Intervento dell`on Giuseppe Pizza

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Intervento dell`on Giuseppe Pizza
L’intervento dell’on. Giuseppe Pizza, sottosegretario di Stato all’Istruzione, Università e
Ricerca Scientifica.
Commemorazione ufficiale del centesimo anniversario della nascita di Carlo Bo
Senato della Repubblica
“Le mie parole sono, oggi, dettate dal personale, affettuoso ricordo di Carlo Bo… di quelle sere dei
primi anni 80 in cui, lungo la strada per l’Hotel Bernini, affrontavamo con piacevole trasporto
l’evidenza di un periodo in profonda evoluzione.
Molto spesso, l’attualità politica lasciava spazio alla comune passione letteraria ed è proprio di quei
momenti che serbo con gelosia ed orgoglio il ricordo della percezione di una sensibilità inconsueta
e straordinaria.
La vita e la letteratura, nella personalità di Carlo Bo, sembravano fondersi in un unico alveo
intellettuale, proteso a comprendere la condizione umana, a catturarne il valore, la povertà, ed allo
stesso tempo la magnifica essenza seppur, spesso, imbrigliata nei travagliati limiti dell’esistenza.
Proprio seguendo questa ambizione culturale, dal privilegiato osservatorio dei suoi ultimi anni di
vita, Carlo Bo è stato in grado di tracciare con impareggiabile lucidità le questioni che avrebbero
caratterizzato il nuovo secolo, il primo del nuovo millennio:
"la sopravvivenza, fisica e morale, di ciò che costituisce il fattore umano. Questa - diceva - sarà la
magna quaestio del futuro”.
II problema - scriveva - sarà poter ritrovare le ragioni ultime di quei valori che potranno consentire
una vita umanamente e umanisticamente motivata, che tenga conto non solo delle cose visibili, ma
anche - e soprattutto - di quelle invisibili. Il grande compito dei cristiani e degli uomini di buona
volontà sarà fare un po' di spazio nel materialismo per ritrovare un'idea condivisibile delle “cose
superiori”.
E’ l’immagine limpida della necessità di costruire insieme, credenti o no, un'altra civiltà, un mondo
che sappia finalmente ritrovare lo spirito della carità:
saper - cioè - perdonare e cercare di
risolvere problemi epocali, incombenti e giganteschi, anche basandosi sullo spessore del pensiero
solidale che appare sentimento chiave ed imprescindibile dell’organizzazione umana.
“Dovremo saper cambiare il mondo”, come scrisse Rimbaud, ma in senso positivo, coscienti della
difficoltà dell'impresa, perché il male è difficilmente aggredibile. Ed è sul sentiero della vita, con
tutte le sue trappole, i suoi misteri e le sue passioni che Bo incontrò autori come Charles
Baudelaire e Rimbaud, che agli antipodi della sua concezione morale e religiosa, sembravano
anch’essi anelare il respiro dell’anima.
1 Ed in questa visione colta ed estesa il ruolo riservato alla letteratura è allo stesso tempo geniale e
lungimirante.
Agli amici che incrociava nei corridoi di Palazzo Madama usava ripetere frequentemente che “solo
i sognatori sono in grado di fare qualcosa “.
Peraltro, confermando questa visione, scriveva nel saggio “Riflessioni critiche” pubblicato da
Sansoni, che “La letteratura doveva costituire una sapiente guida, non un rifugio”.
Egli asseriva con convinzione che l’arte non ha né il compito né il dovere di migliorare la natura
dell’uomo, ma deve rispondere inequivocabilmente alla ricerca della verità.
Carlo Bo, quindi, teorico della letteratura, giornalista e professore, pensatore e cronista, saggista
ed umanista militante. Forte è stata, anche, la sua spinta propulsiva ed innovativa nell’università:
sotto la sua guida Urbino si amplia di nuove facoltà, corsi, centri di studio e di ricerca, tra i quali il
Centro Internazionale di Semiotica e di Linguistica, il Centro Internazionale di Studi di Cultura
Greca, il Centro Studi per la Storia del Modernismo e l’Istituto di Scienze Religiose. Grande uomo,
quindi, ancor prima di grande critico letterario ed impareggiabile interprete di una cultura senza
confini mentali e geografici.
La profonda conoscenza dei maggiori interpreti della cultura francese e spagnola gli consentì,
infatti, una rilettura più attenta anche della letteratura italiana, a partire dalle pagine di Giacomo
Leopardi.
La lezione classica di Camillo Sbarbaro, che Carlo Bo ebbe come insegnante di greco a Genova,
quando frequentava gli studi superiori presso i gesuiti, incise profondamente nei suoi orientamenti
estetici e nella sua attività di critico.
Con accenti diversi ma non del tutto contrapposti alle lezioni di Giovanni Pascoli, di Francesco De
Sanctis e di Benedetto Croce, Carlo Bo ha il merito di avere organicamente inserito la letteratura
italiana nel contesto e nei flussi della cultura europea.
Ne fa fede il giudizio che esprime in una sua pubblicazione del 1939, “Otto studi”, nella quale,
interpreta proprio Sbarbaro in chiave ermetica, indicandone il senso in una progressiva liberazione
della parola poetica, quale espressione di una storia interiore.
Stato d’animo tipicamente europeo, come è possibile evidenziare da un saggio critico che Carlo Bo
dedica a scrittori francesi e spagnoli.
Erede di Agostino e di Pascal, scrive un testo fondamentale che orienterà la cultura della seconda
metà del Novecento, “La letteratura come vita”. Ed è da questa posizione che partiranno le sue
2 esplorazioni letterarie, con un percorso che lo porterà a diffondere e a far apprezzare in Italia autori
come Eliot, Kafka, Maritain, Mallarmè, Garcia Lorca, Mauriac e Claudel.
Degli Otto studi (1939) mi piace poter ricordare il suo saggio più incisivo, quello su Letteratura e
vita : un modo di chiedere alla letteratura qualcosa di più dell’intuizione estetica cercata da Croce o
del messaggio storicistico caro alla scuola positivista e poi marxista; di chiederle insomma risposte
per la vita nel suo senso più alto, secondo sollecitazioni che gli venivano ad un tempo
dall’esistenzialismo e dal cristianesimo.
Quel saggio offriva anche una Magna Carta all’ermetismo spiritualista, che scopriva un proprio
modello anche in quel Mallarmé cui s’intitolava un altro libro di Bo (1945). Il quale, peraltro, non
limitava il suo interesse a scrittori approdati saldamente alla fede, in senso confessionale; lui
stesso ebbe a definirsi «un aspirante cattolico».
Gli interessavano autori anche lontani ideologicamente ma mossi da una sete di assoluto propria
dei grandi: di qui il suo interesse per L’eredità di Leopardi (1964) o per La religione di Serra (1967),
che è, appunto, religione delle lettere.
Questa istanza, religiosa in senso lato, egli non la chiedeva solo allo scrittore, ma anzitutto al suo
interprete, a partire da se stesso.
Carlo Bo esprime in ogni sua opera un profondo atto d’amore per la letteratura, riconoscendo la
lettura quale sua unica e vera alleata. Questo atto d’amore trova coronamento con il saggio “Della
lettura” (1942). A tal riguardo, dichiarerà poco prima di morire di non aver mai smesso di leggere,
anzi di leggere la vita, pur riconoscendo di aver difficoltà ad evidenziare cosa avesse potuto
aggiungere di suo a quanto letto”.
Carlo Bo scriveva: “…. che cos’è per noi la letteratura se non tenere in mano questa parte viva
della verità e consumarsi per non saperla restituire, che cos’è se non durare su questo oggetto
chiuso e palpitante dell’anima?”
Bo è profondamente toccato dall’episodio del rapimento e del successivo delitto di Aldo Moro. In
una sua raccolta di articoli edita dal “Corriere della Sera” tra il marzo del 1978e l’Aprile del 1988,
dal titolo emblematico “Aldo Moro. Delitto di abbandono”, Bo tratteggia con impareggiabile
maestria i tormenti della propria inquietudine esistenziale e religiosa.
Nell’articolo del 18 marzo 1978 intitolato “il segno della coscienza” si avverte lo sconcerto per il
drammatico rapimento, consumatosi due giorni prima, e si pone l’accento sul Moro cristiano e sulla
sua “preveggenza politica” ed al contempo sulla “religione della morte” dei suoi rapitori.
Bo evidenzia come Moro fosse un uomo consapevole della “certezza della nostra fragilità, della
nostra soggezione alla volontà divina: di qui il bisogno di essere pronti all’evento incerto ma di cui
3 ignoriamo le scadenze immediate”. Ed al contempo, scrive ancora Bo, era un politico “lettore raro
di segni ancora chiusi nel pozzo del futuro”, che “non ha mai fatto parte degli osservatori avversi e
contrari della nuova società”, cercando nella sua lotta politica di contrapporre al pessimismo tutti gli
strumenti di correzione e riduzione che abbiamo”.
In questo mirabile modo Bo contrappone “il crepitio dei mitra dei rapinatori”, che hanno colto
soltanto l’apparenza più controversa di Moro, “la sua immagine che passa per ermetica, chiusa e
addirittura contraddittoria”, al “segno della coscienza” ed “alla sua voce umana”.
Molti altri eventi, anche attuali, meriterebbero la lettura vivace ed analitica di Bo; la sua dotta
maestria nell’osservare l’uomo, la società, gli eventi attraverso la sapiente lente dell’arte e della
letteratura ci fa percepire il grande vuoto lasciato da uno dei più grandi protagonisti della storia
intellettuale del nostro paese.
Il vivo ringraziamento è quindi rivolto a chi collaborando con dedizione alla “Fondazione Carlo e
Marise Bo” ha ordinato, catalogato e reso accessibile l’impareggiabile patrimonio bibliografico che
il senatore Bo ha lasciato; più di centomila unità bibliografiche originariamente ospitate nei suoi
diversi studi di Milano, Sestri Levante ed Urbino ed oggi resi “vivi” a beneficio degli studiosi e dei
ricercatori in campo umanistico con una forte vocazione nei settori della letteratura italiana,
francese moderna e contemporanea. Una biblioteca, quindi, destinata a rinnovarsi ed arricchirsi
perpetuando una missione ed una passione che ancora oggi trovano l’esatta sintesi nella frase
”Non Omnes Legi Sed Omnes Dilexi”.
Questa iscrizione apposta nella biblioteca della fondazione ci parla della dedizione o forse
dovremmo dire dell’amore con il quale egli scelse ogni singola opera componendo un percorso
culturale in grado di perpetuare la presenza , l’intensità e l’energia del suo pensiero a beneficio di
tutti noi. Per questo lo ringraziamo e lo ricordiamo, oggi, con profonda stima, ammirazione ed
affetto”.
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