sci di fondo - Geronimo Carbono

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sci di fondo - Geronimo Carbono
SCI DI FONDO
…. E ogni anno arriva l’inverno; lo preannuncia
l’odore. L’odore della neve, quando l’autunno volge
alla sua maturità, quando le foglie hanno perso i loro
colori cangianti e si sono stabilizzate sulle tonalità del
marrone, è allora, con “l’arsura del fogliame” che il
vento lo porta.
Lo si sente orientando le froge a Nord Ovest,
aspirando profondamente l’aria e lasciandola
scorrere sul palato. E’ chiaramente percettibile e
richiama alla mente distese bianche, silenzio e pace.
Quelli erano inverni.
Cominciavano presto, non coincidevano quasi mai
con la stagione astronomica e portavano quantità
enormi di neve. Anche alla quota relativamente bassa
di Borganza (720 metri circa slm) (slm non è il codice
fiscale di salame, ma è l’acronimo di “sul livello del
mare”) le nevicate erano abbondanti e coprivano
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ogni cosa con coltri spesse anche molto più di un
metro.
E allora “Fiesta!” Ci si scatenava tutti, bambini piccoli
e grandi, in mille attività ludiche. Gli adulti invece si
occupavano di spalare la neve davanti ai garage e
liberare la strada per arrivare alla Statale.
Ovviamente colorendo l’attività con le più disparate
imprecazioni nei vari idiomi, rivolte soprattutto agli
dei maligni che, senza ritegno, si permettevano di
sporcare il mondo in quel modo.
Così, quando smetteva di nevicare e qualche barlume
di sole incrinava il grigio uniforme del cielo, tutti
fuori, a rompere il silenzio, vestiti con strati e strati di
calze di lana (almeno due); maglioni (altri due
preceduti da canottiera di lana e dolcevita . . . di
lana); rigorosa calzamaglia (manco a dirlo) di lana;
giacca a vento (non piumino che non esisteva) tra
puntatina di colori vivaci (blu carta da zucchero era il
prevalente); berretto (di lana) con pon-pon e guanti a
moffola che, dopo tre minuti di battaglia a palle di
neve, ti lasciavano le mani gelate e completamente
fradice.
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Ai piedi gli scarponi “da sci” che non erano
esattamente uguali a quelli che oggi siamo abituati a
vedere indossati dagli sciatori: niente plastica a colori
vivaci, niente chiusure ermetiche con ganci.
Scarponi di cuoio, quasi sempre di colore marrone,
con le stringhe, lunghe stringhe bicolori che
chiudevano la scarpa sino a metà attraverso fori e
che, da metà in su, bisognava agganciare in piccoli
gancetti metallici ad incrocio, per finire con un bel
doppio nodo che non si doveva disfare, se no, con le
mani gelate, chi lo rifaceva più?
Quegli scarponi, che tenevano il piede caldo come
due blocchi di ghiaccio, servivano per camminare, per
correre e per sciare, in discesa, dalla discesa di San
Rocco (così chiamata perché in fondo c’è l’omonima
cappella).
Ma per sciare ci vogliono gli sci. Già!
Gli sci: due tavole di legno, non sempre pitturato di
qualche colore sgargiante, più comunemente “tinta
legno”; lunghi, ma così lunghi che quando si partiva in
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cima alla discesa di San Rocco, le punte erano già
quasi in fondo.
Era come avere ai piedi due travi; impossibile farli
girare se non con sforzi sovrumani… ma tanto a noi
interessava la discesa libera….
Per rimanere attaccati agli sci c’erano gli attacchi
(quelli di panico perché non eravamo capaci a
fermarci e quelli di ferro per gli scarponi). Si
chiamavano attacchi perché una volta “attaccati” agli
sci, non ci si staccava più in nessun modo. Altro che
attrezzi ipertecnologici che alla minima torsione
sbagliata liberano il piede salvando caviglie e
ginocchia. La presa era granitica, con un cordino
metallico che, girando dietro al piede e facendo forza
su di una sporgenza dello scarpone sopra il tacco,
saldava letteralmente lo sciatore ai propri attrezzi
rendendoli corpo unico.
Ad assicurare che nulla potesse separarli, una
chiusura a leva in avanti portava la punta dello
scarpone, anch’essa dotata di sporgenza apposita, a
bloccarsi contro il puntale di metallo. E allora giù.
Lungo la discesa che, ovviamente, avevamo
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precedentemente battuto con i potenti mezzi a
nostra disposizione (sempre gli sci, salendo di
traverso, nella posizione detta “a scaletta”).
Sette secondi di discesa, settanta di risalita. Piccoli
masochisti.
Almeno ci si scaldava. La discesa di San Rocco (forse il
santo protettore delle gambe, visto che nessuno si è
mai fatto male seriamente), però era terreno di sfida
anche con altri attrezzi da sport invernale: gli slittini,
nelle varie fogge e filosofie costruttive e i sacchetti di
plastica, molto meno olimpici, ma con una tendenza
riciclistica da tempi nostri.
Con la slitta, usata indifferentemente a pancia in giù
o in su, la goduria era fare i salti (a volte non tanto
goduria quando il salto era giù dal muro di fianco alla
strada).
In fondo alla discesa, orientato in modo che non si
dovesse forzatamente entrare in San Rocco
attraverso il portone chiuso (persino un Santo si
sarebbe un po’ alterato), costruivamo un trampolino
di neve riportata e poi giù culate (o panciate, secondo
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la posizione sulla slitta) all’atterraggio. Vince chi fa il
salto più lungo (da vivo).
Ma l’attività più tosta, più sportivamente appagante,
quando il “campo dell’erba” era completamente
ricoperto di neve, era lo sci di fondo.
Lì eravamo dei professionisti. Per cominciare
eravamo iscritti ad uno sci club: il glorioso “Sci club
Ormea”; organizzatissimo, con allenatori,
sciolinatori, preparatori ed un nugolo di atleti, di
ogni età.
L’attrezzatura era di primordine; sci Kahru, scarpette
tecniche con punta esagerata per fissarle agli
attacchi, bastoncini ad altezza spalla, pantaloni da sci
elasticizzati con riga laterale d’ordinanza. (Più,
ovviamente, berretto, guanti e giacca a vento, gli
stessi della discesa da San Rocco).
Sotto ovviamente la lana, sempre quella: calzamaglia,
canottiera, maglioni… così ci si poteva grattare come
se si avesse la scabbia. Ma grattarsi era anche un
modo per scaldarsi.
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Finito di grattarsi ci si allenava ognuno per la propria
distanza di gara. Perché tutto questo era finalizzato a
gareggiare nelle varie località della Provincia, nelle
varie categorie divise per fasce d’età e sesso.
Prima attività preparatoria all’allenamento: la
sciolinatura. Questa era una di quelle espressioni un
po’ alchimistiche dello sport che sembrava destinato
agli iniziati di una qualche religione pagana, tipo lo
Sciolinismo, il cui rito iniziatico era il famigerato:
<< tirare la sciolina con il tappo>>.
Si prenda un tappo di sughero, possibilmente di quelli
da damigiana;
si assaggi la consistenza, peso, temperatura della
neve che si andrà gioiosamente a calpestare;
si scelga, in base ai risultati dell’analisi precedente, la
sciolina adatta;
la si applichi sugli sci (meglio sulla parte inferiore) con
movimento tipo cucitura a punti larghi;
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utilizzando l’apposito attrezzo (il tappo) ed energia
adeguata (olio di gomito), spandere la sciolina su
tutta la superficie di contatto.
Sembra facile vero? Non lo è.
In primo luogo capire la neve non è da tutti: è
sicuramente bianca, è sicuramente fredda, ma non
basta; da quanto è caduta? Quanto è umida? Fredda,
ma quanto?
E’ quindi in base a questi parametri che bisogna
scegliere la sciolina giusta tra quelle morbide (in
tubetti tipo dentifricio) o quella dura (in stick tipo
deodorante ascellare).
La Kristel, la Skar, quella rossa, quella blu, quella
nera…… boh!
Vabbè, ma perché tanto accanimento per scegliere
questa roba appiccicosa e far tutta quella fatica per
metterla?
Lo dice il nome stesso, sciolare (dal tardo veneto); ma
non solo scivolare più agevolmente in avanti, che è
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sicuramente importante, ma, soprattutto, per non
scivolare indietro, che fa fare il triplo della fatica.
Ovviamente c’erano anche sistemi più tecnologici
tipo la fiamma ossidrica che scaldava la sciolina e
agevolava l’operazione, ma c’erano problemi di
budget e per dei bambini era meglio non giocare con
il fuoco e poi usare il tappo era la prima fase di
riscaldamento per le braccia.
E allora via. NO! Non ancora. Manca la pista. Non si
può fare fondo senza due bei binari ben battuti.
Quindi via sì, ma con gli sci da discesa che sono più
larghi. Si fa la pista, piano piano, con fatica, perché gli
sci da discesa non vanno in salita (sarebbe contro
natura). Finito il lavoro, sci sciolinati, tutto in ordine,
si parte per l’allenamento.
Si comincia da Borganza e, passando sotto gli archi
della ferrovia, si arriva lungo Tanaro dal Cimitero
nuovo, giù fino alla chiusa e poi ancora fino al ponte
di San Giuseppe. Lì si attraversa Tanaro, si volta a
sinistra verso la Cartiera, si gira e si ritorna, stessa
strada al contrario, ma su binari paralleli.
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<<Simonetta, vieni giù da quella discesa!>>
<<No io non scendo!>>
<<Dai, è lunga venti metri>>
Simonetta va forte con gli sci da fondo, è una
ragazzona potente che spinge forte. Ma in discesa no,
qualsiasi discesa per lei è un problema; si siede in
cima e lì rimane a piagnucolare insensibile alle
lusinghe ed anche alle minacce di Ico, suo padre che
la segue sempre. Ed ogni volta proferisce il suo
<< Oh lì!!>>
Finito l’allenamento tutti a casa per bere il tè caldo e
mangiare una prelibatezza: neve e Ovomaltina, uno
spettacolo!
Di domenica le gare; si parte in carovana con le
macchine, con i portasci, gli sci con le code
rigorosamente in avanti (vero, amici liguri?) si va
nelle varie località dove si gareggia: Chiusa Pesio,
Prazzo, Festiona, etc.
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Qualcuno di noi va anche forte; ma poi, una
domenica, ad Ormea, la gara di tutte le gare:
vengono da noi i campioni, quelli veri, quelli che
fanno le Olimpiadi e uno di loro le ha anche vinte...
Lì si vede veramente come sciano quelli che vanno
forte: Franco Nones, Franco Stella, Manfroi, che non
ricordo come si chiamasse di nome, ma
probabilmente anche lui Franco, per forza, perché
quelli che andavano forte si chiamavano tutti Franco.
Anche il nostro campioncino locale si chiama così,
quindi ….
E’ bravo il nostro Franco, vince parecchio, batte
persino i Tino di Chiusa Pesio! Ma l’ammirazione per
lui, nella mia famiglia, non era dovuta alle sue
imprese sportive. Di Franco, a me e mio fratello,
piacevano le sorelle, due autentiche bellezze ai nostri
occhi, una un po’ più giovane di mio fratello, l’altra
appena più vecchia di me e, tutte e due, facevano
fondo.
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