Cristina Demaria Provare a tratteggiare il modo in

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Cristina Demaria Provare a tratteggiare il modo in
Cristina Demaria
Provare a tratteggiare il modo in cui è stato definito il consumo in
quanto pratica quotidiana attraverso cui la cultura viene interpretata e
quindi prodotta, e con cui i suoi significati circolano e si trasformano,
implica non tanto rintracciare i confini di un’area di ricerca, quanto
ripercorrere la costruzione di un oggetto d’indagine peculiare. Il consumo
così inteso è infatti un modo di fare, un insieme di operazioni su cui si
sono esercitate più discipline e prospettive critiche, dalla sociologia dei
consumi e dei processi culturali (da Thorstein Veblen a Pierre Bourdieu,
fino alle ipotesi radicali di Jean Baudrillard), passando attraverso
l’antropologia del quotidiano elaborata da Michel de Certeau, per
giungere alle odierne analisi degli studi culturali sul piacere derivante dal
consumo dei prodotti culturali più disparati, dagli spazi urbani ai centri
commerciali al walkman, e sul legame che esso intrattiene, nell’ambito
degli odierni processi di globalizzazione, con la formazione di identità
locali. In realtà, già Marx in Das Kapital (1867-1895) rilevava le
interconnessioni che legano la produzione delle merci al loro consumo,
ma è noto come la sua attenzione si concentrasse sull’alienazione insita
nella strutturazione della produzione, e non di ciò che viene prodotto,
tanto meno del modo in cui viene usato. Sarà Veblen, con l’oramai
classico The Theory of the Leisure Class (1889), a ipotizzare per primo
una funzione simbolica dei beni, indicando l’importanza dell’atto stesso
del loro consumo come gesto di affermazione di un particolare status
sociale, come vero e proprio spreco in cui i nuovi ricchi dell’America di
fine Ottocento osavano indugiare, sottraendosi così a quell’etica
protestante che voleva la produzione come momento primario di
accumulazione, e il consumo come attività secondaria e derivata, come
atto frivolo e decadente, non a caso sovente relegato alla sfera
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femminile. Il consumatore, o, meglio, la consumatrice, era infatti a quel
tempo, e lo rimarrà a lungo, un soggetto sostanzialmente passivo che
subisce l’attività, le regole e dunque il potere insito nell’atto di
produzione e nei soggetti a cui è affidato. Ma benché, con la prospettiva
inaugurata da Veblen, il consumo inizi lentamente a porsi come uno dei
concetti fondamentali dell’analisi della cultura di massa, sottraendosi così
a ipotesi e teorie critiche incentrate sulle relazioni sociali intese come
mero frutto di fattori economici, non per questo esso si trasforma in
un’attività creativa in grado di stravolgere i dettami e i significati imposti
dalla produzione. Su questa linea si colloca Dialektik der Aufklärung di
Adorno e Horkheimer (1949) di cui è nota la condanna ai processi di
mercificazione e di standardizzazione che caratterizzano la cultura di
massa. Una prospettiva dunque informata da una visione pessimista e
nuovamente passiva del ruolo dei consumatori, per i quali è impossibile
sottrarsi alle logiche di un’industria culturale che impone loro falsi bisogni
e desideri, creando uno spazio culturale del tutto omogeneo.
È solo con gli anni Settanta del Novecento che le pratiche
quotidiane di consumo iniziano a venire comprese come gesti in cui si
articolano processi di identificazione e di differenziazione culturale,
soprattutto di distinzione. Il consumo, ne La distinction di Bourdieu
(1979), è infatti pratica d’uso di significati, segni e simboli legata
all’articolazione del senso dell’identità di classe: i soggetti sociali sono
così classificati dalle loro stesse classificazioni, dai loro abiti, e perciò si
distinguono a partire dalle loro stesse distinzioni. L’abito, in quanto
cornice che classifica e dà senso all’esperienza, viene peraltro appreso
fin dai primi anni di vita, e successivamente applicato nelle circostanze
più diverse, costituendosi come insieme strutturato di disposizioni che
presiede ai giudizi e, più in generale, ai meccanismi del gusto.
Ma analisi così concepite subordinano in ogni caso l’aspetto
semiotico e antropologico inscritto nella fruizione dei beni e degli spazi
sociali a criteri di distinzione dei consumatori che a priori ne
circoscrivono l’identità, senza che venga ammessa la possibilità di usi
diversi e quindi di significati differenti dello stesso prodotto, per esempio
all’interno di comunità legate dalla medesima classe sociale. In altre
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parole, ciascun individuo è apparentemente condannato a consumare in
base a ciò che già è, mentre per Baudrillard ciascuno diviene ciò che
consuma (Baudrillard 1976). Il consumo, nell’ottica di Baudrillard, non
serve così a mostrare e ad affermare un’identità già socialmente
strutturata, quanto a costituirla fin dalle sue fondamenta.
L’autore che negli anni Ottanta ha più indagato i meccanismi della
vita quotidiana e dei ripetuti atti di consumo di cui è intessuta è però
Michel de Certeau, a cui interessa innanzitutto la logica creativa, le
tattiche “silenziose e sottili” che ciascun consumatore, apparentemente
votato alla passività e alla disciplina, mette in realtà in pratica e
attraverso cui sovverte, a volte anche impercettibilmente, ciò che la
produzione sembra imporgli come ordine costituito. Ne L’invention du
quotidien (1980) de Certeau si dedica perciò alla ricostruzione della
logica propria di una cultura che non è semplicemente popolare e
neanche di massa. Nella sua presa di distanza dalla categoria di cultura
popolare e nell’uso che di essa fanno i chierici de Certeau è netto
(Certeau 1974). La figura che egli oppone alla cultura dotta e
canonizzata è quella di una proliferazione disseminata di attività e modi
di fare che sono creativi ma anche perituri, e, in quanto tali, non
capitalizzabili. Il compito di chi si incarica di osservare tali pratiche è
allora quello di raccontare l’ordinario, occupandosi di descrivere una
storia muta e soprattutto mai documentata, di cui l’analisi stessa è
parte: “per leggere e scrivere la cultura quotidiana, bisogna riapprendere
operazioni comuni e fare dell’analisi una variante del suo oggetto”
(Certeau 1980, p. 3). Al centro vi è dunque non tanto il soggetto
individuale, ovvero le comunità che così si costituiscono, quanto i modi di
funzionamento o gli schemi di comportamento che presiedono le
operazioni dei singoli come dei gruppi. Il gesuita francese è dunque il
primo a cercare di intravedere non solo i significati del consumo, ma
anche le logiche operative, le “combinatorie delle operazioni di cui si
compone (…) una ‘cultura’, e di riesumare i modelli di comportamento
caratteristici degli utenti, la cui condizione di dominati (che non vuol dire
passivi o docili) viene nascosta sotto la definizione pudica di
consumatori. Il quotidiano si inventa attraverso mille forme di
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bracconaggio” (p. 6). E questo bracconaggio, che in italiano traduce il
termine parruque, riguarda le pratiche più diverse, dalla lettura dei testi
ai percorsi urbani, investe in sostanza tutte le ritualità quotidiane con cui
non solo ci rapportiamo agli oggetti e agli spazi, facendoli nostri, ma con
cui affrontiamo anche l’autorità in essi inscritta. Le congiunture in cui tali
pratiche si esplicano, i loro margini e i loro confini, dipendono infatti
anche da rapporti e campi di forza. Un’analisi della cultura così concepita
è dunque interpretabile anche come una polemologia, in quanto è la
cultura stessa che “dà articolazione ai conflitti e di volta in volta
legittima, spiazza o controlla la ragione del più forte” (p. 13).
Nel tratteggiare il suo percorso di ricerca de Certeau si ispira e al
tempo stesso prende le distanze dal lavoro di Michel Foucault la cui
microfisica del potere continua a privilegiare l’apparato produttivo
(Foucault 1977). Ma, “se è vero che il reticolo della sorveglianza si
precisa ed estende ovunque, tanto più urgente è svelare in che modo
un’intera società non si riduca ad esso” (Foucault 1977, p. 9). Non si
tratta quindi di far emergere “in che modo la violenza dell’ordine si
tramuti in tecnica disciplinare, bensì di riesumare le forme surrettizie che
assume la creatività dispersa, tattica e minuta dei gruppi o degli
individui” (ib.). L’oggetto della ricerca è così un’antidisciplina che è
costituita dalla trama di queste attività, di cui si deve per l’appunto
recuperare la logica, rinvenire la possibile forma ricorrente, guardando al
modo in cui la già citata sociologia, ma anche la sociolinguistica e
l’etnometodologia, l’antropologia e la storia, la logica formale e la
filosofia analitica hanno cercato di descrivere le pratiche culturali in
quanto azioni, ovvero come risultato di riti codificati e di operazioni di
bricolage, frutto dell’intreccio di modelli di aspettative e di
contrattazione propri del linguaggio formale come di quello comune. Ed è
proprio a partire dal funzionamento della lingua che de Certeau cerca di
ricostruire ciò che accade nell’uso, equiparando quest’ultimo agli atti
locutori, alle diverse tattiche di enunciazione con cui i parlanti mettono in
pratica la loro competenza linguistica (l’insieme di regole, la
grammatica). L’atto locutorio non è infatti del tutto riconducibile alla
conoscenza della lingua: “ponendosi nella prospettiva dell’enunciazione
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(…) si privilegia quest’ultimo (l’atto locutorio), poiché l’atto di parlare
opera nel campo di un sistema linguistico; mette in gioco
un’appropriazione, o una riappropriazione, della lingua da parte di chi la
parla; instaura un presente relativo a un momento e un luogo; e
stabilisce un contratto con l’altro (l’interlocutore) in una rete di spazi e
di rapporti” (p. 8). Bisogna quindi considerare il consumo come una
pratica attraverso cui ciascun consumatore enuncia, e cioè si riappropria,
riarticola, ciò che il sistema gli offre. L’enunciazione in questa
prospettiva diviene una vera e propria tattica che si contrappone alle
strategie della produzione, che sono poi quelle proprie delle istituzioni,
della cosiddetta razionalità politica, economica e scientifica. La strategia
è infatti un “calcolo dei rapporti di forza che diviene possibile a partire
dal momento in cui un soggetto di volontà e di potere è isolabile in un
‘ambiente’. Essa presuppone un luogo che può essere circoscritto come
proprio e fungere dunque da base a una gestione dei rapporti con
un’esteriorità distinta” (p. 15). Le tattiche al contrario non hanno un
fondamento, né posseggono frontiere in base alla quali l’altro diviene una
totalità visibile. E se il proprio della strategia è la vittoria dello spazio sul
tempo, la tattica dipende da quest’ultimo, che deve cogliere al volo per
poterne ottenere dei vantaggi. La tattica non capitalizza, non tesaurizza,
gioca con gli eventi per mutarli in occasioni, combina entro un tempo
contingente elementi eterogenei la cui sintesi non ha la forma di un
discorso compiuto, bensì quella propria del fare e della combinazione
stessa. È in questo senso allora che le tattiche di cui, ma anche con cui,
si compone il quotidiano, quali il parlare, il leggere, il cucinare, il fare la
spesa, sono produzioni silenziose grazie alle quali il mondo di chi
consuma si introduce in quello di chi produce. Se si prende ad esempio
privilegiato di tali pratiche la lettura, e dunque si intende il consumo
stesso come una particolare ermeneutica, così come Barthes leggeva
Proust in Stendhal, “lo spettatore legge il passaggio della sua infanzia nel
reportage di attualità” (p. 18) e questa mossa rende il testo “abitabile
come un appartamento in affitto” (ib.). Il bracconaggio delle pratiche di
lettura aggira così il sistema senza sottrarvisi, facendolo funzionare
secondo un altro registro. Assimilare significati non vuol dire perciò
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divenire simile a ciò che si assorbe, ma rendere simile quel che si
consuma a ciò che si è. Se la scrittura è una strategia, in quanto
“accumula, immagazzina, resiste al tempo creando un luogo” (ib.),
l’operazione della lectio ogni volta ricrea invece il libro su cui si esercita,
e “non si garantisce contro l’usura del tempo (ci si dimentica e si
dimentica), non conserva quanto ha acquisito, e ciascuno dei luoghi che
attraversa è ripetizione del paradiso perduto” (p. 245). Accanto ai tre
tipi di lettura descritti da Barthes, quello erotico, che si ferma di fronte al
piacere del testo, quello cacciatore , che corre verso il finale del libro
perché incapace di attendere, e quello iniziatico, che nutre il desiderio
della scrittura, de Certeau colloca così altre tattiche, legate al sogno e
alla fantasia, pratiche antagoniste e soprattutto autodidatte.
Sulla scia delle ricerche di de Certeau, a partire dagli anni Ottanta
anche all’interno degli studi culturali e della mediologia si moltiplicano i
lavori dedicati all’analisi delle pratiche quotidiane, e informati da una
simile fiducia nelle potenzialità creative e sovversive dei lettori. A
differenza di de Certeau però, gli studi culturali continuano a identificare
i significati e la resistenza insita nelle pratiche di lettura degli oggetti del
mondo con la categoria di popolare, da cui erano peraltro partite, alla
fine degli anni Cinquanta, le prime ricerche di Williams (1958) e Hoggart
(1957), proseguite nelle indagini etnografiche degli anni Settanta sulle
culture giovanili e sulle subculture (Gelder, Thornton 1997), e in cui era
inoltre rintracciabile una reazione, assente in de Certeau, sia alle
posizioni di un critico letterario quale Leavis, sia alle analisi della Scuola
di Francoforte. Lo studio della gente comune e delle subculture rimane
inoltre subordinato non tanto al tentativo di comprenderne la logica,
l’insieme di operazioni attraverso cui i significati vengono individualmente
trasformati, quanto all’analisi del consumo come percorso di costruzione
di comunità, di identità collettive in qualche maniera circoscrivibili proprio
a partire dalle pratiche stesse. Tali identità vengono costituite grazie alla
riappropriazione di oggetti culturali, a uno spostamento e a una
trasgressione dei significati simbolici in essi già iscritti, ma appartenenti
alla cultura dominante. A tale cultura, l’uso e la fruizione di oggetti
culturali oppone il piacere non codificato delle sue pratiche creative,
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come sostiene per esempio John Fiske (1989a, 1989b), tra gli autori
degli studi culturali che più ha cercato di dialogare con l’opera di de
Certeau, a sua volta riadattandola. La cultura popolare, categoria su cui
Fiske insiste, è dunque il frutto di tali pratiche, è il territorio in cui
quotidianamente si resiste e si contestano i significati dominanti.
L’insistenza degli studi culturali sul quotidiano, sulla everyday life,
riguarda quindi la definizione stessa di cultura, che già Williams alla fine
degli anni Cinquanta pensava come un modo di vita (culture as a way of
life), come tutto ciò che è ordinario (culture is ordinary) (Williams 1958,
1976). La cultura riguarda quel che facciamo, ciò a cui apparteniamo e in
cui ci coinvolgiamo, i significati che costruiamo nei processi quotidiani
attraverso cui diamo senso alle nostre azioni più comuni. È su questa
base allora che la prospettiva inaugurata dagli studi culturali si concentra
non su quel che è già codificato e registrato, bensì su quel che risulta
imprevedibile e improvvisato, ma anche su ciò che è routine comune, per
l’appunto ordinaria, e in quanto tale opposta alla festa, al sacro,
all’evento eccezionale.
Negli ultimi anni, in ogni caso, a una fiducia forse eccessiva nelle
potenzialità creative del consumo si è sostituita una più articolata
indagine critica delle pratiche locali e quotidiane di consumo, che
vengono intese come particolari operazioni attraverso cui, per esempio,
si reinterpretano le strategie di produzione globali (Mackay 1997). Senza
più pensare che l’uso sia per forza sovversivo, diviene importante
guardare a come in esso si stabilisca un equilibrio tra creatività e regole,
e quindi all’interrelazione tra consumo e produzione, alla natura situata
delle pratiche quotidiane, vale a dire al contesto di consumo ove i confini
tra i diversi spazi, pubblico e privato, collettivo e individuale, risultano in
ogni caso mobili. Acquista così sempre più importanza la dimensione
spaziale del consumo, che de Certeau aveva invece in qualche modo
negato per privilegiarne l’aspetto temporale: le pratiche di consumo
definiscono modelli spaziali e percorsi, uniscono territori altrimenti
separati, in generale contribuiscono a una modificazione del senso del
luogo, che conduce gli spazi fisici a separarsi dalle comunità, e queste a
creare nuovi spazi, più o meno virtuali, di consumo.
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(Cfr. anche Analisi del discorso , Antropologia del quotidiano,
Archeologia del sapere, Semiotica, Sociosemiotica)
Consumatore, Consumo, Commodity, Commodity Feticism, Massa, Merce,
Parruque, Plusvalore, Polemologia, Popolare, Produzione secondaria,
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