disse Rosenthal, – la rivista potrebbe chiamarsi La

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disse Rosenthal, – la rivista potrebbe chiamarsi La
I
– Insomma, – disse Rosenthal, – la rivista potrebbe
chiamarsi La Guerre civile...
– Perché no? – disse Laforgue. – Non è un brutto titolo ed esprime bene ciò che vogliamo dire. Sei sicuro
che non esista già?
– La guerra civile è un concetto che deve essere di
dominio pubblico – disse Rosenthal. – Non si registra.
Era una sera di luglio, all’imbrunire, quando il sudore evapora sulla pelle e tutta la polvere del giorno alla
fine ricade come le ceneri di un incendio consumato; un
ampio cielo si estendeva sopra il giardino, che era solo
un piccolo spazio di alberi bruciati e di erba malata, ma
che, al centro delle colline di pietra di Parigi, faceva provare lo stesso tipo di piacere di una prateria.
Negli appartamenti di rue Claude-Bernard, che Laforgue e i suoi amici talvolta spiavano per ore come se
custodissero importanti segreti, la gente cominciava a
prepararsi per la notte; davanti a una lampada si vedevano vagamente passare una spalla o un braccio nudo:
alcune donne si spogliavano, troppo distanti perché si
potesse distinguere se erano belle, e non lo erano. Erano
anzi signore di mezza età che si toglievano bustini, cinture e corsetti come fossero parti di un’armatura; le abitanti più giovani delle case, quelle le cui canzoni a volte
sgorgavano dal fondo di una cucina, dormivano nei sottotetti: non si vedevano.
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Motivi musicali, discorsi, lezioni, pubblicità uscivano dalle gole degli altoparlanti in un ritornello confuso;
ogni tanto un autobus strideva alla fermata di rue des
Feuillantines; eppure c’erano momenti in cui una specie
di grande silenzio marino si riversava pigro sugli scogli
della città.
Rosenthal parlava. Parlava sempre molto perché aveva una voce profetica e pensava di convincere facilmente per via del suo timbro; i compagni lo ascoltavano guardando i riflessi color lampone di Parigi sopra le
loro teste, ma pensavano vagamente alle donne che si
coricavano e che dicevano ai mariti e ai propri amanti
parole da macchine parlanti, o forse frasi sconvolgenti
di odio, passione o oscenità.
Erano cinque ragazzi, tutti nell’età crudele, tra i venti e i ventiquattro anni; l’avvenire che li attendeva era
confuso come un deserto pieno di miraggi, trappole e
vaste solitudini. Quella sera non ci pensavano affatto, speravano solo nell’arrivo delle vacanze e nella fine degli
esami.
– Alla riapertura delle scuole, quindi, – disse Laforgue, – potremo pubblicare la rivista, visto che ci sono filantropi abbastanza ingenui da affidarci del denaro che
non rivedranno più. La pubblicheremo, e dopo un po’ di
tempo morirà...
– Certo, – disse Rosenthal. – Uno di voi è abbastanza corrotto da credere che lavoriamo per l’eternità?
– Le riviste muoiono sempre – disse Bloyé. – È un
dato immediato dell’esperienza.
– Se sapessi che un sola mia iniziativa dovesse impegnarmi per la vita, – riprese Rosenthal, – e seguirmi
come una specie di palla o di cane fedele, preferirei annegare. Sapere ciò che diventeremo, è vivere come i
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morti. Ci vedete, noi tra quarant’anni, dirigere una vecchia Guerre civile, con le brutte facce da vecchi che
avremo, tipo Xavier Léon e la Révue de Métaphisique 1...!
Una bella vita sarebbe quella in cui gli architetti costruissero case per il piacere di buttarle giù, dove gli
scrittori scrivessero libri solo per bruciarli. Bisognerebbe essere abbastanza puri, o coraggiosi, per non pretendere che le cose durino...
– Bisognerebbe essere completamente liberi dalla paura di morire, – disse Laforgue.
– Niente romanticismo, – disse Bloyé, – né angoscia
metafisica. Facciamo progetti per una rivista e conversazioni elevate perché non abbiamo né donne né denaro;
non c’è nulla per cui eccitarsi. D’altronde bisogna fare
delle cose e le facciamo. Non saranno sempre riviste.
– Se andassimo a bere? – disse Pluvinage.
– Andiamo, – disse Jurien.
Uscirono dal giardino per andare a bere: potevano
scegliere tra tutti i caffè tra place du Panthéon e il Jardin des Plantes. Scesero per rue Claude-Bernard e percorsero l’avenue des Gobelins fino al Canon des Gobelins che fa ancora angolo tra l’avenue e il boulevard
Saint-Michel. La terrazza del caffè era piena di gente
esausta dal lavoro e dal caldo, che farfugliava conversazioni assurde e spezzettate o si diceva verità offensive
aspettando l’ora di andare a dormire, a due a due, in letti
umidicci, in camere tristi: c’era anche qualche prostituta brillante con lo sguardo vigile delle undici di sera;
una di loro era una giovane un po’ robusta con i capelli ricci lievemente ripugnanti che facevano pensare a
1 LA REVUE DE MÉTAPHYSIQUE ET DE MORALE È UNA RIVISTA FILOSOFICA FRANCESE, DI
1893.
ORIENTAMENTO CATTOLICO, FONDATA NEL
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un’ascella o a un sesso, ma aveva belle ginocchia che
luccicavano come pietre nere.
Si sedettero e osservarono i bevitori attorno a loro,
ma faceva talmente caldo che nessuno aveva voglia di
appassionarsi all’esistenza degli uomini e non era neanche facile convincersi che non si trattasse solo di immagini, proiezioni, riflessi. Laforgue si interessava alquanto alla donna con i capelli ricci che alla fine si alzò dalla
sedia per entrare nel caffè; Laforgue la seguì fino ai gabinetti nel sottosuolo; l’addetta ai bagni disse:
– Continuiamo ad andare verso il bello: il barometro
è buono.
– Eppure c’è aria di temporale, – disse la giovane.
– Non so se lei è come me, signora Lucienne, ma mi
sento i nervi tesi. Se mi passassero la mano tra i capelli
farebbero scintille come il dorso dei gatti.
Laforgue chiese un numero di telefono che non esisteva.
– Non risponde nessuno, – disse la signora addetta ai
bagni.
– Non mi stupisce, – disse Laforgue.
La donna si era messa la cipria, il rossetto e nero alle
ciglia, dopo avere sputato su una spazzoletta. Sorrise a
Laforgue e si allontanò davanti a lui; sui gradini della ripida scala a chiocciola, gli chiese:
– È per stasera?
Laforgue stava in piedi, tre gradini sotto di lei e, all’altezza degli occhi, vedeva un ventre un po’ tondeggiante sotto l’abito nero di crespo cinese.
– È quello che mi stavo chiedendo, – rispose. – Ma
sarà piuttosto per un altro giorno, il tempo non è adatto
con questo barometro troppo favorevole.
– Che peccato, – disse lei, – avremmo fatto l’amore.
Te ne pentirai e io sarò scesa per niente.
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– Un bicchiere, però, lo prendi lo stesso, – disse Laforgue.
Si sedettero a un tavolino all’interno del locale deserto; la macchina per il caffè fischiava sopra la testa
della cassiera, il cameriere si stava addormentando; lo
svegliarono. Dalla finestra aperta si vedeva una fila di
nuche che la dicevano lunga sui visi. La donna bevve
una menta verde e cominciò a parlare e, poiché l’aveva
seguita solo perché aveva fatto un gesto, Laforgue iniziò ad accarezzarle il ginocchio, poi si alzò e raggiunse
i compagni.
– Hai fatto una conquista? – chiese Bloyé.
– Dici bene, – rispose Laforgue. – Era una donna assetata, specialmente di affetto, era dolce, parlava persino di progetti per l’avvenire. Una domenica, diceva, andremo a trovare la mia bambina che sta a balia vicino a
Feucherolles, forse lei lo conosce, si scende a SaintNom-la-Bretèche, dopo Marly-le-Roi. A lei probabilmente i bambini piacciono. Che bella domenica si annunciava per un amico dei bambini, dei canarini e dei
gatti.
Verso mezzanotte Rosenthal se ne andò perché abitava lontano dal quartiere, alla Muette, dove la gente
vive in conchiglie di pietra troppo grandi lungo strade
ordinate come i viali dei cimiteri a concessione perpetua.
Mentre si trovava in piedi sulla piattaforma dell’autobus X che lo portava dal Jardin des Plantes verso la
stazione di Passy, Rosenthal pensava con rabbia al potente dominio delle famiglie. Da ventitré anni, da che
respirava l’aria della Muette – che non vale la brezza
che soffia a mezzanotte sulle paulonie del parco Monsouris, ma insomma – sapeva come occupare il tempo
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dei suoi ritorni con i ricordi d’infanzia, le riunioni delle
bambinaie e delle balie sui prati della Muette attorno a
carrozzine messe in cerchio come i carri dei nomadi che
di notte non si sentono al sicuro, i divertimenti con i
bambini del Bois che giocano in guanti bianchi e senza
scompigliarsi i capelli di seta e, più tardi, all’uscita da
Janson, le passeggiate nell’allée des Acacias e di Longchamp pensando a Odette de Crécy2, e le ragazze della
domenica mattina sotto gli alberi di castagni in fiore
dell’avenue du Bois, quando tutto ha un odore di primavera, di benzina, di cavallo e di donna.
Di quartieri ebrei a Parigi ce n’è più di uno: il XVI
arrondissement non era quello in cui Bernard Rosenthal
avrebbe preferito vivere, ma ogni volta che pensava a
rue Cloche-Perce e a rue du Roi-de-Sicile, gli sembrava
che neanche lì fosse possibile; i capelli a boccoli degli
ultimi emigrati dalla Galizia non gli sembravano meno
disgustosi delle Opere della famiglia Rothschild e non
pensava che un salto dal XX secolo e dalla Muette nel
XVI secolo a Vilna e Varsavia fosse una soluzione tanto
brillante.
Un giovane borghese francese come Laforgue, quando lo prende la voglia di rivoltarsi contro la condizione
che gli prepara la sua classe, conosce problemi di rottura meno complessi: la razza e le sue mitologie, le connivenze di chiesa, di clan e di carità non gli nascondono
2 ODETTE DE CRECY È TRA I PRINCIPALI PROTAGONISTI DELLA RECHERCHE DI PROUST.
SNOB NAZIONALISTA ARTISTA DELL’EFFIMERO, DOPO AVER DIVORZIATO DAL CONTE DI
CRECY, ARISTOCRATICO POVERO, IL RICCO CHARLES SWANN, CHE LA SPOSERÀ, TRA L’INDIGNAZIONE DI PARENTI E CONOSCENTI PER LA DISINIBITA CONDOTTA SESSUALE DELLA DONNA.
ALLA MORTE DI SWANN ODETTE SPOSERÀ IL CONTE DI FORCHEVILLE, COMPLETANDO LA
SUA ASCESA SOCIALE.
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a lungo le vere caratteristiche della società. Una deviazione dalla strada tracciata per lui, come il movimento
di un puledro che si spaventa e inciampa, e la rottura
con le fedeltà paterne bastano a farlo ricadere in mezzo
a una specie umana senza storia o che la storia per nulla
ostacola. Tutto si sistema abbastanza in fretta: se per riconoscersi cerca qualche consiglio postumo degli antenati contadini, non deve andare troppo lontano. Sleale
con il padre che tanto ha fatto per lui e che continuamente glielo rinfaccia, può consolarsi esclamando di essere almeno fedele al nonno: niente minaccia più profondamente la solidità borghese di questo incrociarsi di
tradimenti che si compensano, che non sono altro che
le conseguenze normali delle celebri tappe della democrazia.
Rosenthal non sapeva veramente da che parte stare,
a chi essere fedele. I suoi antenati rabbini non erano divertenti e che farsene a Parigi dei loro consigli pieni di
Zohar3 e di Talmud? Aveva troppa stima di sé per non
ammettere a se stesso, nonostante quel rispetto umano
che fa tanto per la difesa delle cause perse, che i più
umiliati dei suoi non lo disgustavano meno dei più
trionfanti, dei più ricchi, di quelli che alla fine avevano
acquistato una sorprendente sicurezza da cattolici come
se anche il Cielo e l’Inferno fossero appartenuti a loro:
le patetiche sinagoghe al primo piano di un edificio
screpolato del quartiere Saint-Paul, da cui il sabato
scendono vecchi così stravaganti, le scritte kasher sui
vetri delle macellerie, quell’odore di oriente, d’incenso,
che si respira a duecento metri dal bazar dell’Hôtel de
3 SEFER HA-ZOHAR (IL LIBRO DELLO SPLENDORE)
TRADIZIONE CABALISTICA EBRAICA.
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È IL LIBRO PIÙ IMPORTANTE DELLA
PAUL NIZAN
Ville e dalla chiesa di Saint-Gervais, le ragazze alte con
la pelle un po’ troppo bianca, sdegnose accanto a un
padre con la bombetta sulla soglia di una sartoria, le piccole bande di scippatori nei bar polacchi, le sciarpe di
seta bianca tessute con i fili dei colori del crepuscolo e
della luna, Bernard non ci si ritrovava, non più che con
i grandi matrimoni dei suoi cugini nel tempio di rue de
la Victoire o di rue Copernic, con i cilindri a corona attorno al fiocco e le pellicce delle signore nella fila di
banchi a sinistra, storie di riporti, deporti, di occhiate e
di parquet, delle ragazze con cui parlava quando le incontrava dalla cognata Catherine, con voci svogliate e
un pizzico di accento inglese, delle crociere fatte allo
Spitzberg o nelle Cicladi che cominciavano allora a essere di moda: Bernard non ci teneva a cambiare prigione.
Le riunioni appassionate degli operai pellicciai nella
piccola sala di rue Albouy non lo aiutavano molto: gli
oratori parlavano solo yiddish di cui lui non sapeva una
parola; nella sua famiglia non citavano più neanche un
vocabolo, senza ridere, della lingua dimenticata sin dai
tempi in cui era stata tradita la povertà, l’esilio e la collera. Insomma, non credeva che gli ebrei avessero diritto a una liberazione particolare, a una nuova alleanza
con Dio: riteneva che questa liberazione fosse parte di
una liberazione generale in cui si perdessero contemporaneamente i loro nomi, le disgrazie e la vocazione. Del
resto Bernard voleva solo essere libero, si preoccupava
poco di liberare gli altri.
Insomma era molto difficile per Rosenthal dimenticare di essere ebreo: il suo nome a volte gli causava una
specie di vergogna che giudicava ignobile e di cui arrossiva, ma ne era anche fiero e gli capitava, quando era
tra amici, di iniziare una frase con queste parole: “io che
sono ebreo”, come se avesse avuto in eredità segreti di
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cui gli altri non avrebbero mai saputo nulla, ricette sulla
conoscenza di Dio, l’intelligenza, la ribellione, come se
per la sua salvezza avesse dovuto sfruttare una storia
esaltante e sanguinosa di battaglie, pogrom, migrazioni,
persecuzioni, esegesi, scienza, potere reale, vergogna,
speranza e profezia. Ma gli bastava ritrovarsi tra i suoi
per detestarli, per dire a se stesso che la borghesia ebrea
era più orribile di tutte le altre, la banca ebrea più implacabile di quella protestante e cattolica: conosceva molto poco l’economia delle altre confessioni:
Ma che disgrazia trascinarsi dietro i problemi di duemila anni, i drammi di una minoranza! Che disgrazia non
essere solo!
I Rosenthal abitavano in avenue Mozart, in un periodo in cui quasi tutti i parenti e gli amici erano rimasti fedeli alla piana Monceau e mandavano i figli al Liceo
Carnot o al Condorcet e le figlie al Dieterlen, quando il
grande spostamento verso Passy e Auteuil non aveva ancora preso le dimensioni singolari che avrebbe assunto
negli anni successivi.
Si arrivava al piano terra dei Rosenthal seguendo inizialmente un grande corridoio di pietra bianca interrotto da alti specchi e da aggressive panchette di velluto
cremisi. Era un grande appartamento le cui porte finestre davano su un giardino umido circondato da un’inferriata e reso buio dagli alti edifici bianchi. Il salone e
il salottino erano pieni di statue, libri rilegati, quadri
scuri e mensole dai piedi dorati; c’era un pianoforte a
coda, un grosso rettile luccicante protetto da uno scialle
di Siviglia, un’arpa, alcune tele di Fantin-Latour e Dagnan-Bouveret risalenti all’epoca in cui i pittori avevano tutto da guadagnare ad assumere doppi nomi che conferivano loro una nobiltà da strada.
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