DISSEQUESTRATE LA BIBBIA! 1> Introduzione
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DISSEQUESTRATE LA BIBBIA! 1> Introduzione
I QUADERNI DI VINCENZO ROMANO QUADERNO N° 4 DISSEQUESTRATE LA BIBBIA! <1> Introduzione La Bibbia e l'uomo d'oggi La Bibbia: uno dei libri più antichi del mondo, forse il più pubblicato, forse anche il meno letto, certamente il più difficile a penetrare con i soli mezzi umani. Un libro che si vanta di contenere i principii essenziali per tradurre l' esistenza in pienezza di Vivere, e di esporli in maniera da renderli accessibili anche ai semplici. La mia esperienza personale potrà forse essere utile al lettore. Agli inizi del mio ricercare mi son posto il problema di come procedere. Avevo due strade davanti: la prima era quella corrente e sicura; la seconda più audace e molto insicura: A) Potevo partire dall'analisi di quanto era stato detto e teorizzato e cercare evoluzioni, che soddisfacessero il bisogno di sensi sempre più pieni. Ma la produzione alluvionale e ripetitiva di testi storico-critici mi ha spaventato, come i Macedoni di Alessandro di fronte all'esercito persiano. Mi sono reso conto che la dottrina umana tende a costituirsi in sistema complesso per non perdere il potere del sapere; e, poiché un lettore medio non può gestire quell'insieme che gli studiosi sono stati costretti a spartirsi fra loro in settori specialistici, la Bibbia risulta praticamente illeggibile. B) In conclusione ho riflettuto, che se la Bibbia non può appartenere a nessuno, quando viene studiata con i metodi in voga; che se la sua lettura deve necessariamente assumere una dimensione personale, rendendosi a misura del lettore, io dovevo cambiare registro. Ho scelto allora di mirare a Dario, cioè andare al cuore del problema; di tener conto naturalmente e per quanto possibile, di ciò che è stato acquisito, ma al tempo stesso di cercare altre vie e di identificare metodiche nuove di lettura e comprensione, fruibili anche dagli altri secondo la loro capacità. Metodiche derivate dalla Scrittura e perciò capaci di produrre risultati che non annientassero progressivamente quelli già raggiunti. Ho battuto la via del D.N.A. tralasciando le impossedibili rotte che labilmente vengono segnate sull'oceano delle morfologie e delle storie (vedi Quaderni 1, 2, 3). Così procedendo, dichiarandomi umilmente debitore verso tutto il passato, ho cominciato a costruire un modello storico ed ermeneutico che vado esponendo in questi Quaderni. Per poter procedere ho dovuto combattere contro tanti luoghi comuni, che si vantano veri solo in forza di una pedissequa ripetitività. Ho la netta sensazione che negli studi scritturistici si sia verificato un fenomeno comune ad ogni universo di discorso istituzionalizzato: la confusione fra ipotesi e certezza. La ripetizione costante ed autoritativa di un'ipotesi fa scadere nello studioso il senso critico. Come ho potuto verificare, molte affermazioni si reggono su se stesse e presentano iati profondi, che nessuno ama più rilevare. Sono diventati troppi i luoghi comuni che infestano oggi, come gli animali evangelici, il Tempio della fede. Dopo aver messo l'aureola ai teologi, si sono beatificate anche le loro umane teologie, dimenticando che da duemila anni, e certo non invano, lo Spirito continua a covare le Acque della Rivelazione. A questi luoghi comuni io credo che si possano opporre sia argomenti storico-filologici, sia direttamente il testo della Scrittura, che resta il primo fondamento di una storia e di una metodologia della Rivelazione. Indicherò ora i punti di riferimento della mia ricerca. A) lo credo che la Bibbia è la fissazione autoritativa ed autentica di una Rivelazione universale e complessiva, che Dio ha offerto a tutto il mondo, e che quest'ultimo ha ripagato con una fede universalmente presente (cattolica). La rivelazione si è originata con l'ascolto religioso di tutti quegli uomini che Dio ha chiamato e chiama come suoi profeti, ascoltatori, ripetitori e sintetizzatori (in una parola gli 'eletti'). Con ciò voglio dire che la riunificazione ed autenticazione delle rivelazioni è stata ed è affidata a un gruppo scelto; esso non costituisce una razza umana o un'etnia, ma è composto da soggetti diffusi nel tempo e nello spazio, per cui un eventuale legame socioculturale esistente fra loro è irrilevante. La Chiesa è il gruppo scelto che conclude quest'opera, e la, Persona di Gesù costituisce l'unità della rivelazione di Dio, sicché dai ta biblia (i libri sacri) nasce to Biblion (il Libro). La Bibbia narra questo vasto progetto divino sull'uomo, collegandolo alla accettazione (il cd. 'Si' di Maria) o alle resistenze della umanità (Eva); insegna poi il suo stesso evolversi, mettendo le basi del metodo teologico. B) Accetto, sic et simpliciter, il testo che la Tradizione della Chiesa e gli studiosi hanno fissato. Poiché la Rivelazione di Dio non tollera gabbie e museruole, tutti i mezzi sono buoni per interpretarla. Considero poi il testo tradizionale intangibile nella sua materialità (sequenza fissa ed immutabile di cifre grafiche), ma rivendico il diritto di leggere, cioè di compitare le cifre grafiche in modo da ottenere testi significativi, aventi un proprio senso letterale, e portatori di comunicati teologici che siano coerenti con la fede della Chiesa. Ritengo, infatti, che lo scopo degli scrittori sacri consisteva nel rivelare l'infinità di Dio e non la limitata povertà di un umano concetto. C) Nel decodificare i testi (vedi Quaderno n.1) mi servo di metodi e tecniche diverse dedotte dalla stessa Rivelazione (metodo teologico). Tra l'altro, identifico in essa un linguaggio ieratico (o sacro) attraverso il quale è possibile risalire ai sensi nascosti nel testo. Ritengo che questo linguaggio era parte integrante del metodo esegetico seguito dai Padri e si è praticamente perduto perché probabilmente oggetto di sola tradizione orale. In altre parole, io spero di dimostrare in un prossimo Quaderno che la teologia biblica dei Padri era costituita essenzialmente dal saper leggere (l). (1) I più recenti studi sui Dialoghi di Platone svalutano la esposizione scritta a vantaggio della comunicazione orale che il maestro privatamente forniva ai suoi discepoli. D) Assumo come punto di riferimento l'unità della Scrittura (nella sua intera, ordinata ed intenzionale complessità) e la sua indefettibile tensione a rivelare il Cristo di Dio. Riconosco altresì che ogni sua singola parte è speculare all'intera opera (microcosmo nel macrocosmo). Cristo è tutto presente nel singolo uomo come nell'intera Chiesa. E) Considero soggetto ed oggetto primario della Bibbia la Chiesa di Cristo. Ogni testo può leggersi perciò in quattro direzioni: teologica (mistero di Dio), antropologica (mistero dell'uomo), ecclesiologica (mistero dell'umanità), logica (mistero della rivelazione). F) Ritengo che la Bibbia sia una inesauribile miniera di comunicati teologici e riconosco agli agiografi un'enorme sapienza letteraria frutto della loro abilità e della ispirazione di cui godevano. G) Sono intimamente convinto che, senza un Magistero di verità, capace di sceverare tra senso e senso, il mio lavoro non avrebbe valore. Perciò ogni affermazione è affidata, in ultima analisi, al Magistero della Chiesa (2). (2) Il Magistero non è miope e pauroso come tanti suoi membri, i quali confondono fede con teologie (dico quelle apprese da giovani e trasformate dal passare del tempo in idolo presuntuoso che si vanta di essere la tradizione della Chiesa). A volte in tempi lunghi, a volte più immediatamente, il Magistero sa riconoscere la rispondenza delle nuove teologie alla Divina Sapienza che le inabita. Il Magistero è infatti guidato da quello stesso Spirito che animò ed anima la Scrittura. Non è questo il luogo per aprire un discorso sul significato di 'tradizione'; dirò solo che potremmo battere una diversa strada di riflessione e considerare che il 'Traditum' è sì il deposito della fede, ma questo non va inchiodato nel tempo e reso qualcosa di passato, ma considerato anche nel futuro. La Tradizione è la pienezza della Rivelazione, fatto vivo che intrinsecamente è volto al futuro, sicché il Magistero è l'hic et nunc di un processo di infuturazione della fede. Se non fosse così non avrebbe senso un magistero della Chiesa ed esso si tramuterebbe in archeologia letteraria. È facile prevedere (ne ho già fatto esperienza) il sorriso di sufficienza che a questi principii, ed ancor più alle conclusioni che ne trarrò, dedicheranno annoiati accademici (è il riso dei beffardi del salterio), ma mi conforta la compagnia dei Padri e la Tradizione della Chiesa, che ha sempre difeso l'ispirazione del supporto grafico, cioè di ogni singola lettera che concorre a comporre la Scrittura. Da ultimo un consiglio: quando il lettore si troverà ad eccepire qualcosa in ordine alle mie affermazioni, non cada nell'errore di pretendere prove, senza fornire le sue. Il nostro tempo, mentre si fa schermo dei neutri camici della scienza, troppo spesso motiva solo con l'ipse dixit. Vada piuttosto alle radici delle proprie affermazioni e si chieda il perché delle cose che egli considera finanche ovvie; forse scoprirà un grande vuoto (3). (3) A uno studente che chiedeva prove concrete in ordine alla Redazione dei Vangeli, un valente biblista, messo alle strette, si faceva schermo di una piacevole battuta: 'Di certo abbiamo solamente il Marco del Merk (l'edizione critica dei Vangeli). Questo quaderno non esaurisce ovviamente i problemi inerenti il Vecchio Testamento. A parte le mie modeste capacità, c'è un dato che considero obiettivo: mi sono convinto, dopo tanti tentativi di sistematizzare, che non si può imprigionare il Vento che soffia dove vuole; si può solo, seguendo la tecnica talmudica e dei Padri, tentare la ricognizione di qualcuna delle cinquecento porte del Walahalla biblico, sperando di individuarne qualcuna. L'importante è entrare. Così le pagine che seguono non descrivono questa o quella stanza del grande Labirinto, ma mirano alla Porta che è il Cristo. Esse, ad onta del linguaggio, che a volte potrà apparire sicuro ed assertivo, non affermano, ma suggeriscono per aiutare a cercare e meditare. Il lettore si fermi dove trova qualcosa, perché potrebbe essere la sua Porta. Se Cristo è la porta, egli, cercandola, avrà già trovato. <II> Mosaismo e fede universale Fede mosaica e fede di Adamo La fede mosaica, quella cioè che si collega alla Bibbia (Vecchio Testamento), è stata sempre presentata come fatto eccezionale ed unico, nel panorama religioso dell'antichità, lo sosterrò un'ipotesi esattamente opposta; e cioè che essa costituiva una modalità dell'unica fede che lega l'umanità a Dio Creatore, senza distinzione di tempi, di luoghi e razze (Adamo) (1). (1) Credo sia abbastanza pacifico che Dio, inteso come unico Creatore e Padre, come fondamento e vita dell'uomo e di ogni cosa, è una presenza costante in ogni gruppo etnico della terra. Ciò può spiegarsi, o con un desiderio connaturato all'uomo di trovare un principio ed una fine della sua esistenza, o come rivelazione che Dio stesso ha fatto di sé a tutti i popoli della terra. Non è certo possibile dimostrare qui questa affermazione di carattere generale; rinviamo ai tanti saggi scritti sull'argomento, Pertanto, sia per ragioni pratiche (avere un campo di osservazione non troppo ampio e muoversi in realtà meglio conosciute), sia per la specifica ampiezza del nostro fenomeno, circoscriveremo l'indagine al bacino del Mediterraneo ed al Medio-Oriente, luoghi dove la fede mosaica si è incontrata con quelle dei popoli. Naturalmente il discorso potrebbe tranquillamente estendersi alle più remote regioni della terra. La tradizione cattolica insegna che, prima della perfetta Rivelazione di Sé in Gesù, Dio aveva già parlato molte volte e in diversi modi (Ebr, 1,1). Gli studi sul mondo antico, a loro volta, hanno mostrato come la Divinità veniva considerata Una in tutto il bacino del Mediterraneo; ogni popolo, infatti, adorava l'unità della Divinità, pur nella o molteplicità dei nomi (2). (2) Il discorso sarà ripreso più avanti. Nelle molte religioni, unica era dunque la Fede nel Dio Uno, Padre, Creatore e Salvatore, e questa fede è in fondo equivalente a quella mosaica, Ovviamente, seppure fondate su una unica fede, le religioni si differenziavano tra di loro, per forme, per costumi, e specialmente per i Libri sacri diversificati nelle narrazioni e nelle teologie. La religione mosaica, già dal terzo secolo avanti Cristo, possedeva non solo un insieme di libri, ma un testo sacro unitario e cioè la Bibbia greca chiamata dei Settanta, Essa era in pratica il Libro di tutti i fedeli mosaici esistenti nel bacino del Mediterraneo, ma era avversata fortemente, per ragioni che esporremo più avanti, dai circoli religiosi elitari e chiusi di Gerusalemme. Questa Bibbia, nata nella culla delle religioni e cioè l'Egitto, esposta nella lingua dell'Ecumene (greco), utilizzando testi sacri anteriori appartenenti a più popoli e redatti in svariati idiomi, aveva intrinsecamente il carattere della universalità. Dietro la Bibbia dei LXX (settanta) si colloca come punto soggettivo unificante la figura (letteraria o storica, come si vuole) di Mosè. Egli è inteso come colui che compone il primo Libro unitario e cioè il Pentateuco. Di conseguenza si dice Mosaica quella fede che si rifà alle rivelazioni unitarie del Pentateuco e poi della LXX (che lo ingloba). In conclusione possiamo dire che esisteva una diffusa Rivelazione universale di Dio rivolta da sempre e per sempre ad ogni uomo (Adamo); essa, come pioggia bagnava ogni terra con l'acqua della Vita. Una fede che restava inquinata dai tanti invasi costruiti dalle religioni (cioè i Libri), ed attendeva qualcuno che, come dice il Genesi, costruisse un fiume e derivasse canali. Questo qualcuno è proprio Mosè, il legislatore che la rende unitaria ed irreformabile, prima nel Pentateuco, e poi nell'intero testo biblico della LXX. La coscienza di possedere con chiarezza il culmine della Rivelazione, divenne il caposaldo della religione mosaica ed al tempo stesso il principio della sua corruzione. Infatti produsse un esclusivismo religioso (cd. Giudaismo) che, un poco alla volta, privò la Rivelazione della sua carica di cattolicità ed emarginò la fede, preferendo ad essa la normativa religiosa (cd. legalismo giudaico). L'intervento di Gesù si può leggere allora sia come restaurazione della fede, sia come un ritorno alla cattolicità tradita proprio da coloro nelle cui mani la rivelazione di Dio era stata posta, sia come riconoscimento della Via individuale (fede) che guida ogni uomo al dialogo con Dio. Proviamo allora ad approfondire questo tema che diventerà il cardine della predicazione evangelica e paolina, chiarendo il senso di una espressione che si è fatta sempre più equivoca (anche per ragioni strettamente storiche) e cioè quella di popolo eletto. Un popolo eletto? La fede in Dio è per sua natura cattolica, cioè universalmente presente nel cuore dell'uomo. Disconosce questa verità solo colui che si inventa una propria specialità. Da questa pretesa nasce ogni forma di razzismo umano, di separazione, di svalutazione degli altri esseri viventi. Nel linguaggio del VT e poi in quello evangelico, l'idea di specialità viene resa iconicamente con espressioni diverse che si possono sintetizzare in Popolo Eletto e Giudaismo, e che indicano una distorsione della fede. Una corretta meditazione di queste espressioni permette di correggere alcuni atteggiamenti negativi che ancor oggi inquinano la fede dei credenti, a qualunque confessione religiosa essi appartengano (3). (3) Inteso cosi, il fenomeno non ha alcun rIferimento con qualsivoglia etnia o religione. Ed anche se riferibile a fenomeni storici del passato, questi risulterebbero in ogni caso sterilizzati, resi cioè astratti e tipici dai millenni. Per intenderci, nessun italiano, pur avvertendosi in qualche modo legato alla storia romana, si sente offeso dalle critiche sulla politica dell'Impero di Roma. Questa politica, con tutte le sue nefandezze, viene assunta più come categoria intellettuale che come 'fatto' addebitabile ad antenati degli attuali discendenti. La questione si complica quando esiste una qualche forma di continuità, spontanea o artificiosa che sia, e quando questa continuità assume i caratteri della «religione». È quanto accade per la religione mosaica attualmente professata nel mondo da uomini di razza e popoli diversi; è quanto accade per il cristianesimo. Come i cristiani di oggi si sentono chiamati in causa per i genocidi, lo schiavismo o la inquisizione, cosi i fedeli mosaici si sentono eredi e vindici delle sagome letterarie (o storiche?) descritte dalla Bibbia (VT e NT). Ne consegue che, in presenza di questa sensibilità, ogni discorso sul sorgere del cristianesimo (ad es. sull'influenza dei misteri greci), o sulle colpe di coloro che processarono Gesù, viene attualizzato come attentato a chi si sente erede di quella tradizione. Ho più volte sostenuto che la Chiesa farebbe bene a cambiare i nomi di tutti questi antenati letterari e a meditarli come annunci profetici; parlare cioè più di Dio che di storie (a volte neppure storie). L'Inquisizione, per fare un esempio, andrebbe studiata come evento attuale, come momento dell'animo religioso dell'uomo e non per valutare o svalutare il personaggio di Guy; e parallelamente i Perfidi Giudei (previo cambiamento del nome) dovrebbero servire a provocare un discorso sulla perfidia del mondo contemporaneo cristiano e non cristiano. A) Un primo punto su cui invito il lettore a riflettere attiene alla distinzione fra fede e religione. Come dicevamo, a fronte della fede che è un fenomeno universale, le religioni hanno una loro specificità e quindi sono per natura escludenti. In altri termini, poiché le forme di comprensione intellettuale e le manifestazioni della fede (che costituiscono le religioni) sono molteplici, queste ultime, di per sé, non possono essere universali, cioè cattoliche (4). (4) Rifletta il lettore che se per 'universale' si intende 'planetario' e/o 'senza preclusioni’, anche il comunismo dovrebbe definirsi 'cattolico'. La cattolicità va misurata non in orizzontale, ma in verticale, e cioè rispetto a Dio; essa dice che l'unico Dio (ecco l'importanza del nome del 'creatore') è presente nel cuore di ogni uomo e lo costituisce, per ciò stesso, in una dignità infinita. Questo, io credo, è il nucleo basico del pensiero di Paolo e di qui la sua lotta senza quartiere contro il giudaismo, inteso, sia come supremazia della religione sulla fede, sia come principio di divisione, di scontro e di schiavitù delle coscienze chiamate al dialogo con Dio. Al contrario, la proposta a credere in un supremo principio di Vita è stata ed è sempre rivolta a tutti, senza alcuna distinzione. Secondo la fede mosaica e poi cristiana, Dio dialoga con ogni uomo e gli parla direttamente, senza intermediari, perché l'intermediario, cioè il Messia (Messia = 'Parola che sta in mezzo'), è Dio stesso fattosi uomo, perché l'uomo lo possa ascoltare nella propria limitatezza. Paolo dice: "Non c'è più Giudeo, ne Greco; non c'è più schiavo, ne libero; non c'è più uomo, ne donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Ga13,28). Ne consegue che chi vuoI farsi tramite indispensabile tra Dio e l'uomo, distinguendosi dagli altri figli di Dio (di qui il razzismo), si fa giudeo, termine quest'ultimo che, come dicevo, ha una esclusiva valenza teologica (5). (5) Proviamo a chiarire questo speciale uso del termine. La storia del giudaismo (come gruppo religioso che si fa icona teologica) viene assunta nei Vangeli per annunciare l'esistenza di una forza oscura, che porta il Fiume divino della Rivelazione alla chiusura ed alla stasi nella Piscina della Religione. Qui l'acqua viva diventa stagnante ed infeconda. Parallelamente, i Vangeli presentano il Tempio come immagine ambivalente di Vita e di Morte, di fede e di religione, di realtà umana che ancora conosce divisioni e lutti e di comunione della Vita. Il VT annunciava che il Tempio vivo, costituito dalla Bibbia e dalla Chiesa, riguardava il grande Salomone figura dello Spirito e della comunione. Proprio per questo motivo, lo stesso Davide non poteva costruirlo nella sua forma perfetta, ma solo metterne le fondamenta; costruire cioè rispettivamente il materiale rivelativo (libri) e la struttura comunitaria (regno umano). Il discorso in ordine al Tempio (II Sam. cap.7 e 24) diventa più chiaro alla luce della dialettica Comunione-Comunità; Davide è sagoma della comunità ancora umana, e Salomone della Comunione dello Spirito. Anche il segreto messianico, di cui parlano i Vangeli, si muove nella stessa direzione: evitare che Gesù, visto come Davide, sia Re di una comunità di eletti, che pretendono di essere gli unici a far parte del Regno. Egli è venuto a stabilire la Comunione fra tutti, ma ciò si potrà attuare solo dopo la sua resurrezione. B) Un secondo punto su cui bisogna riflettere attiene al modo di leggere il Libro sacro; se cioè esso va collegato alla sola religione mosaica o alla fede universale. A me pare che se la Scrittura viene letta nell'ottica negativa della religione e si prescinde dalla comunione universale, il nostro Libro si trasforma, da colloquio con Dio in legge materiale, in comando letterale falsamente attribuito a Dio. Dio diventa allora il carabiniere divino di un codice etico o cultuale del tutto umano (6). (6) Allora, per esempio, le elencazioni di precetti e di regole contenute nel Pentateuco configurano lo svilimento della Rivelazione in essi sepolta, eppure sempre viva; la Scrittura, da fonte della Rivelazione, diventa la pietra della Legge che può schiacciare l'uomo, chiamato ad edificare su essa la propria esistenza. Quest'amara ed insignificante normativa religiosa, questa apparenza della Scrittura, è dunque parte viva della Rivelazione divina, a patto di venire intesa in stretto collegamento con la Vita e cioè con la sperimentazione della fede. Chi perde questo collegamento tra religione e fede è costretto ad espungere dalla Scrittura le forme religiose e quindi interi libri (es. il Levitico), orientandosi così al marcionismo. Come affermava la Kabbalah, l'aspetto giuridico della Bibbia nasce e muore nella sua letteralità, ma la Vita è sempre nascosta nel fondo. Chi si affida alla lettera del testo, non solo si costituisce una situazione di privilegio ex jure divino sol per il fatto di appartenere alla religione (sia essa mosaica o cristiana), ma produce altresì effetti ancor più disastrosi. Per fare un esempio, proprio per questa via, a fronte della centralità di Dio, ben chiara nel testo genesiaco, si è venuto formulando un capzioso antropocentrismo secolarizzante, che si evolve naturalmente in integralismo religioso (7). (7) La Rivelazione scritta viene degradata (nelle coordinate che chiamiamo giudaiche) a storia che dà lustro a una razza o popolo (i presunti discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe), rispetto alle altre che popolano il mondo. La radice del razzismo sta, dunque, proprio in questo trasformare il giusto e naturale rispetto dell'etnia in una speciale supremazia religiosa di un gruppo che gli fa dire: "Noi siamo il popolo Eletto". L'esaltazione della vantata specificità religiosa si afferma così in termini di superiorità genetica, assoluta ed immotivata o, meglio, voluta da un Dio degradato ad incensatore di uno speciale gruppo umano. In quest'angolazione teologica intenderei ancora tutti quegli atteggiamenti storico-letterari e teologici che vogliono fare della Bibbia un quid di speciale del popolo ebraico (o più esattamente dei giudei). Per sostenere questa specialità, durante il corso dei secoli essa è stata presentata come un prodotto originale, autonomo ed unico dell'ebraismo. Oggi, quando è diventato chiaro che buona parte del suo contenuto è stato raccolto dalla rivelazione di Dio diffusa tra le Genti, si è potuto finalmente scoprire che il vantato prodotto originale costituiva al contrario una vera e propria appropriazione indebita (8). (8) Non a caso nel Vangelo, Giuda (eponimo della omonima tribù) è considerato un lestes, cioè un ladro (Gv 12,6); e nello stesso senso sembra muoversi il Talmud (Beresit Rabba 1,2) che, proprio parlando di rivelazione divina, afferma: «I pagani non rimproverino Israele dicendo: Voi siete una nazione di predoni». C) E veniamo a riflettere sulle ragioni di questo atteggiamento che è rimasto costante nel mosaismo come nel cristianesimo. A parte Paolo, la prima, forte opposizione al giudaismo risale proprio a Gesù, che cacciò fuori dal Tempio i cambiavalute, quelli cioè che incameravano moneta di grosso taglio e la cambiavano in spiccioli di verità (Mt. 21, 12 ss.). Fuor di metafora, per poterla possedere, essi riducevano la grande ed universale Rivelazione di Dio, a fatti mediocri, a regole di una bolsa sapienza umana, a piccole norme etiche, a favolette. A questi cambiavaluta, a questi spicciolatori della Bibbia bisogna attribuire (oggi più che ieri) la colpa della mediocrità che svilisce l'universale messaggio biblico. L'umanità ha bisogno di grandi temi per potersene innamorare e cercare una totale comunione, pur camminando per vie diverse. Alla mediocrità del messaggio proposto dai cambiavalute si può far risalire la crisi attuale di ascolto e l'esaurirsi del Grande Dialogo. L'orecchio dell'uomo, tra tanti che ne ascolta, non ha bisogno di altri suoni; egli va alla ricerca di ultrasuoni divini. In conclusione, se letti profeticamente, gli scribi, i farisei e i dottori della legge avvertono che quest'anima giudaizzante rappresenta oggi l'autentico anti-Cristo. Non a caso Gesù tutti li attacca, e da tutti viene attaccato. Rifletta il lettore sulla storia della Chiesa; essa rispecchia fedelmente il dualismo antitetico tra anima cattolica e anima giudaizzante che si sono sempre scontrate fra di loro, come testimonia la polemica tra Simone e Paolo in ordine alla circoncisione (Gal 2 ed Atti 15, 1 ss.). Nella Chiesa delle origini, che naturalmente e giustamente si esprimeva anche nell'istituzione, non poco dovette pesare l'ipoteca del giudaismo coniugata con la ferrea struttura del diritto romano e del potere imperiale. La Chiesa cadde così nel rischio della religione: mise al primo posto le ragioni della struttura e finì così per privilegiare coloro che rientravano nella struttura e soprattutto coloro che la sostenevano. Alcuni dati fanno riflettere in questa direzione e, innanzi tutto, la diversa organizzazione delle Chiese greche rispetto a quelle latine. Viene poi da chiedersi se per caso le persecuzioni, quelle autenticamente anticristiane, non furono la prima avvisaglia del grande problema di una convivenza di uno stato religioso in uno stato laico (9). (9) Fu proprio il riordinatore dell'impero, e cioè Diocleziano, ad indire la grande persecuzione e fu un Costantino politicamente debole a sottoscrivere il primo concordato con la Chiesa per garantirsi - passi l'immagine- vicino al Maresciallo dei Carabinieri l'appoggio del parroco. A rileggere attentamente Giustino e Tertulliano viene poi il sospetto che le loro Apologie erano dirette contro un centro romano giudaizzante, in difesa delle chiese particolari più aperte alla fede (10). (10) La lingua usata da Tertulliano (con 1000 neologismi, la vis polemica, il disprezzo verso il presunto destinatario (mondo romano), sono argomenti decisivi per escludere che esse fossero dirette contro quel sistema religioso mediterraneo da cui la Bibbia aveva attinto a piene mani e che invece il giudaismo aveva tentato in ogni modo di demonizzare. Solo dopo circa duemila anni la Chiesa ha trovato la forza di scrivere una Nostra Aetate. Non ultimo, in questo senso, testimonia il disinteresse dei primi cristiani verso la Palestina; esso era la naturale conseguenza di una minore attenzione verso la persona fisica di Gesù, perché risultasse esaltato lo Spirito del Risorto. Ed ancora l'assenza di una iconografia dell'uomo Gesù. In pratica, solo quando il giudaismo riporta l'attenzione dei cristiani sulla storia del popolo giudeo, ricomincia ad assumere importanza l'umanità di Gesù e la terra di Palestina (11). (11) Non è casuale la moda dei viaggi in terra Santa (altro termine equivoco); anche oggi esso coincide con l'instaurarsi di una teologia storicistica. Si può ancora meditare sul declinare della prima scuola esegetica, quella spirituale nata in Alessandria, che amava interpretare le storie bibliche come allegorie della fede. La posteriore scuola palestinese storicistica, che cominciò a cercare nella Bibbia innanzi tutto delle narrazioni di eventi e si fece schiava della lettera, coincide con il primo viaggio documentato in terra Santa, quello di Egeria (V secolo) (12). (12) Proprio questa seconda forma di lettura dei testi biblici concorre a costruire quella mitizzazione del popolo eletto a cui è derivato l'integralismo religioso e il razzismo teologico. Da quella qualificazIone della Bibbia come patrimonio esclusivo dl una religione, e lo svilimento del suo ruolo di mensa universale della Parola. Tutti questi dati fanno riflettere il teologo; ed infatti, in qualche modo e da sempre, il maschile (cioè l'individuo) è stato allontanato dall'incontro con la mistica donna', cioè dalla professione di un pieno atto di fede. Quando prevalgono i 'Giudaizzanti' (qualunque sia il loro nome) il maschile (cioè la 'coscienza') viene soggiogato dal femminile (cioè la comunità/istituzione); si perde allora l'orientamento alla Chiesa-comunione, e la fede è sommersa dalle regole religiose (13). (13) Senza volere demonizzare od esaltare, si potrebbe tracciare una storia di questo scontro facendo scorrere, in due colonne parallele, le vicende della Curia Romana o dei dotti scritturisti e quelle dei Santi e di quanti, facendo atto di fede, hanno vissuto in forma autenticamente sacramentale la comunione. Per effetto del continuo scontro tra queste due anime in eterna lotta tra di loro, e del predominio della regola-comunità (visione giudaica) sulla fedecomunione (visione cattolica), viene poi a mancare quella fantasia della fede che rappresentò la ricchezza della Chiesa primitiva; allora l'uniformità tende a sostituirsi alla comunione nella molteplicità di espressioni e riti, e si è costretti a cantare Dio in falsetto (14). (14) Ad essere onesti, bisogna ancora riconoscere che la ufficialità cristiana troppo spesso arriva da ultima nel cammino evolutivo dell'uomo e dell'umanità; e vi giunge a rimorchio delle idee del mondo. Ciò accade perché si vuole garantire, ad ogni costo e in moneta di prudenza umana, l'istituzione ecclesiastica, anche a prezzo di spegnere l'urgenza dello Spirito. Ancora oggi noi cattolici soffriamo di un grave gap teologico. Solo a fatica si formulano prospettive specificamente cristiane per risolvere i grandi problemi del mondo; spesso residua solo una invocazione generica al bene. Sembra quasi che si abbia paura dell' Utopia della Fede, di una proposta che stia nel mondo senza essere del mondo. Al fondo vi leggo una inconfessata volontà di ridurre i cristiani a destinatari di norme (per buone che siano), privandoli del loro innato diritto a concorrere alla formazione della coscienza ecclesiale. Il fedele è tempio dello Spirito Santo, ma di uno Spirito che deve mantenersi muto (15)! Concluderò con una precisazione: Per evitare inutili e stolte radicalizzazioni razziali, voglio ribadire conclusivamente che il termine giudeo indica solo una categoria religiosa, un modo di rapportarsi alla Rivelazione appropriandosene e svilendola. Sono estranei al nostro discorso gli abitanti della Palestina di duemila anni fa. Essi, come ogni gruppo religioso (di ogni tempo e luogo), si lasciarono guidare dalle due anime. Così una rilevante porzione, esaltando la fede e la Comunione a fronte della religione e della comunità, ha continuato ad adorare Dio nella linea mosaica, o in quella cristiana o ancora nella dottrina dell'Islam (16). Di contro, a qualunque gruppo etnico e religioso appartengano, i farisei, i sepolcri imbiancati, legandosi alla Gerusalemme che uccide i profeti, si rifiutano da sempre di accogliere, nell'icona del Galileo, l'uomo-Dio delle genti, il restauratore della fede universale di Adamo. Naturalmente, del tutto estranei al nostro discorso sono gli attuali abitanti dello Stato d'Israele (atei o credenti che siano), e quelli che si definiscono ebrei, in quanto appartenenti ad un gruppo religioso mosaico. (15) Una grande Anima del nostro tempo, mi riferisco a Ghandi, ha mostrato, nella concretezza della storia, che si può credere nella forza della Vita finanche per liberare un paese (India) di trecento milioni di abitanti dalla più forte potenza coloniale del mondo (Inghilterra); ed il tutto con l'utopia della non violenza e con la debolezza della passività credente; qui veramente la stoltezza di Dio è stata più forte della sapienza dell'uomo. (16) Ricorderò i Samaritani, la Kabbalah e tutti gli anonimi uomini di Dio che predicano a Nivive. <III> Teologia della formazione del 'libro' Unità e molteplicità Proveremo ora a rileggere il grande fenomeno della formazione della Bibbia con un metodo 'teologico' cercando le linee divine nascoste nel fenomeno umano: cioè storia letteraria del testo, e vicende dei suoi scrittori. La scritturazione dei libri sacri e la loro continua depurazione, che li portò ad assumere quella forma e quella certezza che oggi conosciamo, sono certamente delle attività umane articolate nel tempo, ma obbediscono pure ad una legge più alta di natura divina.. Quest'ultima che viene indicata come 'progetto di Dio' (e che io preferirei chiamare 'ragioni della Vita') è il vero oggetto della ricerca di un uomo di fede. Nella sua continua tensione ad assumere piena coscienza di sé nella persona di Gesù che dice; 'lo sono la Vita, lo sono la Rivelazione', la Vita Creata si esprime in una molteplicità che tende all'unità in un flusso che costituisce l'anima dei fatti storici e letterari. La dinamica formativa del Libro e la sua unità finale costituiscono, se colti nel giusto valore, un autentico catechismo sulla Vita; è dunque insignificante per il teologo speculare questi due fenomeni con i mezzi della scienza storico-filologica. Cercheremo allora di individuare le ragioni intrinseche del processo rivelativo, e di evidenziare lo svolgersi della storia sacra in quella profana; un cammino già battuto ma con effetti deformanti, essendosi tenuto come punto di riferimento un fantomatico 'popolo ebreo', Ci muoveremo su tre direttive; quella antropologica, quella storica e quella bibliologica, cercando nella Bibbia le ragioni del suo formarsi. A) Antropologia Iniziamo esponendo alcune brevi considerazioni antropologiche. Il bisogno di Dio, come Vita unica e piena, sembra stampato, seppure con caratteri diversi, in ogni uomo. Un desiderio che si sacramentalizza nel bisogno di un altro essere che dia completezza all'atto dell'esistere individuale. L'uomo, impaurito dalla sua finitudine, non si sazia della soluzione puramente umana (la socialità), ma continua ad andare alla ricerca di un pieno soddisfacimento del suo bisogno. Un tema questo, che da Ghilgamesh, all'Odissea, alla Divina Commedia, rappresenta un tema obbligato per chi vuole stendere il suo sguardo sulla vicenda umana. Ogni uomo, di fronte i alle innumerevoli difficoltà dell'esistenza, per resistere ad un dolore che spesso è troppo vasto per essere dominato da rimedi umani, ed è privo di senso, cerca una forza che gli permetta di affermare il proprio essere, e di comprendere quegli avvenimenti che possono toccarlo anche in profondità. Ogni uomo, mentre soffre le fratture col mondo, cerca una pace col tutto; di fronte agli interrogativi contingenti o complessivi, cerca una chiarezza che sia completamento e conclusione. La sintesi fra molteplicità e finitudine da una parte e unità e desiderio di grandezza dall'altra, viene in genere intuito in uno stadio di vita superiore, in qualche modo attingibile, e che tuttavia lascia all'uomo la sua qualità di essere del mondo. Achille o Sigfrido, come Enkiddu o Prometeo cercano una immortalità e la trovano pure, ma resta in essi un punto di umanità che farà loro gustare il dolore e la morte, cioè le coordinate ineliminabili della finitudine e della umana individualità. Questo stadio superiore di vita viene colto come relazione nuova con la Vita, come qualcosa che lega, sicché viene naturale esprimerlo, così come accade nella Bibbia, con la umana categoria dell'accordo, del Patto, Un patto che non si può raggiungere movendosi dal basso, ma solo accogliendo una voce dialogale che viene dall'alto; in altre parole è Dio che offre un 'patto' all'uomo (1). (1) In conc1usione la nozione di 'Patto' su cui tanto si è scritto, credo che si possa esprimere come ascolto di una chiamata alla Vita, di una proposta cioè a crescere fino a raggiungere il terzo livello della coscienza, quella comunionale, quella divina, quella rappresentata dall'Io di Cristo. La relazione dell'uomo con la Vita deve essere stabile, sicché il Matrimonio prima e il Sacrificio poi, diventano due topoi, due momenti sacramentali di questo evento. Il matrimonio esprime infatti la perfezione stabile dell'incontro transitorio con la pienezza; e il sacrificio (che è sostanzialmente una cena dal momento che si uccide per mangiare) attesta la assimilabilità all'uomo del cibo divino, quando il Dio siede alla mensa dell'uomo e trasforma in ambrosia quanto di umano gli era stato presentato in offerta. Ogni uomo è in continuo dialogo, a volte più o meno disturbato, con la Vita, con quella Vita unica e piena che gli può permettere di superare il limite della propria esistenza. Questo rapporto fiducioso costituisce la fede dell'umanità. L 'uomo dunque, cercando una Forza per esistere e una Pace con il tutto, sa di poterle trovare solo in una chiarezza quanto a sé ed al mondo. Questa chiarezza, da conclusione del processo di ricerca, diventa il principio dinamico della forza e della pace. Cercare il senso della esistenza, correlandola alla Vita (la cd. Gnosi), equivale a conquistare uno stadio nel quale, sperimentando l'esistenza, si gode del divino atto del Vivere. Perciò l'uomo vuole sapere, perciò cerca un sentiero di conoscenza, e per quanto continua a ripetere il contrario, sa bene che la conquista non potrà ottenersi muovendosi dal basso, ma solo ascoltando un Rivelatore venuto dall'alto (Platone). La questione può essere ripresa da un'altra angolazione. Possiamo dire che l'acquisizione di una rivelazione superiore esige l'unità e la molteplicità; quanto all'unità, essa non si ottiene estrinsecamente mediante la scelta di un unico punto di approccio (2). (2) Non si può cioè impoverire la Bibbia leggendola in questa o quella angolazione. L'unità della Rivelazione si può cogliere solo se si sceglie il Cristo come momento centrale della sintesi unificante. In altre parole, la Porta è sempre e solo il Cristo; essa sola va cercata, posto che Dio non si presenta agli appuntamenti intellettuali fissati dall'uomo. Quanto alla molteplicità, essa è il naturale prodotto della varietà degli esseri umani che entrano in dialogo con Dio, sicché si può dire: 'tot capita, tante rivelazioni'. Ed infatti se l'uomo non può considerarsi un pupattolo staticamente fissato nelle sue coordinate genetiche, ma è Storia nel senso più pieno del termine; se egli non è un 'isolato' dal mondo, ma è anche parte della pluralità del mondo; se egli non è un quid di inerte, ma è animato dalla vita; se per di più è inabitato dallo Spirito; se è l'unico interlocutore di Dio (così inequivocamente afferma la Genesi); se tutto ciò è vero ne consegue che la Rivelazione che lo costituisce e lo fa vivere (in quanto 'dialogo') deve necessariamente definirsi come molteplicità. Un molteplice che si espande a misura dell'interlocutore, ma, contrariamente a quanto accade nelle cose mondane, proprio mentre si espande tende all'unità. La Rivelazione è cioè equivalente all'atto stesso del creare e alla creazione, cioè al tempo e alla storia. Quest'ultima, con tutta la sua potenzialità evolutiva, sacramentalizza la dinamica del Dialogo. E potremmo ancora aggiungere che Rivelazione è il mondo stesso, (3) è la forza vitale che consente all'uomo di riconoscersi esistente; è ogni gesto in cui essa si esprime ( 4); Rivelazione infine, quando tocca il massimo della espansione e quindi dell'unità, è l'atto divino del Vivere come autonomia totale e mai reciso cordone ombelicale con Dio: è il 'Bimbo svezzato in braccio a sua madre' del salmo 130. Come il bambino dalla madre, così l'uomo da Dio apprende direttamente questi molteplici linguaggi e attraverso essi, secondo come e dove si trova, risponde a Dio. Una molteplicità di linguaggi che trova il suo parallelo letterario nella multimedialità del linguaggio Jeratico. (3) Giustamente il Salmo afferma che cieli e terra narrano la gloria di Dio. (4) In tal senso l'esistere si fa catechismo e le scienze sono intrinsecamente teodicea, sono un cominciare del dialogo. Questo molteplice colloquio entra in crisi quando l'io individuale costruisce una sua autonoma lingua; quando l'alfabeto della Vita, coerente ed infinito, viene sostituito dalla logica duale del Bene-male; quando alla multimedialità si sostituisce la monomedialità (es. discorso storico) e alla Morale si sostituisce l'Etica. Il racconto del Giardino di Edem chiarisce che proprio in questo punto l'uomo entra in crisi fino a morirne, il dialogo si spezza ed irrompe e domina la solitudine; un autentico inferno per l'uomo sperduto nel tempo, nello spazio, tra le cose ingestibili del mondo dell'esistere (5). (5) Quando Paolo invoca: «Abbiate orrore del peccato» allude a questa solitudine che annienta, a questa nota monotona che vorrebbe cantare, ma senza speranza, il 'poema' di Dio. A rivelare i mille Nomi di Dio sono appena sufficienti i mille linguaggi del creato; è facile immaginare cosa accade quando l'infinito viene versato nella conchiglia della razionalità, della storiografia o della letteratura. Il «Prendi e leggi» che scuote Agostino rappresenta forse il passaggio da uno studio monomediale, alla infinita ricchezza della rivelazione scritta. La solitudine che rende inquieto il cuore dell'uomo genera come terribile figlio la Paura di Dio perché di Lui, per la povertà della via scelta, è possibile solo vedere un aspetto e non la totalità. È questa la speciale morte che segue al peccato di solitudine. Rivelazione universale significa allora qualcosa che va oltre l'ampiezza cosmica della Voce che interpella gli uomini. Significa innanzi tutto la capacità di ogni uomo, indipendentemente dalla sua condizione, di dialogare col suo Creatore e di stabilire questo rapporto non con una strada scelta arbitrariamente, ma con quella che la Vita gli suggerisce (6). (6) Il decerebrato o il lattante, come il moribondo, dialogano con i gesti banali e insignificanti del mero esistere: il respirare, il piangere, il rantolare sono coerenti voci di risposta alle domande di Dio. A sua volta lo scienziato, l'artista, il filosofo useranno il linguaggio della scienza, dell'arte, delle idee, tutte branche del sapere che diventano catechesi di verità e offerta di risposte obbedienti. Allo stesso modo mille sono gli approcci utili alla Scrittura purché suggeriti da Dio e non dall'uomo. L'uomo dialoga sempre con tutto se stesso, corpo, sentimenti, mente, sonno, riso e pianto. Se la mente legge il libro della natura e della storia, il sentimento scandaglia le relazioni che hanno dimensioni diverse ed il corpo legge mediante istinti vitali. Come Argo dai cento occhi, l'uomo può vedere dovunque il suo Dio, anche se dorme. Il mito greco rivela che pur essendo uomo, Argo è capace di vincere la tentazione del serpente che suonando su una sola corda genera i mostri (Echidna), ma se si lascia catturare dalla falsità monodica della 'lettera', dal gioco di penombre dell'ermetismo culturale (Argo viene ucciso da Ermes); allora egli si addormenta del tutto e muore. B) Storia Proviamo ora a ricavare qualche dato dalla storia. Riflettendo su di essa alla luce del Vangelo e del Magistero si può concludere che Dio Creatore e Padre è una presenza costante in ogni gruppo etnico della terra e, per quanto ci riguarda da vicino, nella Ecumene. La Pangea, ipotizzata da Wegener, prima ancora di essere una realtà geografica, è dichiarazione di unità della fede in un Dio principio, fondamento e vita dell'uomo; esprime una costanza di credenze omogenee che consola chi ama l'uomo e Dio, e gode che tutti si salvino (cioè diventino viventi) proprio in quanto scopre la presenza della Rivelazione in ogni momento e luogo della storia del mondo. (vedi la dichiarazione conciliare 'Nostra Aetate'). A loro volta, gli studi sull'antichità hanno mostrato come, al di là delle divisioni religiose, la Divinità veniva considerata unica e sola ed è stata sempre considerata tale, pur nella molteplicità dei nomi; sicché tutte le religioni riconoscevano di adorare sostanzialmente lo stesso Dio (7). (7) Sulla unità del divino cfr. Plutarco 'Iside ed Osiride'; Eschilo 'I Persiani'; G.Flavio 'Antichità giudaiche'; l'incontro di Ietro con Mosè ed i discorsi di quest'ultimo col Faraone. Dedichiamo uno spazio a questo importante tema di riflessione. In ordine al mondo religioso dell'antichità siamo stati abituati ad accettare una palese contraddizione: società civilissime come l'Egitto o la Grecia sarebbero state estremamente rozze e superficiali in materia religiosa. Nelle ricostruzioni scolastiche,i grandi sapienti dell'antichità diventavano come bambini amanti delle favole quando andavano in chiesa; disposti a credere a dei che giocavano a imbastire risse, tradimenti, inganni, e così via. In mezzo a questa umanità annegata nell'oscurantismo religioso, ci hanno insegnato che come unico faro di verità, brillava un mitico 'popolo ebreo'. Solo fra tutti, esso sosteneva la bandiera del monoteismo e la difendeva quando, proprio per questa ragione, veniva assalito dagli altri popoli, adoratori di idoli e demoni. Una visione di retorica epopea, che ancor oggi si vien rafforzando attraverso una costante orchestrazione propagandistica che ha falsificato la storia, utilizzando a questo scopo anche i 'colossali' film holliwoodiani. Contro tutto ciò io affermo che il mondo antico era invece monoteista, e lo deduco anche da quel grande fenomeno qualificato come 'tolleranza religiosa' dell'Impero Romano. Esso non era irenismo (alias: quieto vivere) dettato da ragioni di politica o di superficialità religiosa, ma esprimeva la chiara coscienza della unità della fede. Unica era la Divinità invocata con nomi diversi. A mio giudizio, la questione dei Nomi della Divinità, va completamente reimpostata, lasciando da parte la mitologia favolistica, ancor oggi insegnata nelle nostre scuole, e guardando piuttosto al grande tema della Vita intima della Divinità e delle sue espressioni nella nostra storia (8). (8) L'archeologia ci ha fornito un enorme contributo; essa ha mostrato come, superando ogni divisione religiosa, la Divinità veniva considerata unica pur nella molteplicità dei nomi con cui si lasciava invocare. Riutilizzare un tempio conquistato o riedificarne un altro sul luogo dove era stato distrutto quello precedente, attestano che la scelta di quel luogo era riferibile non a questo o a quel Dio, ma alla Divinità. Il punto centrale è forse il seguente: il Nome con cui viene venerata l'unica divinità costituisce il collegamento fra Dio e quello specifico popolo; le vicende di vittoria/sconfitta sono segno di un favore che viene meno o si esalta, sicché non esiste un Dio sconfitto e un Dio vincitore. L 'unico Dio decide fra i contendenti e, con la vittoria, manifesta il suo desiderio di essere venerato col Nome col quale è stato invocato dal vincitore (9). (9) L 'Iliade sarebbe da rileggere in questo senso, e con essa tanti eventi strettamente storici. Quando ad esempio i Romani pongono la statua di Giove nel Tempio di Gerusalemme, essi non intendono mortificare la fede del Giudei, ma affermare la supremazia del loro Nome di Dio e riconoscere che quella è la sua casa. Su questo punto è molto interessante quanto afferma Giuseppe Flavio nella sua 'Guerra Giudaica': Dio, egli dice, è passato dalla parte dei Romani; e non c'è dubbio che quel Dio è Javè. Sotto altro profilo possiamo dire che ogni Pantheon voleva esprimere il dinamismo intimo dell'unica Divinità e le forme della sua manifestazione. Le molteplici divinità (se ne fa cenno anche nella Bibbia, dove Javè è dichiarato il Dio degli Dei) non intaccano l'unità del Dio fontale; esse sono la lettura (necessariamente molteplice) che l'uomo fa dei molti e specifici interventi divini. I nomi riferiti alla divinità erano poi espressione di teologie particolari, nessuna delle quali si vantava di esaurire il discorso sul Dio. Ogni nome indicava una speciale relazione col Dio unico, non differentemente da come noi oggi ci rapportiamo ad es. all'unico Cristo attraverso i Nomi: 'Cuore di Gesù', 'Volto Santo', 'Crocifisso' e così via. Un fenomeno dunque specificamente Telogico cioè di conoscenza e prassi della fede (10). (10) Da questa speciale relazione nasceva quell'effetto che è ancora presente in un certo protestantesimo odierno: chi è sconfitto deve riconoscere che la sua teologia è perdente. Potrà anche continuare a seguirla, ma il vincitore ha diritto di affermare la sua perché Dio in persona, proprio attraverso la vittoria concessa, manifesta che la preferisce come veicolo della sua conoscenza. Tutta la grande riflessione filosofica (o meglio: religiosa) del mondo antico testimonia l'unità del credere. In Egitto, già prima del faraone Amenofi IV (XIV secolo a.C.), si adorava Amun, il 'Dio Nascosto', e Ra (o Aton) come 'Dio Visibile'. Le altre divinità erano personificazioni degli attributi del Dio, sicché nei vari templi si veneravano i vari Nomi di Dio. Amenofi IV rese pubblico ed ufficiale il culto all'unico dio Aton (Dio rivelato e sacramentato dal disco solare), ma, anche dopo la reazione restaurativa dei sacerdoti, restò pubblico ed ufficiale il binomio Amon-Ra che esprimeva la stessa teologia. Nel mondo greco, la copiosa riflessione degli Eleati, di Pitagora, di Platone, di Plutarco o di Aristotele può facilmente convincere dell'unità del divino. Gli Eleati concepirono l'Essere, unico ed immutabile. Pitagora teorizzò l'Uno. Plutarco attesta l'unità divina nel suo 'Iside ed Osiride'. Aristotele elaborò un sistema, basato sulle varie combinazioni di materia e forma, che trovava il compimento in Dio, Motore Immobile dell'universo, pura forma, pura Vita. Lo ripeto: il Divino era Uno, anche se con molti Nomi attraverso cui invocarlo e con molte teologie (cioè i miti) tese a conoscerne i vari aspetti: la molteplicità degli Dei rappresenta, in altre parole, lo sforzo di cogliere quell'economia interna di Dio che perfettivamente oggi noi conosciamo come Trinità. Per esempio, Atena era una teologia della Sapienza del Sommo Dio. Anche le concezioni religiose romane confermano che, pur nella molteplicità, si credeva in una unica divinità. I latini adoravano il Numen, la Potenza, un essere divino di cui non si conosceva il nome. Stretta è la connessione con la religione etrusca: in Etruria varie città adoravano un Deus involutus, un dio oscuro (il termine è latino e traduce quello indigeno, di cui non si ha testimonianza). Ancora in epoca tarda, quando maggiori erano gli influssi della religione greca, che maggiormente aveva diversificato e personalizzato gli attributi della Divinità, i romani facevano dediche votive al Dio, all'Essere divino. Le divinità individuali furono sempre povere di personalità e prive di miti; più chiaramente che altrove, nel mondo romano, è chiaro che esse costituivano qualità appartenenti alla Divinità, staccatesi dal nucleo unitario solo per effetto del degradare della fede in religione e di questa nel culto pagano, cioè popolare (11). (11) A Roma, il Dio supremo era Juppiter (per noi 'Giove') o Diespiter, Cielo Padre, corrispondente a Zeus Pater (Zeus è il nominativo, ma per i casi obliqui la radice è 'di') e a Dyaus Pitar venerato in India, come 'divinità quiescente', a somiglianza di come in Atene si adorava il Dio ignoto. Dalla radice 'die' derivò poi una forma femminile, Diana. La Sapienza di Diespiter era Minerva. Così Iuppiter Quirinus (da 'covirinus') protettore delle 'curiae', adorato in tale forma anche in epoca molto tarda, divenne Quirinus; ed Iuppiter Victor fu Victoria. Delicata è la figura di Libera, figlia di Diespiter e di Cerere, la Terra Mater, dea rapita dalla morte (personificata in Plutone), e poi rinata. Anche portando l'indagine al di fuori del Mediterraneo e guardando ai popoli dell' America, che certamente erano fuori del circuito delle idee del Vecchio Continente, si fanno delle scoperte interessanti: le tribù indiane del Nord America adoravano Manitù, la Divinità unica creatrice di tutte le cose. Ed è bello leggere nel libro sacro di un popolo Maya (il Popol Vuh dei Quichè) che la Creazione procede dal Verbo. Quanto alla religione mosaica il discorso non è diverso. È ben noto che EI, un nome biblico di Dio, è stato preso dalla religione mesopotamica, in cui EI era il padre di Baal; lave era il nome della Divinità cananea; fedeli mosaici di epoca alessandrina affermavano che Zeus, la Somma Divinità greca, era un nome di Iavé. Ne bisogna infine dimenticare che la unità del Dio implicava quella dei suoi sacerdoti. È provata la facilità con cui sacerdoti di una religione potevano muoversi fra diversi popoli. Ed ancora che i testi sacri erano sempre e comunque tali, e gareggiavano fra loro solamente in ordine alla perfezione del rispettivo sapere. Infine la generalizzata attesa di un Messia Salvatore costituiva un legame fortissimo fra i popoli ed in qualche modo unificava le teologie in chiave soteriologica. C) La Bibbia Le argomentazioni ora esposte possono essere verificate all'interno della Scrittura. Essa attesta che sin dall'inizio la Rivelazione fu piena e non privilegiata o rateizzata (Dio parlava faccia faccia con Adamo, cioè con l'intera umanità); se l'uomo si acceca, ciò dipende dal suo aprire l'occhio sul male, quell'occhio che Gesù chiederà ai suoi fedeli di cavare e gettare via (Mt.5,29). Dall'uso di questo occhio deriva per l'umanità quell'andare a tentoni che Gesù risolve, ristabilendo la visibilità del Creatore e portandola ad un livello impensabile. Ma procediamo più articolatamente, seguendo il metodo teologico; presupponiamo cioè che la Bibbia, in quanto nata intenzionalmente, racconta se stessa e indica le fasi e le regole della vicenda rivelativa, ed espone le connesse risposte adesive o di rifiuto dell'uomo. Ecco allora alcune piste di riflessione in tal senso. Iniziamo dalla Storia di Adamo e del suo Dio universale. Pur nella sua densissima brevità, questo racconto mostra a chiare lettere alcune cose: che Dio ha parlato da sempre a tutti gli uomini (Adamo); che questo dialogo era chiaro ed evidente; che l'uomo risponde a Dio, sicché il dialogo che costituisce il fontale legame fra creatura e Creatore equivale alla creazione stessa. L'uomo è in quanto in relazione dialogale con Dio. La fiducia è la struttura fondamentale della religiosità dell'umanità. La storia del peccato nel giardino è, anch'essa, impostata in termini strettamente fideistici: l'uomo perde la fiducia in Dio per riporla nel tentatore, e così si perde. La storia di Caino è leggibile come metafora della varietà della risposta religiosa. Pur nella sua brevità, questo alchimizzato racconto fissa con chiarezza le sagome di due uomini, diversificandoli quanto alla dimensione sociale, alla vicenda umana e al favore divino. Nelle icone, di Caino legato alla terra (contadino), e di Abele connesso alla vita (pastore), il racconto sembra profetizzare l'esistenza di una pluralità di situazioni religiose connotate da una minore e maggiore chiarezza; o ancora meglio di due possibili dimensioni della risposta umana: quella della fede e quella della religione. La prima delle due letture allude ad una situazione che porta alla divisione ed allo scontro; la seconda ad una superiorità della Fede sulla Religione. Attesta ancora che solo la fede gode del favore della Vita (Abele morto continua a parlare), ed è fattore vitalizzante (Caino riceve, per la morte del fratello, il segno della Vita). (12) (12) Il nome 'Kain' compitato come 'ka in' allude ad un contenitore, calice, misura ('in') terre~tre (ka); il nome 'Abe!' compitato come 'a bel' dice 'principio' (Alfa), dice 'rivelazione certa, cioè Sacra Scrittura ('Bet' come prima lettera della Bibbia semita) e dice Dio ('EI'). La storia di Noè allude all'unificazione delle religioni in un'unica fede. Il nome 'Noè' equivale in greco a 'Noi' ed esprime una comunione; esso annuncia che vi sarà un momento in cui la fede costituirà la perfezione delle religioni. Gli animali (meglio: animati) che Noè raccoglie nell'arca sono in coppia; nella duplice valenza maschile/ femminile, essi mostrano di possedere una propria autonomia (maschile come 'individualità ') e al tempo stesso la socialità (femminile come noità). Vi leggerei le varie religioni del mondo che, se fondate sulla fede, hanno diritto a passare indenni il diluvio della verità. Una teologia questa che afferma il rispetto delle svariate vie con cui si può giungere a cogliere Dio, Creatore e Padre. La storia 'della Torre' suggerisce infine la conclusione ultima. Questo racconto annuncia che la fede sarà Torre visitata da Dio (vedi la Croce e la Chiesa come 'torre', ed ancora le 'litanie lauretane'), e da essa si muoveranno gli uomini di fede (quelli della Pentecoste) per portare il fuoco nel mondo. La molteplicità delle lingue sembra alludere alla positività delle risposte religiose, quando hanno il loro fondamento nel Cristo/Torre, e vogliono servire il mondo anche se con linguaggi diversi. Citerò da ultimo le testimonianze di Paolo e del Vaticano II. La teologia che ho delineato viene firmata da Paolo nel suo discorso agli Ateniesi sull'Areopago, quando ne esaltò la religiosità e riconobbe il valore della loro fede. Nella stessa direzione si è mosso anche il Vaticano II quando ha riconosciuto che nelle altre religioni vi sono elementi di verità, ed ha affermato la retta coscienza, come via che certamente porta a Dio. L'esigenza dell'unità All'uomo non basta, per sentirsi uno, la sua individualità corporea e psicologica; egli deve trovare una sintesi con il tutto, perché ciò che è fuori lo riempie di spavento con la sua estraneità e molteplicità. Nella coscienza personale, quando cioè dal pronome 'io' si passa al 'noi', si attua una prima sintesi con ciò che è diverso; ed in qualche modo le molte coscienze settoriali che inabitano l'uomo si coordinano tra di loro. Questo cammino, che esige una continua chiarificazione del significato delle cose, mentre sembra dare forza all'uomo, in realtà lo deprime; sorge infatti un senso di insoddisfazione che cresce via via che si avverte la propria infinita capacità di infuturarsi; e allora la pienezza cercata, come la lepre finta, si allontana quanto più cresce la coscienza di chi l'insegue. Se dunque, paradossalmente, per un uomo che si avverte unicamente nella sua materialità, la sintesi totalizzante (con tutti suoi limiti) può in qualche modo raggiungersi a livello del puro mondano, il problema diventa insolubile per chi intuisce un proprio futuro che va finanche oltre la morte. I mediocri si rasserenano ed i grandi si tormentano. In questa corsa verso il possesso pacifico e pieno di se stesso, l'uomo si rende conto che deve sapere. Ordinariamente, nel dramma teatrale, il personaggio ferito a morte non si preoccupa della sua vita e del dopo della sua famiglia; la sua domanda è semplice: 'Perché?'. Per dare risposta a questo perché, la prima via che si impara è quella dell'intelletto, via con la cui limitatezza bisogna subito fare i conti. Poiché infatti l'analisi, cioè il frazionamento dell'oggetto da conoscere, è il cammino obbligato della nostra mente, per questa via la molteplicità che si vorrebbe ridurre ad unità finisce col moltiplicarsi nel caleidoscopio del pensare sicché diventa praticamente ineliminabile. Come sarà possibile allora, dalla molteplicità delle voci che affollano l'orecchio e che la ragione cerca di imprigionare come su di un foglio quadrettato, giungere ad una sintesi unitaria che la mente dell'uomo possa comprendere? Come sentire unitariamente le singole cose e l'insieme, l'uomo e il mondo, l'esistenza temporalizzata e la Vita? Come sentirsi uno? A questo punto comincia a prendere forma il desiderio di un Salvatore, di una parola intermedia, cioè di un Messia (messa Ia); di un aiuto, di una controfigura, di una Grande Voce (il 'Boetos' della Genesi). Questa istanza la si vive da bambini quando si cerca l'aiuto dell'adulto, del maestro; poi, sperimentata la limitazione di ogni umano aiuto, si comincia a desiderare qualcosa di risolutivo, qualcosa che sia a dimensione della mente umana, ma ad essa infinitamente superiore, perché capace di conoscere i Semi delle cose e di godere dell'unificazione del tutto. La figura della Donna genesiaca costituisce l'icona ultima del desiderio dell'uomo e della sua soddisfazione. Ma l'uomo non sa come trovarla nella sua povera mente. In conclusione, se si prescinde dalle contingenti forme della ricerca, una cosa è certa: ogni uomo è costretto a battere questo cammino. È allora lecito pensare che di esso vi deve essere traccia nella storia dell'intera umanità e dei suoi grandi processi, e pertanto che si nasconda anche all'interno del nostro Libro, si creda o meno alla sua origine divina. Unità: scienza, religione, fede E siamo giunti così al secondo punto della nostra riflessione, nel quale considereremo il momento dell'unificazione nella scienza, nella religione e nella fede. Se, come ora dicevamo, il processo di ricerca dell'unità ha una dimensione sociale e universale, oltre che individuale, dovrà pur esistere un momento sintetico capace di costituire l'unità nel singolo uomo e nel complesso degli uomini. D'altra parte, che senso avrebbe ogni atto individuale di fiducia nel Dio come punto di soluzione, che senso avrebbe ogni ricerca ed ogni pienezza raggiunta a livello singolo, se il tutto non sfociasse in una dimensione complessiva e totalizzante? Da qui deriva l'esigenza all'unità del sapere e del sentire che prende forma nella ricerca meramente mondana (unità delle scienze); ed ancora nell'unità delle ricerche e soluzioni religiose. L 'unità delle scienze (si pensi al fascino di un Leonardo), e l'unità del credere umano, diventano così una meta ineludibile; l'uomo spera che esse riescano almeno a sacramentalizzare quel punto dal quale si può spremere il sapore ultimo della , Vita. A) La falsa unità nel sapere umano Ma, ci domandiamo, l'uomo può cercare e trovare una unità, coordinando le scienze settoriali? A me pare che lo sforzo non sarà mai in grado di fornire risultati apprezzabili, proprio perché, salendo dal basso e partendo dal molteplice, si vuole scalare, una sintesi superiore che per sua natura è qualcosa di diverso dalle parti in essa coordinabili (13). (13) Un esempio lo si può ricavare dalla ricerca medica; dopo millenni dobbiamo riconoscere che sappiamo sempre di più su settori dell'uomo e della vita, ma conosciamo men che nulla dell'uomo e della vita. E, se continuiamo ad indagare in questa via senza uscite, lo facciamo solo perché non crediamo che esista una via diversa; non rischiamo di partire proprio dalla riflessione sull'uomo e sulla vita. Inoltre la realtà ineludibile della morte svuota la carica che muove l'uomo alla ricerca. Ed infatti, sia l'apprendere (come potenza dell'uomo), sia la cultura (come ampiezza del sapere), sia infine le connesse sintesi coscienziali, se pure per un attimo riescono ad esaltare chi cerca la sua unità, perdono poi ogni significato quando sono considerate nella finitudine del tempo che tutto guida alla morte (14). Chi coglie la dolorosa insignificanza di ogni sforzo unificante del proprio ricercare, scorge in essa al tempo stesso l'argomento decisivo per concludere che deve esistere un livello più alto di coscienza e di vita e che esso deve altresì rispettare la specialità dell'individuo. Desidera allora un Salvatore, comprende cioè che ha bisogno della Donna genesiaca; e riflette che, per averla, deve saper lasciare il suo passato, la sua origine mondana; in una parola deve 'lasciare suo padre e sua madre ed unirsi alla sua Donna' (15). (14) Per intenderci, basta riflettere che culture e sensibilità costruite con anni di sacrificio, spariscono quasi totalmente col finire di chi le acquisì. L'umanità, per effetto della quota leonina che la morte si riserva, eredita solo una minima percentuale del sapere e del sentire di chi ha lasciato questa terra. (15) In altre parole la sintesi non può essere un mantecato di esistenza o di Vita, ma esige che ognuno resti frutto specifico. La tematica del Verbo esprime, in ogni filosofia questo bisogno intimo dell'uomo che pensa e costruisce cultura. Ma torniamo a riflettere sulle scienze e questa volta in termini di linguaggio. L'uomo avverte il bisogno di unificare e tradurre in un sistema, percorribile in ogni senso, il complesso delle cognizioni che ha saputo formulare per via di analisi e di sintesi parziali. Nello sforzo dell'unificazione, queste sintesi, rappresentate dalle singole scienze umane, vengono continuamente tradotte in un linguaggio unitario che potremmo chiamare umanese cioè lingua dell'uomo nella sua unità complessa. Se ogni scienza parla il suo metalinguaggio (cioè parla settorialmente), l'umanese, relazionando in sistema e rendendo fungibili i molti sensi che l'uomo si è attribuito mediante la ricerca scientifica, costruisce un discorso unitario nel quale l'uomo cerca di esprimere la realtà complessiva di se stesso. L'uomo che è un 'grave' per la fisica, un 'mammifero' per la biologia, un 'essere sociale' per la sociologia etc, cerca, proprio nel linguaggio umanese, di affermare di sé: "Io sono un uomo". In questo senso, il sintetizzare in un unico linguaggio la complessità della vita, si configura come una strada segnata all'interno stesso dell'uomo, e che lo riguarda sia come essere singolo, sia come entità 'religiosa', cioè assimilabile ad altri (16). (16) Se si osserva la formazione di questa sintesi mediante un linguaggio unitario, appare subito che il processo ha carattere diffuso e progressivo ed ha come referente chi, più capace degli altri, pone in essere gli atti evolutivi di sintesi. In questo processo la memoria ha un ruolo importante. Infatti, mentre si perde memoria degli infiniti contributi alla sintesi, vengono ricordati coloro che ad essa riescono a dare una veste linguisticamente coerente. L'intera umanità costruisce la coscienza dell'uomo, ma sono ricordati solo i 'grandi', i pensatori, i filosofi, i teologi che pure hanno attinto dal magma della storia evolutiva dell'uomo. Attraverso questo processo di identificazione e sottolineatura, chi viene ricordato finisce coll'essere considerato autore unico ed originale di una sintesi di pensiero e quindi di coscienza. Quando queste qualità vengono riferite ad una Scuola, chi ne fa parte soffre la tentazione di sentirsi dominus di quella sintesi 'conclusa' e di diventarne il custode geloso. Così l'autore di una enciclopedia alla quale tanti hanno collaborato può vantare di esserne l'unico autore, l'unico referente per un discorso critico e difenderla come si difende un figlio. Anche questa speciale tematica, attinente al discorso (Logos) come punto di unificazione, viene continuamente esposta nella Bibbia, e tocca il suo punto cruciale (unificazione o fallimento) nel bivio costituito dalla scelta fra cattolicità/unità e singolarità/specialità. Questo secondo momento, che è del tutto negativo, nella Bibbia viene reso iconicamente dalla chiusa prassi teologica della religione giudaica (non intendo i singoli che meritano sempre rispetto). In questo senso il giudaismo funge da sagoma della religione negativa che, mentre sembra unificare, costituisce oppio e ceppi per gli uomini (17). (17) L'intero discorso può essere traslato ancora in altro modo nell'area biblica; diremo allora che La Sacra Scrittura è l'enciclopedia di cui all'esempio della nota precedente. Essa, pur essendo antologia sistematica delle rivelazioni fatte da Dio al mondo, pur costituendo l'opera di una ininterrotta e diffusa serie di personaggi ispirati, è stata contrabbandata come prodotto originale ed esclusivo di una congrega, di una scuola (quella giudaica dei tempi di Gesù esistente in Gerusalemme). Ciò è stato possibile attraverso la memoria, cioè la ripetizione costante di titolarità da parte di uno dei redattori che, rispetto agli altri colleghi, si preoccupava di ricordare. Nessun discendente delle scuole che composero le opere trasfuse nei libri della Bibbia ha giocato la stessa partita; le scuole, i circoli religiosi (si pensi al platonismo) non hanno avuto l'ambizione di essere «autori esclusivi» ed hanno permesso l'oblio sopra di loro; la religione giudaica ha operato invece una sistematica ripetizione che un poco alla volta è diventata un dato acriticamente assunto dalla cultura. Solo l'evidenza delle scoperte archeologiche ha consentito di rompere questo muro di ricordo foderato di silenzio che ha imprigionato il grande fenomeno della redazione biblica. B) Unità nella religione - limiti L'esigenza di una unità del sapere, quando prende atto dell'umana impotenza, si volge al sentiero delle religioni. Il sorgere della religione, letto nella angolazione ora prospettata, esprime dunque un bisogno dell'uomo inerente il suo stesso essere. L'uomo ha bisogno della religione per essere uomo. E tuttavia come, fissando per iscritto la vivacità del dialogo, questo corre il rischio di farsi cosa morta, così la religione può diventare un oppio che addormenta e fa vaneggiare. Scritturazione e Religione sono due momenti altamente critici per l'uomo; sono il giudizio che egli celebra su se stesso. La negatività di questo momento evolutivo della Vita può derivare da uno degli elementi che entrano a far parte del processo; mi riferisco alla presenza di uomini chiamati a svolgere la funzione ministeriale (cioè di servizio) di centri di unità della conoscenza e della sintesi sociale. Li chiameremo arconti, eletti, iniziati etc. In personaggi come Mosè, Budda, Pitagora, Platone, Maometto e tanti altri, è possibile leggere sia i centri agglutinanti della fede, singolarmente sperimentata dagli uomini; sia i fondatori di religioni-istituzioni; sia i costruttori di testi normativi di comportamenti; sia gli scribi di Summae di verità; sia i costruttori di Pozzi da cui fluisce l'acqua della divina rivelazione. Nell'ambito del Conoscere, questi specialissimi soggetti sono infatti chiamati ad assumere la funzione di Notai di Dio; di chi è capace di escindere dal conosciuto dell'umanità (in ordine a Dio) ciò che è falso; di chi alla fine costituisce le molteplici rivelazioni in unità; di chi dà a questa unità la forma di un Atto pubblico facente fede per tutti, ed esente da errore (Ispirazioneinerranza). Ma c'è un pericolo, ed esso consiste nel fatto che questi eletti, da Notai tendono a trasformarsi in gelosi bibliotecari e, da strumenti di verità, in falsi autori e possessori del Libro da essi composto. La storia del 'peccato' è in qualche modo connessa intimamente alla funzione di questi specialissimi uomini, di quel 'Popolo eletto' che, nella Bibbia, assume le vesti della 'dura cervice', del rifiuto. Questa tematica viene esposta nel Libro sacro che, letto in un certo modo, parla di sé, del modo con cui è sorto e del come si è evoluto. La grande e diffusa rivelazione al mondo, esposta nel primo racconto della Genesi dalla totalità composta di Cielo e Terra, è tesa all'unità. Le Opere dei Giorni sono infatti centrate su due punti agglutinanti: il Firmamento e l'uomo, La tematica dell'uomo (che sintetizza la Rivelazione, cioè le opere di Dio) viene ripresa nella seconda parte dello stesso libro e individuata come chiamata ad un ministero specifico, ad un servizio, ad una testimonianza sacramentale a favore del mondo (18). Il Genesi afferma così l'unitarietà della Rivelazione costituita dall'unica presenza di Dio (Libro), l'unità della umanità (Adamo); l'unità della risposta (dialogo e benedizione); il servizio degli 'eletti' teso a costituire questa unità. (18) Questo mi sembra il significato del «signoreggiare il mondo» e di «custodire e coltivare il giardino e la terra» che Dio commette ad Adamo, In un secondo momento, Abramo, l'eletto per eccellenza e quindi il prototipo di ogni credente, viene chiamato ad unificare le molteplici attestazioni di verità e di risposta fiduciosa del mondo. In questo speciale senso egli è padre nella fede e non nella Religione. Non a caso è considerato tale anche dai musulmani oltre che dai Cristiani e dai fedeli mosaici (19). Abramo., identificato infine nella sagoma del nipote Giuseppe, diventa figura di colui che offre all'uomo la chiarezza (sogni), la forza (vicerè), la pace (unità dell'Egitto) (20). (19) Egli è figura del perfetto ricercatore che tende all'unità e perciò viaggia nel mondo e stabilisce rapporti con le varie popolazioni, Un uomo isolato, per poter dire «unità»; un uomo che sa sacrificare quanto ha riunito (Isacco), perché riconosce che il Rivelante è più grande della rivelazione data; un uomo che offre il suo seme di Vita alla Schiava ed alla Eletta, Nella sagoma ricalcabile del nipote Giacobbe lo stesso Abramo sposa due donne e genera dodici figli. (20) Ricordo che la dilatazione degli anni di vita è uno strumento per rendere presente l'antenato nel discendente. Cosi non solo Isacco, ma anche Giacobbe sono compresi nella dimensione temporale della Vita di Abramo, Quanto a Giuseppe la cosa sembrerebbe esclusa. Il racconto lascia tutto nell'ombra perché si possa, per un verso ricalcare Giuseppe su Abramo, e per l'altro mantenerlo autonomo, Giuseppe infatti è anche sagoma di Gesù che si inserisce nella schiera degli eletti, ma li supera tutti. La Bibbia è chiara anche in ordine alla falsificazione di questo processo. Se si vuole ricercare l'icona che profetizza la deviazione che falsifica il 'servizio' in 'potere'), si può fare riferimento al personaggio di Giuda nel racconto del cd. oltraggio di Dina (Gen 34). Mentre Abramo ed Isacco avevano dato la propria Donna (cioè la loro speciale rivelazione) alle Genti, qui Dina diventa occasione per schiacciare il popolo di Sichem (gentili), imponendo ad essi una estrinseca ritualità unificativa (circoncisione come religione). La sagoma che profetizza il rifiuto a dare alle Genti la Vita (intendi: la conclusiva Rivelazione), si può poi individuare nel racconto di Onan; qui, di fronte al rifiuto del figlio, sarà direttamente il Padre (intendi quello dei cieli) a dare la vita alla donna (genti) alla quale l'eletto Onan ha negato il seme della Vita (gen cap. 34 e 38). C) Unità nella fede Da quanto abbiamo detto possiamo concludere che la chiamata a costituire una sintesi coscienziale, che renda l'uomo chiaro a se stesso e lo evidenzi come dialogante col Dio, è fenomeno diffuso, articolato progressivo, attiene cioè alla fiducia (fede) nell'esigenza di un rapporto intersoggettivo col Creatore. È una fede universale che riguarda ogni uomo, e che si esprime in una pluralità di atti che lo storico può anche registrare, ma che, al tempo stesso, costituiscono un continuum che solo la teologia sa investigare. Il teologo può cioè ricostruire una autentica Storia Sacra, ad un tempo antica ed attuale. Essa si esprime in alcuni momenti tipici che ora indicheremo. Dio ha operato una elezione universale a cercare e cogliere il Divino. Inoltre, per aiutare questo processo ha chiamato (elezione specifica) alcuni servi perché fungessero da costruttori di sintesi e formulatori di verità (Libri pre biblici). A compimento, ha chiamato ancora più specificamente dei Notai che dessero valore pubblico e certezza di verità a quanto era stato raccolto. In pratica il dialogo è stato ed è sempre presente fra l'uomo e Dio e consiste in esperienze personali; poi in creazione di storie (es. Gilgamesh); poi nella depurazione continua del tutto e costruzione dei libri che fanno parte del corpus biblico (es. il Pentateuco etc), e culminativamente nella unificazione del tutto (Bibbia greca dei LXX). Tutto questo ampio processo si è articolato nel divenire dell'umanità, sicché è praticamente impossibile risalire al momento in cui avvenne la formalizzazione dei testi biblici ad opera dei notai di Dio. È ovvio infatti che la diversità dei popoli e delle culture produsse e produce opere in lingue diverse. Pertanto se si pensa ai testi biblici bisogna vederli sparsi nel tempo e nello spazio e scritti in lingue diverse (semite e greca). Inoltre se si vogliono individuare, sotto il profilo letterario i testi usciti dalle mani del Notaio di Dio, l'impresa è quasi impossibile. Certamente esistevano, se Gesù ne fece riferimento e se il NT li dichiara opere ispirate; ma indicarne la precisa consistenza e le coordinate storiche, è discorso che ineluttabilmente cade nel nulla. Questa conclusione dipende anche da un fatto importantissimo (lo abbiamo indicato come culmine di tutto il processo): Dio 'non voleva' i libri, ma il Libro, come complessità omogenea, come unità della rivelazione divina e come pubblicità della stessa (cfr. Cap.VIII di Neemia). Da ciò deriva che dovevano restare nell'ombra i singoli o i circoli culturali che lavorarono a questa grande opera (21). (21) Allo stesso modo come restano nell'ombra gli evangelisti che una mania storiografica cerca di trarre dalla loro oscurità. Va invece sottolineato un altro fatto e cioè che questa tensione all'unità del Libro, che si interfaccia con l'unità del singolo uomo e della intera umanità, produce una seconda elezione che si evidenzia principalmente nell'area gentile. Se è vero che sono Semiti coloro che curano la depurazione dei singoli libri sacri, sono greci coloro che le danno la prima formulazione unitaria; la cd. Bibbia dei Settanta è infatti ispirata dal monarca greco Tolomeo Filadelfo (309-246) che ricalca il personaggio di Abramo avendo sposato la sorella Arsinoe; (da ciò il nome di 'amante della sorella' e cioè 'Filo-adelfe'). Ma anche Tolomeo, in ordine al nostro fenomeno, è un personaggio letterario, una figura di cui si può fare teologia e non storia (22). (22) Come vedremo questa Bibbia si caratterizza non come traduzione di precedenti testi semiti, ma per avere costituito, mediante una unica lingua, l'unità del testo rivelativo. La LXX non è una traduzione, ma una omogenizzazione che consentì ai «Ta Biblia», cioè «i libri», di diventare il «To Biblion», cioè «Il Libro». Come poi diremo, la lingua usata (il greco), non fu il semplice linguaggio materno parlato in quel tempo (il cd. greco della Koinè), ma un linguaggio artificiale, letterario costruito perché fosse capace di rendere interconnessi i diversi testi della rivelazione scritta. La Bibbia dei LXX è così, storicamente, la prima Bibbia unitaria. Il processo di unificazione si perfeziona con i Vangeli. Gesù non abroga la Bibbia (VT), ma neppure scrive un suo Libro. Per concludere la grande traiettoria della unificazione, Egli affida ai suoi discepoli di farsi, ognuno di loro, un libro vivo; cioè di sintetizzare se stessi e di coagulare il mondo intero e la rivelazione di Dio in esso diffusa, in questa raggiunta unità personale. In forza di Gesù, il linguaggio unificante della rivelazione diventa la testimonianza dell'uomo. Perciò il Vangelo non può dirsi una libro qualsiasi tra gli altri libri; in esso la molteplicità trova la sua sintesi unitaria in quanto risulta costituito da chi, in ogni tempo e luogo, lo predica vivamente. In conclusione la storia della Bibbia è storia totale; storia di Voci, di libri e, al tempo stesso, storia del bisogno di unità dell'uomo e dell'umanità. Esaminando la sua vicenda in chiave teologica, l'umanità può prendere coscienza della propria vicenda divina. La Bibbia che oggi possediamo è allora un libro: che risponde alla intrinseca esigenza dell'uomo di rapportarsi a Dio; che è nato dagli uomini, ed è diretto agli uomini di tutte le razze e di tutti i tempi; che costituisce l'unità della Rivelazione di Dio e quindi l'unità dell'uomo. Progressivamente essa è derivata: - da tutte le esperienze religiose degli uomini; - da tutte le opere di sintesi, orientate in questa direzione; - dai singoli libri che sono rifluiti nel testo unitario; - dal VT della LXX; - dal NT. Essa diventa perfetta sintesi della molteplice rivelazione nell' Uomo immagine di Dio, nell'essere teandrico che immedesimatosi a Gesù, diventa libro vivo e parlante a tutti, con la potenza dello Spirito di Dio. <IV> La tensione all'unità nella formazione del libro Un dato: la pluralità di Bibbie Cercheremo ora di comprendere il significato teologico del lento processo di costituzione del Libro Sacro; per verificare se, meditandolo, diventi più chiara la nostra vicenda umana. Comprendere come nasce la Bibbia equivale, se ci si muove in questa ottica, a scoprire le vie della nostra evoluzione spirituale, sicché un arido tema da filologi si trasforma in una meditazione viva ed attuale di fede. Prendiamo le mosse da un fatto che è sotto gli occhi di tutti, ma viene ignorato per quieto vivere e cioè che la Bibbia non è un libro che (ad es. come la 'Divina Commedia') esiste di per sé, ed è quindi uguale per tutti, editori e lettori. Bibbia è invece una parola equivoca che indica una serie di opere in commercio le quali, seppure grosso modo uguali, differiscono tra di loro per quantità e qualità del contenuto. Dunque esistono varie Bibbie che sembrano sostanzialmente identiche, ma differiscono nella lingua, nel numero dei libri di cui risultano composte, per estensione o contenuto di questi ultimi, ed infine per il diverso significato che si dà a questo o quel passo. Ma c'è ancora un altro dato da prendere in considerazione: quando diciamo Bibbia, vogliamo intendere un libro unitario, oppure una serie di libri autonomi, seppure collegati fra di loro? Tipograficamente essa si presenta come un unico 'tomo', ma è sufficiente aprirlo per rendersi conto che trattasi di una collezione di opere diverse sia per contenuto che per stile letterario (1). (1) Il termine Bibbia, in quanto esprime un neutro plurale (nel greco è 'ta biblia' che significa 'i libri'), ne denota immediatamente la struttura composita. sicché vien da chiedersi perché mai la Chiesa considera questa molteplicità come un'opera unitaria e complessiva. Il carattere composito della nostra opera, fa subito pensare che essa si è formata per 'aggregazione' e quindi che vi fu un tempo in cui i libri venivano scritti uno alla volta; ed un tempo nel quale essi furono riunificati. Ed ancora che, se Dio ne è l'autore (come la fede della Chiesa afferma), Egli dovette ispirare sia gli agiografi (autori sacri), sia coloro che ne costruirono l'edizione unitaria. Se la Bibbia è un qualcosa di composto in un lunghissimo arco di tempo, ad opera di molte persone (singoli e circoli culturali); se le sue versioni in lingua diversa (vere traduzioni o rielaborazioni) occupano anch'esse un arco di tempo molto ampio (ancora oggi la Bibbia viene continuamente tradotta nei linguaggi correnti); se la sua stessa unificazione non è stata ne puntuale nel tempo, ne unica; se tutto ciò è vero, risulta importante capire come ed in quale punto Dio è intervenuto. In parole povere, bisogna pur chiedersi quale è la Bibbia vera che, in quanto ispirata da Dio ed inerrante, può costituire la base ed il luogo della: riflessione del credente. Chi non si contenta di acquisire acriticamente il libro comprato in libreria, deve porsi allora il problema di stabilire le fasi ed i momenti di questo procedimento, ma deve pure muoversi, nella sua ricerca con un intento e con una metodologia strettamente teologica. Ovviamente, poiché la materia su cui riflettere costituisce un evento storico, è naturale e doveroso che su questo punto si impegnino anche gli storici ed i filologi. Ma va subito precisato che il limite di una ricostruzione storica sta proprio nella sua indifferenza rispetto alle domande della fede che sono poi le uniche che interessano l'uomo che crede (2). (2) Poiché lo storico non si fa carico (se non marginalmente) della specialità del fenomeno (che è religioso), gli risulta impossibile muoversi in chiave teologica. Il libro è per lui un testo letterario da notomizzare, ed i suoi protocolli scientifici lo indirizzeranno ineluttabilmente su piste diverse. Il teologo invece, negli stessi eventi formativi del Libro, intuendo una Rivelazione religiosa, batte strade diverse da quelle dello storico; egli infatti non bada al concatenarsi di cause ed effetti leggibili secondo gli schemi della storiografia o della sociologia religiosa. Il criterio fondamentale che guida il teologo, anche quando prende in considerazione fatti storici, consiste nell'interrogare non già i fatti nella loro consistenza storica, ma il Libro (quasi fosse una «persona»), per chiedergli conto del suo nascere e del suo formarsi. Se dunque afferma che la dottrina in esso contenuta e che egli studia è Rivelata, non può poi dimenticare questo dato essenziale quando ne indaga il nascere. Egli sa che all'interno della stessa rivelazione divina si nascondono le risposte ai quesiti che giustamente vengono posti, ivi compreso quelle riguardanti la sua stessa formazione letteraria. Ma procediamo con ordine, ponendo la questione sul piano pratico. A chi chiede in una libreria una copia della Bibbia, viene chiesto di precisare almeno la 'confessione' religiosa che ha presieduto alla revisione e pubblicazione del testo, cioè in altre parole l'Editore (in senso sostanziale e non tipografico). Ogni religione che si riconnette ai libri mosaici ha infatti una sua Bibbia (3). (3) Vi sono bibbie cattoliche (Vetus, Vulgata, LXX etc), protestanti, anglicane, ortodosse; vi è poi la Bibbia della religione mosaica (cd. Masoretica). Le differenze riguardano proprio alcuni contenuti e il numero e l'ampiezza dei libri. Ad es. la cattolica contiene 46 + 27 libri (VT e NT); quella protestante di meno; quella ebraica ancora meno e naturalmente non riporta il NT. Ma se il nostro acquirente oltre a scegliere la Bibbia secondo una confessione religiosa, ha anche interessi filologici, e desidera acquistare il testo originale, il libraio gli chiarirà che nessuno è in grado di offrire il testo primitivo, cioè l'autografo, anche di uno solo dei libri che la compongono. Gli proporrà allora una serie di opzioni. Quanto al VT, metterà a disposizione testi antichissimi assonanti con quelli biblici, e scritti in varie lingua antiche; ed ancora testi greci o semiti (papiracei o su pergamena) anteriori a Cristo, contenenti tutti o parte dei passi presenti anche nelle bibbie ecclesiastiche in commercio; offrirà anche manoscritti dei primi secoli o del medioevo (in greco, latino o ebraico), relativi a singoli libri o all'intero testo della Scrittura ora in nostro possesso. In pratica il nostro ricercatore si troverà di fronte ad una molteplicità di testi appartenenti a culture diverse, scritti in varie lingue, appartenenti ad epoche anche molto distanti tra di loro, senza un chiaro criterio per distinguere quale è il padre, quale è il figlio, e quale il nipote, cioè, fu or di metafora, qual è la versione originale. Si accorgerà allora di alcune cose: - a) che il cd. originale (termine di cui a torto si fregiano alcune traduzioni moderne) è fissato dagli studiosi in base ad una apodittica visione storica che privilegia il cd. mondo ebraico; -b) che in pratica i libri sacri si muovevano in una vasta area culturale ed etnica, e che la religione mosaica, che li ha tipizzati, era diffusa in tutta l'Ecumene (cioè nelle terre che si proiettavano sul Mediterraneo). -c) che i libri della Bibbia presuppongono testi anteriori, appartenenti a religioni diverse ( 4) (4) Ad esempio i racconti della creazione e quello di Noè si rifanno scopertamente a narrazioni babilonesi (libro di «Enuma elish») o all'antichissima storia di Ghilgamesh. -d) che le grandi tematiche contenute nel nostro Libro erano già presenti nelle più antiche teologie (5). (5) Ad esempio scoprirà che il 'giusto perseguitato', che diventa 'Giobbe' nella Bibbia, è un tema caro alle religioni Ugaritiche e Sumero-Accadiche; e che il disincantato Koelet (Libro dell'Ecclesiaste) ha un antenato nel 'Canto dell'arpista' della religione egizia. Noterà anche, se legge con attenzione e senza pregiudizi, il contributo che la grande religione del mondo classico ha fornito alla costruzione del nostro Libro. Se saprà accogliere questi dati, il nostro ricercatore vedrà crollare una affermazione di cui non aveva mai dubitato: che la Bibbia costituisce un'opera del tutto originale. Essa, al contrario, gli comincerà ad apparire, qual è, una antologia di antichissime rivelazioni (6). (6) Possiamo dunque dire che prima della Bibbia esistevano molti testi religiosi che contenevano le tracce, a volte inquinate, della generale rivelazione di Dio; esistevano molte Leggi che Dio aveva suggerito all'uomo per consentirgli di incontrarlo. Gli agiografi biblici non si limitarono a copiare questi testi; si fa torto alla loro intelligenza e sensibilità religiosa se li si immagina come Giapponesi ante lttteram che copiano i prodotti altrui. Essi tendevano piuttosto al recupero delle verità sparse nel mondo e sapevano che questo loro operare costituiva esso stesso una rivelazione divina. Annunciava infatti che da sempre Dio aveva dialogato con l'uomo a qualunque razza o religione appartenesse. Questa coscienza essi trasfusero nel libro della Genesi; ed infatti all'inizio non c'è un libro, cioè una codificazione autoritativa; c'è solo un dialogo con Adamo che raccoglie la sua conoscenza in modi molteplici e con un diverso grado di verità. Il primo tempo è dunque quello della Voce, ed è caratterizzato dalla benedizione: 'Siate fecondi, moltiplicatevi, unificate il creato' (Gen 1,28). A questo tempo segue un secondo caratterizzato dalla chiamata di 'servi' (gruppo eletto) che, a mò di notai sintetizzano il dialogo, e costruiscono un testo autoritativo e vero. Dal molteplice dunque si tende all'unità che ne rappresenta il momento culminativo. La Scrittura nasce quindi come momento di maggiore pienezza che non distrugge, anzi esalta la Rivelazione fatta alle Genti, quella che Dio ha da sempre e per sempre riservato ad ogni creatura che vede la luce del sole. Quanto al NT, il problema degli originali è grosso modo identico; ma, vuoi per la maggiore prossimità a noi, vuoi per l'attento controllo esercitato dalla Chiesa, le difficoltà sono minori per il nostro acquirente. Il libraio non avrà infatti problemi in ordine alla lingua, perché di fatto esistono solo codici greci (databili ai primi secoli della Chiesa) e attestazioni papiracee nella stessa lingua. L'acquirente comprenderà allora che il NT è nato nella civiltà greca ed è stato redatto in lingua greca. Formazione della Bibbia come profezia Grosso modo questa è la situazione sul piano documentale. Lasciando i connessi problemi di datazione e di traduzione agli studiosi di questo settore, a noi ora interessa verificare se questo stesso fenomeno può essere letto come una rivelazione di Dio; se cioè l'evento del formarsi della Bibbia costituisca la divina prospettazione di una via spirituale consistente proprio nella tensione all'Unità, contrastata da una forza disgregatrice che vi si oppone. Per verificare questa ipotesi, proveremo ora a ripercorrere analiticamente le tappe che sinteticamente abbiamo già indicate nel capitolo precedente (7). (7) In ordine al metodo che seguiamo ed alla sua applicazione, rimando al Quaderno n. 2: 'Partenogenesi dei Vangeli'. I libri sacri e la loro unificazione Abbiamo già accennato alla unità e generalità della rivelazione di ; Dio, Grande Voce che si comunica a tutti gli uomini della terra. Chi osserva la storia dei singoli individui e intuisce che essa rispecchia quella della intera umanità (ontogenesi come modello della filogenesi), può agevolmente concludere che, nel suo sorgere, l'esperienza religiosa è stata sempre un fatto individuale (8). (8) Un bell'esempio letterario del sorgere della religione lo si trova nella poesia 'Lo spavento stellare' di Gumilev o nella novella pirandelllana 'Ciaula scopre la luna', Alle prime esperienze individuali (che, verisimilmente, costituirono il seme di una casta sacerdotale e profetica) seguirono le forme sociali e si formarono tradizioni tipiche orali, le quali sistematizzavano in qualche modo le intuizioni sul divino e sull'uomo. A questa fase, in una epoca molto più vicina a noi, seguì la redazione di libri sacri ad opera di individui o più probabilmente di scuole sacerdotali (9). Basta solo volgere lo sguardo al passato e si scopre la costante e generalizzata presenza, nei popoli antichi, di testi sacri (ovviamente scritti in lingue diverse per origine o traduzione). Essi rappresentano la preistoria della Bibbia e vanno considerati con religioso rispetto, come suggerisce l'apostolo Paolo (Atti 17,28). (9) Volendo fare qualche esempio possiamo pensare alla grande produzione religiosa del mondo classico in cui spiccano opere come 'Le opere e i giorni' di Esiodo, l'Iliade e l'Odissea : di Omero; o a quella mesopotamica con il 'Racconto di Ghilgamesch' e di 'Enuma Elish'. E veniamo alla unificazione che rappresenta la tensione sotterranea di ogni teologia. Possiamo presumere che già nella prima fase, e sempre più fortemente con l'avanzare del tempo, si venne costituendo una unità fra tradizioni e libri. Chi va in cerca degli originali, scopre, come già dicevo, una sconcertante unità di contenuto e di tematiche nella sterminata quantità di miti dell'antichità. Sotto il rutilare delle immagini, lo studioso finisce con l'individuare una teologia (certamente non sistematica, e di qui tanti equivoci) che ha per oggetto il grande mistero dell'uomo e del suo rapporto con Dio. Alla unificazione dei contenuti dei vari miti, se ne interfaccia un'altra, quella del linguaggio. Io credo che risale ad un periodo molto antico la formazione di un linguaggio sacro (Jeratico), cioè di un metalinguaggio (linguaggio artificiale), avente come scopo di esprimere ciò che è indicibile nelle parlate naturali (10). La sua qualità consiste in un modo del tutto speciale e tecnico di 'trattare' i fonemi del linguaggio naturale, e di concepire il discorso ed i suoi elementi. Questo ]eratico, che ora sto ipotizzando, rappresenta un evento fondamentale nelle grandi culture dell'antichità (11). (10) Questo tema sarà specifico oggetto di un prossimo Quaderno. (11) In esso furono scritti, a mio giudizio, i grandi poemi religiosi. Aggiungo che, molto probabilmente, quello che noi chiamiamo ebraico nacque proprio come metalinguaggio dedotto dagli idiomi semiti; si servì cioè dei lemmi delle lingue mesopotamiche e cananee; e ciò giustifica l'assenza di altri documenti in ebraico estranei alla Bibbia. Per intenderci meglio su questo punto, farò riferimento al Pavano di Ruzante o a quel linguaggio artificiale che Dario Fa utilizza nelle sue pieces, il quale, composto da fonemi di varie parlate, è sì comprensibile, ma non appartiene a nessun idioma praticamente in uso. [ Per meglio cogliere il significato teologico del processo di formazione della Bibbia sarà poi utile fare riferimento a qualcosa che è stato relegato nei gabinetti degli scienziati della lingua e che invece costituisce un dato specificamente religioso. Mi riferisco alla invenzione del linguaggio scritto e dell'alfabeto. Questo evento costituì una vera e propria rivoluzione che potrebbe assimilarsi a quella connessa con la scoperta del fuoco o della ruota. Il superamento dell'ideogramma attraverso l'alfabeto fu unanimemente interpretato come dono divino e dette quindi origine alla 'mistica' dell'alfabeto e delle singole lettere (cd. Stoicheia). La coincidenza del valore verbale con quello numerico (le lettere erano anche numeri) aprì altri orizzonti di riflessione (12). (12) Ad es.la parola 'En', che esprime fra l'altro il concetto dell'unità (Uno), e che è il primo fonema della Scrittura, aveva il valore numerico di 5/50 e questi numeri hanno una notevole importanza nel discorso biblico, in quanto alludono al 'matrimonio' ed alla 'pentecoste'. L'alfabeto dovette apparire agli antichi come il D.N.A. della comunicazione. Una ventina di segni avevano la capacità combinatoria di produrre tutte le possibili parole. Una icona che si prestava a descrivere perfettamente la creazione di una 'unità' che si moltiplicava senza mai perdersi, e di una molteplicità che in fondo aveva senso solo perché si rapporta all'unità. Se il rude, in quanto analfabeta, era dunque un essere infimo, lo Scriba, al contrario, poteva sentirsi partecipe dello stesso pensiero creativo di Dio (Nous). Altro elemento di esaltazione dell'uomo alfabeta fu certamente il possesso della dinamica Consonante/vocale con la sua capacità di rendere vive e ricche di molteplici sensi sequenze di cifre morte e di impronunciabili consonanti. La vocalizzazione poteva così denotare un intervento dello Spirito (che, come la vocale, è un soffio), capace di rendere viva la lettera morta (13). (13) Una eco di questa sensibilità potrebbe ritrovarsi nella storia dei cd. sei giorni della creazione; essi possono interpretarsi come la Vocalizzazione di un testo originariamente esistente solo in forma consonantica e quindi assolutamente caotico. Ricorderò al lettore che gli scritti primitivi erano semplicemente consonantici oltre a mancare di divisione di parole e della punteggiatura. Questo costume è rimasto vivo fino a Dante. La religione fondata da Mosè Come già dicevamo, un altro momento della unificazione del sacro è costituito dal formarsi delle religioni. La tensione ad una teologia unitaria assume un ruolo decisivo nella religione mosaica, e una dimensione storicoprofetica nel personaggio di Mosè. In lui possiamo individuare il sorgere di una Religione dell 'unità, espressione che preferirei a quella corrente, Religione monoteista; e ciò perché, contrariamente al corrente luogo comune, il monoteismo era ben conosciuto ancor prima di Mosè. La religione mosaica (impropriamente - chiamata ebraica) assume l'unità come valore fontale sicché all'unico Dio raffronta l'unico popolo e l'unica Legge. Ma il tutto, come vedremo, con una ineliminabile valenza universale che fa di questa religione il sacramento visibile della fede universale. Questa religione si proiettava sul passato, coagulandolo nelle figure ricalcabili di Abramo Isacco e Giacobbe e in quella conclusiva di Giuseppe (14). (14) Io credo che nel linguaggio sacro degli agiografi una serie di figure connesse (si pensi anche a Saul, Davide e Salomone) era uno strumento letterario per esprime una teologia complessa ma unitaria, difficilmente esprimibile in un solo personaggio). Attraverso il succedersi di queste icone viene delineata una teologia della unità della Rivelazione. In pratica si disegna una prima fase costituita dal dialogo diretto della Voce divina con l'uomo (Abramo); una seconda nella quale viene affermata la preminenza della spiritualità sulla carnalità dello scritto (Isacco); ed infine una terza che riguarda la fissazione nello scritto della Rivelazione unica ed universale godibile da tutti (le 'cortecce' e le due 'mogli' di Giacobbe). Il personaggio di Giuseppe ricapitola ogni cosa mostrando Come il profeta che parla Con Dio (sogni) è anche l'uomo nuovo, operatore di Vita e cioè l'Uomo/Libro. In particolare, la terza fase (Cioè quella dello 'scritto') viene esposta nella Bibbia Con la formalità del cd. Patto. Questo termine (per noi oggi del tutto equivoco), se riferito alla formazione della Bibbia, indica le due fasi: quella del reperimento delle rivelazioni e della loro depurazione, e quello della unificazione. In pratica accade per la ; Bibbia quanto si verifica nell'uomo. In ognuno di noi c'è il momento dell'ascolto interiore, dell'intuizione intima della verità, cui fa seguito una scelta di vita, un programma che viene fissato per il futuro. Terza e perfetta fase di questo processo è la maturità che libera dai programmi, proprio perché la Vita, finalmente compresa, diventa l'in sé dell'agire. Parallelamente si può leggere il grande fenomeno del dialogo con Dio: da un tempo della Voce divina (cioè dell'intimo parlare di Dio), si passa al tempo della Scrittura, cioè della fissazione dei testi religiosi veri ed irreformabili, per sfociare nell' uomo, sintesi della Vita e della Rivelazione. Questa vasta tematica sviluppata nel libro della Genesi viene riassunta in quello dell'Esodo, nella figura di Mosè, di colui cioè che ha un espresso mandato a scrivere. In lui si chiarisce che le tradizioni religiose dell'umanità (metaforicamente indicate dagli animali/cuoia) si trasformano in Libri formati ed irreformabili; essi costituiranno l'unitario volume della Bibbia (15). (15) In questo senso la tradizione ha riferito a Mosè i cinque primi libri che costituiscono il cd. Pentateuco. oppure, con termine ancor più unitario 'La Legge'. L'Ambiente egiziano Fatta questa premessa, riflettiamo sul sorgere della religione mosaica, ed individuiamo in concreto la situazione religiosa egiziana di quel tempo. Nel 1350 a.C. in Egitto Amenofi IV, portando evidentemente alla luce qualcosa di molto più antico e di ben conosciuto a tutti, tentò di rendere pubblico ed ufficiale il culto all'Unico Dio rivelato (Aton). Un passaggio, si dice, dal politeismo al monoteismo, semplificando un processo che riguarda invece sostanzialmente lo svelamento dell'unico Dio Nascosto (Amun) nella persona del Dio Visibile, sacramentato dal disco solare (Ra). Qualcosa di molto vicino alla nozione del Dio totalmente trascendente e della sua incarnazione (l'Emmanuele biblico è, anch'egli, 'sole sorgente dall'alto'). La riforma religiosa di Amenofi non si ferma qui; essa sembra dare grande importanza alla universalità della divinità (già attestata per Amun) ed alla famiglia come gruppo religiosamente rilevante. Inoltre viene sottolineata la dimensione esistenziale dell'uomo che diventa protagonista dell'evento religioso. Di ciò fanno fede i monumenti dell'epoca. Attraverso l'opera di questo faraone, che l'archeologia (e non la memoria di chi ricorda solo ciò che conviene) ci ha restituito, si delinea la presenza non solo di un ben costruito monoteismo a far tempo dal II millennio avanti Cristo, ma anche i semi di buona parte delle teologie bibliche. Le pietre hanno così sbugiardato le affermazioni degli storici di etichetta, ed hanno permesso di riscoprire una coscienza religiosa cattolica come patrimonio dell'umanità. Amenofi ha così testimoniato la storicità del discorso di Dio con Adamo e si pone come un suo profeta. Nell'operare questa svolta religiosa, Akenn-Aton (questo fu il nome assunto dal faraone) si scontrò naturalmente (come poi accadrà a Gesù) con la classe sacerdotale che viveva alle spalle dei templi dedicati ai molteplici Nomi di Dio. Probabilmente la riforma, oltre che sul piano economico, danneggiava il clero, minandone la funzione mediatrice e svalutandone la sacralità elitaria. Alla fine la vinse naturalmente il clero istituzionalizzato, e tutto sembrò tornare come prima; ma ciò non consente di affermare che, seppure vi fu un monoteismo, esso rappresentò solo una breve parentesi in mezzo al politeismo. Si può invece dedurre che il culto autentico dell' Unico ed Universale Dio dagli infiniti Nomi si fece vedere per brevissimo tempo e poi rientrò nell'ombra. Invece di scomparire divenne il motore ideale che cooperò alla formazione della coscienza monoteista presente nel bacino del Mediterraneo (16). (16) Aggiungerò, per meglio chiarire questo delicato momento religioso, che probabilmente, la difficoltà a cogliere un dinamismo interno alla natura del Dio monoteista (Aton), dinamismo necessario per comprendere la Divinità e fondare gli atti liturgici, dovette giocare un ruolo non marginale nell'abbattimento della riforma di Amenofi IV. Tuttavia (e ciò fa pensare che i contenuti teologici erano già esistenti) qualcosa restò se si venne a formare il binomio Amon-Ra, indicante il Dio Mistero che è anche il Dio Rivelato. Dovette anche pesare nella reazione, e non poco, il conseguente rafforzamento della qualità di mediatore del rapporto col Dio vantata dal faraone. In pratica, svalutati i sacerdoti, egli si dichiarava l'unico messia salvatore e di fatto emarginava e svuotava il clero fino ad allora esclusivo interprete e mediatore del sacro. La universalità del Dio che brillava sui buoni e sui cattivi, in ogni parte della terra, eliminava infine quel senso di possesso della divinità che rappresenta quasi una costante dell'animo religioso dell'uomo ed in particolare dell'uomo del sacro. La storia di Amenofi IV, figlio di Amenofi III, che assunse il nome di AKN-ATON, è collegata alla città di El Amarna. Probabilmente in questo cono di fede si formò Mosè che il libro dell'Esodo (racconto di Ietro) qualifica 'un egiziano'. Se si fa credito agli storici, avendo guidato l'esodo verso il 1250, egli seguirebbe Amenofi quasi a ruota. Ed è interessante notare, sempre in questa angolazione, come i discorsi fra Mosè ed il Faraone sembrano presupporre una unità di vedute quanto alla Divinità. In nessun punto il faraone chiede a Mosè di spiegargli quale è il 'suo' Dio. Avanzando una ipotesi potremo dire che molto probabilmente, proprio a causa della restaurazione sacerdotale, quest'uomo della corte fu costretto ad esulare e poi a mettersi a capo di correligionari perseguitati e anelanti ad una libera espressione della loro fede da spartire col mondo intero. Non a caso, in Esodo 1,11, questo gruppo viene presentato come costruttore della città di 'On' cioè la città del 'vivente', la città del 'Sole'. Questo gruppo religioso, che verisimilmente individuava nei 'dodici figli di Giacobbe' (12 è numero simbolico), degli eponimi teologici e non degli antenati, trovò varie dimore in tutte le nazioni del mondo allora conosciuto. Tra l'altro si stabilì in alcuni territori dell'attuale Palestina dove continuò ad adorare l'unico Dio con nomi diversi mutuati dalle varie espressioni religiose dell'unica fede (Jha, Jheu, Ihauè, Elohim, EI Shaddai etc.). Un tratto fondamentale che lo connota è costituito proprio dal suo andare fra le genti del mondo. Questo andare, che aveva una chiara connotazione teologica e non sociologica, ricalcava in senso operativo la vicenda di Abramo, Isacco e Giacobbe. Alla luce di quanto detto, è doveroso allora riconsiderare il significato del cd. Esodo. Il motivo dell'abbandono dell'Egitto è certamente l'oppressione del faraone, ma essa riguarda la cattolicità, cioè la spinta universalistica. Lo dimostra il fatto che Mosè chiede di andare a fare un sacrificio nella 'terra abbandonata' (cd. deserto), cioè in mezzo alle genti del mondo. Un esodo dunque che ha caratteristiche di missione e non di fuga dal carcere. Molti fedeli mosaici restarono dunque in Egitto, altri andarono (come Giona) nella Mesopotamia o in altre nazioni, ma tutti presero a modello teologico 'quella partenza', 'quel tempo del deserto' e quella 'conquista della terra promessa' che rappresentavano il cammino verso la chiarezza della rivelazione divina e l'incontro con l'intera umanità. Così si costituiva la religione mosaica che esiste ancora oggi e che Gesù intese riportare alla chiarezza primitiva, riaffermando la fede di fronte alla piattezza religiosa (17). (17) Naturalmente coloro che si stabilirono in Palestina, fidando in una lettura piattamente storica, cominciarono a considerarsi gli unici autentici discendenti di Mosè, sicché ebbe inizio la falsificazione del concetto teologico di 'Gruppo eletto' che si tramutò in privilegio etnico. Questo processo subì una fase di ulteriore condensazione quando la Gerusalemme della Bibbia fu intesa come 'la città' geograficamente posta in quel luogo. Gerusalemme divenne sinonimo di etnia e di privilegio e nessuno più si scomodò a cercare le ragioni dell'altro nome che la Bibbia dà alla città: Sion. Per meglio comprenderne lo spessore teologico possiamo provare a scandagliare la religione egizia di quel tempo. Le scoperte archeologiche nel restituirci Aknaton (una specie di G. Battista), hanno ricomposto un tessuto complesso di esperienze religiose che illuminano l'evoluzione di quella fede che trova la sua pienezza nel grande Libro. Oggi sappiamo che: a) Esisteva una dialettica teologica tra Singolare/Plurale e alla sua luce è possibile rileggere quel fenomeno che viene liquidato col generico e falso termine di 'politeismo'. Nella Bibbia è ancora presente un 'El' singolare ed un 'Elohim' plurale. b) Esisteva da sempre l'idea di un Dio Padre (Amun, Zeus, EI etc.) che funge da 'singolare' rispetto alle sue molteplici manifestazioni (Olimpo). c) Questo Olimpo costituisce l'articolazione per settori e per icone della incommensurabile ed inscindibile dimensione trascendente del divino. Qui si colloca la tematica dei Nomi congiunta a quella della 'Indicibilità'. Nella religione egizia era inoltre ben chiara l'idea di un Dio nascosto ('Imn', da cui viene Amun, significa proprio questo) che rappresentava la trascendenza assoluta, la fontalità e la inconoscibilità del Dio, sicché nessuno ne poteva comprendere il. Nome/sostanza. Connesso alla trascendenza assoluta c'era un Mediatore, cioè un Messia impersonato dal Faraone, che era un Dio incarnato, o dalla casta sacerdotale che tuttavia non poteva vantare questo legame intimo col Dio (18). {18) Si può anche ipotizzare che la teologia che fa capo al faraone divino contiene 'in nuce: la Cristologia della Bibbia: il mediatore che è tutto umano è in realtà il 'figlio dell'Inconoscibile' (Amun)’, egli è quindi il Dio stesso. Ricordo che solo il faraone, oltre ad Amun, nell'iconografia egiziana ha testa di uomo. Il recupero della storia egiziana ha mostrato ancora come il luogo della deviazione sta proprio nella casta sacerdotale (eletti), e che essa consiste nell'interporre fra Dio e l'uomo un gruppo meramente umano. Il rapporto fra Amun e l'umanità intera, nella persona singola del Faraone suo Figlio, assume una connotazione speciale col sorgere della teologia ed iconografia solare. C'è qui come un abbozzo della 'incarnazione' ontica, sicché può dirsi che il Dio Nascosto è anche il Dio Rivelato. Nasce così la formula 'Amon-Ra' (Ra è il sole), cioè un Padre/Verbo. Un'ultima notazione riguarda il 'femminile'. Nella suggestiva icona della 'Faraona Acceptuz' che offre i pani (la sua tomba è scomparsa) come nella icona parallela di Nefertiti, mi sembra di ritrovare un abbozzo di teologia che allude a Maria ed alla Chiesa. In conclusione la riforma di Aknaton fu probabilmente un precorrere il cristianesimo, mettendo l'accento sul Dio rivelato a tutti, misericordioso, incarnato nel faraone che, conservando tutta la sua umanità, garantiva all'uomo il valore della sua esistenza. In parallelo essa svalutava la teologia dei molti Nomi e di qui la iconoclastia e si centrava sull'unico nome 'dicibile' di Dio e cioè Aton. Svuotava la funzione del clero (sarà così per i giudei) e dichiarava unico mediatore il faraone. Esaltava infine il rapporto diretto fra quotidianità e divinità: l'uomo è amato così come è, nella sua bruttezza; ed è caro a Dio il suo sforzo di bontà e di comunione (famiglia). Il fallimento della riforma di Aknaton lascia due linee di tendenza: - quella che potremmo definire 'cattolica', cioè universale (19): -quella deviante che afferma la mediazione del clero (eletti). (19) Mosè che riprende le linee essenziali e positive evidenziate dalla riforma, diventa controfigura del faraone e assume il ruolo di colui che sarà l'unico mediatore (il Cristo). Di queste due anime è testimonianza la situazione mista, descritta dalla Scrittura nel binomio Re/Sacerdoti; la sua soluzione passa attraverso la linea profetica che si rifà a Mosè e allude al futuro Cristo unico mediatore (20). (20) In una situazione, che ha molti tratti in comune con questa ora descritta, potremo utilmente collocare la figura di Gesù. Egli è colui che restaura la religione mosaica, cioè la fede universale, recuperando tutti gli uomini di buona volontà e quella parte del clero (cfr. Saulo) che saprà lasciare la falsa posizione di preminenza e di mediazione. Il nuovo clero ritrova nel cristianesimo la sua giusta collocazione: servire incarnando il Cristo (faraone, messia, re e profeta). La 'quotidianità' della dottrina egiziana di Akn-Aton può in Gesù esprimersi al suo punto massimo nella eucarestia. Il sacramento di tutto non è più il Sole 'sorgente' ad oriente e cadente ad occidente, ma quello che 'nasce dall'alto' e quindi 'tramonta' 'sulla terra' (cfr. preghiera dei greci della sera). Il Vespro diventa il tempo del cristiano perché annuncia che il Sole sorgente dall'alto riposa vivo nel mare (delle genti), egli che è morto alla divinità dell'alto, eppure è sempre vivente (resurrezione). Ma procediamo con ordine: quanto alla linea di tendenza che abbiamo considerato 'deviante', aggiungiamo qualche altra notazione che servirà a chiarire la dialettica Genti/mediatore (eletti) cioè una delle idee chiave di tutta la Bibbia. La religione mosaica porta in sé le due anime della religione egiziana: A) Quella dell'inconoscibile Amun che naturalmente dà spazio ad un gruppo di mediatori (sacerdoti) per cui la religione diventa universale 'per potenza', ma è localizzata in 'un tempio'; B) Quella del conoscibile Aton (sacramentato dal sole) che è in contatto diretto con tutti (vedi i suoi raggi terminanti con mani che accarezzano l'uomo), senza perdere però la sua trascendenza; Aton ha per unico mediatore (che poi mediatore non è) il faraone. In questa seconda linea si può parlare di una religione che intuisce il Dio universale ed invisibile come visibilizzato in tutto il creato e senza uno specifico tempio. Ne deriva una teologia pacifista che non vuole guerra e supremazia mondana, ma vanta la pace di Dio (21). (21) La figura di Aknaton, che è bruno e sofferente (non è raffigurato in forme idealizzate come gli altri faraoni), e la caduta della sua città del Sole sono fatti fortemente allusivi alla figura del Cristo e di Gerusalemme. Interessante notare che Aknaton fece distruggere tutte le immagini degli dei costituendo quel nucleo teologico che, nella Bibbia, diventa divieto a fare sculture o pitture aventi come soggetto Dio. Interessante ancora rilevare che l'arte di quel tempo esalta: una quotidianità recuperata al momento religioso; il valore della realtà esistenziale, non stilizzando le immagini ma cogliendo gli uomini, compreso il Faraone, così come essi sono; la famiglia e l'amore (egli è raffigurato con la sua famiglia, sul carro, sul trono e sul letto); la pubblicità del culto che si può fare ovunque ed alla luce del sole e non nell'oscurità e nel mistero; il valore della 'coppia' (egli viene raffigurato insieme a Nefertiti che ne è la moglie); la nuova qualità dell'uomo (qui il richiamo alla nuova creatura di Paolo è evidente) come essere asessuato (così viene raffigurato il faraone) sicché non è ne maschio ne femmina ed è Padre e Madre dell'Egitto. La teologia del personaggio di Mosè E veniamo al personaggio 'Mosé'. Poiché di Mosè, che noi cristiani consideriamo una profezia su Gesù (22), non vi è traccia alcuna nei documenti del passato, la sua figura può essere ricostruita solo attraverso il racconto biblico che palesemente vuole fornirci un suo identikit teologico e non certo cronachistico. (22) In ordine al riferimento della figura di Mosè a quella di Gesù cfr. H.Kung 'Ebraismo' Rizzoli pp.70-72). In sintesi dalla Bibbia si può ricavare che egli è un incirconciso; il suo nome appartiene alla lingua egiziana; si lega a Madian, nemico del gruppo discendente di Giuseppe e stanziato in Egitto (Gessen); nella terra di Madian ha la rivelazione decisiva (roveto ardente); la sua storia (fiume, cesto bitumato etc.) è ricalcata sulla leggenda relativa al re Sargon. Mosè, personaggio scomodo per il suo popolo (del quale è sempre avversato), profeta che si realizza in terra straniera, legandosi a stranieri, riassume l'esperienza religiosa egizia e la perfeziona con quella specifica ricevuta da Dio (racconto del roveto ardente). Alla luce di questa rivelazione costituisce una religione, ed in essa una scuola sacerdotale, avente come scopo la costruzione rispettivamente della unità dell'umanità e del Libro di Dio. Per questo specifico fatto, Mosè viene individuato come il fondatore del popolo eletto (meglio: di un 'gruppo di servi'), e come lo scrittore del Pentateuco, cioè del corpus unitario della Legge divina. In base a questi dati, possiamo innanzi tutto affermare che la religione mosaica non nasce per essere propria di una sola etnia, e tanto meno per occupare uno spazio identificato. Essa, come Scuola religiosa, non avrà una unica sede, ma sarà presente in tutto il mondo allora conosciuto e civilizzato (Egitto, Babilonia, Palestina etc.); sarà cioè sin dalle origini la religione della Fede universale ed avrà quindi come suo carattere la Cattolicità. Proprio perché cattolica, rappresenterà il luogo teologico in cui si muoverà l'azione del restauratore divino, Gesù di Nazaret (23). (23) In questo senso universalistico leggerei quel giuramento contenuto nel Talmud che vieta ai fedeli mosaici di rientrare in gruppo in Palestina. Non diremo però che essa aveva come caratteristica originale la fede in un solo Dio, così come erroneamente si continua ripetere, e per supportare tale affermazione (che potrà apparire strana al lettore), ridaremo uno sguardo al mondo religioso dell'antichità. Come già dicevo la nostra cultura ufficiale, civile e religiosa, ci ha abituato ad accettare una palese contraddizione. Società civilissime come Egitto, Babilonia, Grecia etc., sarebbero state estremamente rozze e superficiali in materia religiosa e, solo fra tutti, il popolo ebreo, avrebbe sostenuto la bandiera del monoteismo. La tesi che propongo si muove in altra direzione. Non era il cd. Popolo ebraico a sostenere il monoteismo, perché questa verità era patrimonio di tutto il mondo antico; il vero soggetto che interviene nella evoluzione teologica, tendendo all'unità come suo fine specifico è sempre e solo la Religione mosaica con un suo complesso di verità ben più ampio del mero monoteismo. Chi contingentemente ne è stato l'autentico testimone, è cosa tutta da dimostrare (24). (24) Negli scritti cristiani nati da un desiderio di far apologia degli antenati, mille anni di impero romano diventano un nulla di fronte alla costanza 'intrepida' (un aggettivo molto suggestivo) della madre ebrea che incita i figli a morire per l'unico Dio (Maccabei). Una visione retorica che si rafforza del fascino dell'epopea, della sofferenza del debole, della caduta del potente e di una amebica e costante orchestrazione propagandistica che attraversa i vari 'Quo Vadis’ ed i films colossali di Holliwood; una visione che ha inquinato la coscienza storica del popolo cristiano. Ricostruzioni di tal fatta, che trovano purtroppo ancor oggi il favore dell'editoria cattolica, sono del tutto contrarie alla storia ed alla teologia; esse attentano al cammino interiore di chi cerca il colloquio con Dio e vuole comprenderne, nella Scrittura, la grande irreformabile Rivelazione. In pratica i racconti biblici, adeguatamente stilizzati ad usum Delphini, sono travisati e proposti come epopea di un fantomatico popolo Ebreo. Ma di esso, a far tempo dagli inizi del primo millennio avanti Cristo non esistono tracce letterarie, artistiche e politiche. Di certo è individuabile solo una società giudaica intorno a Gerusalemme qualche secolo prima dell'evento Gesù. Io credo che una lettura meno intenzionale e artificiosa costringe chi cerca la verità, ad ammettere che in pratica esiste solo la Bibbia come insieme di racconti e nulla più di questo; una Bibbia che appartiene a tutti ed a nessuno. Osservandolo con occhi obiettivi, il mondo antico appare infatti più o meno come il nostro, nel senso cioè che a chiarezze di fede si collegavano forme espressive (iconiche o liturgiche) tali da ingenerare una comprensione deformata dei Misteri (cfr. Plutarco: 'Iside e Osiride'). La stessa Bibbia mostra che la Palestina, come ogni altra terra, viveva la tensione fra una fede nell'unico Dio e una molteplicità di riti sostenuti da un clero interessato e da una bisogno di corposità tipico di spiriti meno raffinati. Ma il mondo antico, vale la pena di ribadirlo, era però sicuramente monoteista (25). (25) Il Divino era Uno, anche se con molti Nomi attraverso cui si poteva invocare e con molte teologie (Miti) tese a conoscere i vari aspetti della infinità ed indicibilità del Dio. Non a caso nei persiani di Eschilo Zeus è la divinità somma sia per Dario che per i Greci. Il Dio dell'antichità era Uno, ma anche dinamico. Un dinamismo divino che spesso si mostra come 'dualismo', come Teogonie, come Olimpo etc. Tutto ciò rappresentava però lo sforzo di ogni gruppo religioso a cogliere, 'muovendosi a tentoni', quella economia intima di Dio che perfettivamente oggi noi chiamiamo Trinità. In questo senso Atena era il Pensiero del Sommo Dio (nasce perfetta dalla testa di Zeus), ed il Faraone. quale signore del mondo costituiva l'incarnazione nell'umanità dell'inconoscibile Dio (Amun), la sua perfetta controfigura. In conclusione io credo che Mosè aveva alle sue spalle e intorno a se non il vuoto delle idolatrie, ma una raffinata teologia sulla quale innestare la sua diretta rivelazione, ricevuta nel misterioso incontro del roveto ardente. Ricorderò al lettore che in quello specialissimo incontro con la Divinità gli erano state rivelate: a) la Trinità di Dio espressa nella formula 'Io, Sono, il Vivente' (Ego, Eimi, o On); b) la sua incarnazione nella terrestrità, espressa dalla formula Abramo/ Isacco Giacobbe (che, come vedremo, rimanda alla eucarestia); c) la universalità del dialogo che Dio instaura con tutte le sue creature (26). (26) In altre parole, era già chiaro a Mosè quanto Gesù verrà poi a portare a compimento; consci di questo messaggio essenziale i Samaritani consideravano che il solo Pentateuco mosaico era sufficiente a costituire tutta la Legge, per parte sua Gesù, muovendosi nella stessa direttiva, costituì la sua Chiesa fra i gentili della Galilea e si riferì a Mosè (cioè al Pentateuco) ed ai Profeti che verisimilmente debbono essere intesi come vati dell'intera umanità. La Scuola Mosaica La complessa struttura di questa Fede condizionò e orientò il fenomeno storico del sorgere e articolarsi della Bibbia. La Scuola biblica, inaugurata da Mosè, cominciò col dichiarare la universalità della fede nell'unico Dio. Da questo input nascono i racconti della Creazione, la figura dell'unico Adamo, la dimensione universale dei patriarchi, ed infine quella poligamia che esprime la cattolicità, in termini di fecondazione di più comunità (donne). Il problema di giustificare l'esistenza di una specifica religione (come formalità e unitarietà degli atti di fede) indusse poi a scrivere la seconda parte della Genesi, centrata sui patti intercorsi fra Dio ed i patriarchi ed infine con Abramo, Isacco e Giacobbe. La Scuola mosaica volle anche chiarire che unica era la rivelazione divina, seppure sparsa nel mondo; l'opera letteraria che si veniva formando doveva materiarsi dalle rivelazioni di Dio di cui era depositaria l'intera umanità. Le forme ed i contenuti dei racconti genesiaci furono allora recuperati dai libri sacri esistenti nel mondo (27). (27) Ciò spiega perché gli agiografi che erano certo in grado di formulare storie letterariamente più perfette, si abbassarono a copiare. Sempre per lo stesso motivo, la Bibbia ricorda puntualmente un incessante 'prendere' dai popoli. Nel racconto dell'Esodo (12,35. 36) con la frase 'Così spogliarono gli Egiziani' viene celebrata una acquisizione di sacre rivelazioni; fra di esse metterei quel Canto al Dio Aton (egiziano) che, contrabbandato come opera originale, forma il contenuto del Salmo 104 (Cfr. Q5). Un passo, questo citato dall'Esodo, che altrimenti andrebbe considerato come il ricordo di una delle ruberie consumate ai danni dei popoli; ruberie tanto avvertite da formare argomento delle prime pagine del trattato sulla 'Genesi' contenuto nel Talmud. La presenza nella Bibbia di profeti estranei alla religione mosaica è infine un altro segnale, lasciato nel testo, per ricordare ciò che è stato dimenticato ed oggi l'archeologia sta restituendo alla coscienza dell'umanità. Ne dimentichiamo che Mosè riceve la sua specifica rivelazione nel paese di Madian, quel Madian che nella tradizione giudaica è considerato un nemico del 'popolo eletto'; ed ancora che Mosè sposa la figlia di Ietro sommo sacerdote di quel paese. La Scuola Mosaica comprese anche di dover formulare un Libro che, se voleva sopravvivere nel tempo e nello spazio, doveva essere Autoportante (contenere cioè la chiave della sua lettura), e perciò lo scrisse nel meta linguaggio jeratico; doveva poi narrare la sua stessa storia, perché essa non si perdesse nel fiume del tempo e fosse condizionata dalla sapienza del mondo. Nel Libro, la scuola mosaica ne descrisse allora la gestazione e il parto, cioè i momenti della sua formazione, intesi come scansione di tempi teologici nei quali ogni uomo in cerca della verità si sarebbe potuto rispecchiare. Esaltando la ricerca di Dio nel mondo, mise allora in luce la specifica missione di ogni uomo a farsi collezionista di esperienze religiose e a depurare e riunificare quanto raccolto. Espose questa teologia attraverso il racconto dei patti di Abramo, Isacco e Giacobbe. Questi tre girovaghi (o meglio uno solo in tre) vanno per il mondo non a consumare scarpe, ma ad acquistare Sacre Rivelazioni (espresse nelle immagini degli animali, delle cortecce d'albero, delle spose). Il senso teologico dei patti appare allora evidente; esso non va raccolto nella dimensione etica (un codice di comportamenti), ma nella funzione vitalistica di portare tutto all'unità; l'adesione al Patto ha infatti come premio una comunione universale come la rena del mare e le stelle del cielo. Attuare il Patto equivale a raccogliere, depurare e fissare le rivelazioni (cioè la Vita), custodite nelle varie religioni, cogliendone il valore divino. Ciò equivale a svalutare ogni dimensione puramente umana (aspetti letterari). L'offerta sacrificale di Isacco è la pagina profetica , che insegna, a chiunque si sente chiamato a questo compito, a svendere la propria sapienza umana per farsi servo, della verità. Godere del patto significa infine attuare un incontro sponsale con il mondo mediante un fecondare di Vita tutte le comunità della terra; perciò si narra che Giacobbe sposò due sorelle, due comunità, quelle degli eletti e delle genti. La scuola mosaica volle ancora profetizzare che il VT (Isacco) avrebbe riguardato una sola delle componenti dell'umanità (gli eletti rappresentati dall'unica sposa); ma andava offerto alle genti (Isacco permette che la sua sposa sia presa dal Re delle genti); e infine che, unito al Vangelo, il VT avrebbe trovato l'unità voluta da Dio. Questo mistero fu annunciato nella figura di Israele che ha due spose feconde (28). (28) La teologia del 'patto' sarà totalmente travisata quando diventerà la subdola maniera di vincolare Dio ad un rapporto con l'uomo. Il formalismo giudaizzante è in ultima analisi un bizzochismo che vuol mettere il bavaglio alla libera volontà di Dio. Nato come benedizione operativa tesa a costituire la libera crescita dell'uomo, il Patto diventerà, nelle mani dei canonisti del tempo, la scorciatoia per costringere Dio a dare all'uomo ciò che questi desidera. Nei Vangeli la deviazione sarà ancora denunciata nella parabola degli 'Operai dell'ultima ora', specificamente in quella 'contrattazione' che viene richiesta dai primi operai (Sunfonesas). La Scuola chiarì anche che il Dio di Mosè è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, cioè di un dialogo che inizia nella oralità (Abramo), si perfeziona nella offerta dell'ascoltatore (Isacco), e trova compimento nella apertura a tutti (Giacobbe che diventa Israele). Questo processo triadico è speculare alla Eucarestia (parola, sacrificio, nozze feconde) e quindi la profetizza come perfezione della incarnazione di Dio. In conclusione Mosè conosce non il Dio di tre antenati umani, ma un Dio incarnato, totalmente dialogante (29). (29) In questo senso diventa evidente perché la dimensione della 'Parola' (primo stadio) viene accentuata nella teologia mosaica. Da qui deriva pure l'importanza riconosciuta alla comunionalità del popolo e quel continuo sottolineare che essa non riesce a realizzarsi (popolo di dura cervice); questo terzo stadio infatti si realizzerà solo con la venuta di Cristo. Chiarì anche che alla oralità della prima rivelazione deve seguire la scritturazione come concretizzazione materiale (la voce era ancora qualcosa di immateriale); ma essa non deve riempire il cuore dell'uomo fino a renderlo schiavo. Perciò narrarono che Dio chiese ad Abramo il sacrificio della materialità del figlio che Lui stesso gli aveva donato (leggi; la lettera della Scrittura) e lo ripagò con un Figlio di Grazia, cioè con il dono dello Spirito; sacrificando Isacco, Abramo attinse il contenuto spirituale delle Scritture. Per lo stesso motivo Dio gli chiese successivamente di allontanare da sé ogni lettura carnale del Sacro Testo e gli ordinò di mandare via il figlio della carne, cioè Ismaele. In questa ultima storia la teologia della formazione del libro fu annunciata come superamento della tentazione di renderlo un mero prodotto umano. In altre parole, se procedere alla scritturazione equivale a concepire con i mezzi umani (la schiava Agar) il Libro (Ismaele), depurarlo e renderlo tempio dello Spirito equivale a concepire Isacco con Sara. In conclusione, la Bibbia racconta se stessa e mostra ad ogni uomo la via per avanzare nel campo della conoscenza di Dio; chiunque passa attraverso questi concepimenti e questi abbandoni sa di avere imboccato la Via giusta per dialogare con Dio (30). (30) Se la Voce indica la Rivelazione primitiva (e non solo temporalmente) a tutti i popoli, essa comprende ogni verità che l'uomo coglie da Dio nell'intimo della sua coscienza. Perciò, ottimisticamente, la Chiesa (si pensi ad Iside che cerca le membra sparse di Osiride) raccoglie tutto quanto non è contro di Lui e lo riconosce come cosa Sua; essa sa che ogni fiato uscito dalla bocca di Dio è articolabile in discorso pieno. Se il discorso coscienziale è per sua natura aperto e privo di preoccupazioni, allo Scrivere si unisce invece un sentimento di paura. Lo scrittore sacro comprendeva che suo compito era quello di dare un corpo di incarnazione al Verbo divino; in lui c’era il timore di Maria quando si sente chiamata a dare un corpo umano al suo Signore. La Scrittura può considerarsi un involucro esterno che tuttavia, come il Corpo di Gesù, non è una mero forma estranea alla sostanza della sua persona. È qualcosa che le inerisce, ma al tempo stesso è mortalità e limitazione. Va dunque venerata ma al tempo stesso superata; ad essa vanno applicati quegli stessi atteggiamenti e quelle stesse verità che riguardano la storicità di Gesù. Alle parole della Scrittura, lo Spirito dice, come un giorno a Maddalena. 'Non mi trattenere'; ad esse si rivolge Paolo quando dice: 'Non penso più al Cristo della carne'. Poiché la caratteristica della scuola iniziata da Mosè consiste nella Scritturazione autoritativa, essa soffre la tentazione di orizzontalizzare il discorso divino (31). (31) Al momento della scritturazione si allude ancora attraverso il racconto del deserto, arido come la polvere nera che resta sul foglio quando l'acqua si è evaporata. Proprio nel deserto, il gruppo ha paura di vedere Dio e le rivelazioni vengono coperte, come il volto di Mosè. È lì che bisogna trovare Acqua e cose volanti che vengono dal cielo portate dal Vento. Proprio in quanto Mosè è colui che Parla e Scrive (vedi anche la scritturazione delle Tavole dei comandamenti), egli rischia di abbandonarsi ad una comprensione puramente mondana dei precetti di Dio. Continuamente la Bibbia denuncia questo pericolo per l'uomo di ogni tempo, avvertendo che, proprio nello Scritto, il Gruppo Eletto a questa funzione notarile, mostrerà la durezza della sua cervice. Tutti i 'rifiuti del Popolo' narrati nella Bibbia, profetizzano dunque che lo scritto, nato per testimoniare una maggiore chiarezza, si tramuterà in giogo religioso ed in falsificazione della fede. La profezia riguarda anche noi. Contrastando questa falsificazione, nell'inaugurare la terza fase della Rivelazione (quella del Uomo/Libro), Gesù mostrerà che la Scrittura ha come supporto letterario solo polvere ( Giov .ca p. VIII). Ambivalentemente egli afferma che la lettera della Bibbia è terra, e che la Rivelazione va stampata sul cuore dell'uomo (polvere); ma che, proprio nella faccia dell'uomo diventata luminosa come quella di Mosè, ogni creatura, vedrà l'immagine del Padre (32). {32) Giova qui rimettere in discussione la cd. originalità ebraica del nostro Libro. Va allora precisato in limine che non intendiamo minimamente difendere il diritto di proprietà esclusiva sulla Bibbia; chiunque se ne sente autore e padrone lo dichiari pure e si goda il blasone. L'uomo di fede non ha di queste pretese; egli cerca l'aria per respirare, non rivendica la proprietà sul Vento, ne bada se e come spira. La Bibbia, come il vento, è di tutti e di nessuno. Ciò che va difesa è la libertà di respirare, cioè, fuor di metafora, di prenderla nella propria mano e considerarla, senza gelosie, la lettera di amore di Dio al mondo, un patto nuziale che non si attua per deleghe e sul quale un uomo specifico può vantare lo jus primae noctis. A noi cristiani non interessa se i cittadini dello stato di Israele, oppure gli appartenenti alla religione mosaica nel mondo (complessivamente chiamati 'ebrei' come noi ci chiamiamo 'cristiani') hanno titolo a sostenere, con ragionevoli argomenti, di essere discendenti del gruppo che formò la Bibbia. Continuità di tradizioni religiose, legami etnici o razziali, sono dati che non hanno significato alcuno per il teologo. E aggiungerò, anche sapendo che potrà apparire scandaloso, che a noi cristiani che abbiamo letto il racconto della Samaritana interessa men che niente la cd. 'Terra Santa'; noi siamo uomini del futuro e non archeologi della società o della religione. All'Italiano che ha queste ubbie possono risultare sufficienti i Colli fatali di Roma. L' uomo di fede (a qualunque confessione appartenga) legge la Bibbia come un libro sacro e non come un testo storico su cui litigare in base a canoni umani. Le 'narrazioni' che riportano eventi fisici od umani, costituiscono per lui solamente un rivestimento letterario. Esso è rilevante solo in quanto contiene la divina Rivelazione; e parimenti i fatti in esso narrati costituiscono il segno che Dio si è rivelato e continua a farlo, non nella astrattezza dei concetti (patrimonio esclusivo di menti allenate), ma nella concreta e quotidiana storia dell'uomo. In questo senso l'intuizione semplice di un bambino equivale all'esperienza di Abramo il collezionista o di Mosè lo scrittore. Cercare di individuare chi poi sia stato questo o questi uomini che la Bibbia ricorda come interlocutori di Dio; cercare di stabilire chi oggi se ne può dichiarare erede, è solo una questione inutile e dannosa che crea incomprensioni e polemiche. Il passato è morto e non vale la pena, per chi ha davanti un futuro di eternità, soffrire o morire per esso. La tensione all'unità E veniamo alla tensione all'unità del tutto, che costituisce il significato ultimo della fede nell'unico Dio rivelatosi a Mosè, Innanzi tutto essa esigeva che la Rivelazione avesse unità. Nel credere ad un solo Dio dai molti Nomi la religione mosaica avvertì che non bastava raccogliere in un contenitore tutte le rivelazioni sacre; da queste opere bisognava anche trarre l'opera perfetta. Quest'ultima (lo intuiranno bene gli alchimisti) non ha solo una dimensione obiettiva (Libro), ma ne ha una del tutto soggettiva. Insieme al Libro anche il lettore deve farsi uno, imitando Isacco nel saper perdere la propria mondanità, passando nel deserto dell'umanità (per farvi sgorgare pozzi di acqua viva), tenendo come meta quella terra promessa dove scorre latte e miele. Terra Promessa e Latte e miele sono una metafora. Le immagini invitano il credente a farsi servo di un mondo abbandonato (deserto) e, proprio attraverso questo servizio, costituirsi dialogante perfetto con Dio; a farsi cioè capace di ascoltare e ripetere, diventando un profeta del Creatore. La terra promessa da Dio non è un luogo ma una dimensione dell'uomo (chiamato ..terra.) che si realizza quando si raggiunge una autosufficienza vitale. Latte e miele costituiscono infatti una cena viva ed autarchica perché, a differenza di tutti gli altri, non solo sono alimenti vivi, ma servono a cibare chi li produce. In conclusione la scuola mosaica annunciò che l'unificazione del libro aveva come meta la nascita dell' Uomo/libro, della nuova creatura; che la Bibbia si edificava e parlava in vista dei discepoli di Gesù. La scuola mosaica comprese anche che l'unità non poteva fondare sull'autorità di chi era stato eletto a redigere il Libro. Finito il suo compito, ogni servo di Dio deve riconoscersi inutile, ne può trasformare il servizio svolto in titolo per sopraffare o condizionare i suoi fratelli. Non bisognava dunque tradire lo spirito della missione affidata a Mosè. Mosè, come dicevamo, aveva intuito la dimensione universale della fede propostagli nelle fiamme del roveto; che il monoteismo esige la cattolicità, cioè la riferibilità della verità a tutto il creato; che l'unica opera dèll'unico Dio, l'opera perfetta della sua scuola, non sarebbe appartenuta ai redattori, ma ad ogni uomo (33). (33) Da questa chiarezza teologica scaturisce, come dicevamo, quello strano copiare dai libri sacri del mondo che farà accusare di furto gli Eletti, ma al tempo stesso testimonierà che chiunque mette mano al Libro sta gestendo qualcosa di suo. Per questi motivi Mosè volle che la sua opera contenesse le specifiche. rivelazioni che l'Unico Dio aveva concesso ai singoli popoli della terra. Così coincidono il Dio degli Eletti (quello del Patto) e quello adorato da ogni uomo; perciò nella Bibbia (racconto di Melchisedech e poi annunciazione a Maria) egli viene chiamato Dio Altissimo. La Bibbia esprime questa tensione dativa attraverso i racconti dei tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, in quegli oscuri passi che sembrano voler solo ricordare le poco lodevoli vicende coniugali dei primi due (cessione della moglie ai re gentili). Nel racconto teologico del personaggio Mosè si condensò poi uno specifico momento della missione; Mosè scrive la Legge per mandarla in ogni punto della terra (sacrificio nel deserto) e riassume il ruolo che era stato di Giuseppe, per diventare, quale unico mediatore fra Dio ed il Popolo, figura di Cristo. Se questo è il cammino ed il significato teologico del sorgere della Bibbia, dal punto di vista storico possiamo aggiungere che, proprio attraverso questa intenzionale e guidata fase di concentrazione, si vennero formando i singoli libri in lingue diverse. Che siano stati scritti in lingue semite (aramaico, ebraico etc) o greco non è ancora possibile stabilirlo con certezza, ma poco importa. Sta di fatto che la tensione all'unità, dopo circa un millennio (III secolo a.C.) portò alla formazione di un Corpus unitario dei testi rivelati, resi omogenei dall'uso di un'unica lingua, quella greca. L'unità del Libro, voluta da Mosè, si raggiunse così ad opera della religione mosaica e non di questa o quella etnia, e solamente quando fu composta la Bibbia in greco che viene chiamata «Settanta» (LXX). <V> Storiografia teologica Dai 'Libri' al 'libro' Nel presente capitolo cercheremo di fornire al lettore quei dati storicoletterari che in qualche modo si sottintendevano al discorso già svolto. Non si tratterà di una vera e propria storia della Bibbia, ma di una rilettura, talvolta critica e in chiave teologica, di elementi già acquisiti dagli studiosi. Il nostro obiettivo rimane infatti quello di dedurre dalle vicende del Libro Sacro rivelazioni utili all'uomo di oggi. Prima che la Bibbia diventasse l'insieme unitario dei libri che oggi la compongono, quest'ultimi (ed altri consimili) circolavano autonomamente nel bacino del Mediterraneo e nell'area medio orientale, come testi sacri della religione mosaica. Di qualunque di questi libri (oggi compresi nel VT) ignoriamo sia l'autore, sia la lingua da lui usata. Unico dato sufficientemente certo, in base ai reperti archeologici, è che detti libri circolavano in lingue diverse (Aramaico, Greco, Ebraico) nella seconda parte del millennio che precede Gesù Cristo. Come già dicevo, in una epoca difficilmente determinabile, cominciò a costituirsi fra questi libri una relazione unitiva; la prima collezione sembra sia stata il 'Pentateuco', così detto perché composto dai primi cinque libri della attuale Bibbia; esso assumeva le caratteristiche di corpus unitario perché riferito ad un solo autore e cioè Mosè. Questa primitiva collezione costituiva ancora al tempo di Gesù, specie nell'ambiente nord-palestinese (Samaritani), l'unica Scrittura sacra; anche in base a questo fatto il Pentateuco può considerarsi il primo nucleo del VT. Successivamente, al Pentateuco si vennero ad aggiungere gruppi di libri anch'essi antichissimi e variamente presenti in altre religioni, come ad esempio Giobbe (cd. Sapienziali); oppure di nuova formazione, come quelli cd. 'Storici' e 'Profetici'. In pratica la tensione all'unità si esprime in questa prima fase come Raccolta di verità rivelate, ma i libri restano sempre divisi tra di loro e non si attua una aggregazione organica degli stessi. È questo il tempo dei Ta Biblia, cioè dei libri. Bisogna attendere dei secoli prima che (III- II sec. a.C.) la quasi totalità dei libri sacri della religione mosaica assuma, in Egitto, una prima struttura unitaria costituendo in tal modo il Libro unico di quella fede. La redazione di questa prima Bibbia viene collegata al faraone Tolomeo Filadelfo, e Settanta (LXX) fu il nome che la tradizione diede dell'opera che praticamente corrisponde al VT che abbiamo oggi nelle nostre mani. Alla ricerca degli ‘Antenati' Chiarito sommariamente questo lungo e laborioso iter formativo, si può trarre una prima conclusione: se la Chiesa ha come suo punto di riferimento 'il Libro', oggetto principale di ogni studio dovrebbe essere proprio la LXX, che dava forma al Vecchio Testamento. Ogni ricerca sui singoli libri sciolti che precedono questo momento, in quanto preistoria della LXX, andrebbe dunque finalizzata alla comprensione della stessa, muovendosi indefinitamente nel passato, senza far distinzione di religioni (1). (1) Una ricerca strettamente filologica, se non vuole procedere fissando assiomaticamente un punto privilegiato dell'indagine, è condannata a retrocedere indefinitamente nel passato e, superato il Pentateuco, indagare sui libri sacri della Mesopotamia e dell'antico Egitto che chiaramente stanno alle spalle dei testi biblici. Una ricerca in tal senso, già doverosa in base alla logica storiografica e filologica, è esigita anche dalla fede, che invita lo studioso a risalire fino alla rivelazione adamitica. La scuola dominante la pensa però diversamente; essa ha prefissato un centro storico/religioso alla sua ricerca. Invece di guardare come spartiacque alla Bibbia dei LXX (come primo vero 'Libro della fede') ha scelto come suo punto di riferimento il fantasmatico problema dell'ebraismo. Pur di negare la radice greco-egiziana della religione mosaica, per vantarne una totale originalità, essa rivolge la sua attenzione praticamente solo ai libri che in qualche modo (per luogo o lingua) sono riferibili all'area semita. Invece di cercare le ragioni teologiche, il linguaggio, la struttura o il significato della Bibbia (che altro non può essere che la IXX), si preferisce un lavoro disarticolato di pura archeologia dei singoli testi che l'hanno preceduta, a patto però che essi siano in lingua semita. Quali le ragioni di questo orientamento? Il punto di riferimento, fissato nell'ebraismo, poggia in ultima analisi sulla formulazione tradizionale del problema dell'origine del cristianesimo; in base a qualche citazione paolina si è da tempo accreditata la tesi secondo cui la religione ebraica è il ceppo da cui nacque il Cristianesimo. Ergo, lo spartiacque geografico deve essere la Palestina, quello religioso lo Iavismo giudaico, quello storico le vicende politiche della Palestina, ed infine quello etnico il popolo ebraico. Supportata dalla ignavia dei predicatori, la ossessiva ripetizione di questo luogo comune (tale lo considero) ha trovato rinforzo nel vantaggio che è proprio di ogni ricostruzione 'storica'. Ai problemi e alle riflessioni, la massa preferisce un bel film di Zeffirelli o un Mosè televisivo. A mio giudizio, questa impostazione fa violenza ai principii della ricerca storica e filologica e contrasta con la teologia cristiana; quest'ultima infatti non ha mai posto un limite nel passato del cristianesimo, ma al contrario ha sempre riconosciuto (in base alla pagina genesiaca) che Dio parlò e continua a parlare ad Adamo (intera umanità). Se si vogliono cercare gli antenati della Bibbia bisogna, anche per rispetto alla filologia, riconoscere che essi sono molti e che non è lecito sceglie- re un solo ed unico momento umano come spartiacque dell'indagine (cioè in pratica fare del Giudaismo il capolinea del problema della Bibbia) Ma la cosa più grave (e dopo cento anni il bilancio va pure fatto) attiene al significato del ricercare. Ed infatti, scivolata su questo piano inclinato, la ricerca biblica ha dimenticato la ragione per cui era nata, e cioè chiarire agli uomini la Rivelazione contenuta nella Bibbia che ne costituisce il veicolo privilegiato. Accade così che molti studiosi sembrano oggi più interessati a cercare di concretizzare il fantasma dell'ebraismo, che ad insegnare come decodificare il messaggio biblico; e che chi vuol indagare a tutto raggio, trova un'insuperabile difficoltà a servirsi dell'enorme e splendida mole di lavoro di scavo e di ricostruzione compiuto in questi ultimi cento anni. Esso infatti, è rigidamente orientato (e spesso forzosamente) sul solo ebraismo, lasciando in ombra ad es. la grande religione egizia. Archeologia o teologia storica? Certamente bisogna affrontare il problema della archeologia biblica, ma esso va impostato con un diverso interrogativo; bisogna chiedersi cioè quale Rivelazione di Dio è deducibile dagli eventi che concorsero a formare l'unità del Libro; e i risultati vanno verificati all'interno del Libro, per la loro capacità a far lume sui punti oscuri. Quanto a me, muovendomi in chiave teologica, ho già ad esempio ipotizzato che il motore interiore, l'anima stessa di tutto il processo storico/letterario (che assume il carattere della intenzionalità), va identificato nella tensione all'unità dell'uomo e della Rivelazione. Questo stesso principio ci guiderà ora nel rileggere il dato della molteplicità delle lingue utilizzate nella formulazione dei 'libri' e poi dell'unico grande Libro sacro (2). (2) Per semplificare il discorso, d'ora in poi chiameremo: a) Libri (in lingua semita o greca} l'insieme dei libri nel loro sviluppo diacronico cioè nel loro formarsi; b) «LXX» (settanta) il testo greco unitario formatosi a partire dal II secolo a.C. su iniziativa di Tolomeo Filadelfo re di Egitto; c) Iamnia la Bibbia giudaica, cioè il testo codificato dai rabbini, alla fine del primo secolo dopo Cristo, probabilmente in Iamnia (Palestina), e che è scritto in ebraico quadrato. Così impostato, anche su questo punto il nostro discorso contrasta ovviamente la tesi oggi maggioritaria; essa risolve la questione della formazione dei libri sacri in termini di evoluzione delle parlate, ed integra le zone oscure con deduzioni estrapolate mediante teoremi della storiografia e della linguistica. Per chi crede a queste conclusioni l'ebraico è stata una lingua parlata, che poi fu sostituita dall'aramaico e infine dal greco; i libri biblici avrebbero seguito le evoluzioni delle parlate., come ogni altro testo laico (3). (3) Come già ho chiarito nei Quaderni n. 1 e 2 e come spero di sviluppare in un prossimo lavoro, lo speciale oggetto trattato impediva, per la sua ineffabilità, di usare un linguaggio convenzionale e limitato come quello quotidiano. Credo di possedere la prova testuale della esistenza di questo linguaggio già nella LXX. In buona sostanza, gli studiosi contemporanei affermano che i libri della Bibbia sarebbero nati nella lingua che i Palestinesi parlavano correntemente; ne consegue che i testi più antichi, da considerare originali, sarebbero quelli formulati in ebraico, idioma che a loro dire era parlato maternamente in Palestina. Ammettendo una sostanziale equivalenza fra linguaggio scritto e linguaggio parlato, la soluzione che viene avanzata fila tutta liscia: un popolo (quello ebraico) scrive nella propria lingua materna, e come sua opera originale, i propri libri sacri. Ma la questione non è così semplice. In primo luogo c'è da considerare che la natura sacra dei libri esige un 'suo' linguaggio specifico (jeratico); ed ancora che è almeno dubbia l'esistenza di un ebraico parlato da un gruppo etnico(4). (4) Per chiarire subito il mio pensiero, preciso che, contrariamente alla tesi ufficiale, io ipotizzo che i libri Sono nati come testi sacri in ogni lingua e sono stati sottoposti a una continua opera di levigatura teologica e letteraria. Pertanto, ogni singolo testo, comunque sia stato scritto la prima o le successive volte (in aramaico, babilonese, ebraico, greco), va allora considerato prodromico all'unificazione compiuta dalla LXX; ne consegue che una stesura è da considerarsi teologicamente equivalente rispetto ad ogni parallela versione. In altre parole il testo greco del Genesi equivale a quello ebraico o aramaico. Ciò non significa in ogni caso che esso possa considerarsi finito nella sua singolarità; al contrario deve essere considerato incompleto in senso teologico, perché mancante della qualità fondamentale consistente dall’inserimento nella complessità del tutto (Libro). L'mserimento nella LXX (o nella BibbIa giudaica) implico infatti una qual forma di registrazione del singolo libro e del suo contenuto nella complessità dell'insieme. Sostengo altresì che i libri sacri furono redatti, già dalla prima stesura, non in una parlata naturale, ma in un metalinguaggio (linguaggio artificiale ricavato dalla parlata materna), affinché il testo materiale (cioè la sequenza delle cifre grafiche), adeguatamente compitato, potesse fornire una molteplicità di comunicati teologici. Come già accennavo, non posso seguire la tesi corrente, in quanto non credo alla sua premessa e cioè che la lingua parlata corrispondeva esattamente a quella scritta; e che l'ebraico era una parlata materna. Quanto al primo punto rilevo che questa equivalenza si verifica solo in paesi molto alfabetizzati e dotati di una imponente sistema di mass media; non credo quindi che si possa assumere per i tempi antichi (5). (5) Per fare un esempio, l'italiano, lingua mai parlata nella penisola fino a cinquant'anni or sono, è diventata una parlata naturale per effetto della scuola e della Radio/televisione; ma questi mezzi mancavano nell'antichità. Nei tempi antichi la scrittura, come la matematica, era un prodotto fruibile nella sua dimensione letteraria solo da elites, costituite dall'uno, due per mille della popolazione. Non a caso si ricordavano fatti memorabili con l'iconografia. In dipendenza di questa situazione circolavano prodotti letterari che restavano chiusi nelle scuole che li elaboravano (come i libri sacri, o i testi matematici, scientifici, filosofici); vi erano sottoprodotti che avevano una qualche pubblicità (sarebbe il caso di qualche iscrizione); c'era infine un residuo che passava nel popolo (come la numerazione semplice e qualche massima) e il popolo lo applicava utilitaristicamente. Inoltre l'equivalenza fui Scritto e Parlato presenta altri profili problematici. Per fare un esempio, chi fra duemila anni leggerà i Promessi Sposi e cercherà di desumerne la lingua parlata, non potrà certo concludere che gli italiani dell'ottocento parlavano in quel modo, e tanto meno potrà attribuire questa parlata agli italiani del seicento. Questa sfasatura temporale dovrebbe almeno far riflettere al perché non esistano traduzioni continue dei testi diventati illeggibili. Sta di fatto che il linguaggio materno procede autonomamente, specie quando i letterati sono chiusi in caste e non vi sono, come oggi, mezzi audio-visivi di massa. Poiché non produce documenti scritti, esso è difficilmente investigabile ex post. Non si può dunque mettere sulla bocca degli antichi (come nei films dove anche i più rozzi sembrano degli speakers laureati ad Eton) la lingua dei cenacoli letterari, dei grammatici e dei retori, la lingua dei testi scritti, salvo a farli parlare...come un libro stampato. Per tutti questi motivi io credo nella esistenza di un Jeratico che circolava fra gli specialisti e li metteva in grado, con diverse compitazioni, di modulare, in funzione dell'ascoltatore, il contenuto del testo. Qualcosa che ha a che vedere con il «Cibo liquido e solido» di cui parla Paolo. Il mito dell'ebraico In ordine all'ebraico il discorso deve essere più articolato. Qualcuno ha detto: ' Si è fatto veramente di tutto per levare intorno all'Ebraico un muro insormontabile, per lasciare ai profondi conoscitori di questa lingua il loro immenso prestigio nella propria desolante solitudine.’ Aggiungerò che scegliere la strada poco illuminata della lingua ebraica, per esporre la storia e l'identità linguistica dei libri che compongono la Bibbia ha aggiunto ombre ad ombre (6). (6) Per di più è sorta fra gli «specialisti» l'abitudine di formulare le loro acquisizioni in uno stile espositivo tale da rendere quasi impossibile la comprensione dei termini della questione. Nel generale appesantimento e nell'esasperata parcellizzazione del discorso, ritrovo una continua mescolanza fra «fatti» storicamente accertati e provati, e teorie proprie dello studioso; fra ricostruzioni ideali e proposizioni di «fede»; fui questioni inerenti ai libri della Scrittura e problemi attinenti documenti civili. In conclusione, fatta salva la buona fede soggettiva, si ha l'impressione di trovarsi di fronte a una ben congegnata confusione che serve ottimamente a costruire un «lenzuolo» per il fantasmatico Popolo ebreo. Si dice che l'Ebraico sia una lingua semita del cd. gruppo Nord-occidentale comprendente anche l'aramaico, il siriaco , l'ugaritico, il fenicio ed il cananeo. Si dice ancora che gli israeliti lo avrebbero appreso dai Cananei; che sarebbe stato in uso fino all'esilio babilonese, per essere poi sostituito dall'aramaico, restando vivo solo come lingua letteraria (7). (7) L'alfabeto utilizzato inizialmente è detto «arcaico»: esso è mutuato da quello fenicio ed è chiaro e semplice, potendosi intravedere in esso molte lettere degli alfabeti mediterranei. Poco prima dell'era cristiana questo alfabeto fu sostituito da quello Quadrato, utilizzato oggi in Israele. Esso è composto di una serie di segni che sono esclusivi dell'ebraico e praticamente impediscono qualsiasi conoscenza del loro significato per via di similitudine. Per questo ha sempre costituito la gioia snobistica degli specialisti, che unici al mondo,sapevano leggere il misterioso linguaggio (sapevano, perché oggi, divenuto una parlata in Israele, non è più elitario e quasi offende gli snobs prestandosi a propagandare la Coca Cola). Le ventidue lettere dell'alfabeto ebraico indicano ventidue suoni consonantici, mentre mancano le vocali. Da ciò discende che la parola ebraica è formata da una radice di consonanti e il senso della parola varia secondo la vocalizzazione. Solo in epoca molto tarda, nel medioevo, si aggiunse al testo consonantico una serie di punti e di lineette per indicare le vocali (vocalizzazione dei masoreti). Probabilmente per mia incapacità non sono stato in grado di acquisire le prove obiettive fornite dagli studiosi in ordine a queste affermazioni; sta di fatto che allo stato la ricostruzione non mi convince. Mi muoverò quindi sul piano della logica e della verifica formale delle proposizioni formulate dai linguisti. Se ho ben capito, poiché l'ebraico è una lingua che non regge di per sé, in quanto oltre la Bibbia non abbiamo altri documenti (8), la questione va posta in termini di somiglianza con altri idiomi che conosciamo bene avendo lasciato traccia di sé con documenti scritti di varia natura. (8) In ordine al se l'ebraico fu mai una parlata e alla sua autonomia come lingua, ricordo al lettori alcuni dati interessanti: Stranamente un popolo, il quale dimostra una spiccata vocazione a scrivere, non ha lasciato testimonianze laiche del suo linguaggio; di altri popoli, forse anche meno amanti dello scrivere, abbiamo invece rintracciato documenti chiari ed abbondanti. Al di fuori dei testi della Sacra Scrittura ci sono pervenute infatti solo poche e dubbie cose. In particolare, per dimostrare l'esistenza dell'ebraico antico come idioma parlato, si adducono: - alcune glosse cuneiformi, scritte però in lingua cananea; - il cd. Calendario di Gezer che alcuni datano al IX secolo e nessuno sembra sia riuscito a decifrare; - la stele di Mesha sita a Dibon in Transgiordania del IX secolo scritta però in moabitico; l'iscrizione di Siloe dell'ottavo secolo a.C., vergata però in scrittura «arcaica» e non «quadrata»; - qualche frammento di materiale epigrafico (di una o due parole al massimo), con neppure la sicurezza che si tratti di ebraico; - gli «ostraca» cioè cocci trovati a Gerusalemme, ma indecifrabili (era un ebraico diverso?) ed altri scoperti in Samaria e a Lachis, anch'essi in lingua arcaica. La povertà di queste testimonianze è stata ovviamente rilevata; ma si è risposto che, se non si è trovato nulla, ciò dipende dalla fragilità dei supporti alla scrittura. Quanto a me, non riesco a comprendere l'argomento, considerando la grande e parallela fioritura della scrittura sacra e le testimonianze degli altri popoli. Posto il discorso in questo termini, bisogna allora decidere chi è il vero soggetto echi a lui somiglia; e se è l'aramaico a somigliare all'ebraico o viceversa quest'ultimo si servì, a fini religiosi, dei lemmi e della grafia aramaici. Puntualizzando: a) la somiglianza dell'ebraico biblico con le lingue mediorientali scritte in quel tempo, non è sufficiente a far concludere che anche l'ebraico fosse in quel tempo correntemente parlato (9). b) La somiglianza che tipicamente è biunivoca, se considerata sul piano storico deve collocarsi in un ordine almeno temporale; si potrà allora concludere che non sono le altre lingue a somigliare all'ebraico, ma viceversa è esso che somiglia a quelle. Considerando l'inesistenza di documenti ebraici extra biblici, se si accetta questa possibile inversione di giudizio, nulla vieta di affermare che l'ebraico non fu mai una parlata materna, e che pertanto non è possibile per I esso seguire i modelli della sociologia linguistica (10). (9) Posso spiegare il fenomeno in maniera diversa: i circoli religiosi del mosaismo utilizzarono il materiale linguistico facente parte degli idiomi parlati nell'area medio-orientale, per costruire quel metalinguaggio che chiamiamo ebraico. (10) In altre parole, come il greco biblico, l'ebraico sarebbe un metalinguaggio, sostanzialmente statico, connesso a un centro di potere religioso. L'Ebraico poi assomiglierebbe al Siriaco o al Moabita, come il Latino ecclesiastico somiglia a quello di Cicerone. Se consideriamo l'ebraico come lingua materna del popolo ebreo, appare strano che nel secondo secolo dopo Cristo, durante la grande rivolta giudaica e il breve regno indipendente, si sia dovuto rinunciare ad imporre l'ebraico come lingua ufficiale (si optò poi per il greco) perché neanche nella cancelleria, dove pur dovevano lavorare persone più colte, c'era chi lo sapesse parlare e scrivere. In conclusione, poche le cose concrete e molte le ipotesi che forse derivano dall'applicazione di modelli teorici costruiti e verificati a tavolino. Per quanto valga, faccio uso anche qui della mia ipotesi. Essa immagina che la congrega religiosa di Gerusalemme, utilizzando materiale linguistico di quell'area, costruì un metalinguaggio religioso che risultava naturalmente estraneo alla società civile ed alla stessa autorità politica e non era quindi in grado di esprimersi in documenti giuridicocommerciali. Esso restò in uso in Palestina fino al tempo di Gesù; ma fu soppiantato nel mediterraneo da quell'altro che prendeva a prestito fonemi, grammatica e sintassi dalla parlata greca. La Bibbia greca dei Settanta fu il monumento letterario di questo Jeratico. La successione delle lingue Fatte queste premesse, proviamo a rileggere il fenomeno della successione delle lingue nella redazione dei libri sacri. Chiediamoci che senso teologico debba darsi ai seguenti fatti: -che esistevano 'libri' isolati in lingue diverse; -che essi si tipizzarono in ebraico, aramaico e greco; che divennero quel corpo unitario che chiamiamo LXX; -che si addivenne alla traduzione in ebraico quadrato dopo l'evento Gesù. Io penso che misconoscere il valore teologico della formazione dei ,libri e del Libro, e ridurre la storia della Bibbia a storia di un libro umano, equivale a dismettere una parte fondamentale della teologia della cattolicità della Chiesa: A me pare inoltre che le deduzioni ricavate dai singoli libri esistenti in un tempo anteriore all'unificazione della LXX, dovranno sempre cedere di fronte a quanto suggerisce l'autonomo Libro complessivo (11). (11) Come diremo più avanti, anche ammettendo l'ispirazione divina nella prima stesura dei singoli libri e nelle evoluzioni degli stessi, va riconosciuto un valore fondamentale all'ispirazione che abbraccia l'opera intera (Il Libro). La Bibbia, ed essa sola nella sua unitarietà, ha valore normativo nella ricerca della Rivelazione che contiene. Il succedersi di idiomi diversi (con una sempre più ampia capacità a farsi veicolo di verità, fino ad arrivare al greco) costituisce e produce, all'interno della Rivelazione, un allargarsi progressivo del dialogo fra Dio e l'uomo. Nel variare delle lingue si può cioè cogliere il passaggio dal particolare al generale, da una fruizione di gruppi privilegiati a una valenza universale. Via via che il metalinguaggio, con cui il dialogo viene fissato, si serve di parlate più universali, la Rivelazione diventa più accessibile all'umanità. Questa teologia è già annunciata in nuce nel cd. Patto (12) che può recuperarsi come modello che si sottende alla formazione del Libro ed al variare delle lingue sacre. (12) Già ho chiarito che il cd. patto stretto da Dio con Abramo non aveva lo scopo di costituire una classe 'eletta' di privilegiati, ma un gruppo di servizio universale (nello spazio e nel tempo), non legato a razze o classi sociali. In particolare, quanto al primo punto (logica del processo formativo), se si esaminano le modalità di costituzione del Patto e le figure che vi partecipano, si scopre una sequenza di fasi. In particolare: a) un tempo della 'Voce', nel quale Dio parla a tutti gli uomini (Abramo. viene mandato nel mondo con funzioni di collettore e di Notalo di Dio); b) un tempo dello 'Scritto', quando le 'Voci' diventano un libro sacro unico e certo (Isacco); c) un tempo delle 'due religioni', degli eletti e dei gentili (Giacobbe sposo di due 'donne'). A questa sequenza segue un tempo conclusivo, nel quale dal 'libro' inteso nella sua obiettività grafica, si passa all'Uomo/libro (icona di Giuseppe). Da un altro punto di vista., possiamo dire che la articolazione Abramo Isacco e Giacobbe dice collezione, unificazione, dialetticità e si risolve in un momento nel quale non vi sarà più bisogno di mediatori/interpreti ed ognuno avrà pieno accesso al dialogo con Dio (Ger 31,31-34). In parallelo se si considera il variare delle lingua (ebraica, aramaica, greca), come un dato della rivelazione di Dio, si noterà che il cambiamento di linguaggio presuppone la lingua come strumento di unificazione progressiva. In questa ottica (e veniamo così al secondo punto) il succedersi di idiomi diversi e sempre più capaci di veicolare la Verità, indica un cammino divino all'interno della Rivelazione e un allargarsi progressivo del dialogo fra Dio e l'uomo. Come accennavamo, nel variare delle lingue si può allora cogliere (e questa è una rivelazione) il passaggio dal particolare e dal .limitato, al generale e illimitato; da una fruizione di elites a una valenza universale. Il progressivo formarsi dei libri sembra interfacciarsi con un Jeratico sempre più universale (in ebraico, poi aramaico, poi greco). Ciò permette di affermare che la formazione dei testi, sicuramente collocabile in una scala temporale (diacronia), può considerarsi, proprio perché essi furono redatti in metalinguaggio, come se si fosse verificata in un solo momento (sincronta); ciò garantisce l'unità logico-formale dei libri singoli e dell'intero Libro (13), comprime (quasi ad annullarlo) quel grande spazio temporale nel quale si muovono le ricerche degli storici e dei filologi che per la molteplicità dei criteri e degli approcci non facilita certo la comprensione del fenomeno linguistico che stiamo esaminando. (13) Per intenderci, potremmo parallelamente dire che tutta la matematica è stata scritta da un sol uomo e in un solo giorno, ad onta del suo formarsi progressivo nella storia e nella pluralità degli scienziati. Il tempo, nel sistema delle matematiche, ha un'importanza del tutto marginale, tant'è che nessuno conosce la datazione dei teoremi. In conclusione l'Accademia afferma che la Bibbia va collegata all'ebraico ed all'area palestinese. Ed è proprio questa l'affermazione che io non condivido (14). (14) Prendiamo un grande e moderno commentario alla Bibbia (di quelli che vanno nelle mani dei cristiani di media e buona cultura) e scopriamo, ad es. quanto alla Genesi che la prima parte dell'esposizione è tutta dedicata a notomizzare il testo per individuare le fonti di cui si sarebbe servito il redattore per il suo collage. Poi si passa alla seconda parte intitolata 'Testo e versione', e qui ci si attenderebbe qualche dato a giustificazione del senso del testo e qualche motivazione sulla preferenza accordata ai libri scritti in ebraico. Ma non è così; ci si imbatte infatti nella più piatta delle letture, quella fattuale, e non si rinviene nessuna giustificazione in ordine alla preferenza accordata alla versione ebraica. Quello che appare veramente chiaro è l'ossequio alla scuola dominante. Ed infatti, invece di procedere ordinatamente per chiarire a lettore il problema, lo si spinge all'interno di beghe di accademia, e compare improvvisamente, come punto di riferimento, un fantomatico originale al quale -si dice- sarebbe 'ben conforme' il testo masoretico (e ciò perché i manoscritti del mar Morto appaiono, più o meno, uguali ad esso). Contemporaneamente si afferma che la versione samaritana è più simile ai LXX (greca); che Aquila è troppo letterale e Simmaco è troppo libera; che la Peshitta (traduzione siriaca) è di qualche valore a motivo della sua generale fedeltà. Non so cosa concludere da un'esposizione che invece di offrire dati semplici ed obiettivi, se ve ne sono, oppure a sfatare con i fatti alcuni luoghi comuni, si attarda su problematiche individuazioni di «blocchi» di materiale, «tradizioni», «stili» per concludere infine che vi è stato un grande melange. In questo modo la Bibbia diventa un minestrone in cui gli ingredienti non sono stati cotti insieme, ma mescolati estemporaneamente. Inoltre quasi tutti sono concordi sui seguenti dati: a) quanto ai singoli libri, che vi è una serie di reperti archeologici che dimostrano l'esistenza di testi scritti in lingue diverse e in tempi, aree e religioni diverse; b) quanto alla Bibbia nel suo complesso (Libro), che il testo di Tolomeo (LXX), essendo del III/II sec. a.C., è il più antico; c) che abbiamo inoltre (ma siamo dopo Cristo) il testo consonantico della Bibbia giudaica; d) che esistono altre traduzioni postume (in aramaico, ebraico, copto, greco etc). In ordine al 'quando' della scritturazione, alla 'lingua' usata, al 'come' furono scritti i singoli libri, ed al 'modo' di leggerli, non mi pare ci sia qualcosa di veramente sicuro (15). (15) Anzi ho la sensazione che la storia dei singoli testi è un gran polverone che a volte si mantiene in piedi solo per l'architettura formale delle singole ricerche e il partito preso che risolve di autorità le questioni e smussa deliberatamente le asperità storiche e filologiche. Di chiarezza ne ho trovato poca ed ancor meno ne troverà chi non può, come me, dedicarsi a questi studi. Proprio quest'ultimo fatto mi lascia perplesso; è pacifico infatti che la chiarezza è un'esigenza imprescindibile, in quanto non si può fare teologia sulla base di dati fumosi o che continuamente vengono contestati. Anche per queste ragioni preferisco accostarmi al problema in termini teologici; quanto meno ne ricavo qualche conclusione utile alla mia fede. L' aramaico E veniamo all'aramaico, lingua nella quale erano scritti molti libri sciolti della Scrittura, i quali, in epoche diverse, circolavano negli ambienti del mosaismo. 'L'aramaico è una lingua i cui caratteri sono identici a quelli ebraici' così si legge nei testi correnti che hanno scelto di mettere l'ebraico come lingua base rispetto alle altre (16). (16) Mi domando perché non si dice l'opposto e cioè che l'ebraico (del quale, oltre alcuni testi biblici, non abbiamo documentazione alcuna) assomiglia all'Aramaico, cioè a una lingua che l'archeologia ha dimostrato viva e parlata in modo ampio e massivo nel medio oriente. La grande quantità di reperti, che investono vari campi della vita sociale, indica che l'aramaico era veramente una parlata appresa maternamente: era cioè un linguaggio naturale. Affermatosi, come dicono, in tutta la Palestina, l'Aramaico divenne, insieme col greco, la lingua parlata ordinariamente nel I secolo dopo Cristo, sicché si può presumere che Gesù parlasse anche in aramaico, ad onta del fatto che non abbiamo trovato fino ad oggi un solo reperto di vangelo o delle fantomatiche fonti dei vangeli, redatti in aramaico (17). (17) Originario dell'Assiria, l'aramaico, secondo alcuni studiosi, fu dal V secolo avanti Cri- sto in avanti l' inglese del Medio-Oriente. Altri hanno sostenuto che l'aramaico sia un pasticciaccio fatto dagli ebrei corrompendo la loro lingua durante l'esilio babilonese. A me questa ipotesi sembra un tentativo del Giudaismo di guadagnare lustro anche in campo linguistico come «costruttore di idiomi»; una vanteria che mal si attaglia al breve periodo di permanenza a Babilonia ed alla vantata chiusa saldezza del gruppo esule. Altri studiosi affermano invece che essa è una lingua antica ed evoluta, entrata in contatto con i palestinesi durante la dominazione persiana. Sarebbe, secondo altri ancora, la lingua dei nomadi Caldei che, sopravvissuta alla caduta dei regni caldei, divenne un idioma commerciale internazionale e rimase in Palestina fino agli inizi dell'era cristiana. Un dato interessante che voglio ricordare al lettore è l'uso dell'aramaico come lingua sacra fuori del giudaismo; in particolare in quell'ambiente javista samaritano che i Giudei consideravano a loro estraneo e sostanzialmente eretico. Proporrei di leggere questo fatto come il segno di uno slittamento da uno ieratico/ebraico esclusivistico, a un ieratico/aramaico già più aperto alle Genti del mondo prima di arrivare allo jeratico/greco. Il greco Il greco è una lingua antichissima, già vitale alla fine del secondo millennio avanti Cristo, che divenne un poco alla volta la lingua parlata da tutti i popoli del bacino del mediterraneo e diffusa in maniera massiccia anche in oriente. Gli studiosi di Sacre Scritture considerano la lingua greca come un idioma che ha prodotto solo traduzioni. Io sostengo esattamente il contrario. La scuola dominante cerca di sminuire il valore del greco, anche quando, come per alcuni sapienziali, deve riconoscere che allo stato sono state ritrovate solo stesure in quella lingua. Seguendo il 'postulato palestinese' continua così a dare la caccia ad un originale in lingua semita: Di contro io sostengo che vi sono libri che sono nati direttamente in greco; ed inoltre che, mentre la Bibbia giudaica (salvo prova contraria) è una traduzione in ebraico di testi sacri, la LXX è un'opera originale della Fede Mosaica, coerente con i criteri che ne costituisco- no l'ossatura: unità e cattolicità(18). (18) Proprio l'emarginato Tolomeo va considerato, quanto all'antico Testamento, il fermaglio di chiusura del Patto. Egli si interfaccia con la figura di Abramo (che cerca le rivelazioni per fame un'unità) e, quando nasce la LXX da un'umanità sterile (Sara), può dire di aver generato il VT come figlio di Grazia. Questo Isacco letterario (il VT) riunifica eletti e genti e realizza quanto profetizzato nella figura di Giacobbe: sposa cioè due Donne, due sezioni dell'umanità (la mosaica simboleggiata da Rachele e la gentile impersonata dalla 'cecuziente' Lia). Una Bibbia unitaria: la LXX Si ha testimonianza dell'esistenza di vari libri della Bibbia, scritti in greco, nell'arco che va dal III secolo a.C. fino al tempo di Gesù. Fra questi ci è pervenuto un corpus unitario chiamato Bibbia dei Settanta che viene brevemente indicata come 'la LXX' ed in greco era resa dall'espressione OI O’ (dove O’ equivale a 70) (19). (19) Il nome Settanta viene spiegato da Giuseppe Flavio, autore delle «Antichità Giudaiche», e dalla cd. «Lettera di Aristea». Secondo queste fonti la traduzione dei testi semiti sarebbe stata curata da 72 dotti (6 per ogni tribù di Israele) richiesti da Tolomeo Filadelfo, faraone di Egitto, che intendeva dotare di quei libri la sua biblioteca in Alessandria. Il numero LXX sarebbe stato -come si dice- un arrotondamento dettato dalla pratica del numero 72. La mia esperienza suggerisce però di diffidare delle letture riduttive delle opere dell'antichità. Sono portato a dare molto credito ai testi religiosi antichi e cercare in essi, al di là del loro aspetto mitico o leggendario, un comunicato teologico. Rifletto allora che il numero 72, citato da Aristea per indicare sia il numero dei saggi, sia i giorni necessari alla traduzione, vuoi forse sottolineare il valore strettamente religioso dell'opera: il Mosaismo semita, in tutta la sua ampiezza, (cioè 6x12c72) intende adottare la stesura greca. Aggiungerò che la LXX sembra nascere per diventare un Faro di luce per il mondo; ed infatti, secondo Aristea, Faro è il nome dell'isola dove i saggi si riuniscono per scriverla. Il gran numero di traduttori sembra poi suggerire che non si trattò di una versione da una lingua in un'altra, bensì di una rielaborazione dei testi precedenti. L'autenticità del prodotto viene poi sottolineata in un modo che a prima vista può sembrare solo leggendario ed invece è fortemente allusivo ad una realtà teologica. Secondo le nostre fonti, le 72 versioni fornite singolarmente dai 72 saggi risultarono tutte uguali fra di loro. La LXX dunque non contiene licenze personali, ma rispecchia fedelmente l'unica ed immodificabile Rivelazione; non è opera di un singolo ma della Chiesa mosaica. Aggiungerò che non credo a un arrotondamento pratico da 72 a 70; considero infatti il numero 70 un diverso modo per comunicare lo stesso messaggio di cattolicità. «Settanta» sono tutti i popoli della terra elencati nel cap. X del Genesi e «settanta» sono i parenti di Giacobbe che vanno in Egitto (Gen. 46,27) (Deut. 32,8 mette in relazione i due dati e ne sottolinea l'importanza). Per 70 anni bisognerà vivere in Babilonia prima del trionfo che il Signore assicura per bocca di Geremia (29,1-14) nella sua singolare 'lettera' agli esiliati. Nel testo «Numeri Robba» la tradizione rabbinica afferma che i 70 tori offerti a Gerusalemme per la festa delle Capanne servivano ad espiare i peccati degli altri popoli. In questo caso a Giuda-Simone (2) si univano i 70 popoli della terra, dando un totale di 72. Infine, la parola ebraica mistero, considerando le lettere come cifre numeriche, dà per totale 70. In conclusione, sotto il velame del numero 70 il testo greco viene dichiarato Bibbia Gentile ed Ecclesiale, Laicale e del Clero (70+2); ed infIne Bibbia del «mistero». Come nasce quest'opera che è poi rifluita tutta intera nella religione cristiana ed ha costituito il primo libro sacro della Chiesa? Seguendo la via tracciata da Mosè, un gruppo di credenti di lingua greca comprese che bisognava portare a compimento la grande opera di unificazione del Libro. Nasce così quel testo che Mosè aveva sognato e, come Gesù i Vangeli, non aveva potuto vedere. Con la redazione della Bibbia greca si costituisce un corpus reso unitario, sul piano formale da un unico linguaggio (Jeratico in greco), e sul piano sostanziale da una revisione ed adattamento dei contenuti. Ha termine così la seconda fase del Patto di Dio con gli uomini e cioè quella della fissazione unitaria del libro sacro. I tempi diventano così maturi per la terza fase, quella dell'Uomo/libro che Paolo chiama la Nuova Creatura e considera come tempio dello Spirito Santo (2 Cor 5,17-6,18). La lingua della LXX sembra corrispondere al greco parlato all'epoca del bacino del Mediterraneo, ma non poche sono le sfasature e per di più non giustificabili in un ambiente culturale in cui l'idioma ellenico era pienamente posseduto anche dai non greci. Per superare questa difficoltà si è ipotizzato e articolato il cd. Greco Biblico; è questo un tentativo di far diventare sistema le difficoltà sintattiche e grammaticali della LXX e poi del NT. Così, al di là delle intenzioni degli autori, questo specie di Frankenstein configura la prima teorizzazione di quel 'linguaggio jeratico' che io vado sostenendo. La caratteristica fondamentale della LXX consiste nell'unità della lingua (greca) e del linguaggio, cioè dell'insieme di fonemi, lemmi, parole, forme, modi etc. È una unità questa che può essere letta in chiave teologica come profezia della futura situazione pentecostale, nella quale tutte le lingue di Babele si concentrano in un unico idioma capace di essere inteso da chiunque (20). (20) Come ho più volte detto, la struttura del linguaggio jeratico, nella sua multimedialità, consente a lettori diversi per cultura e strumenti ermeneutici a disposizione di entrare nella verità annunciata dal testo. Per intendere quest'attitudine del linguaggio jeratico, si pensi a quello «liturgico» capace di comunicare e coinvolgere ciechi, sordi, muti e paralitici. L'uso della lingua greca, universale nel mediterraneo, permette poi di operare alcune deduzioni. Un primo dato molto importante è costituito. Dalla diversa leggibilità del greco rispetto all'ebraico: mentre l'ebraico è in fondo una 'pittura grafica', alla quale e stato tradizionalmente collegato un senso, il greco è stato certamente parlato e in qualche modo lo è ancora (21). (21) A parte la Grecia, in Italia, il greco parlato ufficialmente oltre l'anno mille, risulta ancora presente negli idiomi neogreci come molti dialetti meridionali. Le conseguenze sono almeno due: la Rivelazione resa in greco, esprime chiaramente la sua direzione verso qualunque uomo, e mostra di voler essere conosciuta. Il testo greco, a differenza di quello semita, si può scandagliare anche nelle sue più abissali profondità semantiche e fino al più spinto esoterismo (22). (22) L 'iconografia ricca e complessa dei cristiani, a fronte di quella quasi insignificante dei giudei, interagendo con lo sterminato corpus letterario greco, consente di apprestare a fini esegetici un formidabile strumento ermeneutico. Infine, sia la Patristica, sia quel fiume sotterraneo che prende nome di «ermetismo», riaffiorante in personaggi del calibro di Nicola da Cusa e di Pico della Mirandola -per citarne solo due- forniscono grossi ausili. Un secondo punto è questo: la Bibbia dei LXX, in quanto costituisce il Libro unitario aperto alle Genti, ed eccede quindi il mero evento storico, può essere colta come una tappa fondamentale del cammino della Rivelazione. Essa è la 'Scrittura universale', leggibile da tutti senza la mediazione di esperti, e non una 'traduzione' ad uso di un altro popolo. Che trattasi di un libro cattolico lo dimostra la sua vasta fortuna. Dal III secolo a.C. la Bibbia dei LXX ha costituito il testo 'sacro' universale dei fedeli mosaici che vivevano nell'Ecumene e nella stessa Palestina (specie quella del nord in cui la lingua greca era correntemente parlata). Dall'evento Gesù, essa è diventata il VT ufficiale per la Chiesa. Ad essa fanno riferimento gli agiografi neotestamentari (su 350 citazioni del VT ben 300 sono tratte della LXX). Fu poi per almeno tre secoli il testo sacro liturgico della Chiesa cristiana. I Padri (Giustino, Ireneo, Cirillo di Gerusalemme, Agostino) la considerarono il Testo ispirato, cioè depositario della Rivelazione autentica. Per le Chiese orientali è ancor oggi il Testo ispirato che viene proclamato nelle liturgie. Infine alcuni libri, canonici per la chiesa cristiana, sono presenti solo nella LXX (23). (23) Una prova della «originalità» della Bibbia dei Settanta consiste nella presenza di libri sapienziali scritti direttamente in greco. C'è chi tenta di affermare che dovrebbero esistere dei testi precedenti scritti in ebraico: sta di fatto che finora sono state trovate solo redazioni greche. A me pare che se gli agiografi di questi libri, chiunque essi siano, scrivevano in greco, ciò attesta una chiara coscienza del carattere sacro della lingua greca; essa era voluta da Dio ed era atta a costruire testi sacri, cioè ricchi di polisemia, di enigmaticità e di significati nascosti. Anche la decadenza dell'uso della Settanta può suggerire degli spunti teologici. Essa storicamente dipese in parte dal restringersi delle aree linguistiche greche e in parte dal sopravvento delle versioni latine (Vetus e poi Vulgata) viste con favore dalla Chiesa Romana sempre più istituzionalizzata. Ciò lascia aperto il discorso sulla difficile convivenza di Istituzione e slancio cattolico (24). (24) L'uso della Bibbia dei LXX decadde via via che si affermavano le traduzioni latine, supportate da una Chiesa che, col concordato Costantiniano, si calava sempre più in forme istituzionali e recuperava dall'impero modelli e linguaggi, e dal giudaismo una mentalità esclusivistica e sinedriale. Da questo punto in avanti -a ciò faccia attenzione il lettore- gli studiosi ed i teologi hanno lavorato sulla traduzione latina, quella che tradizionalmente viene attribuita a San Girolamo, sicché la LXX è diventata quasi la «casa di campagna» degli eruditi. Ancora oggi, fatta salva un'opera quasi privata ed introvabile, non esiste, paradossalmente, una traduzione italiana della Bibbia dei LXX. Solo da poco, in Francia, una equipe di studiosi ne sta curando una versione in lingua francese. Il mondo accademico laico, per quel che mi risulta, praticamente ignora questo monumento della lingua greca, considerandolo un hortus conclusus dei preti. Ed il fatto è comprensibile, considerando che la separazione ottocentesca fra laicità e clericalità ha erroneamente rigettato questo testo nel novero dei libri confessionali. Le ‘Traduzioni' greche Il mosaismo greco non ha prodotto solo la LXX, ma anche altre opere che tuttavia non la eguagliano proprio perché sono fondamentalmente delle traduzioni e non delle autonome redazioni unitarie. Si dice che nel 140 d.C. fu completata una 'traduzione' ad opera di un proselita greco di nome Aquila, che seguiva il metodo ermeneutico di Rabbi Aqiba. Egli, considerando che ogni versione faceva perdere il senso delle parole ebraiche, riprodusse in greco il testo ufficiale rabbinico, rispettandone le minuzie più insignificanti. La sua 'versione' fu usata solo dai Giudei. Verso il 180 dopo Cristo un altro proselito, di nome Teodozione, cercò di armonizzare la LXX con il testo ufficiale degli Ebrei. Simmaco è uno di quei giudei cristiani che, dopo la caduta di Gerusalemme (anno 70), furono considerati eretici e chiamati 'ebioniti', cioè 'poveri', oppure Nazorei, Osservanti, Simmachiani. Egli scrisse una traduzione della bibbia ebraica intorno all'anno 200 d.C.. Come Aquila, volle essere molto fedele al testo semita, ma, a differenza di Aquila, badò alla perfetta equivalenza concettuale e si servì della lingua greca in tutta la sua fecondità artistica e letteraria. Sono ricordate altre versioni greche anonime e parziali. Convenzionalmente esse vengono dette 'Quinta, Sesta, Settima'. Si ha memoria anche di una traduzione fatta in greco da un siriaco, e chiamata 'Siro', e di una traduzione samaritana (il 'Samaritano'). Di queste versioni noi oggi possediamo solo indirettamente dei frammenti (25). (25) Ben diverso spessore hanno le altre Bibbie in greco che si aggiunsero alla LXX, come quella di Aquila o quella di Simmaco, che sono in qualche modo servili al testo giudaico e possono essere considerate, la prima una vera e propria traslitterazione dall'ebraico, e la seconda una specie di commento esplicativo del testo ebraico. Di esse possediamo pochissimi frammenti. La scomparsa, nel corso dei secoli, di queste versioni greche, a fronte dell'intatto permanere della LXX, attesta chiaramente il diverso valore attribuito all'una ed alle altre. Interessantissima, a fini filologici, è infine l'opera di Origene (III sec), purtroppo quasi del tutto perduta. Chiamata Esapla (sei testi) essa conteneva su colonne parallele i testi della Bibbia ebraica in caratteri ebraici in caratteri greci, il VT greco di Aquila, di Simmaco, dei LXX da lui revisionati e quella sempre in greco di Teodozione. Omettendo la prima e la seconda colonna Origene ripubblicò la sua opera che venne chiamata Tetraple. Ciò può essere un segno della minore importanza che egli attribuiva alla versione ebraica. Identificare le caratteristiche di queste traduzioni è estremamente importante ai nostri fini. Anche se in modi diversi, le traduzioni (e queste sembrano proprio tali) obbediscono a un solo scopo; ridare valore ai testi semiti. Io vi leggo il segno della forte presenza del giudaismo ai vertici della Chiesa, quel giudaismo che Giustino e Tertulliano attaccano nelle loro Apologie. L'adesione letterale di Aquila al testo semita è significativa anche in altro senso. Se era così importante riportare nella versione greca la struttura della frase, le singole parole e la loro speciale articolazione, ciò significava che si voleva consentire a chi leggeva in greco di risalire all'originale ebraico e di verificare eventuali ulteriori letture connesse non con 'quelle' parole e 'quelle' frasi, ma con quel testo materiale (sequenza di cifre) gravido di sensi nascosti (26). (26) Non si dimentichi che una voce della tradizione biblica (la Kabbalah) afferma che il testo dato da Dio a Mosè poteva compitarsi in modo da consentire sia una lettura di fatti storici, sia una contemplazione di nomi di Dio. La mia tesi (rispetto del Testo Materiale anche nella traduzione) poggia anche su ciò che tradizionalmente è avvenuto ed avviene nella Chiesa. Quest'ultima continua da secoli a proporre pessime traduzioni dei testi sacri (si pensi al Benedictus) per potere comunicare in traslucido la struttura e l'andamento dell'originale greco e, quindi, le ricchezze che esso nasconde e che andrebbero certamente perdute se coperte da una libera traduzione, come accade ad esempio in quelle, oggi in voga, «in lingua corrente». <VI> La Bibbia giudaica Il bivio del giudaismo Religione mosaica e Giudaismo Qui tratteremo della Bibbia ebraica (cioè quella giudaica del 100 d.C. chiamata anche Masoretica), ma non per interessarci di questioni che attengono ad una religione diversa dal cristianesimo, bensì per cogliere elementi capaci di illuminare alcune ombre esistenti nella prassi cristiana. In particolare desidero precisare tre cose: a) la Bibbia giudaica che, tradotta in italiano, proclamiamo nelle nostre liturgie, è nata fuori della Chiesa e verisimilmente in polemica contro Gesù Cristo; b) il cristianesimo è l'evoluzione ultima della fede mosaica, non dipende dal giudaismo dei tempi di Gesù e non può quindi considerarsi una setta fortunata della religione ebraica che a quel giudaismo si riporta; c) usare, studiare e meditare la bibbia giudaica può influire negativamente su quell'ottimismo che dovrebbe costituire il tratto caratteristico del cristianesimo. Solo al fine di chiarire questi punti cercherò di ricostruire alcune vicende storiche e teologi- che riguardanti le vicende della Bibbia giudaica che altrimenti sarebbero rimaste estranee alla nostra riflessione. Una prima puntualizzazione riguarda la 'fede mosaica'. In epoca alessandrina (cioè da 300 anni prima di Cristo), i fedeli nel Dio Unico che si rifacevano al Pentateuco ed agli altri testi biblici, non risiedevano solo in Palestina, ma in tutto il bacino del Mediterraneo e nel medio oriente. Centri importantissimi erano quelli di Babilonia e di Alessandria d'Egitto, le due capitali morali della cultura medio orientale e greca. I nomi con cui venivano individuati erano molteplici (spesso venivano detti 'Caldei', e in ambiente romano 'Giudei'). Ne consegue che qualificare i fedeli mosaici dell'antichità classica ad es. come 'giudei alessandrini' non equivale a segnalare una realtà etnica palestinese (in pratica appartenevano ad ogni razza), ma una connotazione religiosa che certamente aveva anche una rilevanza sociale (si pensi ai Mormoni americani). Dico questo perché il nome 'Giudeo' ha costituito una cerniera spesso mal usata per creare una unitarietà etnica all'interno di una fede o di una religione cosmopolita come era quella mosaica. Il nome 'giudeo' (che politicamente e geograficamente indica un quid di ben limitato e cioè in pratica Gerusalemme) ha falsificato il nostro giudizio su questa fase storica della rivelazione. In altri termini voglio sottolineare che la fede mosaica non era teologicamente collegata alla Giudea ed a Gerusalemme più di quanto lo fosse con ogni altro gruppo e luogo. In questo tempo (III, II e I sec. a.C.), i credenti mosaici parlano aramaico e greco, ed i libri sacri, di numero ancora vario a seconda dei singoli gruppi, circolano in lingue diverse, principalmente in greco ed aramaico. Questi 'Ta Biblia' (in idiomi differenti) si vennero naturalmente a confrontare con quel monumento unitario costituito dalla LXX e, pur perdenti, resistettero nell'area della Giudea fino all'epoca di Gesù. Ne fa fede il fatto che i Giudei ebbero sempre in grande odio questa versione greca, fino adire che quando essa fu composta si oscurò il sole. Proprio in Giudea e poi in altri luoghi, si verifica allora un fenomeno particolare: la fede mosaica centrata sulla Bibbia, si incapsula in una religione ferrea mente inquadrata che costituisce il suo centro religioso in Giudea e specificamente in Gerusalemme. Proprio di questo fenomeno vogliamo ora interessarci per comprendere il senso teologico della nascita della bibbia giudaica. Le tensioni del Giudaismo Dicevamo che, nello spirito del mosaismo per sua natura cattolico, la Rivelazione costituisce un processo unico che va dall'universale all'universale in un crescendo di chiarezza. Questo processo positivo incontra un momento di crisi, un bivio che è per un verso storico e per l'altro teologico. Trattasi comunque di una parentesi che si apre e si chiude e che va escissa dal corpo vivo dell'evoluzione della Rivelazione quando la si vuole intendere dal lato di Dio e non della storia umana. Questo momento di crisi è espresso storicamente da quella sezione della scuola mosaica (chiamiamola 'congrega religiosa ') che si viene a formare in Gerusalemme e che tocca il suo culmine proprio nel momento del sorgere della Chiesa cattolica. Il coronamento del processo storico si interfaccia così (quasi a mo' di giudizio) col suo fallimento. Questa specifica congrega dell'unica scuola mosaica nega in pratica la valenza cattolica della fede e afferma le ragioni di una religione esclusiva ed etnica: il giudaismo. Gesù si impatta con questa teologia che egli considera una falsificazione della verità e la condanna. Da quel momento essa resta fuori dal tracciato della cattolicità, con la conseguenza che il ridarle attualità (in qualsiasi modo ciò avvenga), mette in pericolo la fede cristiana. Il momento storico, nel quale la fede mosaica cominciò ad assumere quei caratteri specifici che la fisseranno nella Religione Giudaica, coincide con il collegarsi (in forma sempre forte) ad un luogo (Gerusalemme-Tempio) ed alle vicende politiche di quella regione. Allora si crea un bivio divergente nell'unica grande strada che da Adamo va a Dio, e l'area, escissa dal fiume della rivelazione di Dio al mondo, diventa piscina di acqua morta. Partendo da epoche più antiche, possiamo tracciare questo svolgimento del fenomeno: fra divisioni interne, lotte di prevalenza e scontri con le altre fedi nell'unico Dio, alcune Comunità Religiose si vennero stabilizzando fino a diventare gruppi di pressione politica (fase del Regno). Col crescere della 'istituzione' religiosa aumentò la pretesa di primazialità; essa toccò il suo vertice in Gerusalemme. Non so apprezzare quanto sia stata effettiva la leadership della comunità giudaica di Gerusalemme e quanto ciò dipenda da un'inversione prospettica collegabile alla morte di Gesù in quella città. Certamente, a parte l'evento Gesù, Gerusalemme rappresentava, per ragioni geografiche, il crocevia delle grandi civiltà del Medio oriente e dell'Africa. Verosimilmente, proprio per questa sua collocazione, era stata assunta come icona del futuro Regno universale di Dio. Isolatosi dagli altri gruppi monoteisti palestinesi (per esempio dai Samaritani), forte della presenza in Gerusalemme di un famosissimo Tempio, il Giudaismo si vanta leader della religione monoteista e dà inizio a un'avventura in cui fede e politica si coniugano, avvelenandosi a vicenda. Divisi all'interno, perduto lo slancio ecumenico del mosaismo e la tensione all'unità, il giudaismo non seppe adeguarsi alla linea alessandrina che già dal III/II secolo aveva raggiunto il traguardo di un solo Libro della Rivelazione (LXX). Da ultimo intervenne il pesante tallone romano che schiacciò Gerusalemme sotto una serie di sconfitte militari che umiliarono il legittimo orgoglio di quelle popolazioni. Se questa ricostruzione è esatta, principalmente nel reagire al cristianesimo, ancor più pericoloso dell'Impero Romano in quanto minava alla base la struttura stessa dei gruppi religiosi giudaici, questi ultimi trovarono l' input per procedere ad una unificazione dei propri libri sacri. Forse fu proprio il cristianesimo, che della LXX aveva fatto uno strumento di unità e un punto di prestigio, a smuovere un giudaismo ormai isolato e perdente, ed a spingerlo ad unificare i Rotoli sparsi della Scrittura in una lingua ed in un canone. A fronte di un cristianesimo che si vantava Popolo eletto e poteva presentare un complesso unitario di verità ('La Rivelazione' e non 'le rivelazioni'), a fronte di una scuola alessandrina di stampo ellenico, aperta a una lettura ampia ed ecumenica della fede mosaica, il Giudaismo scelse di arroccarsi in una posizione estremistica. Rivendicò innanzi tutto l'esclusività (etnica e religiosa) della discendenza da Abramo e del Patto da lui stretto con Dio; inoltre, seguendo il suo stile religioso che privilegia il passato al futuro, e sfruttando la dignità di una lingua morta (ebraico) per autenticare l'opera, costruì un Libro elitario inintelligibile. Usando un ebraico non parlato, una scrittura solo consonantica, e per di più un alfabeto che impedisce ogni accostarsi per via d'intuizione e similitudine (il cd. 'quadrato'), pose le basi di una definitiva struttura religiosa a due livelli: quello dei letterati e quello del volgo. La Bibbia giudaica In questo ambiente politico e religioso, verso la fine del I secolo dopo Cristo, quando quella regione (Giudea) aveva perduto ogni residuo di identità socio/politica per la sconfitta subita da Tito e Vespasiano, quando Gerusalemme era stata conquistata e il Tempio incendiato, i rabbini giudei operarono l'unificazione dei libri del VT. I vari Libri sacri che circolavano in lingue diverse (aramaico, ebraico, greco) furono tradotti tutti in ebraico, usando l'alfabeto quadrato; nacque così un qualcosa che può essere investigato ambivalentemente, come opera teologicamente originale, o come pura e semplice traduzione. Non sono in grado di risolvere il quesito; posso solo ipotizzare le due soluzioni: la prima considera il Libro ebraico come una riedizione sistematizzata (come penso della LXX) dei vecchi libri, in opposizione al nascente cristianesimo; la seconda lo vede invece come traduzione a fini di comodo. Neppure so apprezzare l'eventuale spessore esoterico del testo, anche se presumo che i Rabbini usarono anch'essi un linguaggio Jeratico (singolare è in questo senso l'opera del francese Crombette) (1). (1) Per semplificare, come già dicevo, chiameremo convenzionalmente questa bibbia col nome di 'Jamnia', località della Palestina dove si riunì, intorno all'80 d.C., un sinodo per fissare un canone (elenco) dei libri della Scrittura. Ricordo ancora che questa Bibbia è quella che ordinariamente viene chiamata Masoretica perché su di essa lavorò la Masora, cioè gli studiosi mosaici del medioevo. L 'uso di una lingua morta, di un alfabeto chiaramente 'esoterico' e delle sole consonanti (mancano infatti le vocali), fa pensare ad un desiderio di nascondimento e di possesso (in linea con i Misteri del mondo classico), e ad un rifiuto del piano di Dio, consistente nel passare da linguaggi di gruppo a lingue universali leggibili da tutti. A parte le intenzioni dei redattori, sta di fatto che da queste scelte derivò quella incomprensibilità, quella misteriosità che costituisce il tratto saliente di una certa sensibilità religiosa purtroppo ancora presente nella Chiesa. Giudaismo e cattolicità In conseguenza di queste scelte, la Rivelazione divenne sempre più possesso esclusivo di una 'Scuola', dipendente da un gruppo di interpreti mediatori di una tradizione orale. Un'anima religiosa che purtroppo ha inquinato anche il cristianesimo (2). (2) Quanto sia forte questa anima religiosa lo si può rilevare dall'atteggiamento della Chiesa cattolica che, pur avendo una Bibbia 'leggibile', ha vietato per secoli che i cristiani la leggessero. Per effetto di queste scelte, la cattolicità della fede degradava così a esclusivismo religioso e la Bibbia, per la velatura dell'ebraico, si impoveriva in quell'unico senso che la tradizione orale ad essa riferiva. Da tutto ciò, sia la Bibbia di Jamnia che il Giudaismo mutuano quelle caratteristiche che conta sottolineare non per fare i conti in tasca agli altri, ma perché profeticamente (come segni dei tempi) denunciano un presente religioso. Le caratteristiche cui mi riferisco sono le seguenti: a) ancoraggio di una polverizzata unità etnica all'organizzazione religiosa; b) lettura della Bibbia come libro storico (epopea del popolo giudeo) allo scopo di costituire una memoria e un passato storici, altrimenti non recuperabili; c) collegamento genetico e funzionale del cristianesimo con il giudaismo; d) paura di Dio e pessimismo esistenziale; quest'ultimo collegato alla mancanza dell'esperienza (cristiana) dell'incarnazione di Dio (Messia venuto) e del dono dello Spirito; e) atteggiamento 'lacrimoso' (come dice Baron) derivante dal fallimento politico letto come sfavore di Dio; f) negazione del nascente cristianesimo, che mina alle basi la leadership della congrega mosaica di Gerusalemme, chiedendo ai capi-dottori di farsi servi dei gentili (Paolo). Giudaismo e storicismo Per meglio cogliere, nella nostra attualità, il senso teologico delle vicende che .seguono nei secoli successivi, è importante sottolineare come, dall'isolamento regale della congrega di Gerusalemme, si generarono alcune conseguenze: a) la confusione fra 'gruppo religioso' ed 'etnia', per cui il gruppo sociale stabilizzato nella Giudea s'identifica, attraverso la primazialità religiosa, con tutti coloro che si sentono membri della religione mosaica (oggi giudaismo e sionismo); b) il presentare la Bibbia come opera esclusiva ed originale di un'etnia i giudaica, come libro di razza da difendere gelosamente senza parteciparlo al mondo; farsi cioè fonte e antenato del cristianesimo, o 'Fratello maggiore'; c) il considerare la Bibbia come un testo 'storico' emarginando ogni tipo di lettura spirituale, con l'effetto di caricarsi di tutta la negatività delle icone letterarie in essa contenute; d) l'interpretare la Rivelazione come annuncio di un futuro ancora da venire (Messia) e come dolorosa attesa di questo evento (3). (3) Quest'ultimo fattore, rifluendo nel cristianesimo, produce una visione pessimistica della relazione dell'uomo con Dio, in quanto segnata dal peccato. Neppure la definizione dei dogmi mariani riesce a scalfire questo amaro prestito. Riflettendo ancora sul giudaismo e sull'importanza che assunse il testo di Jamnia, non v'è dubbio che, essendo stato distrutto il Tempio di Gerusalemme, che era stata la bandiera della leadership giudaica, ad esso si sostituì il Libro, sostenuto con una forza (che rasenta la disperazione o tocca i vertici della santità) e che non trova parallelo nella sensibilità media dei Cristiani verso la loro Bibbia. Parallelamente il Libro di Jamnia divenne naturalmente il contraltare della LXX che era stata assunta come propria dalla Chiesa. Vantato come il 'Libro antico', l'originale per eccellenza, il naturale momento conclusivo della Rivelazione, esso testimoniava che i Cristiani erano epigoni, fruitori di un sottoprodotto (LXX) di cosa altrui (4). Inoltre, autenticato come Annali della storia del Popolo Ebreo, diventava ineliminabile passato del cristianesimo che, in quanto 'figlio', non poteva fare a meno del padre che lo aveva generato (5). (4) Ancor oggi si sostiene che il Cristianesimo è in pratica una fortunata 'setta scismatica' dell'ebraismo e da esso ha ricevuto il VT. (5) Quest'ultimo punto merita qualche precisazione. Mi riferisco ad un discorso già fatto ma che giova ripetere: il cristianesimo crede nella storicità della rivelazione di Dio, ma, superando le formule letterarie ecclesiastiche, non intende definire che vi sia una razza privilegiata; oltre tutto sfido ad individuarla oggi e qui. Io credo che noi abbiamo difeso a torto la storicità del 'popolo eletto', credendo di difendere la storicità della rivelazione. Penso che all'uomo di fede non interessano gli annali di nessun popolo in particolare. Tutta la storia è segno dell'amore di Dio per chi crede. La visione storicistica giudaica che è rifluita nella nostra teologia non ha alcun senso per la fede cristiana. Lo ripeto, se mi soffermo a chiarire alcuni profili che, appartenendo ad un religione diversa dalla nostra, non avrei neppure sfiorato, ciò dipende dal voler chiudere alcune questioni che pesano proprio su di noi e fra queste quella della storicità. Il fascino della Bibbia giudaica Il testo di Jamnia rimase consonantico fino al medioevo; solo allora gli studiosi della Scrittura chiamati Masoreti (uomini della tradizione) segnarono nel libro le vocali (che davano senso) mediante puntini e lineette, e il testo divenne leggibile almeno ai conoscitori dell'ebraico. Dal I al V sec. dopo Cristo il testo consonantico di Jamnia (testo materiale) si venne assestando. Dal 500 al 900 d.C. esso divenne fisso anche quanto alle vocali per opera dei Masoreti, che così documentarono le tradizioni orali sulla Scrittura (6). (6) Ma erano nel giusto i masoreti quando vocalizzarono in qualche modo il testo consonantico? Possiamo dire che, almeno a livello superficiale, l’affidabilità del testo significativo, attestato graficamente dai Masoreti, risulta comprovata dalle stesure greche e latine e dalla tradizione orale della Chiesa, ma con dei limiti di senso: il testo 'materiale' masoretico (vocalizzato) è sostanzialmente identico a quello esistente al tempo di Gesù ed a quello che è oggi nelle nostre mani, ma il testo significativo, ricavabile da LXX, Vulgata, Masoreti (per Jamnia) non rappresenta però l'UNICA potenzialità semantica della Scrittura. È bene precisare che in tutto questo periodo la Bibbia giudaica fu il libro dell'ebraismo, e restò estranea al cristianesimo che, messa da parte la LXX, considerò libro sacro la Vulgata di Gerolamo. Tuttavia il suo fascino letterario e religioso non venne mai meno. Considerando il testo semita un 'punto' di origine (e ciò mediante un'illusione prospettica che lo proietta nel passato e lo qualifica un 'originale'), si venne a chiudere anche la porta del futuro per coloro che, vinti da questo fascino, ad esso (Jamnia) facevano riferimento. Non è un caso che Lutero si volse a questa Bibbia per editare una traduzione in tedesco; né è peregrino pensare che il favore che essa gode fra i moderni dottori della legge dipenda in buona parte da questo suo porsi come monolito delle origini. Le conseguenze però sono altrettanto chiare: la Bibbia, da Libro che continua a crescere nel Magistero e nella lettura viva dei profeti della Chiesa, diventa un morto dato storico, mentre sarebbe più utile giovarsi della riflessione di fede che continuamente producono i fedeli mosaici a qualsiasi confessione o gruppo appartengano. Ho aggiunto questa ultima precisazione in quanto, contrariamente a quanto si pensa e si ripete, l'ebraismo (cioè la religione mosaica) è qualcosa di teologicamente molto complesso, e alla impostazione giudaica reagiscono non solo il cristianesimo, ma anche vaste aree religiose mosaiche. Molto importante è ad esempio la posizione dei Talmudisti (7) che suggeriscono, attraverso un articolata lettura (le cui leggi sfuggono anche ai fedeli mosaici), la comprensione spirituale dei Testi sacri, a fronte della piatta lettura storicistica. (7) Talmud o Ghemara equivalgono ad insegnamento e nascono nel IV e V secolo in Palestina ed a Babilonia. Ma fu principalmente la Kabbalah a rivendicare alla Scrittura il carattere di 'dialogo' e di 'mistero'. Purtroppo il carattere esoterico degli scritti prodotti da questa scuola l'ha emarginata non poco, fino a ridurla al silenzio. Solo ai nostri giorni (studi di Sholem) si ricomincia a considerare questa corrente mistica come parte integrante della fede mosaica (8). (8) Il 'Talmud' è il grande commento della Scrittura. Esso è composto dalla 'Mishna', dalla 'Tosephta' e dal 'Ghemara'. La Mishna (letteralmente 'ripetizione') è un commentarlo costruito sulla base delle sentenze dei maestri della Legge. Ad essa fece seguito la Tosephta ('aggiunta'). L'insieme delle sentenze e dei commenti, cioè il Ghemara ('complemento'), formarono il Talmud. Il Talmud mira a fornire una guida morale e una comprensione spirituale dei Testi sacri a fronte della piatta lettura storicistica. La 'Kahbalah' ('tradizione') è una corrente mistica originaria dell'area semita e che ha prodotto, come principale opera letteraria, quel capolavoro che è il 'libro dello Splendore Zohar' (XIII secolo d. C.). La Kabbalah è chiaramente orientata all'interno del grande fiume della Rivelazione, a tal punto da far ipotizzare a Pico della Mirandola che fosse un prodotto cristiano. Essa, si mostrò nel suo fulgore nel medioevo, ma vanta radici che giungono almeno ai primi secoli dell'era cristiana; poiché nulla nasce da nulla, alle spalle di questa scuola si può almeno ipotizzare tutto un modo di sentire il rapporto con Dio che risale alla fede mosaica. I maestri della Kabbalah guardarono alla Scrittura come a una struttura complessa, dove ogni cosa deve avere un significato, ed affermarono pertanto che ogni suo segmento può comunicarci qualcosa. Raccontavano, a tal proposito, che Dio insegnò a Mosè sia il senso superficiale, che deriva dalla compitazione corrente, sia quello che si ricava dividendo diversamente le cifre del testo materiale. La kabbalah, fiume sommerso poco studiato, ma ricchissimo, recuperato nel corso dei secoli da personaggi molto importanti, è un approccio alla Bibbia molto diverso da quello corrente; l'Accademia poco o nulla l'ha compreso (è espresso in stile esoterico) e l'ha emarginato del tutto dagli studi ufficiali. Tuttavia non è corretto dimenticare un fenomeno così importante per estensione locale e temporale. Influenza della Bibbia giudaica sul Cristianesimo E veniamo a considerare l'influenza della Bibbia di Jamnia sul cristianesimo. Come anticipavo, essa cominciò ad assumere significato per i cristiani a far tempo da San Gerolamo, che volle prenderla come uno dei punti di riferimento della sua revisione della Vetus Latina cioè l'antica versione latina che rifluì nella cd. Vulgata. Ma quella che voleva essere una operazione filologica, da Lutero in poi ha assunto, a mio giudizio, la caratteristica di un vero e proprio errore teologico. Lutero volle tradurre la sua Bibbia dal testo giudaico e non dalla LXX. Verosimilmente la Bibbia di Jamnia gli apparve come un monolito letterario, qualcosa di certo e di concluso esistente da sempre. La sua aria misteriosa si aureolò dell'antichità propria dei testi da cui era stata tratta e, forte di questa carpita primogenitura, essa, che era una traduzione nata dopo e contro Gesù Cristo, cominciò ad accreditarsi come il Testo Originale (9). (9) Ricordo, sul piano filologico, che i più antichi codici in ebraico a nostra disposizione sono databili intorno al 1000 a.C.. A Qumran sono stati ritrovati manoscritti dal terzo al primo secolo avanti Cristo. Confrontando questi testi manoscritti con quelli di epoche successive e con l'attuale Bibbia di Jamnia se ne è verificata l'identità sotto il profilo 'materiale' (sequenza di cifre grafiche). Le ultime scoperte archeologiche hanno mostrato quindi quanto già era presumibile, cioè che difficilmente (salvo per aspetti marginali) si verifica una radicale corruzione dei testi sacri. Qualsiasi testo biblico (in ebraico o in greco o in latino) si è mantenuto, quanto alla sua materialità, inalterato nel tempo per l'opera continua e puntigliosa del gruppo che latamente possiamo chiamare 'sacerdotale'. E questo fatto ha non poca importanza in tema di antichità ed originalità di un singolo libro della Bibbia. Da questa coincidenza fra documenti anteriori a Cristo e bibbia ebraica si è dedotto che quest'ultima va considerata come affidabile quanto al contenuto. Se però l'ebraico è da considerarsi un metalinguaggio, la superficiale coincidenza dei testi non è in grado di garantire la coincidenza del messaggio sotterraneo. Questo problema si aggrava quando si considera che ebraico ed aramaico non prevedevano la scritturazione delle vocali, mentre il greco ha la sua vocalizzazione. Il significato della Bibbia ebraica è affidato quindi indirettamente alla Settanta ed alla tradizione orale gestita dai masoreti. Oggi, nella Chiesa cattolica, la situazione si è praticamente assimilata a quella luterana, sotto la spinta dello snobismo letterario degli studiosi. Ciò che mi risulta incomprensibile, sul piano religioso, è questo dare credito a una traduzione contraria alla fede Cristiana (10). (10) Forse non guasta riferirsi a Gesù anche in questa specifica riflessione. Nei vangeli non è mai detto che Gesù prese nelle mani una bibbia scritta in ebraico. Sulla sua croce, poi, la scritta fu fatta in tre lingue e non solo in ebraico: e questa scritta non era solamente un libello giuridico, ma un'attestazione teologica. In croce, su questa specialissima tavola di legno, c'era la Parola pienamente rivelata. E la rivelazione di chi fosse questa Parola era contenuta in tre lingue, in tre testi diversi: quello ebreo, quello greco ed infine quello latino, il linguaggio della Chiesa. Qualcheduno potrebbe ricordare a questo punto che anche nei vangeli c'è un uso di termini ebraici, sicché la primazialità di questa lingua è in qualche modo affermato. Ma le c.d. parole ebraiche contenute nel vangelo sono in realtà espressioni greche con un senso molto ricco. Lo stesso San Gerolamo aveva avuto chiara coscienza del problema ed aveva avvertito la diversità dei sensi deducibili rispettivamente dalla LXX e dalla Bibbia Giudaica. Egli ne fa cenno in una sua lettera e, forse proprio per questo motivo, si decise a tradurre in latino il libro dei salmi da entrambe le Bibbie. Ad onta di tutto ciò, nelle edizioni tipiche della Chiesa la Bibbia giudaica, è preferita a quella autenticata dagli Evangelisti, dai Padri e da una secolare prassi liturgica della Chiesa. Eppure chi si lascia tentare dalla sirena della storia e della filologia dovrebbe ricordare che se la Rivelazione di Dio (VT) si conclude nel Vangelo, essa non può essere dedotta da una versione del VT che aveva tutto l'interesse a negare il Vangelo. Negare dunque la Bibbia di Jamnia? Non dico assolutamente questo. Ineluttabilmente iscritta nel piano di Dio, la Bibbia Giudaica ha una sua funzione nel grande fiume della Rivelazione. Essa, io credo, serve a mostrare la parte opaca della Rivelazione divina, quella cioè che si evidenzia quando l'uomo indurendo fa sua cervice non sa più cogliere l'amore di Dio. Chi legge in questa ottica scopre nel testo giudaico il peccato, la negatività ed il fallimento dell'uomo (11). (11) Il significato della redazione 'ebraica' della Bibbia consiste nell'evidenziare il lato negativo dell'esperienza di Dio, la lettura che l'uomo fa di Dio partendo dalla sua realtà umana; una lettura dunque dominata dalla paura della Divinità (quella Paura che nella sua introduzione alla traduzione dei Salmi Ceronetti crede di poter riferire all'ambiente babilonese). La bibbia giudaica è impastata di paura, quella paura che fa iniziare le rivelazioni angeliche con le parole 'non temere', che sono ben 365, cioè una per ogni giorno dell'anno. La funzione del giudaismo (considerato in una ottica cristiana) sarebbe stata quella di scrivere le lettere nere della Scrittura, grondanti di sangue e di violenza. Si può interpretare in questo senso un'affermazione più volte riportata nel Talmud secondo cui: "La Torah fu scritta originariamente con fuoco nero su fuoco bianco". Da questa frase, Sholem deduce una duplicità di livelli, quanto al significato; io ne deduco anche un 'colore' di questo significato, come colore di dolore e di morte. La funzione della redazione greca è stata al contrario quella di evidenziare la categoria VITA nella Scrittura, nel senso di mostrare l'Amore di Dio e il Suo favore verso la Vita. Forse alla base di tanta reazione al V.T., sfociata finanche nell'eresia del marcionismo, vi doveva essere questo rifiuto a leggere un Dio falsificato dal testo ebraico. Sicché non veniva rifiutata la Rivelazione contenuta nel V.T., ma la lettura pessimistica che di esso si dava e che rifluiva naturalmente anche nel nuovo in quanto considerato connesso con il primo. Proprio a queste letture io credo faccia riferimento l'Apologia di Giustino e la polemica che ad essa si sottende. E proprio tutto questo rifluisce purtroppo in molte traduzioni correnti in italiano. Leggendola quindi in parallelo con la Settanta si fa chiaro che all'uomo è offerta la disponibilità del Buono e dell' Oneroso (Kalou kai Ponerou) e, nella sua libertà, egli può scegliere fra il dolore e la gioia del Sorridente Volto della Gloria del Padre. Naturalmente una lettura ottimistica della LXX, come ho ampiamente verificato, è possibile solo se ci si impossessa di quel 'linguaggio jeratico' con cui essa fu scritta (12). (12) Leggendo la Bibbia in un'ottica pessimistica e dolorosa, da colloquio tra Dio e l'uomo, essa si trasforma in legge materiale (cfr. Lettera ai Galati). Allora nel Pentateuco si leggerà un grande elenco di precetti e regole che infatti la Chiesa non ha mai pensato di imporre. Inoltre, di fronte alla centralità di Dio, si giunge a formulare, leggendo il testo genesiaco, un pericoloso antropocentrismo che naturalmente si evolve in integralismo religioso e in razzismo. Se la Rivelazione è stata comunicata a un certo popolo, se la Rivelazione scritta è la storia di una razza, esiste un 'popolo eletto' che si porrà in posizione di supremazia rispetto agli altri. Questo atteggiamento che Paolo contestava (GaI 3,28; Col 3,11) è ben presente in alcuni settori della Chiesa. L'archeologia ha portato alla luce che buona parte di quanto la Bibbia contiene è stato raccolto dalla Rivelazione di Dio alle genti (Giuda nel Vangelo secondo Giovanni è detto ladro). Alle spalle della Bibbia e della Chiesa esiste un cammino unitario e rettilineo di Rivelazione prima orale e poi scritta, che partiva dai popoli ed ai popoli intende giungere. Perciò la qualità essenziale della rivelazione biblica è la cattolicità. Un'ultima notazione riguarda il rapporto fra la Bibbia di Jamnia ed il Vangelo. Io credo che molti passi del NT risulterebbero molto più chiari se confrontati con la LXX, specie quando quest'ultima viene intesa teologicamente; e se liberati da una certa ipoteca giudaica (13). (13) Facciamo un esempio. Quando Gesù istituisce l'Eucarestia, una teologia collega direttamente questa istituzione col rito della Pasqua ebraica. In altre parole, l'ipoteca giudaica ha spinto gli esegeti a fare dell'eucarestia una 'trasformazione' della cena pasquale ebraica. E ciò ad onta del fatto che nella cena ebraica non c'era il pane lievitato e tanto meno il calice e il vino. Ora è certo che l'eucarestia è sostanzialmente la Pasqua, nel senso che Gesù è il Vero Agnello del vero Esodo. Ma questo aspetto sostanziale non implica che il rito dell'eucarestia, con i suoi segni, sia una deformazione della pasqua ebraica. Questo lo diciamo solo perché abbiamo assunto come assioma che Gesù doveva lasciare un segno giudaico. In realtà il Pane era il segno di Adamo; il vino era il segno di Noè e il calice era quello del Faraone immagine di Dio. Dunque un rito tutto biblico, eppure tutto gentile. Infatti Adamo e Noè non sono ebrei. Tanto meno era ebreo Gesù, annunciato, sempre nella Bibbia, dalla figura di Giuseppe, del panettiere e del coppiere del Faraone. In altri termini, io propongo una lettura 'gentile' dell'eucarestia, che è per altro strettamente biblica. D'altra parte questa 'ipoteca giudaica' è solo una più o meno recente moda degli studiosi: in realtà la Chiesa possiede lo Spirito per interpretare la Scrittura e questo Spirito è un dono fatto direttamente e gratuitamente alle Genti e non già una apertura di credito sulla banca della sapienza giudaica. In conclusione, noi saremo sempre una setta eretica del giudaismo e per di più con quel connesso complesso d'inferiorità che puntualmente riaffiora, fino a quando non coglieremo appieno quel dato che tutta la Scrittura annuncia: Esaù è il primogenito e, per quanto Giacobbe gli sottragga la primogenitura, ha sempre diritto a una benedizione (Gn 25- 33). La scena lucana di Maria che ascolta i pastori annuncia il mistero di una Chiesa che prende dai gentili la sua Rivelazione (Lc 2,8-19). <VII> Versioni della bibbia in altre lingue . La prima Bibbia latina Per completare in qualche modo il nostro argomento, tratteremo ora delle traduzioni cd. in volgare, cioè in lingue che gli antichi consideravano 'non sacre' e noi moderni qualifichiamo 'parlate nazionali'. Infatti non pochi problemi nascono vuoi dal fatto stesso del tradurre, vuoi dalla qualità di questa operazione. Sin dall'antichità, la Bibbia (VT) è stata volta in lingue diverse il che mostra la estensione etnica della religione mosaica; inoltre fu anche trasformata nella sua forma letteraria, inglobandola in commenti più accessibili agli uditori (1). (1) Intorno alla Bibbia fiorì in ambiente semita una letteratura parallela costituita dal Targumim. Essi sono la traduzione-commento dei testi ebraici in Aramaico (l’inglese del medio oriente). Sembrano iniziare in epoca precristiana e proseguono più intensamente dopo. In particolare, dal II secolo dopo Cristo si comincia a tradurre la Bibbia in lingua latina e questa versione fu poi convenzionalmente indicata come 'Vecchia Latina' (Vetus Latina) per distinguerla dalla 'Nuova', che tradizionalmente viene riferita a San Girolamo ed è correntemente chiamata Vulgata (2). (2) Quanto alla ‘Vetus’, si ipotizza, in base ad argomenti stilistici, che ve ne fossero almeno due più importanti, ma difficilmente esse erano totali. Si parla di una ‘Vetus africana’ e di una ‘Vetus europea’ che Agostino chiamerebbe ‘Italia’. L'importanza della 'Vetus' è deducibile dal fatto che proprio da essa, Gerolamo ricavò, per la sua rielaborazione, i testi dei cd. Deuterocanonici (cioè Sapienza, Ecclesiastico, Baruc e I e II Maccabei); il Salterio e il NT si limitò a revisionarli. La Vetus mantenne la sua autorità anche dopo l'edizione della Vulgata e solo molti secoli dopo cadde in totale disuso ed oggi è praticamente perduta. Anche se non è possibile verificare sul testo completo (dal momento che esso non si è salvato), dai brani in nostro possesso è ragionevole affermare che la Vetus fu tradotta dalla LXX. Aggiungo che, ancora nel 400, Gerolamo e Agostino si lamentavano del gran numero di testi latini della Bibbia. La cd. 'Vulgata' E veniamo alla Vulgata; essa è la versione latina, riferita a San Girolamo, che fu eseguita su incarico (382) di Papa Damaso. Come dicevo, la Vulgata raccoglie alcuni testi della Vetus (i deuterocanonici), altri li revisiona (il Salterio e il Nuovo Testamento), mentre recupera gli altri dalla Bibbia giudaica (Jamnia). Quanto al suo nome, il termine 'Vulgata' è registrato a partire dal XIII secolo e, corrispondendo a 'Pescitto' (cioè: 'ordinario'), indicherebbe la Bibbia divulgata, comune, usuale (3). (3) È singolare il fatto che solo tardi questa bibbia ebbe un nome, considerando che ad es. Sant'Agostino parlava di 'Itala' forse per indicare la Vetus latina. D'altra pane mi vado sempre più convincendo che il latino era fondamentalmente una lingua giuridica, di Stato, dotta e per nulla popolare. Non a caso a Napoli, così vicino a Roma si continuava a parlare greco. Non a caso Diocleziano sentì il bisogno di proclamare il latino come lingua ufficiale dell'impero. Non a caso i commenti e le opere istituzionali giuridiche erano scritte in greco. Un problema che ancor oggi può interessarci riguarda i motivi per cui si addivenne alla sostituzione della LXX. Semplicisticamente si potrebbe pensare che la traduzione latina fu fatta per consentire al popolo dell'impero romano, che parlava latino, di accedere alle Sacre Scritture. Io non la penso così. Propendo a credere che non furono esigenze di accessibilità, ma di 'autorità e solennità' a spingere papa Damaso alla versione in latino. Ipotizzo che essa intendeva soddisfare gli interessi di quel centro religioso giudaico-cristiano che si veniva costituendo in Roma. Lo deduco dai seguenti argomenti: a) Il latino non era lingua parlata maternamente nell'Impero. Anche in Italia (vedi l'epigrafia), oltre al greco ed ai dialetti locali, si parlava un latino diverso ('quo vadis' e non 'quo is'); b) se la traduzione serviva a soddisfare esigenze liturgiche e catechetiche, perché queste versioni non furono immediate? E perché mai i Vangeli stessi non furono redatti in latino? Ipotizzerò allora che la traduzione obbedì innanzi tutto a un'esigenza di formalizzazione e di pubblicità legale; ed ancora ad una esigenza di inserire i testi religiosi fra quelli normativi della romanità; inserire cioè la Bibbia (la 'Legge' nella concezione giudaica) fra le leggi dell'Impero, per evocare con la potenza dello scritto la presenza della Chiesa/istituzione, cioè di un braccio secolare. La mia ipotesi potrebbe concorrere a spiegare: a) perché la versione latina espropriò definitivamente il testo greco, anche in presenza di vaste aree linguistiche greche che avevano tutto l'interesse a leggere la Bibbia nella propria lingua; chiarisce infatti che ciò avvenne solo per una ragione 'religiosa': il testo latino era il testo di Roma; b) perché, con spirito di gelosia, si volle sottrarre la Bibbia alla lingua parlata (greco), mettendola nelle mani dei letterati che conoscevano il latino delle scuole e delle magistrature; c) perché fu proprio un Papa il promotore della grande sistemazione di Gerolamo. Se queste considerazioni già potrebbero servire ad illuminare una certa mentalità della Chiesa, ancora più importanti sono gli effetti che scaturirono dai risvolti linguistici della operazione, e cioè dall'uso di una lingua giuridica e precisa quale era quella latina. La precisione di senso dei termini latini ha infatti prodotto fra i teologi una notevole, quanto insidiosa, sicurezza nella lettura dei testi sacri recepiti in questo idioma. Essa ha poi giocato un ruolo non indifferente nella lenta ma progressiva emarginazione dell'interpretazione patristica che si muoveva partendo dall'infinita ricchezza semantica delle parole greche (4). (4) Debbo dire che una piccola verifica del testo della Vulgata mi fa sospettare che essa non costituisca una pura e semplice traduzione, bensì una vera e propria edizione della Parola di Dio. Gregorio e Bernardo, per fare un esempio, hanno lavorato non poco per spiegare il verso 5 del salmo 4 della Vulgata laddove si invita all'ira: 'Irascimini et nolite peccare'. Essi inventano così un'ira intenzionale che non è ira (Gregorio, Moralia V, XLV 82 ss. in Patr. Lat LXXV 726 ss.; Bernardo, Sermones, patr. Lat. CLXXXIII, 487). Questo problema non fu ignoto a San Gerolamo: in ossequio alla sacralità del testo, e buon conoscitore della tecnica ovidiana delle 'Metamorfosi', egli costruì un livello esoterico di lettura all'interno dello stesso testo latino. Un altro profilo ancora attuale riguarda il valore religioso della nostra traduzione. Tanta è stata l'autorità della Vulgata, da indurre alcuni teologi ad ipotizzare che fosse proprio essa la Bibbia ispirata. Un fatto questo molto interessante per chi cerca il senso teologico del processo di formazione del Libro. La possibilità di ipotizzare che la Bibbia latina sia il testo ispirato consente infatti di affermare che la 'Rivelazione' non va considerata come un fatto puntuale che si è esaurito nel momento semita o se si vuole palestinese del nascere della Chiesa. Si potrebbe cioè ritenere che in quel momento si sarebbero solo formati dei materiali letterari affidati ad una rielaborazione successiva, in luoghi e con lingue diverse, assistita dallo Spirito. L'Ispirazione e quindi la Rivelazione verrebbero ad assumere la caratteristica di fatto fluente nella Chiesa; parallelamente, l'Ispirazione del testo risulterebbe indipendente dalla sua primazialità filologica e quindi dalla sua anzianità storica. Non è casuale il trilinguismo segnalato nella scritta che sovrasta la croce di Gesù, di Colui che è la personificazione stessa della Parola rivelativa di Dio. La Bibbia nelle lingue nazionali E veniamo alle versioni nelle lingue nazionali. Il testo base usato per dette traduzioni è stato per molto tempo quello latino della Vulgata. Solo da quando si è affermata la scuola storico-filologica, al complesso unitario della LXX o della Vulgata si sono preferiti, come dicevo, i 'singoli libri' recuperabili nelle lingue semite aureolate di antichità ed 'originalità '. Si è scelta così, come punto di riferimento la traduzione di Jamnia che, come dicevo, fu attuata all'interno di una religione contraria al cristianesimo (v. Sant'Agostino, 'Dottrina cristiana' 162-163). Oggi vanno di moda traduzioni che, sulla falsa presunzione di possedere li senso esclusivo del testo (fattuale e teologico), privilegiano gli aspetti letterari e di facilità di lettura (cd. Bibbie in linguaggio corrente). A mio giudizio si tratta però di versioni estremamente riduttive e pericolose ai fini della comprensione della Rivelazione. Esse, nella perfetta buona fede dei traduttori, finiscono col contrabbandare una teologia Cfoss'anchecomune) come la Rivelazione, e chiudono definitivamente al lettore, ogni possibilità di meditare il testo antico della Scrittura autenticato dalla prassi ecclesiale. Per dirla in metafora, se il termine latino funzionò da museruola della parola greca, le traduzioni di cui stiamo parlando funzionano come cerotti sulle labbra, e come emollienti che smidollano le strutture della Scrittura, pregiudicandone la potenzialità espressiva. Icone, strutture letterarie, rimandi ed allusioni, insieme a ogni gioco fonetico, sono infatti appiattiti e distrutti per far spazio ad evoluzioni letterarie o stile giornalistico (5). (5) Per fare un esempio, come si può meditare appieno la parabola dei talenti che sono 'pesi' o 'afflizioni' (oltre che monete) quando a talenti viene sostituita l'espressione 'monete di oro'? Se l'evangelista non ha voluto chiarire di che metallo erano questi talenti o se i talenti erano monete o lingotti-pesi, in base a quale autorità il testo viene fissato in un senso solo? Ed ancora, che senso pratico ha il dichiarare solennemente dal pulpito Parola di Dio la frase 'Il gomor è la decima parte di un'efa' (Es. 16,36), se poi questa espressione si rivela insuscettibile di qualsiasi meditazione? Tutto sarebbe stato diverso se si fosse tradotto dalla LXX. Essa dice: 'To de gomor to de katon ton trion metron en'; espressione che, compitata adeguatamente, annuncia che al testo è stato apposto un consolante tabellione di Dio, una firma autoritativa che rivela l'essenza stessa della Divinità: ' La Coppa, quella ardente, il Perfetto Vivente, il Triplice Essente, il Giudice parlò'. Una infelice formula: "Dai testi originali Dedichiamo ora qualche considerazione alI 'uso invalso di premettere alle versioni in lingua nazionale l'espressione 'Tradotta dai testi originali'. Un primo rilievo attiene al testo preso a base della traduzione: se cioè i singoli libri anteriori alla unificazione (LXX o Jamnia), oppure una delle due bibbie, quella giudaica e quella greca. A me pare che qualsiasi traduzione deve avere a base l'insieme unitario dei libri, perché solo quest'ultimo può qualificarsi in senso religioso, un ‘originale’. Di contro oggi va di moda tradurre singole membra della Scrittura anteriori al loro assemblaggio, negando così implicitamente che La Bibbia sia un corpo unitario, un corpo vivo; oppure far capo al Corpus assemblato ad Jamnia (Bibbia giudaica), dimenticando che alla LXX (e non ad esso) aderiscono, come la testa al corpo, i Vangeli e gli altri libri del NT. In pratica invece di costruire una immagine somigliante di un vivo , si preferiscono fotografare un morto, o le sue le membra divise. Un secondo rilievo attiene alla precisa identificazione di che cosa sia un 'originale', se cioè va preferita la primazialità storica o quella teologica. Come già dicevo, molte edizioni moderne della Bibbia, con la dicitura 'tradotta dai testi originali', sembrano rimandare a un qualcosa di primitivo, autentico, sicuro. In realtà questa espressione, strictu sensu, vuole solo dire che la traduzione è stata approntata, per un certo numero di libri, sulla Bibbia di Jamnia e, per la parte non presente in essa (!), sul testo greco della LXX. La formula dunque, mentre si prospetta come un innocente attestato di garanzia (un D.O.C. per dirla in termini enologici), implica invece molte affermazioni sottintese su cui è bene soffermarsi perché non accada di bere del pessimo vino in grazia di una bella etichetta. Vediamo dunque che cosa si nasconde dietro i termini 'Originale' e 'Traduzione'. Il termine Originale trae in errore in quanto fa ritenere: a) che ogni libro abbia avuto un autore singolo che, licenziandola, costruì un 'originale'; b) che vi fu un tempo 'determinato' di scritturazione del singolo libro che possediamo; c) che il testo abbia goduto di una ufficialità religiosa 'formalmente dichiarata '; d) che la precedenza temporale va considerata come elemento decisivo per stabilire quale sia l'originale. A sua volta il termine Traduzione attesta implicitamente: e) che vi è un collegamento fondante tra lingua ebraica e Scrittura, per cui tale idioma andrebbe considerato 'la lingua' naturale del Libro. Un testo scritto in altre lingue sarebbe, per ciò stesso una fiera versione; f) che l'ebraico della Bibbia va identificato con la parlata di un gruppo etnico esistente in un certo momento storico in Palestina. Al contrario a me pare che: a) l'Ispirazione non può essere considerata un evento 'puntuale' ed 'individuale' connesso a una certa lingua ed a un, certo autore; b) gli storici e i filologi prospettano una formazione progressiva, ad opera di un gruppo o scuola religiosa, e si mostrano incerti sulla provenienza dei singoli libri c) la formula 'traduzione dai testi originali' non è accettabile perché rivendica non i alla Chiesa, ma al privato traduttore, il diritto di qualificare 'originale' ; (per la sua antichità e tipo di lingua) la Bibbia di Jamnia o altro testo semita (6); d) è scorretto, seppure si voglia in qualche modo prendere in considerazione la precedenza temporale, farla operare nell'area delle lingue ebraica ed aramaica, che senza alcuna motivazione vengono scelte, come lingue madri originarie (la Bibbia di Jamnia sarebbe un 'originale' proprio in quanto scritta in ebraico!); e) che l'ebraico sia stato una lingua viva e non un meta linguaggio (7). (6) Questa 'originarietà' filologica è alquanto insignificante per chi si accosta al Libro senza scopi letterari, ma cercando le Parole di Dio; a questo lettore interessa piuttosto il testo teologicamente 'originale', cioè conforme alla fede della Chiesa e da essa attestato, quello cioè che la Chiesa ha autenticato come ispirato da Dio. Se considerassimo ispirato un testo solo perché è il più antico (ammesso che ne avessimo la prova certa), avremmo aperto una caccia nel passato e saremmo costretti ad ogni scoperta storico-filologica a modificare il testo e quindi la Parola di Dio: un safari che può far piacere allo studioso, ma è inammissibile per il credente. Conviene ricordare che fu il 'protestante' Lutero, quando volle stendere un testo tedesco, ad abbandonare la LXX e la Vulgata ed a prendere a fondamento la Bibbia giudaica, cioè un testo 'tradotto' ed appartenente a una religione contraria al cristianesimo. (7) Fino a cinquant'anni fa, l'ebraico biblico (che è l'unico esistente) è stato una lingua morta e non un idioma parlato; oggi, per forza giuridica (come l'italiano nella nostra penisola), è diventato tale nello Stato di Israele. In conclusione, chiarirò il mio pensiero con due esempi: a) se un amico mi scrive una lettera, servendosi di passi tratti da un 'epistolario' pubblicato da altri, dal punto di vista filologico il testo base è quello contenuto nell'epistolario, e tuttavia la lettera autentica con tutto il suo portato di affetto, di relazione umana, di implicazioni pratiche, è senza dubbio la seconda, rielaborata da chi l'ha firmata. Così deve pensarsi rispettivamente dei 'libri biblici', e della Bibbia che la Chiesa unitariamente mi consegna come lettera di Dio. b) Una singola lettera che viene da una persona cara ed importante è certamente cosa da conservare con affetto e rispetto, ma un fascio di lettere (nell'Ottocento le si legava con un nastro), un intero e concluso epistolario, vale infinitamente di più della singola missiva. Chi vuole proiettarsi sull'unico Libro che la Chiesa delle origini ha autenticato come ispirato e che i fedeli mosaici hanno usato per secoli, deve per forza riferirsi al testo greco, cioè alla Bibbia dei LXX. Comunque, poiché spesso testo ebraico e testo greco coincidono a livello di scritturazione, chi vuole meditare la Bibbia scelga quella traduzione italiana che più delle altre rende l'articolazione del periodo originale e possibilmente traduce parola per parola (8). (8) Siamo ancora in attesa di una traduzione religiosa dal greco che rispetti i singoli fonemi e non renda, con un solo nome, quasi fossero sinonimi, tutta una serie di termini teologicamente autonomi e ricchi di comunicati rivelativi. Il sinonimo è inesistente nel linguaggio biblico: ogni nome ha, nel Libro, la sua peculiare struttura teologica (cfr. Quaderno n. 1). Un'ultima considerazione in ordine alle 'Fonti pagane' ed alla loro relazione con la Bibbia. È convincimento generale che per buona parte la Bibbia vada considerata un'antologia revisionata di testi sacri più antichi. Purtroppo questo fatto non viene accettato in tutta la sua ampiezza, e se si tollerano gli 'antenati' babilonesi, si rifiutano quelli egiziani o greci. A me pare che bisognerebbe invece operare a 360 gradi e considerare con profondo rispetto i testi 'pagani' rielaborati nella Scrittura, che ordinariamente sono valutati come puro materiale iconografico e letterario, materia grezza utilizzata da un agiografo pigro e senza fantasia. Essi invece contengono una (seppur opaca) rivelazione divina. Proprio alla luce della formulazione biblica, certa e definitiva, tutto quanto ancora è in essi recuperabile, per una più piena acquisizione della Rivelazione divina, potrà diventare palese. Su questa impostazione si gioca il rapporto con le altre religioni. <VIII> Leggere nella fede Unità dell'atto di fede Uno dei limiti della predicazione cristiana consiste nel separare i temi della fede. Ad esempio, i catechismi che oggi sembrano tanto necessari, insieme a indubbi vantaggi, perpetuano un qualcosa di molto negativo: la rottura del dialogo in parole e frasi spezzettate. Essi sono costruiti come un cassettone che nel suo complesso suggerisce l'idea di unità, ma nel quale i vari momenti che costituiscono la coscienza di fede sono inseriti a mo' di singoli tiretti. L 'uomo che va in cerca della propria unità finisce col vagare da un cassetto all'altro, e scopre di possedere una fede affettata come un salame. Creazione, eucarestia, amore del prossimo, verginità di Maria, primato di Pietro e così via, difficilmente riescono a trovare una sintesi, sicché chi sente l'esigenza di rapportarsi unitaria mente a Dio, resta deluso e abbandona ogni ricerca di chiarezza intellettuale (ecco il rifiuto dei libri di teologia). Gli resta allora comodo fare un passo indietro e situarsi nella dimensione minuscola, ma più unitaria, della sua prima ed infantile scienza religiosa, condendola, perché sia più vivace, con lo slancio emozionale del momento. Per dirla in metafora, molti, troppi cristiani, indossano ancora, sdrucito, stretto e consunto, l'abito della prima comunione. La Bibbia è uno dei tiretti del cassettone della fede, quasi mai aperto e, se aperto subito richiuso. Funge un po' da pagine gialle della religione, per qualche rapida consultazione o per sentirsi sicuri che sta lì, eventualmente serva. Quanto a me, credo che se non si batte la via della fede compresa e vissuta in senso unitario e personale, il grande sforzo di evangelizzazione (compiuto da tante anime buone) si svilisce ad acquisto di clientela. Gesù non voleva adepti (oggi li chiameremo consumatori o fans), ma cuori liberi messi in condizione di dire il proprio personale si alla proposta di Dio. Bisogna perciò fare in modo che la Bibbia, da volume a se stante, si tramuti in un momento vivo del dialogo con Dio (1); diventi collante dell'atto di fede, e non rottura del processo vitale che dalla primitiva intuizione di Dio conduce alla pienezza del dialogo con Lui. (1) Perciò continuamente suggerisco di abbandonare letture ricognitive di tipo storico e recuperare la Bibbia come attuale relazione con il Creatore. Perché ciò accada, è necessario innanzitutto collocarla nel suo giusto contesto, sottraendola alla storia, perché dall'alto possa operare su di essa. In questa ottica la Bibbia va intesa come l'evento intermedio di un processo che ha come origine e destinataria l'intera umanità, ed in essa il singolo uomo; e momento di un. processo cosmico che consiste nel ritorno a Dio della Vita uscita dalle sua mani. Questo processo che costituisce la Creazione in senso ampio, è, al tempo stesso, Rivelazione all'uomo della Divinità perché egli ne possa godere. In pratica Creazione e Rivelazione sostanzialmente coincidono. L'uomo, come punto massimo di individuazione della Vita creata, via via che prende coscienza, attraverso la Rivelazione, della propria vocazione alla divinità, le fornisce il suo 'io' e ne diventa così il soggetto attivo. Dio ha creato l'uomo perché egli fosse divino e non solo esistenziale; Dio lo ha voluto perché, facendo suo 1'Io di Cristo, fosse la voce di tutte le creature, cioè la voce della Vita. La Bibbia è la pienezza di questa voce divina. Quando si dice che recitando i salmi (vedi Q. 5) si dialoga con Dio mediante lo Spirito di Dio, cioè Dio stesso, si afferma quanto vado suggerendo. La meditazione della Scrittura diventa allora un ascoltare e un aderire e quindi un crescere. Al culmine l'uomo è chiamato a riferire a sé le prime parole della Genesi facendosi egli stesso creatore. E ciò si verifica quando l'Io di Cristo lo inabita totalmente e gli fa dire: 'lo sono la Vita'. Ne facciamo quotidiana esperienza nella celebrazione dei sacramenti. Bibbia come evento cosmico Per meglio intenderci, chiarirò che questo procedere, che ha come meta l'infinito e costituisce l'orizzonte esaltante del vivere umano, passa attraverso alcune fasi di coscientizzazione. Dopo aver superato, anche mediante la sapienza umana, lo stadio della mera coscienza di sé come essere animale e soggetto sociale, l'uomo scopre di avere un interlocutore divino e comincia a rapportarsi a Lui mediante l'ascolto. In questo tempo, che abbiamo sinteticamente detto 'della Voce', l'umanità acquista la chiarezza di una prima verità: che Dio è uno, ed uno solo; è il principio fondante del tutto (Teodicea). Spesso l'evoluzione dell'uomo si ferma a questo stadio; ma alcuni avanzano più oltre e nascono così i testi sacri, le religioni ed infine la religione fondata da Mosè. Essa si differenzia dalle altre perché non tende ad agglutinare e rendere conformi gli svariati atteggiamenti religiosi degli uomini, ma vuole rendere certa e chiara la presenza del grande Interlocutore, mostrarne l'unità e coglierne il dinamismo interiore; vuole altresì raccogliere tutta la tensione vitale esistente negli uomini del mondo, cioè in coloro che sono nati proprio per dare una coscienza alla Vita (2). (2) Abbiamo detto 'religione mosaica', ma più esattamente dovremmo dire Fede mosaica, cioè fatto vitale consistente nell'abbandono fiduciario al Dio che parla. È questo un fenomeno universale, perché ogni uomo cerca la chiarezza della verità. Ed è proprio a questo punto che, leggendo teologicamente, si evidenzia il grande processo di formazione del Libro sacro per eccellenza, del libro scritto nel diese, cioè nel linguaggio divino, del Libro della piena coscienza della Vita. In questa fase, che prevede uno scatto di livello della coscienza dell'uomo, Dio chiede l'aiuto di chi è più avanzato, di chi possiede una maggior chiarezza intellettuale e coscienziale; li convoca (elezione di Abramo) e li costituisce suoi servi per il mondo. In altre parole, continuamente Dio affida ad uomini; anche ufficialmente fuori della religione mosaica, questo servizio a favore di tutti. Esso abbraccia ogni forma di approccio a Dio (sperimentazione del vivere comunitario, scienze e teologia). Nell'area specificamente teologica, questo servizio qualifica un Gruppo di Servi (ministri), di chiamati (Eletti) a fungere da capi-cordata nel ritorno a Dio. Tale Gruppo, diffuso nel tempo e nello spazio, non ha alcuna connotazione razziale e finanche religiosa; di fronte a Dio non esiste una razza privilegiata, un'etnia eletta, ma solo coloro che vogliono servire la Vita. All'interno di questo grande processo dialogale si costituisce così un punto di chiarezza rappresentato proprio dalla Bibbia intesa sia come scritturazione autoritativa della verità, sia come sua lettura spirituale. Questo secondo profilo, quasi sempre messo in ombra, è proprio l'attimo decisivo che sopravanza quello tanto celebrato della scritturazione. Non sono importanti gli agiografi, ma i lettori, cioè i dialoganti. L'esaltazione degli scrittori della Bibbia è utile solo a soddisfare l'umano desiderio di grandezza. Nel confrontarsi con la Bibbia, l'uomo raggiunge infatti la soglia dell'Io di Cristo ed è messo in condizione di accettarlo o rifiutarlo. In questo senso il VT è annunciato nei Vangeli come quel Giovanni Battista che indica il Cristo ai suoi discepoli e li mette in condizione di seguirlo, se essi vogliono. Nella stessa ottica, il cd. peccato originale si concretizza nella falsa acquisizione della Parola di Dio e nel conseguente rifiuto del terzo livello della coscienza centrato sul 'Io' di Cristo. Lo testimonia proprio Gesù quando combatte senza quartiere i farisei; li qualifica infatti falsi interpreti della Scrittura, da essi degradata a regola e svilita a significati umani (3). (3) Il termine 'Upocrites' indica primariamente l'attore che porta una maschera ed interpreta un testo drammatico; solo secondariamente esprime l'ipocrisia come atteggiamento umano. Si rifletta alla insignificanza di una lotta contro l'ipocrisia di uomini di duemila anni fa, a fronte sia dei peccati ben più gravi che sono stati commessi e si commettono, sia della uccisione di Gesù. Devianza e lettura nella fede Questo momento dello scandalo e della devianza si verifica quando l'uomo misconosce il dono della divinità e si arrocca nella sua umanità; quando fa leva sulla sua coscienza di corpuscolo e dimentica di essere un'onda nella grande ed universale vibrazione della Vita. Detta devianza si può cogliere, oltre che nella falsa lettura, nel sostituirsi della religione alla Fede. Il libro dell'Esodo denuncia tutto ciò attraverso la sagoma letteraria costituita dall'agire mondano del gruppo che si forma intorno a Mosè (4). (4) Voglio precisare allora che per fede intendo il rapporto fiducioso, il dialogo che lega la creatura al Creatore. Se c'è questo legame, l'atto del vivere risulta inscindibilmente collegato al Dio. Una icona biblica di tale relazione è costituita da quel bambino svezzato in braccio a sua madre del salmo 130; essa descrive sinteticamente un'autonomia e una libertà che restano interamente comprese in un Amore fontale totalmente avvolgente. Intendo la Religione, nella sua accezione positiva, come l'insieme degli atti di fede del singolo e/o di una comunità. La loro omogeneità espressiva è la causa dell'insieme (Religio). Nella sua accezione umana, la religione comprende l'accettazione comunitaria di un complesso di teologie che esprimono quella fede, e/o un insieme ordinato di regole comportamentali e cultuali; questa religione sfocia ordinariamente in una struttura più o meno istituzionale. Lo voglia o meno, il lettore, nell'accostarsi alla Bibbia, deve prendere posizione tra questi due momenti. Se legge il grande evento della Rivelazione come un processo di fede, troverà nella Bibbia l'ottimistica descrizione di una vasta gamma di possibili rapporti 'fiduciari'; se invece legge con gli occhi umani della religione e della supremazia, scoprirà che la stessa Bibbia gli suggerisce mille modi per inquinare il rapporto Dio. In essi rispecchierà la sua risposta di falso credente e vedrà riflessa la mondanità dei gruppi che sono solamente 'religiosi'. Accostando la Bibbia con l'occhio della fede (l'altro va escisso, come dice Gesù) il lettore non si lascia captare dalla storia di una etnia e neanche dalle vicende di un gruppo religioso, ma coglie lo sviluppo della sua stessa fede. Proprio nello sperimentare la attualità del suo dialogo con il Creatore che si rivela, egli scopre allora la sua qualità più profonda che è costituita dalla chiamata ad essere un ‘Dio’. La Bibbia diventa allora per lui un libro di antropologia esistenziale e divina che veramente giova meditare fino in fondo. Per meglio chiarire cosa debba intendersi per lettura nella fede, sarà bene aggiungere qualche nota di commento. Bibbia e fede universale A> La 'lettura di fede' deriva dalla stessa creaturalità dell'uomo; è il coronamento di una aspettativa che Dio ha inserito in lui. L'occhio della fede possiede un cristallino che mette a fuoco la Comunione; perciò chi crede non ha bisogno degli occhiali costruiti dai mediatori umani. Nella sua prima lettera ai Corinti (2,6-10), Paolo, parlando da gentile a gentili, afferma l'unicità del dialogo e della risposta di fede dell'uomo. Dio ha parlato da sempre (cfr. Ebr.1,1 ss) ed ora in Cristo è venuto il tempo della chiarezza e della perfezione del Dialogo nell'Eucarestia; essa infatti è sintesi di Comunità (l'assemblea), Rivelazione (Parola di Dio e sua incarnazione), risposta dell'uomo (partecipazione al banchetto), Comunione finale. Paolo dice (la traduzione è mia): «La sapienza che noi annunciamo è l'Unità per ogni cosa che giunge al compimento; una sapienza che non va datata ai nostri giorni, né considerata patrimonio delle Guide del tempo presente che hanno esaurito il loro compito. Noi parliamo della sapienza di Dio che è stato velata nel mistero (eucarestia) e che il Dio delle origini inserì nella nostra aspettativa. Nessuna delle Guide del tempo presente ha potuto conoscerla. Se l'avessero compresa, non avrebbero crocifìsso il Signore dell’Attesa. Sta scritto infatti: “Le cose sue l'occhio non vide, e il discepolo non udì; e non crebbero all'alto, nel cuore dell'Eletto (Antropos)". Le sue cose ha preparato Dio attraverso coloro che lo amano». La 'riserva' dei letterati B> Per leggere la Bibbia con occhi di fede, è bene non ascoltare le sirene della storia che predicano false sicurezze e millimetrati segmenti, ma riscoprire l'uomo e l'umanità. Gli studiosi della Bibbia hanno tenuto in poco conto i continui richiami alla fede individuale contenuti nel Libro (ribaditi da Gesù nel celebre passo del cd. Esorcista Straniero). Da storici o da teologi storicistici, hanno poi segnato uno spartiacque per dividere la religione vera, dagli atti di fede degli uomini qualsiasi (5). (5) Cosi vengono considerati marginali episodi biblici come quelli di Balaam, di Naaman o della Donna Cananea o come quelli che attestano la bontà della religiosità di altri popoli; si pensi agli Ateniesi lodati da Paolo. Per questi motivi, molti commentari sono come lenti affumicate che oscurano la visione dell'amore di Dio e distraggono orientando verso improbabili fatti storici o eventi culturali. La storia Sacra è una e riguarda ogni singolo uomo è tutta l'umanità in quanto entrambi sono la Voce della Vita. Credo che non sia giusto svellere la fede cristiana dalla realtà complessiva del mondo, per inserirla in un rivoletto storico costituito da una fantomatica discendenza umana di Abramo. Questa teologia demonizza in blocco la fede dei popoli ed esalta come sentiero privilegiato quel filone (non si capisce se etnico, religioso o geografico) che riguarda la Palestina. Per effetto di questa lettura, il possedere la Bibbia si configura come situazione di privilegio e porta in sé le stimmate del razzismo spirituale. A sua volta, il Cristianesimo viene colto riduttivamente come una religione tra le altre, sicché intrinsecamente evoca divisione e/o colonizzazione spirituale, laddove fu voluto da Gesù essenzialmente come fede universale che nasce da libera adesione. Il valore del 'tempo' C> Per leggere la Bibbia in un'ottica di fede bisogna reagire alla ipervalutazione del fenomeno tempo, che troppe teologie assumono come modello fondante della Rivelazione. Chi ragiona in tal modo considera la storia umana come il contenitore e l'ordinatore della rivelazione divina. A me pare che, nonostante l'Incarnazione, Dio resta sempre al di fuori del tempo, sicché anche al di fuori del mero tempo solare va collocato il dialogo con il singolo uomo. Esso si attua nella durata dell'uomo, e non nella sua storia da calendario. Il Dio della Rivelazione è certamente nel tempo, ma non appartiene al tempo; e la teologia del dialogo deve avere l'umiltà di slacciarsi il cinturino dell'orologio quando vuole meditare su questo evento che (come la resurrezione che ne costituisce l'archetipo) è al tempo stesso umano e divino (6). (6) Quello del tempo è un problema denso di incognite che ha tanto affascinato i teologi da fare loro dimenticare che, se è importante per comprendere l' Incarnazione, rappresenta pur sempre un ostacolo alla comprensione del Dialogo sempre attuale nello Spirito. L'eccessiva importanza riconosciuta al tempo, costituisce quell'anticristo che tenta di trasformare la fede (nella Vita venuta nel mondo) in una religione morta che piange un passato ingoiato da Crono. A tal proposito noterò che la logica dell'agire di Dio risulta incomprensibile quando viene colta nelle coordinate del tempo solare. Viene da chiedersi perché mai Dio ha nascosto per migliaia di anni la Verità prima della costituzione della Chiesa Mosaica e poi di quella Cristiana. Perché mai quella certa epoca (dico quella di Gesù) è stata scelta come momento di tangenza fra Dio e l'uomo? Che senso infine ha il prima ed il dopo Gesù? A mio giudizio, tutto si fa più chiaro quando, invece di badare al tempo solare, si ha riguardo alla situazione dialogica esistente fra l'umanità e Dio, cioè alla durata della vicenda del singolo uomo e dell'intera umanità. Il dialogo è un evento unico compresente che non conosce il prima e il dopo, ma si espande all'interno di se stesso in una vasta ed articolata gamma di eventi spirituali (7); il dialogo è il tempo autentico dello Spirito. (7) In questa ottica i servi dell'unità (cd. Popolo eletto) vanno letti come fenomeno diffuso e sempre presente (indefettibilità) e non già come una conventicola, una istituzione, una razza. Così intesa, la Bibbia non è più un libro del passato, espressione di un popolo di duemila e più anni fa, un rudere archeologico, ma piuttosto il perenne dialogo dell'uomo con Dio colto dal lato dell'uomo. Ugualmente il VT non è né giovane né vecchio, ma semplicemente è. Esso è la Rivelazione certa che insegna lo stile dello scegliere e del raccogliere in unità; non è una silloge di testi diversi per origine e contenuto; il VT è unità e non collezione. Considerare il VT come la Raccolta incompleta delle rivelazioni, implica che quest'ultima fu in pratica, nel suo formarsi, un quid di incompleto, sicché dovremmo arrivare al concilio di Trento (secolo XVI) per annunciarne la completezza (canone). Dio Autore, soggiacendo al tempo solare, avrebbe sempre fornito, per ragioni incomprensibili, una rivelazione parziale alla umanità. E neppure si potrebbe argomentare che questo crescendo obbedisce a un fine pedagogico che dal meno va al più, visto che l'ordine storico o letterario o canonistico dei libri non rispecchia una progressione di rivelazione (8). (8) Se poi si considera il Vangelo come il compimento storico del VT, implicitamente si afferma che quest'ultimo era una forma imperfetta di Dialogo e quIndi di Rivelazione. Viene allora da chiedersi perché mai Dio non parlò chiaramente sin dalle origini; e resta oscura la colpa di coloro che sono nati prima di Cristo o in luoghi (geografici o culturali) che non ne consentono un'utile conoscenza. Come si vede, il discorso sul VT non può scindersi da quello inerente i Vangeli. A me pare che il Vangelo debba considerarsi un tutt'uno col VT e, solo in questo senso, come il tetto rispetto alla struttura della casa, si può qualificarlo 'compimento'. Il Gesù dei Vangeli è la stessa 'Archè' (principio) da cui proviene la creazione che è continua e si identifica con la Rivelazione. Alcuni teologi, per salvare Dio e il tempo e per non tappare la bocca di Dio che continuamente parla all'uomo, hanno distinto tra rivelazione pubblica (quella biblica) e privata (quella extrabiblica e posteriore ad essa). Dio parlerebbe cioè in due modi diversi, in tempi diversi, secondo la persona cui si rivolge. A me pare che le rivelazioni sono state e sempre saranno private, cioè dirette alla singolarità dell'uomo. Queste rivelazioni diventano pubbliche quando sono colte dalla coscienza comunionale della Chiesa inabitata dalla pienezza dello Spirito (9). (9) Di qui il potere della Chiesa di individuare i Libri e giudicare della verità delle rivelazioni. Inoltre la sacralità del testo non ha solo una valenza obiettiva; non dice solo una qualità del libro e del suo contenuto. Io credo che essa significhi qualcosa di dinamico che opera sulle rivelazioni private, nel senso di fornire un criterio per assumere queste ultime nella sintesi coscienziale del credente. Il testo canonico diventa cioè il criterio di verifica, il limite di ogni altra riflessione privata (ma non per questo non ispirata). In quest'ottica il Vangelo può essere acquisito come il referente ultimo, come lo Spirito che insegna a sceverare dove c'è Verità. Esso è il calice che dà forma alla verità sparsa; è il principio vivo di lettura, il maestro di verità che trova incarnazione nella Chiesa magisteriale. Il Vangelo non è la raccolta di tutte le verità in forma di compressione. Se così fosse, il colloquio vivo con Dio sarebbe considerato finito e la presenza dello Spirito avrebbe solo una funzione di morto ricordo. Noi avremmo nel Vangelo il compact disk della rivelazione divina e lo Spirito sarebbe lo strumento per suonarlo. Il Vangelo, come realtà dinamica, equivale alla presenza fisica di una persona che consente di valutare la fedeltà delle 'immagini' che di essa si possiedono e, quando questo esame è stato superato, godere di tutti quei particolari, fissati nell'immagine, che altrimenti sarebbero sfuggiti osservando il soggetto nel suo dinamismo. Un quid in movimento è realtà da cogliere nell'osservazione; ma solo la foto di esso consente di studiarne le articolazioni e i particolari. Se il Vangelo fosse solo un coperchio letterario del VT, la sua cd. attualità svanirebbe e con essa il Dialogo che Dio ha garantito sempre presente e personalizzato (è purtroppo quanto accade a chi sa muoversi solo sul piano del tempo solare). Il 'multifariam multisque modis' della lettera agli Ebrei non è una formula che sintetizza il tempo prima di Gesù, ma esprime lo statuto stesso della Rivelazione che nella sua universalità egalitaria ha come suo centro, come suo Principio, la persona umana del Dio incarnato. Certo Gesù è inserito nelle sue coordinate storiche (tempo solare); ma, considerarlo come l'unico evento puntuale della conoscibilità piena del misterioso incarnarsi di Dio, costituirebbe un inammissibile limite all'azione vivificante del suo stesso spirito. Credo che a questo alludesse Paolo quando circoscriveva il significato del 'Gesù della carne'. Le opere di Tommaso e di Agostino, l'Imitazione di Cristo, insieme alla Bhagavad Gita o al Corano, possono in qualche modo considerarsi luoghi della rivelazione di Dio e non solo opere di commento o parallele. Ovviamente l'inserimento nel vasto fiume della Rivelazione non significa autenticarne i contenuti e le forme. Perciò la Chiesa ha parlato di inenarranza. Al Sensus Fidei del Popolo di Dio, e quindi al Magistero, è dato scegliere i pesci dalla rete per conservare quelli buoni. I testi religiosi che contengono una rivelazione privata possono essere considerati come l' eco (talvolta distorta, ma pur sempre allusiva) della Voce, sicché attraverso di essi è possibile scandagliare verità già possedute, ma non perfettamente appropriate a chi cerca. Qui proprio opera lo Spirito del Ricordo: 'II Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa evi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto' (Gv 14,26). Egli si è sparso su tutto il mondo, ed attraverso di Lui quella rivelazione specifica viene manifestata agli uomini e gli uomini (anche non cristiani), muovendosi nell'unico grande fiume del Dialogo con Dio, trovano la salvezza (Vat. II). Chi segue la strada che gli propongo, vede svanire il tempo come inerte contenitore che spacca il dialogo in un 'prima-dopo', e in un 'più-meno'. Esso non è più un fato ineluttabile che, dividendo passato e futuro, trasforma il cristianesimo in ricordo umano, in dottrina del sepolcro. La nostra fede è vita dello Spirito il quale risorge continuamente, senza privilegiare alcuna epoca, e che consente a chiunque di parlare con suo Padre. Rivelazione e Dialogo sono dunque un quid certamente definibile nelle coordinate storiche (perché altrimenti non sarebbero umani), ma vanno pur sempre collocati nel presente dello Spirito che già appartiene all'uomo come dono di Gesù. Ne consegue che ogni deduzione che abbia come base il tempo avrà senso solo se correlata alla dimensione teandrica dell'uomo interlocutore di Dio. Come Gesù, la Nuova Creatura può dire di se: "Prima che Abramo fosse, io sono". , La Bibbia 'nel tempo' D > Strettamente connesso con il problema del tempo è quello degli studi biblici. L 'ultimo secolo ha impresso una svolta decisiva per la quale bisogna dare onore ai fondatori, ma anche lagnarsi con epigoni che hanno dimenticato lo spirito della ricerca (10). (10) Intendo dire che molti studiosi hanno trasformato le libere intuizioni dei maestri in sistema chiuso, e le stimolanti ipotesi di ricerca in certezze assiomatiche. Il virus accademico ha fatto il resto uccidendo ogni sensibilità verso l'esegesi; costringendo lo studioso a dimenticare il fine per cui aveva iniziato a studiare e cioè predicare una Parola sempre più vera e sempre più consolante. Non è certo entusiasmante per un cristiano che cerca risposte ai suoi problemi (ed ha diritto di esigerle dalle fonti che Dio gli ha messo a disposizione) leggere, ad esempio, in un grande Commentario Biblico, e proprio in ordine alla cosa che egli ha più sacra, e cioè il Vangelo, parole di questo tenore: ' ..Il tempo e lo sforzo spesi per un secolo. ...ci porta sempre più vicini alla soluzione completa (intendi: del problema sinottico). Tuttavia rimane sempre difficile individuare le origini dei sinottici… Siamo ancora ben lungi da una soluzione soddisfacente. '. È implicito in una scienza umana l'approssimazione progressiva alla soluzione; ma, se questo procedimento è già insopportabile nella medicina (perché, oggi e qui, l'uomo cerca la cura dei suoi mali), esso diventa intollerabile in teologia. Mi chiedo tre cose: - che ne faremo della soluzione, quando fra un altro secolo l'avremo trovata? che contributo ha dato un secolo di studi alla comprensione del messaggio della Scrittura come buon annuncio ? - ed infine i magri risultati esegetici di un secolo di tentativi e di arrovellamenti non esigono forse che sia ridiscussa la correttezza del metodo usato? Ritorniamo allora a riflettere sulla incidenza del tempo, questo feticcio immateriale, questa truffaldina divinità del materialismo. Il sotterraneo fondamento ed il palese limite della vigente scuola esegetica può identificarsi proprio nell'antico Crono che divora i suoi figli. Certo, come già dicevo, nella sua Rivelazione diretta ad uomini temporalizzati, Dio è certamente nel tempo, ma è anche vero che egli non appartiene al tempo. Proprio questa distinzione è stata però emarginata, sicché cultura, ambiente, agiografo e lettore sono stati colti nella corruzione del tempo. Dio stesso e la Scrittura soffrono di questa mondanizzazione indebita; l'uno, per farsi troppo dentro la storia perde la sua cattolicità e la sua presenza come Spirito; l'altra, la sua capacità di attualizzarsi. Al fondo di tutta questa impostazione sta l'idea che la Bibbia sia un libro del passato e non piuttosto il perenne dialogo (colto dal lato umano) dell'uomo con Dio (11). (11) Uno dei dogmi di questo metodo, ormai imposto dalla lobby accademica, consiste nell'affermazione secondo cui Dio ha dovuto scrivere allora , con i mezzi di allora. 1ncarnazione dunque, ma inchiodata e ristretta in una storicità esasperata. In parole povere è come se l'agiografo avesse detto: 'Tu o Dio parli oggi attraverso di me: io sono il tuo limite. E dunque, se pure vuoi riferirti al futuro e all'intera umanità, Tu devi restrlngerti nelle mie coordinate umane. Tu devi essere iper-storico e ti è vietato finanche di fare precognizione .Tu devi essere inferiore anche a Nostradamus. Io ti debbo infatti possedere in un contesto storico, che è poi il mio. Una vecchia storia di possesso di Dio che ha preso conclusivamente il nome di 'Giuda col boccone in bocca' (Gv 13,26). Dio -è questa l'affermazione sottintesa- non avrebbe potuto formulare un concetto in modo che lo capisse un uomo del futuro, come siamo noi. No, egli doveva farsi a misura dell'agiografo di allora e morire nella lettera scritta da quest'ultimo. Agli evangelisti, attenti a questo problema (vedi quaderno n. 2), non sfuggì tale problematica. Essi la esposero inconicamente nelle immagini della crocefissone sul legno (della tavoletta dello scriba) ed in quella del sepolcro. Ma avvertirono, narrando la resurrezione, che da questa morte la Parola risorge per potenza dello Spirito. Il che, fuor di metafora, significa che i medici settori troveranno certo nei passi scritturistici un corpo morto da sezionare; i fossori, certamente, un corpo morto da seppellire, ma chi ama la verità scoprirà sempre una Parola fresca detta i direttamente a chi legge ed a perfetta misura delle orecchie che vogliono ascoltare. A mio modo di vedere, alla base di ogni lettura, va posto un dato rivelato: il Libro è sacro, e lo Spirito che lo scrisse è lo stesso che inabitò l'agiografo ed ora è presente in colui che legge. Affermare che la Scrittura è un prodotto di duemila e più anni fa, scritto da popoli semiti ben individuati, e leggibile solo con i loro occhi, significa immaginare una rivelazione privata, concessa solo allora e solo ad alcuni, senza che Dio si preoccupasse dell'uomo di oggi! L'esclusivismo del gruppo eletto celebra così il suo trionfo. Il fedele di oggi che vuole interrogare la Scrittura in ordine a se stesso, al suo essere e al suo divenire, può solo invocare l'aiuto di chi, attraverso gli studi linguistici e storici, si fa adottare da quel popolo e rifluisce in quel tempo. Il Dio che si fa garante della comprensione della Verità non è dunque lo Spirito, ma la razionalità dell'uomo e i suoi prodotti scientifici. Sosterrò allora, andando controcorrente, che solo rileggendo la Bibbia nella cultura propria ad ogni chiamato alla fede, la si può accogliere come una Rivelazione divina (12). (12) Commette violenza chi, obbedendo al dogma storicistico, inchioda il testo nella storia (che resta poi una cosa ipotetica ed ignorata) e, con esso, la rivelazione di Dio. Inchioda cioè, come dicevamo, Gesù/Parola sopra la croce di duemila anni fa e lì lo lascia; mette al centro il Gesù della carne, ma solo per ungerlo, bendarlo e seppellirlo nel sepolcro; oppure fa del Cristo un modello di uomo buono per tutti i tempi e tutti i luoghi, ma del tutto astratto. Qualcuno naturalmente mi opporrà che collegare il testo al tempo della sua scritturazione è cosa tanto ovvia che non vale nemmeno la pena di discuterne. Io invece penso che è proprio questo il punto da rimettere in discussione. È diventato un dogma l'affermazione secondo cui un testo è incomprensibile se non viene inquadrato nel suo tempo. Ma mi chiedo; forse che il teorema di Euclide o quello di Fermat vanno collegati ad una storia per essere compresi? Possibile che non si colga una verità nota ad ogni cultore dell'enigmistica, secondo cui un testo può portare dentro di sé la chiave della sua lettura? Ma, a parte queste considerazioni, se si ammette che il testo può essere letto solo ricostruendo le coordinate in cui fu scritto, chi mai potrà garantire che questa operazione avrà buon esito? Se una cultura ha la forza di segnare un testo e di fissarlo nella storia, non è vero anche che il lettore è pur esso segnato dalla cultura in cui vive? Ed ammesso che si proceda alla operazione di decodificazione, bisognerà pure usare strumenti filologici (ad esempio; generi letterari) per ottenere questa conversione al presente; ma allora chi garantirà la bontà degli strumenti e del loro uso? A me pare che proprio dall'applicazione di questi strumenti, dietro una scientificità di facciata, sta nascendo un grande relativismo e trionfa un sotterraneo e negativo protestantesimo. Per dirla in soldoni, non capisco proprio chi mi garantisce che la storia di Adamo è 'mitica' e non va presa alla lettera, mentre non è parimenti mitico...il sesto comandamento! Di fronte a questi problemi si è praticamente cercato di sterilizzare la situazione e porla in termini astratti. Si è cioè postulato a fondamento del discorso che l'agiografo è nel tempo (quello suo specifico), ma l'uomo ascoltatore resta una costante nella storia. Ecco allora la soluzione contraddittoria; le condizioni ambientali mutano, ma, mentre l'agiografo va riconosciuto collegato ad uno ed uno soltanto dei punti della diacronia (sicché il suo testo va letto in quella cultura), la struttura razionale del passo da lui scritto resterebbe identica nel tempo perché riferita ad un generico ed immutabile uomo. In parole povere l'agiografo sarebbe temporalizzato ed il lettore no (13). (13) Per effetto di questa impostazione, la Bibbia diventa un astratto libro sapienziale, un astratto codice etico che solo per violenza può applicarsi alla mutevole realtà di una umanità che si evolve. In questo ragionamento è evidente l'errore di valutazione in ordine al significato da dare alla parola uomo nel discorso sulla rivelazione. Esso consiste nella falsa idea che l'uomo destinatario della Rivelazione, in quanto essere senziente e razionale, sia una specie di costante, un qualcosa di immutabile, un interlocutore statico di Dio. Per questa sua struttura mentale, egli sarebbe indifferente al tempo del testo in quanto ad esso collegato dalla costante della razionalità. In pratica il testo biblico congelerebbe i suoi lettori, lasciando l'agiografo nel suo tempo, condizionato dalla specifica cultura. Per chi ragiona in questo modo, l'Adamo mitico del racconto genesiaco è uguale agli uomini che sono esistiti ed esisteranno (indipendentemente dal loro evolversi); l'uomo che dialoga con Dio sarebbe un quid di completo e perfetto fin dall'inizio e non piuttosto un molteplice che continuamente varia nel tempo e nello spazio (14). (14) L' escamotage di considerare Adamo un tipo universale e statico se alleggerisce i problemi degli scienziati della Bibbia, e consente loro di riferire i dettati della Bibbia all'umanità di ogni tempo e luogo, non impedisce che la teologia della creazione si riduca ad un deludente processo: Dio, fare, materia, uomo, nel quale proprio l'uomo resta schiacciato dalla materia; né può impedire che la fede nella Vita (Spirito) si restringa ad un colloquio fui Dio e l' Homo sapiens, o meglio, fra Dio e l'uomo mediterraneo degli ultimi tre millenni. E gli altri? Vorrei allora ricordare che noi cristiani siamo purtroppo legati ad una visione antropocentrica di stampo materialistico; essa non riesce a cogliere, l'uomo come autentico centro teologico della creazione e come interlocutore di Dio, ma lo relaziona come dipendente dalle cose materiali. Espressione di questa mentalità è il rifiuto di ogni evoluzionismo, come anche di prendere atto che ci fu un tempo nel quale il creato camminava magnificamente anche senza l' homo sapiens. Per molti, forse per effetto dell'ignoranza marginale che affligge ogni specialista, l'uomo della teologia, l'uomo della creazione, è tout court l'homo sapiens identificato con l'uomo di oggi. Così, da un lato si dice che l'Adamo della Genesi è una figura del linguaggio mitico, dall'altro si riportano le affermazioni che gli si riferiscono all’homo sapiens o meglio, a quella struttura psicofisica che per noi occidentali è l'uomo di adesso. Eppure, se 'quell'Adamo è l'umanità, in lei si possono collocare insieme allo scienziato ed al guru di oggi, anche l'uomo di CroMagnon o di Neanderthal. In conclusione a me pare che la Bibbia non è figlia di un morto passato, ma di un futuro che, in quanto vivo, ha la capacità di farsi presente; un futuro nel quale il tempo (la morte) sarà ingoiato. Bibbia: un libro 'illeggibile'? E> Naturalmente la lettura di fede si origina sempre da una comprensione del testo. Ma la Bibbia è poi un testo comprensibile? La risposta al quesito è implicita nella cattolicità (universalità) del nostro Libro. Già dicevamo che la lettura della Scrittura ha come punto di riferimento la Cattolicità della fede cristiana. Io penso che se ci limitiamo alle fiere enunciazioni verbali, e non affermiamo nei fatti che Dio parla qui ed ora a tutti gli uomini di qualsiasi razza, colore e cultura, noi non potremo mai attuare appieno la dimensione cattolica della fede. La fede cristiana è cattolica, proprio in quanto, nell'affermare la storicità di Gesù di Nazaret, assume di poterlo incontrare ora equi e in forma eminente nella sua Parola rivelativa. Prova di ciò è l'eucarestia che non è memoria, ma memoriale, cioè presenza reale ed attuale. Ne consegue che ogni uomo, in forza dell'origine divina del Libro sacro e di lui stesso, ha diritto di leggerlo e di comprenderlo, facendo leva sulla sua cultura, nella quale ora Dio concretamente gli parla. Bisogna pur scegliere se la Bibbia è un libro leggibile dai cristiani o solo conoscibile attraverso mediatori, cioè attraverso conoscitori delle scienze profane (15). (15) Con ciò non voglio dire che la Bibbia va letta come il giornale sportivo; al contrario credo che solo chi sposa la Scrittura e ne fa il centro della propria vita di fede può conoscerla. Come chiarirò più avanti, è la dimensione comunitaria della meditazione, alla quale concorrono cultura e sensibilità diverse, la soluzione al problema della ignoranza che molti hanno in tanti campi del sapere. A mio giudizio questa fontale libertà di leggere trova la sua garanzia non nelle acquisizioni delle fallibili scienze umane che partendo dal basso e dal molteplice vogliono scalare il mistero di Dio, ma nella viva Tradizione di tutta la Chiesa e nel suo Magistero di fede. Con ciò voglio dire che l' angelo custode del lettore è proprio la fede tradizionalmente ricevuta dallo stesso Spirito che ha dettato il Libro sacro. In altri termini, come non si può negare tutta la storia che precede quando si vuole intendere un testo umano, allo stesso modo bisogna operare con le Sacre Scritture. Se va recuperato il passato storico, ciò non deve far dimenticare che esiste anche (se così si può dire) un passato della Fede che chiamiamo Tradizione. La garanzia, il sostegno e finanche la provocazione per una corretta lettura del messaggio biblico consistono nella consonanza con la fede della Chiesa. Forte della fede comune, il lettore chiederà dunque al testo sacro, come a divino interlocutore che parla in termini umani, di fornire la Chiave della sua comprensione. La Bibbia, che la Chiesa garantisce come complesso unitario, si spiega con la Bibbia, alla luce della Tradizione; e tutto ciò che nasce da una buona meditazione diventa prova intrinseca della Tradizione. Le scienze umane hanno solo una funzione ancillare. L' attualità della scrittura F> La lettura di fede si interfaccia con l' attuale acquisizione del messaggio biblico. La Bibbia non è un rudere archeologico da fotografare e analizzare. Questa certezza ci guida ad un tema di decisiva importanza e del quale già abbiamo fatto cenno: mi riferisco alla attualità della Scrittura. Affermata con tanta forza verbale, essa non può ridursi alle spiegazioni fornite oggi dagli studiosi (in questo senso tutti i testi sono attuali) ma rimanda piuttosto a una apprensione immediata di un qualcosa di divino che, oggi e qui, parla direttamente all'uomo. È pacifico che la storicità è dimensione propria di ogni uomo, e non del solo uomo appartenente (come noi siamo) alla cultura greco-romana. Ora, la Scrittura si rivolge anche a popoli che ignorano la nostra tradizione culturale e vedono il mondo in maniera diametralmente diversa. Una fede che si vanta cattolica non può collocare, come filtro e mediazione, una specifica cultura, considerandola il mezzo che lo Spirito rivelante avrebbe usato. Proprio ragionando in queste coordinate la nostra è diventata una religione mediterranea. Ho suggerito allora di intendere la storicità della Scrittura non come sequenza di fatti, ma come diacronicità del colloquio fra uomo e Dio. Questa sua maniera di essere, questo suo porsi nel divenire della storia trapassando i secoli senza inchiodarsi in essi, questa sua capacità ad unire così gli scrittori ai lettori, distingue la Bibbia da ogni altro libro (16). (6) Certamente vi fu un momento puntuale della storia in cui furono scritte le verità rivelate che sono eterne e sempre uguali; ma questa puntualità storica non va confusa con la infinita diacronicità dell'incontro con l'uomo di qualsiasi tempo e latitudine. Ricordo a tal proposito che, a differenza del giudaismo e del protestantesimo, i cristiani sono il popolo della Voce più che del Libro, come si usa dire; ed in ogni caso, popolo del Libro e non dei libri (ta Biblia). La Scrittura, intesa nel suo senso pregnante di Rivelazione, non è dunque puntuale nella storia, come accade per ogni altro evento umano. I fatti umani nascono e muoiono: questo è il loro statuto. Al contrario la Parola di Dio c'è, e può dire di se: 'Passeranno il cielo e la terra, ma le mie parole non passeranno'. Questa infungibilità con gli eventi umani fa sì che la Scrittura non può legarsi tanto strettamente alla singola cultura in cui nacque da restarne condizionata fino al punto di perdere la sua capacità comunicativa. Di essa è garante lo Spirito (17). (17) Chi ragiona diversamente mostra di aver forse confuso due cose congiunte ma distinte: la Rivelazione e la sua scritturazione. La prima infatti, seppure mediata dalla parola parlata o dallo scritto, è sempre presente ed attuale; mentre la seconda (scritturazione), in quanto fenomeno umano, è databile storicamente in un punto (socio-culturale) e in quello soltanto. In altre parole, se la datazione storica, inquadra il testo sacro in una cultura, essa non ha la capacità di flssarvi la divina rivelazione. Vi si oppone la specialissima qualità dell'oggetto rivelato e l'evento stesso nel suo insieme (Rivelazione). Concludendo, se in ordine a qualsiasi oggetto umano la scritturazione, in quanto fatto storico puntuale, diventa decisiva, quasi fissativo che inchioda quell'oggetto sulla scala del tempo riferendolo al mondo culturale in cui fu realizzata, ciò non si verifica per il nostro oggetto divino. Naturalmente chi non crede alla divinità dell'Oggetto della Bibbia farà bene a seguire il metodo che sto criticando, ed a ricavarvi quello che vuole; il frutto sarà comunque solo orizzontale ed umano. Al contrario, chi crede alla divinità del Rivelante e del Rivelato, chi crede nella propria divinità deve coerentemente trarne tutte le conseguenze. Non è giusto che stiano divisi il teologo scienziato e il teologo predicatore. Ne si lega alla cultura del lettore se non per quel tanto che la rapporta all'oggi; essa è radicata nella cultura della divinità; è un libro del futuro, della vita nella sua pienezza. poiché la 'fiducia' è proiezione in avanti verso ciò che ancora non si possiede, solo l'occhio della fede (fiducia) sa cogliere la specialità del Libro e del suo contenuto. Sa leggere 'nel mondo', ciò che non è del mondo'. Sa leggere oggi ciò che è per sempre. Il testo, compagno di lettura G> Leggere con gli occhi della fede equivale anche a dare spazio al testo, lasciarsi attrarre e guidare da esso come da fedele compagno. Il testo è l'angelo custode della ricerca umana è l'angelo che accompagna Tobia verso un tesoro non ancora posseduto. Bisogna dunque ascoltarlo, interrogarlo, riconoscendogli una proprietà misconosciuta: nella sua immodificabilità è pur sempre il dinamico filo conduttore che si snoda nei secoli, traversando coscienze e culture; è ciò che resta con noi fino alla consumazione dei secoli. Il problema della relazione fra puntualità storica della scritturazione, e universalità trans-storica del messaggio, interessò anche gli agiografi. Essi per dotare i testi di una potenzialità trans-storica perché fossero leggibili in ogni contesto culturale, costruirono quel linguaggio artificiale che ho chiamato Jeratico. Essendo multimediale, affidandosi cioè a strumenti diversi, formulava la Rivelazione in uno scritto unico ed immutabile come consistenza grafica (testo materiale), ma tale da aprirsi a tutti, in ogni luogo e tempo, (Sul punto vedi i quaderni n. 1 e 2). Come è dimostrato dagli scritti dei Padri, una lettura di fede non può prescindere dalla conoscenza di questo linguaggio 'angelicato'. Il magistero della Chiesa H> Il Magistero della Chiesa conforta la mia impostazione. Il Vaticano II (Dei Verbum 12) riconosce una dimensione storico-culturale della Scrittura quando afferma che: ' Dio, nella sacra Scrittura, ha parlato per mezzo di uomini e alla maniera umana'. Questa espressione va compresa con quanto detto in ordine al modo di studiarla. Dice il Vat. II: Lo studio di ciò che Egli ha voluto comunicarci, deve ricavarsi con riferimento a due momenti connessi: - che cosa gli agiografi abbiano inteso significare; - che cosa a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Credo sia inutile sottolineare che la prima cosa è strumentale rispetto alla seconda. La 'Dei Verbum' prosegue dicendo che la sacra Scrittura deve 'esser letta ed interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta', il che significa che ogni studio è sempre e comunque riferito alla cognizione dell'attività dello Spirito. Segue poi un'ultima e fondamentale regola: bisogna badare all'unità di tutta la Scrittura. (18) (18) Sul punto si può anche vedere la 'Spiritus Paraclitus' di Benedetto XV e molte affermazioni dei Padri fra cui, ad esempio. Agostino. 'De civitate Dei' XVII. 6.2 e Gerolamo (in Gal 5.19-21). . Incontriamoci per meditare I> Una parola privata e personale di conclusione, dopo aver contestato tante cose e proposto idee che vanno tutte discusse e attentamente verificate. Io credo che in una visione ottimistica, che è d'obbligo per un cristiano, ed in un momento di pace interiore, la dialettica a volte serratissima tra ipotesi, tesi, studi e proposte in ordine alla Bibbia, può giungere ad un sintesi dove tutti possiamo incontrarci. Nel cuore del cristiano c'è tanta esperienza di comunione e di slancio alla quale attingere. Penso all'esperienza mediatrice della Chiesa colta come coscienza unitaria della Rivelazione; allo slancio di vita che sa perdere le certezze dubbiose della storia, per aprirsi a quell'Amore che viene nell'ombra della notte, inaudito eppur presente come un ladro; penso alla tranquilla certezza della venuta di Dio, perché Gesù non fu un mito o un'illusione; e penso infine alla Scrittura stessa, non avvilita palestra di erudizioni e trionfi umani, ma vivente presenza di un Cristo che, sepolto nelle parole, aspetta continuamente di risorgere. Penso a come è bello scoprire, perfettivamente, di essere Spirito, proprio quando si attua questa resurrezione del Verbo incarnato nella umana lettera. Li proprio c'è comunione per tutti, qualunque siano i loro umani pensieri.