Testo (Pdf – 134 KB) - Scuola San Carlo Borromeo
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S. Ecc. Mons. Luigi Negri Arcivescovo di Ferrara - Comacchio Educare oggi. L’urgenza di un compito affascinante Incontro in occasione del 25mo anniversario dalla fondazione della Scuola primaria San Carlo Inverigo – Auditorium Santa Maria 23 ottobre 2014 Ieri ho riaperto e consacrato una delle più belle e antiche chiese di Ferrara che è dedicata a S. Chiara. Sono 4 o 5 le chiese che ho potuto riaprire, a fronte delle 250 che sono ancora chiuse. La nostra Diocesi vive l'amarezza di essere stata espropriata del luogo tipico della comunità, che è la chiesa. Ma, a parte la bellezza, mi ha colpito un enorme quadro di San Carlo, un santo famosissimo a Ferrara, perché è stato anche un abilissimo stratega nel diffondere la Riforma del Concilio di Trento, a cui partecipò in maniera viva e attiva. Fece diventare vescovi due suoi amici: monsignor Sormani, della famosissima famiglia dei Sormani, che finì a Pennabilli, nel Montefeltro; e l'altro, Fontana, che poi finì a Ferrara. Ho quindi avuto una presenza viva di S. Carlo nelle due diocesi di cui sono stato Vescovo. Parto da San Carlo perché è a lui che è intitolata la vostra scuola. San Carlo è stato un pastore di straordinaria capacità: a Milano ha trovato una Chiesa praticamente distrutta – poche decine di preti –, in una diocesi che era molto più ampia dell'attuale. Egli la percorse a dorso di mulo, nella maggior parte dei casi facendo cinque visite pastorali. Quando arrivò si accorse di un'assoluta mancanza di cultura e di educazione cristiana. Identificò allora una parte fondamentale della sua azione pastorale nel far nascere, nelle parrocchie, le scuole di dottrina cristiana, Quando arrivò ce n'erano 5. Quando lasciò, per morte, la diocesi di Milano, erano 750, create sotto il suo impulso. Ma per far nascere queste scuole non poté fare appello ai preti, che erano pochi, malpreparati e molti dei pochissimi sapevano a malapena la formula della consacrazione e dell'assoluzione. Egli scrisse un messaggio a tutti i padri e le madri di famiglia, incaricandoli di essere, insieme a lui, i maestri della dottrina cristiana. Sono partito da qui per dire una cosa fondamentale sull'educazione: la preoccupazione educativa non è che i ragazzi abbiano cognizione di alcuni aspetti della realtà, che pure devono conoscere. L'educazione richiama la cultura. E la cultura è l’aprirsi dell'uomo al problema del suo destino. 1 La cultura è «un modo specifico dell’“esistere” e dell’“essere” dell'uomo», disse San Giovanni Paolo II nell'intervento formidabile del giugno 1980 all'Unesco di Parigi. L'uomo fa cultura perché è uomo. Fa cultura perché tende a conoscere il senso profondo della sua vita e quindi del mondo. Perché quando l'uomo ha un problema, è l'unico essere che trascina nel suo problema l'universo: la cultura è l'impegno caratteristico dell'uomo a conoscere il senso della sua vita. È un cammino verso un “oltre”. Perché l'uomo, quando dice “io” non dice un possesso, non dice “sono a posto”, ma apre una questione, apre un disagio, una scontentezza fondamentale: non sa chi è, non sa da dove viene, non sa dove va. La cultura nasce come tentativo che l'uomo assume, di fronte a se stesso e di fronte alla realtà, di percorrere il sentiero che va da sé verso quella realtà, misteriosa ma incombente, che l'uomo non conosce adeguatamente, ma di cui intuisce l'esistenza. Quest'uomo può non saper leggere né scrivere, ma può essere fattore di cultura. Viceversa si può saper leggere e scrivere ma non essere impegnato a questo livello. Così la cultura che si ha (o che si insegna) finisce per non avere l'aggancio diretto con la realtà. L’insegnamento non ha un aggancio diretto con la realtà per cosa insegna, ma perché viene insegnato in un certo modo. Il ‘certo modo’ con cui un insegnante insegna, il ‘certo modo’ con cui un padre e una madre si rapportano con i figli in certe circostanze concrete della vita quotidiana. Dunque la questione è il destino dell'uomo. Ma la modalità specifica con la quale l'uomo è chiamato ad affrontare il problema del suo destino si chiama cultura, cioè impegno dell'uomo con se stesso e manifestazione dei punti di verità che in questo impegno vengono a galla, attraverso l'uso di quello strumento straordinario e irriducibile che è la ragione. La ragione cerca il mistero. Non c'è opposizione tra ragione e mistero, L'opposizione tra ragione e mistero è ideologica, è falsa. L'uomo moderno è colui che ha posto una «inimicizia radicale tra la ragione e il mistero» ha scritto Jacques Maritain, poi ripreso dal grande teologo e filosofo Romano Guardini nel suo La fine dell'epoca moderna. Siamo chiamati in causa tutti: per prima cosa a camminare per l'acquisizione di una nostra cultura personale e poi, nella misura in cui l'abbiamo assunta, personalizzata, resa esperienza di vita, resa conoscenza, resa amore, resa impeto, abbiamo il problema di comunicarla. Perché ciò che è vero deve essere comunicato, ciò che è buono deve essere comunicato. Il bene è per sua natura qualcosa che non si può tenere per sé, perché tende inesorabilmente a diffondersi. In questo senso da mio papà, che ha fatto la quinta elementare, ho imparato la cultura più che da tutti i maestri che ho incontrato dopo, che hanno avuto il ruolo importante di svolgere criticamente tutto ciò che avevo già ricevuto nell'impatto quotidiano con mio papà e mia mamma. Il soggetto della cultura non è 2 l'insegnante, non è il prete, non è l'esperto, non è il ministro della Pubblica Istruzione. Deus avertat! Dio ci scampi! Il soggetto della cultura è l'uomo nella sua umanità. Perciò è una sfida che in qualche modo la realtà pone a te, al tuo destino: tu perché vivi? Perché esisti? È perché hai impostato così la questione, è per questa cultura di fondo che accetti la prospettiva di un impegno stabile con un altro nel matrimonio, o il sacrificio e l'impegno di andare al lavoro. C'è qualcosa prima e la cultura ci fa affondare in questo “prima” da cui dipende tutto il resto. Quando ho sentito monsignor Giussani formulare tantissime volte la cultura in questi termini, e poi quando l'abbiamo sentita insieme riformulata con potenza, con precisione, con afflato, da San Giovanni Paolo II, noi ci siamo sentiti restituiti la nostra umanità. Perché soltanto quando l'uomo viene provocato ad assumere responsabilmente il problema del proprio destino, a maturarlo, a crescerlo – e quindi a comunicarlo –, è solo così che l'uomo è visto nella sua umanità. Altrimenti è considerato per un aspetto: l'insegnante, il politico, l'esperto, il giornalista. Ciascuno di voi che è qui, ha una condizione in cui vive o competenze che ha acquisito o un servizio che può dare. L'insegnante non è uguale al padre e alla madre, il politico non è uguale all'insegnante, ma per tutti la prima osservazione fondamentale è che questa cultura primaria non è un problema di specializzazione: la cultura è un problema di verità. Ci fu un bellissimo Meeting dei primi anni in cui partecipò il cardinale Biffi di Bologna. Il tema globale aveva a che fare con la cultura e la specializzazione e Biffi parlò di «Morte per specializzazione». La specializzazione è quando si caricano di valore assoluto i particolari e allora l’uomo muore. Il particolare è la ricerca tecnoscientifica, che è una grande ideologia dei nostri giorni, più terribile e persuasiva delle grandi ideologie totalitarie, che fortunatamente sono morte, ma solo dopo aver massacrato milioni di uomini. Varrà bene la pena che anche noi, soprattutto noi cattolici, facciamo bene la storia del XX secolo e non da stupidi! Le grandi ideologie totalitarie nascono dall' affermazione che la cultura è il potere dell'uomo. Queste ideologie hanno prodotto non solo la Shoah ma i campi di concentramento, di sterminio, le guerre mondiali: 15 milioni di morti la prima, 50 milioni la seconda. Non si può celebrare il centenario della prima guerra mondiale dimenticando che essa è stata il primo grande e terribile tentativo di modificare l'assetto umano, culturale, sociale e politico dell'Europa. Sei tu che devi far cultura e la fai perché vivi, perché accetti tutta la densità problematica dell'uomo. E ti chiedi «ed io che sono?». Quest'espressione leopardiana – che Giussani andava a pescare tutte le volte che parlava in Cattolica per aprire il cammino che chi era lì a sentirlo doveva decidersi ad affrontare – riassume la prima osservazione sintetica: il problema dell'educazione implica non quello che tu sai, ma quello che tu sei. Quello che tu 3 sai arricchisce, sviluppa, rende credibile, comunica in maniera adeguata, forma le capacità della persona che educhi, svolgendone alcune dimensioni fondamentali. L'esigenza prima a cui, soprattutto in campo scolastico, si risponde, è quella a conoscere la realtà, tendenzialmente in tutti i suoi fattori. Ecco perché, secondo l'espressione eloquente e lucidissima di Giovanni Gentile, alle scuole elementari si impara a leggere, a scrivere e a far di conto. Quando si è imparato questo, si incomincia il cammino della specializzazione che può condurre anche a occuparsi di ingegneria aerospaziale. La cultura, però, non è che tu fai l'ingegnere aerospaziale, ma il motivo per cui hai deciso di farla. Perché hai capito che in quel particolare specifico tu compi la tua cultura, la esprimi adeguatamente e la cultura che ti sei fatto nella specializzazione ti consente di servire il popolo. Perché l'educazione è un servizio alla libertà e al destino del popolo. La cultura è l'impegno della nostra vita, con la nostra vita, per la nostra vita. Allora, se questa è l’educazione, poi il soggetto dell'educazione è uno e vario. La Chiesa dice che il primo soggetto dell'educazione non è la Chiesa, ma la famiglia. Il che significa che se la famiglia andrà in crisi a causa della mentalità anticristiana – favorita anche da tanti traditori sedicenti cristiani –, non si potrà né ripetere semplicemente che la famiglia è il soggetto dell’educazione, né non ripeterlo più e cercare scorciatoie per sostituire una realtà che non è sostituibile. Ecco perché una scuola come la vostra ha anche il problema di integrare le famiglie. Non tutte, ma quelle che ci stanno. Di far loro comprendere, attraverso la testimonianza educativa, che noi diamo a questi adulti, che devono riprendere fra le mani la loro funzione educativa. E potranno riprenderla nella misura in cui approfondiranno la loro identità di famiglia e quindi rivedranno la loro missione di famiglia. È la famiglia, e, contemporaneamente, in nesso organico con questa, la Chiesa, che detiene questo diritto. Non in vece della famiglia, ma accanto alla famiglia, per la specifica responsabilità ad educare cristianamente a quella vita nuova che Dio dona al mondo e all'uomo, nel mistero di Cristo morto e risorto. Quella vita nuova che accade nella misura in cui una persona entra a far parte del popolo di Dio. Un popolo in cui il Signore crocifisso e risorto è presente realmente, fonte della parola, fonte dei sacramenti, forma della carità del popolo. Questa vita nuova ha bisogno di essere educata, altrimenti la fede rimane nei sottofondi della coscienza e del cuore, non arriva al livello in cui l'uomo mangia e beve, veglia e dorme, vive e muore. Ecco perché una Chiesa che non educa è infedele alla sua identità. San Giovanni XXIII stupì la Chiesa e il mondo con la sua prima enciclica, Mater et Magistra, sottolineando che una Chiesa madre non può essere che maestra e qualsiasi forma di magisterialità non può essere esercitata che come espressione di maternità. La Chiesa è madre perché educa ed educa perché è madre. E 4 Giovanni XXIII, ricordato per la sua bontà – e sicuramente buono lo era –, diceva (e per questo non lo si ricorda molto) che la separazione astratta tra fede e cultura, fra fede e impegno sociale, culturale e politico, era la tragedia della Chiesa del nostro tempo. Ma per evitare questa separazione c'è bisogno che la Chiesa ripeta continuamente il Credo? C'è bisogno che la Chiesa investa le sue energie perché ciò che è dato misteriosamente nel Sacramento, ciò che è insegnato obiettivamente nella catechesi, diventi una concezione della vita, un modo di essere e di giudicare. Ecco dunque che la Chiesa si affianca alla famiglia, la integra, fa quello che la famiglia non può fare, cioè – nel caso specifico di una famiglia cattolica – dà forma intellettuale e morale alla fede. Perché se la Chiesa non fa diventare la fede forma dell'intelligenza dei suoi figli ed energia del loro cuore, è fallita. Cosa può fare la Chiesa per il mondo? Educare un popolo. Cosa può fare la Chiesa perché questa società non finisca per disintegrarsi totalmente sotto l'impeto della falsità e della menzogna che adesso hanno preso la forma di questa sconsiderata fiducia nella tecnoscienza, in base alla quale non esiste più nessun valore se non quelli fissati dalla scienza? Adesso la vita è quella che è fissata dalla scienza, la modalità in cui si nasce e si muore è fissata dalla scienza, perché la scienza è l'unico grande soggetto autorevole nell'umanità. Si nasce e si muore a comando della scienza, si nasce approfittando dell'utero in affitto, si nasce da ovuli che sono stati ibernati per poterli utilizzare a tempo debito quando la carriera nell'azienda sarà stata compiuta. E proprio chi ha avuto quest'idea viene indicata come un’azienda attenta alle esigenze del proprio personale. Si combatte questa follia che si sta diffondendo largamente nella società creando un popolo, cosciente della propria identità. L’identità del popolo – e quindi dell’uomo – non è nella storia, né nel potere, né nella sensibilità, né nel benessere affettivo o psicologico: la radice dell’uomo è nel mistero di Dio. In questo modo un popolo prende coscienza della sua identità, del grande dono che è la vita, e di quello ancor più grande che è la fede, perché la fede è la salvezza della vita, diceva Sant' Ambrogio: non sarebbe neanche valso la pena di nascere se non fosse per essere salvati. Quindi il soggetto è la famiglia, è la Chiesa e lo è certamente la scuola. La scuola però, a ben vedere, non è un soggetto di educazione ma un ambito dove si facilita l'educazione. Mio papà, che aveva fatto fino alla quinta elementare, non poteva spiegarmi la trigonometria: c'è bisogno che l'educazione diventi sapere. C’è bisogno cioè che la cultura che tu hai, il destino che tu conosci o che tu speri o che tu attendi o che hai incontrato, ti faccia amare la realtà. Il primo modo di amare la realtà è conoscerla. Non nella sua puntualità, la realtà di oggi, 2014, perché qualsiasi livello della realtà ci arriva dalla tradizione, dalla storia. La conoscenza è sempre teorica, ma è anche storica. È necessario 5 conoscere la realtà, rapportarsi ad essa con rispetto. La realtà della natura, per esempio, non è una serie di oggetti che l'uomo sapiente, lo scienziato, manipola e mette a posto trasformandola secondo la tecnica. No, la conoscenza della realtà è come penetrare progressivamente in una realtà che è vivente perché è immagine di Dio, come l'uomo. Certo, meno radicale dell'uomo, ma non meno significativa. Perché Dio parla attraverso l'uomo e la realtà della natura che ha costruito intorno all'uomo, perché l'uomo possa essere aiutato pienamente a realizzare pienamente la sua umanità. Ecco perché c'è bisogno della storia, della geografia e delle altre materie elementari e medie. C’è bisogno che ciascuno percepisca l’aspetto particolare che lo interessa di più e intuisca che, approfondendo quel particolare, maturerà la sua cultura e servirà il mondo. La specializzazione è la possibilità di andare a fondo della cultura in modo specifico e poi di servire il mondo attraverso questa specificità. Ecco la scuola. La scuola non è innanzitutto un soggetto educativo, ma un soggetto in cui attraverso l'insegnamento, continua, matura, si approfondisce, si articola, diventa più comunicativa una cultura di base. Ecco perché una scuola dovrebbe avere una cultura di riferimento: la cultura delle famiglie che mandano i ragazzi a scuola, o la cultura di una realtà sociale, o la cultura di gruppi, o di quelle formazioni sociali in cui l'uomo ha deciso di maturare la sua personalità. Mi pare dica così un articolo della nostra Costituzione repubblicana, che non si cita mai. Può essere un impegno religioso, o la tradizione della regione in cui è nato, un impegno culturale-sociale di una formazione politica, ma c'è bisogno di una cultura dietro, altrimenti la scuola si chiude in se stessa. Ai miei tempi la scuola era dominata da insegnanti che avevano il pallino di quello che insegnavano e invece che incontrare delle persone e maturare, attraverso il loro insegnamento, l’incontro con persone, si accontentavano di rovesciare addosso agli studenti i propri interessi. Così la selezione la facevano tra quelli che capivano e amavano la loro materia, e gli altri, che non capivano o non amavano quella materia, senza alcuna colpa, venivano progressivamente discriminati. Erano poi insegnanti che dicevano di sé – come ho sentito con le mie orecchie –: «se non avessi la chimica mi ammazzerei». Questa frase è riportata letteralmente nel Percorso di don Giussani. Ecco la differenza tra un'impostazione vera della vita e un'impostazione particolare. Ma come fa un uomo intelligente e serio a pensare che il problema della sua vita stia nell'andare fino in fondo a questa ‘sbronza’ per la chimica e in più pretendere di coinvolgere nella sua ‘sbronza’ i ragazzi, che forse alla loro età non hanno il diritto di sbronzarsi con la chimica ma di sapere perché vivono? Dove è nata la scuola? Nella casa del Vescovo – come dilatazione della sua preoccupazione pastorale e catechetica – e accanto ai conventi, cioè dove una cultura 6 forte diventava impostazione globale della vita. Non in astratto. Perché i Benedettini del 600, investiti da una massa di documenti precedenti, non li hanno bruciati – come hanno fatto gli islamici con la grande Biblioteca di Alessandria d'Egitto, distruggendo nel giro di qualche giorno centinaia di migliaia di volumi –, ma hanno preso questi libri e li hanno cominciati a rileggere nell'ottica della fede. Così li hanno capiti nella loro formulazione ‘tecnica’ e li hanno investiti di un giudizio che li ha resi appartenenti alla cultura dell'Occidente cristiano non meno di quanto non fossero appartenuti alla cultura precristiana. La scuola dunque ha bisogno di una cultura che la sostenga e svolge una azione educativa attraverso l'insegnamento. L’insegnamento è una realtà che ha una sua precisione metodologica, strumenti propri che devono essere continuamente aggiornati. Certamente c'è anche una professionalità dell'insegnamento che deve essere perseguita, ma questa non è la ragione ultima dell'insegnamento. L'insegnamento deve mettere in grado lo studente di avere una coscienza tendenzialmente matura della cultura da cui parte, nella quale è nato e che ha scelto, e vederla diventare, come diceva Giovanni Paolo II, cultura secondaria. Cioè cognizioni, materie, conoscenze, competenze, suggestioni tecnologiche, indicazioni professionali. Così la scuola matura la personalità. Il vertice, il punto terminale di un'educazione che avviene nella scuola è che un bambino, un ragazzo, scopra la sua vocazione, almeno professionale. La sua vocazione più ampia può non scoprirla a scuola, semmai può verificarla nella scuola, ma magari la scopre pregando il Santissimo Sacramento durante l’ora di adorazione. Ma capire che io debbo fare questo per dare carne al mio impegno culturale, per farlo diventare un impegno specifico attraverso cui esprimo la mia personalità e servo il popolo, questo fa l’educazione. L'educazione fa riconoscere la propria vocazione professionale attraverso la quale l'uomo, il cittadino, partecipa al bene comune della città. Due ultime sottolineature. La prima: la dico perché abbiamo fatto questa grande battaglia, in tanti, anch’io, anche don Costante l’ha fatta, nel concreto – vedendo quello che ha realizzato. Abbiamo lavorato intensamente perché il nostro paese è fortemente contrassegnato dalla tradizione cattolica, ma poi si è differenziato in altre forme e posizioni culturali, ma anche in forme ideologiche, che sono corruzioni della cultura ma che vivono accanto ad essa e possono condizionarla negativamente. Oggi la cultura vera del nostro paese è condizionata dall’ideologia che passa attraverso i mezzi della comunicazione sociale. Questa ideologia dice che ci sono gli stati vegetativi in cui un uomo non ha più coscienza di sé, non esiste più, e quindi può anche morire – che è una falsità dal punto di vista scientifico ed un orrore 7 dal punto di vista dei rapporti –. Allora si può decidere che Eluana Englaro può morire affermando così che la società, attraverso suo padre, gli consente il diritto alla morte dolce. Il nostro però è un Paese dove c'è una differenziazione tra posizioni culturali diverse. La logica esigerebbe che ogni espressione culturale significativa avesse il proprio diritto educativo e quindi la possibilità di creare scuole che esprimano questo diritto e mettano in condizione di avere una coscienza critica della propria cultura di partenza. Non si è voluto questo. Non si è voluto questo per una ragione che, a vergogna dello Stato italiano, è ancora fissata negli atti del Parlamento italiano. In una grande discussione, nel lontano 1864, sullo stato dell'istruzione e dell'educazione – era ministro della Pubblica Istruzione Marco Minghetti, persona laicista fino al midollo ma proba e competente – questo ministro, concludendo il dibattito ebbe l'impudenza, tipica dell’ideologo, di affermare così: in linea di principio sarebbe meglio una libertà di scuola, ma se ne approfitterebbero i clericali. Ricordatelo, tutte le volte che parlano di una scuola statale neutra, al servizio del popolo, libera da ideologie – salvo poi aver avuto la scuola risorgimentale, poi fascista, poi marxista…! –; quando vi dicono questo rispondete che la scuola o è animata da una cultura o serve un'ideologia. Anche quando pretende di essere totalmente neutra, di non avere alcuna pretesa se non quella di insegnare. Il buon San Giovanni Paolo II disse una volta ad un'associazione cattolica di insegnanti: la scuola che si concepisca esclusivamente istruttiva è una scuola nella quale avviene l'alienazione educativa. Perché la scuola di valore fa crescere il senso del destino, quindi il senso della cultura, e così facendo dà carne alla personalità dell'uomo. Ma come opzione di fondo che dev’essere dichiarata. La vostra scuola dichiara la sua cultura di partenza. Chi viene – con maggior o minor consapevolezza – ritiene di dover accettare questo riferimento della vostra scuola alla cultura che la precede e la informa. Una seconda e ultima sottolineatura: tutto questo per chi? Per i bambini e per i ragazzi. Che devono essere introdotti a loro volta nel cammino alla ricerca del vero, del bene e del bello. E devono essere introdotti in modo organico, in modo che diventi un cammino che maturi la loro personalità nelle scansioni della loro vita – fisica, psicologica, affettiva –, utilizzando tutti i momenti. Perché questo cammino possa essere condotto in modo adeguato e concreto. Noi apriamo le porte della nostra aula, entriamo e siamo sfidati dai nostri ragazzi sul problema del destino, anche se non lo sanno, anche se non ne sono consapevoli. È come se ci dicessero: «ma tu chi sei e perché sei qui? E che cosa vuoi da noi?». Allora capisci che devi aprire un discorso che va dalla tua persona alla loro. E tutto quello che viene insegnato deve essere dentro, dentro questo amore alla persona: Attraverso l'insegnamento cerchi la persona, ti rapporti con essa e cerchi di farla 8 camminare fin dove si fermerà lei, fin dove si fermerà la sua libertà. L'educazione, ci ha insegnato don Giussani, è una sintesi dialettica perché quei due fattori – l’insegnante e lo studente – non entrano sempre tranquillamente in gioco. È una dialettica tra chi è più autorevole – cioè tra chi è più maturo, ha una cultura più esplicita, è più consapevole della propria posizione culturale e ha strumenti per comunicarla – e chi si trova davanti. È l'autorità che mette in gioco nella vita dei più giovani una ipotesi di vita. Se ci sono insegnanti autentici uomini di cultura, la scuola non è un'imposizione, un sistema disciplinare militaresco. Le nostre scuole nei secoli scorsi rischiavano di essere l'anticipo della caserma. Invece una dialettica è quando io metto in gioco quello che sono, quello che spero, quello in cui credo. E tu sei una persona, che certo da me è sollecitata a capire la matematica, ma prima, prima, mentre studi la matematica, sei sollecitato a capire chi sei. E questo stabilisce un rapporto che non viene meno. Ti darò magari 4 fino alla fine della scuola perché non sai la matematica, ma dandoti 4 ti vorrò bene e non chiuderò il rapporto con te perché non hai capito la matematica. Perché che tu l'abbia capita o no, non è un'offesa a me, ma è una circostanza negativa che si deve cercare di supplire in qualche modo. Negli anni eroici appena dopo la contestazione, a Milano si fece un'inchiesta a campione su tutti gli studenti delle scuola medie superiori sul loro rapporto con i professori. Sapete cosa era ciò di cui si lamentavano di più gli studenti, che erano già smaliziati perché il ’68 c’era già stato? Del fatto che i loro professori, quando li incontravano in scuola finita l'ora di lezione, o per strada, non li salutavano. Perché l'uomo, soprattutto quello giovane, ha bisogno di un rapporto stabile. Per questo la pura aberrazione dell'affettività consiste nel ridurla a puro meccanismo sessuale senza impegno, senza stabilità, senza responsabilità, senza obiettivi, senza destinazione. È faticoso farli maturare nella loro responsabilità, noi non possiamo sostituirci alla loro libertà, ma dobbiamo riempire questa libertà di una proposta ed aiutarli a verificarla con noi, a cercare di capire se è vera, se corrisponde. Questo è ciò che deve realizzare una scuola in cui ci sia un esplicito riferimento culturale e degli insegnanti che hanno una precisa cultura: una convivenza stabile tra insegnanti e studenti che travalichi necessariamente anche le ore di scuola. Avete usato il termine “affascinante”, ecco l’educazione è “affascinante” perché impedisce di invecchiare, di irrigidire la dottrina. Non so se sia vero, come dicono alcuni, che il pericolo della Chiesa è l'irrigidimento della dottrina. Comunque un insegnante non può irrigidirsi, perché oggi ogni classe, ogni studente che incontra o sul quale deve dare un giudizio, lo mette in gioco. È come se gli dicesse: perché sei venuto? Che cosa vuoi da me? Gabriel Marcel, uno dei più acuti filosofi dello Spiritualismo francese, diceva: «Ama 9 chi dice all'altro: tu non puoi morire». In tutti i miei anni di insegnamento e poi anche nel lavoro che faccio adesso, alla fine della giornata mi sono sempre interrogato se quello che avevo fatto era il modo per dire alla gente che avevo incontrato: «ricordati che tu non sei venuto al mondo per morire». È questo che rende affascinante la cultura, perché rende affascinante la vita. Grazie. INTERVENTI Domanda - Hai posto l'accento su una questione che la mia ventennale esperienza di insegnante continua a ripropormi, un aspetto di fare scuola concreto che genitori e alunni continuano a ripropormi e su cui ho anche cambiato idea tante volte…: se vuoi fare una scuola devi avere una posizione culturale, un punto di vista, altrimenti predomina l'ideologia. La prima cosa che si vede se non c'è una posizione culturale, è che la scuola diventa noiosissima. Qualcosa che i ragazzi sperano che passi alla svelta, come il morbillo. Perché non è interessante per i giovani avere a che fare con una scuola che non apre ad uno sguardo sulla vita. Oggi lavoro in una scuola dove arrivano 600 famiglie con le posizioni culturali più diverse, ma quella più diffusa parte dal presupposto che è bene non porsi il problema del destino. Anche i musulmani, che il problema del destino se lo pongono, pensano che ciò non accada a scuola. È una battaglia quotidiana aprire questa questione, che pure per i giovani è affascinante. L’idea che mi hai fatto venire è questa: una posizione culturale che apre al destino, per sua natura, è per tutti. Oggi quindi occorrono proprio scuole cattoliche, cioè scuole che si facciano portatrici di una proposta vissuta. Perché mi sembra di vedere che la natura di una scuola che viene dalla fede è interessante per tutti, non solo per una parte. Siamo nel tempo in cui essere scuola dev’essere una proposta. Vorrei che mi aiutassi ad approfondire questa intuizione. S. Ecc. Negri: Ti sono molto grato oltre che per la testimonianza, anche perché hai introdotto un elemento che era rimasto un po’ in ombra. Oggi, nella disintegrazione totale della nostra società, se c'è una scuola qualificata è quella con una cultura cattolica. “Cultura”, non “confessione”, la scuola confessionale è quella nata nel 1600, in un contesto culturale radicalmente diverso, in cui la facevano da padrone i gesuiti. Oggi c’è una scuola di cultura cattolica, ci sono 600 famiglie diversissime, come dicevi tu: da quelle che si accontentano del talk show ad altri. Io faccio una proposta e se mi mandano i ragazzi vuol dire che si fidano. Perciò devo andare a fondo. Siccome non c'è una 10 situazione ideale, perché il nostro Stato non ha avuto il coraggio della libertà – forse perché è uno stato liberale e non libero! –, allora devo sentirmi condizionato dal fatto che quelli che mi mandano a scuola non sono tutti cattolici? Devo preoccuparmi che se sapessero quello che io faccio non me li manderebbero? Io dico che qualora se ne accorgessero, che non me li mandino più! Ma io devo accettare in modo positivo la sfida che è la fiducia. La gente che si fida è un valore. Dentro questa gente che si fida ci può essere qualcuno per cui il dialogo con te può diventare un cammino. Come nella catechesi: prepariamo 20 bambini alla Comunione, di questi 20 solo 3 famiglie vogliono partecipare a questo cammino. Io li preparo tutti. Se tornando a casa trovano dei genitori che sono in sintonia con quello che dico io, meglio! Se non li trovano, Dio li aiuterà lo stesso, i bambini. Io l’ho sempre detto: se fate la scuola cattolica solo per quelli che la pensano come voi, chiudetela pure subito. Voi dovete fare la scuola per tutti. Tutti sanno che voi fate una scuola qualificata, si fidano, pur non comprendendo tutto ma per un'intuizione: è una grazia. Valorizzate questa fiducia e restituitegli dei ragazzi che abbiano fatto un cammino di maturità e che saranno riconoscenti. Non dovete costringerli a venire lì per sempre. Se ad un certo punto saranno scontenti, non li manderanno. Non è una scuola quella senza una proposta, non è una scuola neanche laica. Una proposta quindi, poi, deve essere tenuta, sostenuta, deve diventare il criterio di selezione del personale docente. A parità di condizioni, senza fare discriminazione ideologiche, tra uno che si presenta con una cultura esplicitamente cattolica e pronto ad insegnare in quella direzione e uno che si presenta neutro, o addirittura che sia contrario, pur non facendo male, è chiaro che una scuola che sceglie il secondo non porta la scuola a un grande successo. La proposta di un'istituzione scolastica deve diventare coerente nelle scelte e nelle applicazioni; ma dico di più: anche nella scuola statale! Ho riaperto recentemente il documento degli anni Ottanta Il laico cattolico testimone della fede nella scuola: la cosa che è più lontana dai professori cattolici è entrare a scuola partendo da un'esplicita testimonianza. Mentre se fanno così, anche in una scuola così disarticolata, dove spesso anziché il confronto c'è lo scontro, nell'ora di scuola si realizza una vera esperienza vera di scuola. È questo, secondo me, il motivo per cui, grazie alla testimonianza di centinaia e centinaia insegnanti cattolici, la scuola italiana non ha fatto tutto il male che poteva fare. Ma questa non è una soluzione sociopolitica, perché questa soluzione esigerebbe un pluralismo di realtà scolastiche nelle quali la proposta sia chiara e perseguita con coerenza. Ognuno nella sua scuola, insegnando ciò che insegna, mette dentro un'immagine più vera di scuola. E questo redime tutto quel coacervo di tempo che si devono perdere in riunioni, sottoriunioni e in riempimenti di verbali. Questa è la libertà che 11 un uomo ha sempre. Domanda - A proposito di libertà, lei diceva che non possiamo sostituirci alla libertà di chi abbiamo davanti, ma possiamo aiutarlo a riempirla e verificarla. Da mamma e da insegnante, io mi trovo spesso di fronte ad una libertà che non si muove o che non lo fa come dico io. E mi irrigidisco eccome! Può approfondire la questione. S. Ecc. Negri: L'irrigidimento di cui parli tu implica una vigilanza del cammino educativo che può e deve diventare correzione. Io volevo solo evitare l'idea che il passaggio di una proposta avvenga meccanicamente o impositivamente: non si comunica la verità per imposizione ma, come dice il Concilio per la Fede, da persona a persona e con dolcezza. La proposta però deve assumersi anche la responsabilità di fissare le condizioni nelle quali matura. La disciplina, nella scuola così come nella casa, non è un valore in sé e per sé, ma è una condizione per la maturazione del cammino educativo. Vivere nel disordine fisico, ambientale, a maggior ragione vivere nel disordine morale, non costituisce una possibilità di cammino. Perciò no all'irrigidimento, se diventa un'imposizione. Ma è un irrigidimento negativo anche dire fai ciò che ti pare e piace, il permissivismo. L'autoritarismo e il permissivismo sono le facce dello stesso errore, che rende tutto tecnica. Il problema invece è una compagnia educativa che sa modulare la sua presenza a un bambino di 8 anni a cui devi poter chiedere (ed anche imporre) alcune cose. Ad uno di 18 è più difficile, ma non impossibile neanche in quel caso, a fronte della percezione che uno ha che se non interviene, questo si perde, si rovina. La nostra proposta deve allora mettere in primo piano e responsabilizzare la libertà dei ragazzi e dei giovani a rispondere in maniera personale, in modo che possano iniziare a fare un cammino: «vieni dietro di me». Dice Paolo, presentandosi come autorità per la gente che lui aveva chiamato alla fede: quello che avete visto, udito e imparato da me fatelo anche voi. L'educazione implica una imitazione, libera, cosciente, personale, responsabile. Ma l'educazione non è un'auto-educazione, ma l’assimilazione di una proposta che, man mano che si cammina, si riconosce come sempre più corrispondente alla mia umanità. Da quando il Papa Benedetto XVI lanciò per primo, in un congresso a Roma, il tema dell'“emergenza educativa” molti vescovi se ne sono interessati e io ho scoperto che l'emergenza educativa non è quella dei giovani, ma degli adulti. Perché quello che era assolutamente chiaro è che una fetta del mondo adulto si sottraeva alla propria responsabilità educativa. Allora ho trovato un passo bellissimo di Bernanos, 12 personaggio poliedrico, che in un saggio sullo scoppio della prima guerra mondiale, scrive: «abbiamo chiesto a coloro che ci precedevano delle ragioni adeguate per vivere, per tutta risposta ci hanno mandato a morire sulla Marna», la prima terribile battaglia tra francesi e tedeschi sul fiume omonimo, durata 5 giorni in cui sono morti 150.000 francesi e 200.000 tedeschi. Adesso si mandano a morire sulla Marna, ma sulle autostrade dove i ragazzi tornano sbronzi dalle discoteche, e non si interviene mai con una reale, anche solo minima regolamentazione dell'uso delle droghe e dell'alcool. La piazza della mia cattedrale per tutti i fine settimana è infestata da centinaia di giovani che fanno di tutto e di più. Le autorità istituzionali difendono in modo assolutamente astratto un concetto di libertà che è quello che ha rovinato il mondo. L'impegno a farsi responsabilmente promotori di una proposta è una cosa impegnativa, come fare il padre e la madre. Fare il padre e la madre è molto di più che avere un certo feeling psicologico con i figli. Siamo amicissimi dei nostri figli, facciamo molto insieme, ma il rapporto è spesso rivolto ad un aspetto immediato. Il mio papà che lavorava 20 ore al giorno, perché eravamo in tanti, non sapeva neanche cos'era la psicologia dell'età evolutiva. Faceva quel che poteva, qualche sberla la dava. La disciplina è un valore essenziale per aiutare i giovani a capire che ci sono delle regole che devono essere seguite. È essenziale, perché senza di questo anche la proposta più strabiliante che fai non attecchisce. Dovete dare il senso che i valori si acquistano sempre anche con sacrificio e che la disciplina è un aspetto del sacrificio, non è un fine in se stessa, non è un ideale. La disciplina è essenziale per interiorizzare sul piano esistenziale la propria proposta di vita. Dei bambini che crescono senza disciplina, non è detto che crescano: crescere vuol dire assimilare una proposta in modo personale. Appunti non rivisti dall’autore 13