuovere interazioni costruttive e innovative. Anche i mercati
del vino sono entrati in
una fase nuova ad alta
competitività, che prelude a una maggiore esigenza e professionalità di marketing. Un marketing che diviene protagonista nel
ricercare e realizzare l’intesa tra impresa e consumatore. Le “Donne del Vino”, questo il nome dell’associazione che le raggruppa, nonché protagoniste dell’indagine di queste pagine, offrono un osservatorio privilegiato per le esperienze e le sfide di cui
si racconta e di cui si sono rese protagoniste. Offrono
anche un grande esempio di come professionalità
diverse – imprenditrici, enotecarie, sommelier, giornaliste – trovino in una insopprimibile passione la
base comune per portare avanti quanto sta loro a
cuore.
GIANNI MASCIARELLI
Un vignaiolo a modo suo
Autore: Andrea Gabbrielli
Editore: Veronelli Editore
Prezzo: 17,00 euro
Non poteva immaginare l’autore, scrivendo questo libro, quale tragedia si sarebbe abbattuta
nell’aprile 2009 su quella terra – l’Abruzzo – che
ha dati i natali al protagonista della presente
biografia: il vignaiolo Gianni Masciarelli di San
Martino sulla Marrucina, piccolo borgo di un
migliaio di anime, incastonato tra i monti della
Majella e il mare Adriatico, a venti chilometri da
Chieti. Un terremoto devastante che ha tristemente consentito agli Italiani di conoscere il sentimento di dignità insito nelle
genti d’Abruzzo. Un sentimento che nel 1963 fa
scrivere all’abruzzese
Raffaele Mattioli, allora
Presidente della Banca
Commerciale Italiana, in
una lettera all’ingegner
Longo (allora Presidente
della Banca Nazionale del
Lavoro): “Conosco troppo
bene la gente della mia
terra, e so quanto è ritrosa di fronte alle manifestazioni ufficiali, quanto scettica dei complimenti di maniera (…) Anche la serenità di fronte agli eventi, anche la riduzione dei
sommi problemi all’apologo, è un tratto distintivo
della fisionomia della mia terra”.
Lo stesso spirito di Gianni Masciarelli, classe 1956,
che ha saputo inventare il mondo vinicolo abruzzese, riscattando trebbiano e montepulciano
d’Abruzzo, vissuti dai più con sufficienza, per diventare a pieno titolo tra i pochi e noti viticultori (insieme a Caprai) a varcare i confini nazionali.
Il volume è una raccolta godibilissima di contributi e tributi alla pervicacia di Masciarelli che, in
poche righe, spiega con disarmante semplicità: “Io
faccio sempre l’esempio di chi ama veramente i
cavalli, cioè di chi ama iniziare un rapporto con
l’animale quando non è ancora abituato alla sella.
Per me con il vino è la stessa cosa e anch’io voglio
partire dall’inizio perché provo le stesse emozioni:
voglio partire dal chicco d’uva che poi si trasforma e diventa mosto per poi proseguire sino ai vinificatori in legno di rovere e poi alla barrique”.
Passione come polvere da sparo.
Il marketing si tinge di rosa.
113
Io non ci sto
Macché 0,5: il Corsera
chiede zero vino per chi guida
di Franco Ziliani
ormai diventato un assalto alla diligenza, un po’
scomposto, spesso manicheo, anche se dettato da
nobili intenti, ovvero cercare di ridurre il numero di vittime, soprattutto giovani, di incidenti stradali,
le cosiddette “stragi del sabato sera”, che a dire il vero
si verificano purtroppo anche in altri giorni della settimana, quello che il vino, in Italia, come pure in un altro
Paese storico produttore come la Francia, sta subendo.
Veicolato non solo da uomini politici consapevoli di contare su un tema sentito e popolare (come si fa a opporsi a chi dice di voler ridurre il numero dei morti sulle
strade?) e che non esitano a cavalcare la tigre della demagogia a un tanto al chilo, ma anche da medici che dimenticano come tonnellate di studi realizzati da loro colleghi in tutto il mondo attestino come un moderato e consapevole consumo di vino faccia innegabilmente del bene
alla salute delle persone adulte, passa insidiosamente il
pensiero che, insomma, il vino sia pericoloso.
Che siano anche Barbera, Bardolino, Lambrusco, Chianti,
Frascati, Montepulciano d’Abruzzo, Nero d’Avola, il loro
consumo, anzi, un uso e abuso, alla base degli incidenti stradali che rendono i notiziari dei telegiornali
altrettanti bollettini di guerra. Questo anche se resta
totalmente da dimostrare che il prodotto caro a Bacco
sia effettivamente causa dello stato di ebbrezza in cui
versano le persone sottoposte ad analisi dopo incidenti
stradali che le hanno viste protagoniste. Sono invece
spesso i superalcolici, che sono cosa ben diversa dal
vino, o un mix malefico di beveroni vari e droghe, a causare l’assenza di riflessi, l’appannamento, lo stordimento, in altre parole una condizione fisica del tutto inadatta alla guida di un’autovettura o di una moto, che rendono pericolosissimi, delle vere bombe in movimento, gli
incoscienti che si mettono alla guida. E il mondo del vino,
che almeno su questioni di basilare importanza come
questa potrebbe trovare un’operosa unità d’intenti,
dovrebbe pretendere che venissero rese note notizie in
grado di distinguere il grano dal loglio e che non mettano il vino in un confuso calderone in compagnia di
bevande che sono totalmente diverse.
Questo consentirebbe di proporre al lettore-consumatore un’informazione più corretta. In questo modo, ad
esempio, “costringendo” il Ministero degli Interni e chi
elabora i dati statistici relativi alle cause degli incidenti stradali a chiarire come il consumo eccessivo di vino
possa essere rarissimamente definita la causa scatenante di incidenti della strada, non si sarebbe creato il “brodo
di cultura” che ha reso possibile e direi quasi “naturale” la pubblicazione di un articolo incredibile apparso
sul Corriere della Sera domenica 4 ottobre, dal titolo,
ancora più incredibile, di «Quanto vino può bere chi
guida? Zero alcol». Articolo pubblicato nello spazio “Pensa
la Salute” affidato al curatore del supplemento Salute
È
114
Riccardo Renzi. Rispondendo alla seguente lettura di un
lettore, “Ho seguito in Tv un dibattito sulla quantità di
vino che si può bere prima di guidare. Ho capito che è
molto difficile regolare la quantità: mi sembra che la legge
sia davvero troppo «cervellotica»”, l’articolista ha risposto: “(…) Argomento in settimana rilanciato da una puntata di Porta a porta, in cui si è disquisito a lungo di
grammi di alcol e relativi effetti, su chi “regge” meglio e
sulle qualità del vino. Ora forse varrebbe la pena chiarire il senso delle norme che regolano l’assunzione di
alcol da parte degli automobilisti: lo “spirito” (è il caso
di dirlo) della legge, così come di tutte le analoghe normative in vigore nei principali Paesi, è che non bisognerebbe bere proprio niente prima di mettersi al volante. Questa imposizione è suffragata da un mare di ricerche e studi in tutto il mondo. Se la normativa ammette
un “cicchetto” dipende dal fatto che non si vuole essere
eccessivamente persecutori, punendo anche i peccati
veniali. Ma in realtà non è questione di grammi, di sesso
del guidatore o di peso corporeo, il messaggio vero, secondo me, è “zero alcol” per chi guida, visto che comunque
è difficile calibrare i reali effetti e la sensibilità dell’etilometro. Quello che invece non riesco a capire è perché
il prestigio del vino e il destino dell’industria vinicola
sembrano dipendere da questa legge, spesso criticata
perché “danneggia l’immagine” di questo importante prodotto italiano.
È verissimo che c’è anche la birra e che i superalcolici
e i cocktail sono molto peggio, ma nessuno può negare
che anche il vino ha un contenuto alcolico. Il buon
vino ha cento argomenti per difendere il proprio prestigio, può persino sostenere che in dosi moderate fa bene
alla salute. Perché accanirsi contro norme che, in fondo,
sono di semplice buon senso?”. Non bastava l’applicazione iperciliosa, rigorosa sin quasi alla persecuzione (ad
un caro amico sommelier che si era limitato a condurre in pubblico una degustazione e non aveva certo “bevuto”, è stata ritirata la patente perché i limiti alcolici riscontrati in un controllo erano di 0,6, ovvero di un niente
superiore al limite di 0,5 consentito), ora, nel nome di
un improbabile rigore contro il “cicchetto”, e perché “è
difficile calibrare i reali effetti e la sensibilità dell’etilometro” si vorrebbe chiedere a chi guida di astenersi completamente dal bere.
Obietti pure, il purista responsabile delle pagine Salute
del Corriere della Sera, che la mia è una difesa corporativa da cronista del vino, ma di fronte a posizioni come
la sua, contrarie al buon senso, del tutto indifferenti
ai valori economici e culturali del vino, e oggettivamente dannose verso il mondo del vino e della ristorazione
e lesive dei diritti di noi moderati consumatori, non posso
che ripetere, con tenacia e forza, eh no, io non ci sto
proprio!