Occhi vuoti

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Occhi vuoti
LIBRO
IN ASSAGGIO
OCCHI VUOTI
DI JURIS JURJEVICS
La temperatura era quaranta sotto zero e stava scendendo. Il sole era già tramontato,
nell’imminenza dell’inverno. Ormai era poco più di una lontana linea chiara tra la distesa
gelata sulla quale si trovavano loro e la piattezza del cielo. Ad autunno così avanzato, la luce
del sole non spuntava mai da sotto l’orlo della terra. In quelle prime notti artiche, la fioca
fascia argentea riusciva appena a creare un alone all’orizzonte e a oscurare le stelle,
trasformando il cielo rosso scuro in un vuoto senza profondità. Anche quella minima luce
sarebbe svanita con l’arrivo dell’inverno. Nel giro di ventiquattro ore il cielo sarebbe stato
completamente buio, ma si sarebbe acceso il bagliore di costeilazioni e galassie.
Nel raggio della lampada portatile di Verneau, l’autista sembrava un uccello psichedelico.
Quando le penne d’oca dell’ingombrante tuta da ambiente estremo riflettevano la luce, le
punte fluorescenti esplodevano in urla arancio. Il casco curvo e il cappuccio completavano
l’impressione: una versione in grande del costume da pinguino che il figlio di Verneau aveva
indossato alla benedizione degli animali l’ultimo giorno di San Francesco, a Montreal. In
qualunque altro momento, il ricordo avrebbe evocato un sorriso. In quell’occasione, no.
In alto, la gigantesca cortina dell’aurora boreale tremolava. Rosa e verde chiaro si gonfiavano
lungo tentacoli di forza magnetica nei punti di maggiore concentrazione del campo. Verneau
trovò impossibile mettere a fuoco il magma di colori, decidere se l’aurora fosse lontana
centimetri o chilometri dal suo viso. Era apparsa poco prima come un segno premonitore: un
fenomeno raro, così a nord. Ma, ultimamente, le cose insolite erano parecchie. Emile
Verneau non aveva mai subito un blackout totale delle comunicazioni coi ricercatori sul
campo. Il suo maggior timore era che qualcuno fosse caduto in una crepa del ghiaccio o nelle
acque della polynya. Il che però non avrebbe spiegato il silenzio radio totale, a meno che... A
meno che tutti e quattro non fossero finiti nell’acqua gelida, viaggiando sul ghiaccio friabile o
sopra un canale che sfociava nel mare. A quel punto, nemmeno le tute polari avrebbero
potuto salvarli. Borbottò qualche parolaccia nella lingua del Québec mentre rifletteva.
L’autista si fermò al margine di una distesa piatta, fece cenni senza parlare. Avevano
raggiunto la polynya, un’apertura naturale nel ghiaccio marino che sfidava il freddo e restava
aperta per l’intero inverno. Odorava di acqua salmastra ed era perfettamente immobile.
La superficie del ghiaccio attorno recava i segni di ripetuti passaggi d’automezzi. Diversi cavi
coassiali e funi rosse, incrostate di ghiaccio e sale, arrivavano all’orlo della polynya. Senza
dubbio, la nave teleguidata per la raccolta dati si aggirava nell’acqua come uno squalò,
seguendo rotte ellittiche programmate.
L’autista puntò la lampada sul bordo dell’acqua, in cerca di segni di un tuffo accidentale. Tutti
quanti esaminarono le numerose impronte, le seguirono lungo i cavi fino al rifugio gonfiabile a
trenta metri di distanza, illuminato dall’interno. Nessuna sagoma umana, nessun veicolo
all’esterno, né il grosso camion cingolato né il piccolo gatto del pack. Nessuno in casa, come
aveva comunicato il primo gruppo di soccorso, prima di iniziare le ricerche.
Alex Kossuth, Junzo Ogata, Annie Bascomb, il glaciologo russo Minskov, e Lidiya
Tarakanova. Tutti dispersi. Tarakanova doveva ripartire quel mattino. Gli altri si erano recati al
campo per salutarla, per eseguire i test trimestrali in mare e scaricare i dati dalla nave
telecomandata. Però a mezzogiorno non avevano risposto al messaggio di controllo della
base: non si riusciva a rintracciarli né sulle ricetrasmittenti delle tute né sulle radio dei veicoli.
Metà della stazione Trudeau era uscita a cercarli.
All’interno del rifugio, il generatore ronzava, alimentato dalla serie di mulinelli montati
all’esterno su pali da sei metri. Era no state allestite due stazioni di lavoro provvisorie: teloni
ben tesi tra gambe telescopiche. Una era ad altezza scrivania; una cassa da imballaggio
faceva da sedia. L’altra stazione di lavoro era una specie di comodino, alta quanto bastava
per permettere a uno scienziato di usare un laptop e un sonometro stando comodamente
seduto su un letto ad aria. Vicino, per terra, un pacchetto a metà di bacche disidratate.
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Nessun segno di minacce o avarie. Niente fuori posto. Per Verneau fu un sollievo non
scoprire i resti sanguinolenti della furia di un orso incattivito.
Tutto era nel consueto, perfetto ordine nella zona di Ogata, e in completo caos in quella di
Annie Bascomb. La tenda divisoria era tirata più per nascondere il disordine che per
salvaguardare la privacy. Alex Kossuth era a metà di una delle sue partite di scacchi, con la
scacchiera sul materasso ad aria. La zona di Minskov sembrava inutilizzata, e nemmeno
quello era sorprendente. L’uomo dava sempre l’impressione di essere di passaggio. Il letto ad
aria di Lidiya Tarakanova era sgonfio, il sacco a pelo arrotolato, la tuta artica ripiegata, col
casco sopra.
Sul letto vicino, sopra il sacco a pelo, Verneau trovò l’agenda elettronica di Junzo Ogata e
consultò il diario. Le annotazioni erano rigorosamente di routine. Parlavano del viaggio dalla
stazione artica di ricerca Trudeau al sito di lavoro; della cauta metodologia nell’aspro
ambiente polare; delle tediose, pesanti procedure seguite da menti addestrate e coltissime
per raccogliere dettagli, accumulare dati. Tutto di quel lavoro era prevedibile, a eccezione
dell’ambiente.
Arrivò all’ultima annotazione, che riferiva i loro cicli di sonno e gli impegni per il mattino.
C’erano calcoli barrati in una finestra gialla, dati marginali che sarebbero stati incorporati nel
database e nel rapporto formale. Salinità dell’acqua, risalita delle acque profonde, letture del
gravimetro della marea terrestre e del mareografo automatico. Verneau piegò la testa per
decifrare un’annotazione scarabocchiata sullo schermo dell’agenda: ignisfatuus. Non
conosceva il termine. Nemmeno la grafia; non i caratteri precisi, geometrici di Ogata.
Kossuth?
Lanciò altre imprecazioni. Quattro scienziati non potevano scomparire in mezzo a
quell’area desolata. La radio del rifugio era accesa e funzionante. Lo dimostravano le
apparecchiature di controllo.
Poteva essere uno scherzo? Quella sera, come tutti gli anni, si sarebbe festeggiato
l’ultimo tramonto del sole, l’avvento dell’inverno, per così dire. Tutti improvvisavano costumi
coi materiali della stazione e organizzavano burle. Una specie di martedì grasso, prima dei
mesi della quaresima artica. Gli sarebbe piaciuto credere che si trattasse solo di uno scherzo
goliardico.
L’autista gli batté sul braccio con un taccuino aperto. Verneau riconobbe la grafia di Annie. Lo
prese e lesse.
20 ottobre
Ieri sera abbiamo tenuto un piccolo party d’addio: torta di prugne e Cointreau col tè. Lidiya
Tarakanova partirà oggi; se il sottomarino riuscirà ad arrivare alla polynya. L’apertura della
polynya si restringe in maniera drastica, stranamente, di giorno in giorno, col decrescere della
luce e l’avanzare della notte artica. Quest’anno deve essere come trovare una pozzanghera
in mezzo a un deserto.
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