Testo (Pdf – 134 KB) - Scuola San Carlo Borromeo

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Testo (Pdf – 134 KB) - Scuola San Carlo Borromeo
S. Ecc. Mons. Luigi Negri
Arcivescovo di Ferrara - Comacchio
Educare oggi. L’urgenza di un compito affascinante
Incontro in occasione del 25mo anniversario
dalla fondazione della Scuola primaria San Carlo
Inverigo – Auditorium Santa Maria
23 ottobre 2014
Ieri ho riaperto e consacrato una delle più belle e antiche chiese di Ferrara che è dedicata
a S. Chiara. Sono 4 o 5 le chiese che ho potuto riaprire, a fronte delle 250 che sono
ancora chiuse. La nostra Diocesi vive l'amarezza di essere stata espropriata del luogo
tipico della comunità, che è la chiesa. Ma, a parte la bellezza, mi ha colpito un enorme
quadro di San Carlo, un santo famosissimo a Ferrara, perché è stato anche un abilissimo
stratega nel diffondere la Riforma del Concilio di Trento, a cui partecipò in maniera viva e
attiva. Fece diventare vescovi due suoi amici: monsignor Sormani, della famosissima
famiglia dei Sormani, che finì a Pennabilli, nel Montefeltro; e l'altro, Fontana, che poi finì a
Ferrara. Ho quindi avuto una presenza viva di S. Carlo nelle due diocesi di cui sono stato
Vescovo.
Parto da San Carlo perché è a lui che è intitolata la vostra scuola.
San Carlo è stato un pastore di straordinaria capacità: a Milano ha trovato una Chiesa
praticamente distrutta – poche decine di preti –, in una diocesi che era molto più ampia
dell'attuale. Egli la percorse a dorso di mulo, nella maggior parte dei casi facendo cinque
visite pastorali. Quando arrivò si accorse di un'assoluta mancanza di cultura e di
educazione cristiana. Identificò allora una parte fondamentale della sua azione pastorale
nel far nascere, nelle parrocchie, le scuole di dottrina cristiana, Quando arrivò ce n'erano
5. Quando lasciò, per morte, la diocesi di Milano, erano 750, create sotto il suo impulso.
Ma per far nascere queste scuole non poté fare appello ai preti, che erano pochi,
malpreparati e molti dei pochissimi sapevano a malapena la formula della consacrazione e
dell'assoluzione. Egli scrisse un messaggio a tutti i padri e le madri di famiglia,
incaricandoli di essere, insieme a lui, i maestri della dottrina cristiana.
Sono partito da qui per dire una cosa fondamentale sull'educazione: la preoccupazione
educativa non è che i ragazzi abbiano cognizione di alcuni aspetti della realtà, che pure
devono conoscere. L'educazione richiama la cultura. E la cultura è l’aprirsi dell'uomo al
problema del suo destino.
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La cultura è «un modo specifico dell’“esistere” e dell’“essere” dell'uomo», disse San
Giovanni Paolo II nell'intervento formidabile del giugno 1980 all'Unesco di Parigi. L'uomo
fa cultura perché è uomo. Fa cultura perché tende a conoscere il senso profondo della sua
vita e quindi del mondo. Perché quando l'uomo ha un problema, è l'unico essere che
trascina nel suo problema l'universo: la cultura è l'impegno caratteristico dell'uomo a
conoscere il senso della sua vita. È un cammino verso un “oltre”. Perché l'uomo, quando
dice “io” non dice un possesso, non dice “sono a posto”, ma apre una questione, apre un
disagio, una scontentezza fondamentale: non sa chi è, non sa da dove viene, non sa dove
va.
La cultura nasce come tentativo che l'uomo assume, di fronte a se stesso e di fronte alla
realtà, di percorrere il sentiero che va da sé verso quella realtà, misteriosa ma
incombente, che l'uomo non conosce adeguatamente, ma di cui intuisce l'esistenza.
Quest'uomo può non saper leggere né scrivere, ma può essere fattore di cultura.
Viceversa si può saper leggere e scrivere ma non essere impegnato a questo livello. Così
la cultura che si ha (o che si insegna) finisce per non avere l'aggancio diretto con la realtà.
L’insegnamento non ha un aggancio diretto con la realtà per cosa insegna, ma perché
viene insegnato in un certo modo. Il ‘certo modo’ con cui un insegnante insegna, il ‘certo
modo’ con cui un padre e una madre si rapportano con i figli in certe circostanze concrete
della vita quotidiana. Dunque la questione è il destino dell'uomo. Ma la modalità specifica
con la quale l'uomo è chiamato ad affrontare il problema del suo destino si chiama cultura,
cioè impegno dell'uomo con se stesso e manifestazione dei punti di verità che in questo
impegno vengono a galla, attraverso l'uso di quello strumento straordinario e irriducibile
che è la ragione. La ragione cerca il mistero. Non c'è opposizione tra ragione e mistero,
L'opposizione tra ragione e mistero è ideologica, è falsa. L'uomo moderno è colui che ha
posto una «inimicizia radicale tra la ragione e il mistero» ha scritto Jacques Maritain, poi
ripreso dal grande teologo e filosofo Romano Guardini nel suo La fine dell'epoca moderna.
Siamo chiamati in causa tutti: per prima cosa a camminare per l'acquisizione di una nostra
cultura personale e poi, nella misura in cui l'abbiamo assunta, personalizzata, resa
esperienza di vita, resa conoscenza, resa amore, resa impeto, abbiamo il problema di
comunicarla. Perché ciò che è vero deve essere comunicato, ciò che è buono deve essere
comunicato. Il bene è per sua natura qualcosa che non si può tenere per sé, perché tende
inesorabilmente a diffondersi. In questo senso da mio papà, che ha fatto la quinta
elementare, ho imparato la cultura più che da tutti i maestri che ho incontrato dopo, che
hanno avuto il ruolo importante di svolgere criticamente tutto ciò che avevo già ricevuto
nell'impatto quotidiano con mio papà e mia mamma. Il soggetto della cultura non è
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l'insegnante, non è il prete, non è l'esperto, non è il ministro della Pubblica Istruzione.
Deus avertat! Dio ci scampi! Il soggetto della cultura è l'uomo nella sua umanità. Perciò è
una sfida che in qualche modo la realtà pone a te, al tuo destino: tu perché vivi? Perché
esisti?
È perché hai impostato così la questione, è per questa cultura di fondo che accetti la
prospettiva di un impegno stabile con un altro nel matrimonio, o il sacrificio e l'impegno di
andare al lavoro. C'è qualcosa prima e la cultura ci fa affondare in questo “prima” da cui
dipende tutto il resto. Quando ho sentito monsignor Giussani formulare tantissime volte la
cultura in questi termini, e poi quando l'abbiamo sentita insieme riformulata con potenza,
con precisione, con afflato, da San Giovanni Paolo II, noi ci siamo sentiti restituiti la nostra
umanità. Perché soltanto quando l'uomo viene provocato ad assumere responsabilmente
il problema del proprio destino, a maturarlo, a crescerlo – e quindi a comunicarlo –, è solo
così che l'uomo è visto nella sua umanità. Altrimenti è considerato per un aspetto:
l'insegnante, il politico, l'esperto, il giornalista. Ciascuno di voi che è qui, ha una
condizione in cui vive o competenze che ha acquisito o un servizio che può dare.
L'insegnante non è uguale al padre e alla madre, il politico non è uguale all'insegnante, ma
per tutti la prima osservazione fondamentale è che questa cultura primaria non è un
problema
di specializzazione: la cultura è un problema di verità. Ci fu un bellissimo
Meeting dei primi anni in cui partecipò il cardinale Biffi di Bologna. Il tema globale aveva a
che fare con la cultura e la specializzazione e Biffi parlò di «Morte per specializzazione».
La specializzazione è quando si caricano di valore assoluto i particolari e allora l’uomo
muore. Il particolare è la ricerca tecnoscientifica, che è una grande ideologia dei nostri
giorni, più terribile e persuasiva delle grandi ideologie totalitarie, che fortunatamente sono
morte, ma solo dopo aver massacrato milioni di uomini. Varrà bene la pena che anche noi,
soprattutto noi cattolici, facciamo bene la storia del XX secolo e non da stupidi! Le grandi
ideologie totalitarie nascono dall' affermazione che la cultura è il potere dell'uomo. Queste
ideologie hanno prodotto non solo la Shoah ma i campi di concentramento, di sterminio, le
guerre mondiali: 15 milioni di morti la prima, 50 milioni la seconda. Non si può celebrare il
centenario della prima guerra mondiale dimenticando che essa è stata il primo grande e
terribile tentativo di modificare l'assetto umano, culturale, sociale e politico dell'Europa.
Sei tu che devi far cultura e la fai perché vivi, perché accetti tutta la densità problematica
dell'uomo. E ti chiedi «ed io che sono?». Quest'espressione leopardiana – che Giussani
andava a pescare tutte le volte che parlava in Cattolica per aprire il cammino che chi era lì
a sentirlo doveva decidersi ad affrontare – riassume la prima osservazione sintetica: il
problema dell'educazione implica non quello che tu sai, ma quello che tu sei. Quello che tu
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sai arricchisce, sviluppa, rende credibile, comunica in maniera adeguata, forma le capacità
della persona che educhi, svolgendone alcune dimensioni fondamentali. L'esigenza prima
a cui, soprattutto in campo scolastico, si risponde, è quella a conoscere la realtà,
tendenzialmente in tutti i suoi fattori. Ecco perché, secondo l'espressione eloquente e
lucidissima di Giovanni Gentile, alle scuole elementari si impara a leggere, a scrivere e a
far di conto. Quando si è imparato questo, si incomincia il cammino della specializzazione
che può condurre anche a occuparsi di ingegneria aerospaziale. La cultura, però, non è
che tu fai l'ingegnere aerospaziale, ma il motivo per cui hai deciso di farla. Perché hai
capito che in quel particolare specifico tu compi la tua cultura, la esprimi adeguatamente e
la cultura che ti sei fatto nella specializzazione ti consente di servire il popolo. Perché
l'educazione è un servizio alla libertà e al destino del popolo. La cultura è l'impegno della
nostra vita, con la nostra vita, per la nostra vita.
Allora, se questa è l’educazione, poi il soggetto dell'educazione è uno e vario.
La Chiesa dice che il primo soggetto dell'educazione non è la Chiesa, ma la famiglia. Il che
significa che se la famiglia andrà in crisi a causa della mentalità anticristiana – favorita
anche da tanti traditori sedicenti cristiani –, non si potrà né ripetere semplicemente che la
famiglia è il soggetto dell’educazione, né non ripeterlo più e cercare scorciatoie per
sostituire una realtà che non è sostituibile. Ecco perché una scuola come la vostra ha
anche il problema di integrare le famiglie. Non tutte, ma quelle che ci stanno. Di far loro
comprendere, attraverso la testimonianza educativa, che noi diamo a questi adulti, che
devono riprendere fra le mani la loro funzione educativa. E potranno riprenderla nella
misura in cui approfondiranno la loro identità di famiglia e quindi rivedranno la loro
missione di famiglia. È la famiglia, e, contemporaneamente, in nesso organico con questa,
la Chiesa, che detiene questo diritto. Non in vece della famiglia, ma accanto alla famiglia,
per la specifica responsabilità ad educare cristianamente a quella vita nuova che Dio dona
al mondo e all'uomo, nel mistero di Cristo morto e risorto. Quella vita nuova che accade
nella misura in cui una persona entra a far parte del popolo di Dio. Un popolo in cui il
Signore crocifisso e risorto è presente realmente, fonte della parola, fonte dei sacramenti,
forma della carità del popolo. Questa vita nuova ha bisogno di essere educata, altrimenti
la fede rimane nei sottofondi della coscienza e del cuore, non arriva al livello in cui l'uomo
mangia e beve, veglia e dorme, vive e muore. Ecco perché una Chiesa che non educa è
infedele alla sua identità. San Giovanni XXIII stupì la Chiesa e il mondo con la sua prima
enciclica, Mater et Magistra, sottolineando che una Chiesa madre non può essere che
maestra e qualsiasi forma di magisterialità non può essere esercitata che come
espressione di maternità. La Chiesa è madre perché educa ed educa perché è madre. E
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Giovanni XXIII, ricordato per la sua bontà – e sicuramente buono lo era –, diceva (e per
questo non lo si ricorda molto) che la separazione astratta tra fede e cultura, fra fede e
impegno sociale, culturale e politico, era la tragedia della Chiesa del nostro tempo. Ma per
evitare questa separazione c'è bisogno che la Chiesa ripeta continuamente il Credo? C'è
bisogno che la Chiesa investa le sue energie perché ciò che è dato misteriosamente nel
Sacramento, ciò che è insegnato obiettivamente nella catechesi, diventi una concezione
della vita, un modo di essere e di giudicare. Ecco dunque che la Chiesa si affianca alla
famiglia, la integra, fa quello che la famiglia non può fare, cioè – nel caso specifico di una
famiglia cattolica – dà forma intellettuale e morale alla fede. Perché se la Chiesa non fa
diventare la fede forma dell'intelligenza dei suoi figli ed energia del loro cuore, è fallita.
Cosa può fare la Chiesa per il mondo? Educare un popolo. Cosa può fare la Chiesa
perché questa società non finisca per disintegrarsi totalmente sotto l'impeto della falsità e
della menzogna che adesso hanno preso la forma di questa sconsiderata fiducia nella
tecnoscienza, in base alla quale non esiste più nessun valore se non quelli fissati dalla
scienza? Adesso la vita è quella che è fissata dalla scienza, la modalità in cui si nasce e si
muore è fissata dalla scienza, perché la scienza è l'unico grande soggetto autorevole
nell'umanità. Si nasce e si muore a comando della scienza, si nasce approfittando
dell'utero in affitto, si nasce da ovuli che sono stati ibernati per poterli utilizzare a tempo
debito quando la carriera nell'azienda sarà stata compiuta. E proprio chi ha avuto
quest'idea viene indicata come un’azienda attenta alle esigenze del proprio personale. Si
combatte questa follia che si sta diffondendo largamente nella società creando un popolo,
cosciente della propria identità. L’identità del popolo – e quindi dell’uomo – non è nella
storia, né nel potere, né nella sensibilità, né nel benessere affettivo o psicologico: la radice
dell’uomo è nel mistero di Dio. In questo modo un popolo prende coscienza della sua
identità, del grande dono che è la vita, e di quello ancor più grande che è la fede, perché
la fede è la salvezza della vita, diceva Sant' Ambrogio: non sarebbe neanche valso la
pena di nascere se non fosse per essere salvati.
Quindi il soggetto è la famiglia, è la Chiesa e lo è certamente la scuola. La scuola però, a
ben vedere, non è un soggetto di educazione ma un ambito dove si facilita l'educazione.
Mio papà, che aveva fatto fino alla quinta elementare, non poteva spiegarmi la
trigonometria: c'è bisogno che l'educazione diventi sapere. C’è bisogno cioè che la cultura
che tu hai, il destino che tu conosci o che tu speri o che tu attendi o che hai incontrato, ti
faccia amare la realtà. Il primo modo di amare la realtà è conoscerla. Non nella sua
puntualità, la realtà di oggi, 2014, perché qualsiasi livello della realtà ci arriva dalla
tradizione, dalla storia. La conoscenza è sempre teorica, ma è anche storica. È necessario
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conoscere la realtà, rapportarsi ad essa con rispetto. La realtà della natura, per esempio,
non è una serie di oggetti che l'uomo sapiente, lo scienziato, manipola e mette a posto
trasformandola secondo la tecnica. No, la conoscenza della realtà è come penetrare
progressivamente in una realtà che è vivente perché è immagine di Dio, come l'uomo.
Certo, meno radicale dell'uomo, ma non meno significativa. Perché Dio parla attraverso
l'uomo e la realtà della natura che ha costruito intorno all'uomo, perché l'uomo possa
essere aiutato pienamente a realizzare pienamente la sua umanità. Ecco perché c'è
bisogno della storia, della geografia e delle altre materie elementari e medie. C’è bisogno
che ciascuno percepisca l’aspetto particolare che lo interessa di più e intuisca che,
approfondendo quel particolare, maturerà la sua cultura e servirà il mondo. La
specializzazione è la possibilità di andare a fondo della cultura in modo specifico e poi di
servire il mondo attraverso questa specificità. Ecco la scuola. La scuola non è innanzitutto
un soggetto educativo, ma un soggetto in cui attraverso l'insegnamento, continua, matura,
si approfondisce, si articola, diventa più comunicativa una cultura di base. Ecco perché
una scuola dovrebbe avere una cultura di riferimento: la cultura delle famiglie che
mandano i ragazzi a scuola, o la cultura di una realtà sociale, o la cultura di gruppi, o di
quelle formazioni sociali in cui l'uomo ha deciso di maturare la sua personalità. Mi pare
dica così un articolo della nostra Costituzione repubblicana, che non si cita mai. Può
essere un impegno religioso, o la tradizione della regione in cui è nato, un impegno
culturale-sociale di una formazione politica, ma c'è bisogno di una cultura dietro, altrimenti
la scuola si chiude in se stessa. Ai miei tempi la scuola era dominata da insegnanti che
avevano il pallino di quello che insegnavano e invece che incontrare delle persone e
maturare, attraverso il loro insegnamento, l’incontro con persone, si accontentavano di
rovesciare addosso agli studenti i propri interessi. Così la selezione la facevano tra quelli
che capivano e amavano la loro materia, e gli altri, che non capivano o non amavano
quella materia, senza alcuna colpa, venivano progressivamente discriminati. Erano poi
insegnanti che dicevano di sé – come ho sentito con le mie orecchie –: «se non avessi la
chimica mi ammazzerei». Questa frase è riportata letteralmente nel Percorso di don
Giussani. Ecco la differenza tra un'impostazione vera della vita e un'impostazione
particolare. Ma come fa un uomo intelligente e serio a pensare che il problema della sua
vita stia nell'andare fino in fondo a questa ‘sbronza’ per la chimica e in più pretendere di
coinvolgere nella sua ‘sbronza’ i ragazzi, che forse alla loro età non hanno il diritto di
sbronzarsi con la chimica ma di sapere perché vivono?
Dove è nata la scuola? Nella casa del Vescovo – come dilatazione della sua
preoccupazione pastorale e catechetica – e accanto ai conventi, cioè dove una cultura
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forte diventava impostazione globale della vita. Non in astratto. Perché i Benedettini del
600, investiti da una massa di documenti precedenti, non li hanno bruciati – come hanno
fatto gli islamici con la grande Biblioteca di Alessandria d'Egitto, distruggendo nel giro di
qualche giorno centinaia di migliaia di volumi –, ma hanno preso questi libri e li hanno
cominciati a rileggere nell'ottica della fede. Così li hanno capiti nella loro formulazione
‘tecnica’ e li hanno investiti di un giudizio che li ha resi appartenenti alla cultura
dell'Occidente cristiano non meno di quanto non fossero appartenuti alla cultura
precristiana. La scuola dunque ha bisogno di una cultura che la sostenga e svolge una
azione educativa attraverso l'insegnamento. L’insegnamento è una realtà che ha una sua
precisione metodologica, strumenti propri che devono essere continuamente aggiornati.
Certamente c'è anche una professionalità dell'insegnamento che deve essere perseguita,
ma questa non è la ragione ultima dell'insegnamento. L'insegnamento deve mettere in
grado lo studente di avere una coscienza tendenzialmente matura della cultura da cui
parte, nella quale è nato e che ha scelto, e vederla diventare, come diceva Giovanni Paolo
II, cultura secondaria. Cioè cognizioni, materie, conoscenze, competenze, suggestioni
tecnologiche, indicazioni professionali. Così la scuola matura la personalità. Il vertice, il
punto terminale di un'educazione che avviene nella scuola è che un bambino, un ragazzo,
scopra la sua vocazione, almeno professionale. La sua vocazione più ampia può non
scoprirla a scuola, semmai può verificarla nella scuola, ma magari la scopre pregando il
Santissimo Sacramento durante l’ora di adorazione. Ma capire che io debbo fare questo
per dare carne al mio impegno culturale, per farlo diventare un impegno specifico
attraverso cui esprimo la mia personalità e servo il popolo, questo fa l’educazione.
L'educazione fa riconoscere la propria vocazione professionale attraverso la quale l'uomo,
il cittadino, partecipa al bene comune della città.
Due ultime sottolineature.
La prima: la dico perché abbiamo fatto questa grande battaglia, in tanti, anch’io, anche
don Costante l’ha fatta, nel concreto – vedendo quello che ha realizzato. Abbiamo lavorato
intensamente perché il nostro paese è fortemente contrassegnato dalla tradizione
cattolica, ma poi si è differenziato in altre forme e posizioni culturali, ma anche in forme
ideologiche, che sono corruzioni della cultura ma che vivono accanto ad essa e possono
condizionarla negativamente. Oggi la cultura vera del nostro paese è condizionata
dall’ideologia che passa attraverso i mezzi della comunicazione sociale. Questa ideologia
dice che ci sono gli stati vegetativi in cui un uomo non ha più coscienza di sé, non esiste
più, e quindi può anche morire – che è una falsità dal punto di vista scientifico ed un orrore
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dal punto di vista dei rapporti –. Allora si può decidere che Eluana Englaro può morire
affermando così che la società, attraverso suo padre, gli consente il diritto alla morte
dolce. Il nostro però è un Paese dove c'è una differenziazione tra posizioni culturali
diverse. La logica esigerebbe che ogni espressione culturale significativa avesse il proprio
diritto educativo e quindi la possibilità di creare scuole che esprimano questo diritto e
mettano in condizione di avere una coscienza critica della propria cultura di partenza. Non
si è voluto questo. Non si è voluto questo per una ragione che, a vergogna dello Stato
italiano, è ancora fissata negli atti del Parlamento italiano. In una grande discussione, nel
lontano 1864, sullo stato dell'istruzione e dell'educazione – era ministro della Pubblica
Istruzione Marco Minghetti, persona laicista fino al midollo ma proba e competente –
questo ministro, concludendo il dibattito ebbe l'impudenza, tipica dell’ideologo, di
affermare così: in linea di principio sarebbe meglio una libertà di scuola, ma se ne
approfitterebbero i clericali. Ricordatelo, tutte le volte che parlano di una scuola statale
neutra, al servizio del popolo, libera da ideologie – salvo poi aver avuto la scuola
risorgimentale, poi fascista, poi marxista…! –; quando vi dicono questo rispondete che la
scuola o è animata da una cultura o serve un'ideologia. Anche quando pretende di essere
totalmente neutra, di non avere alcuna pretesa se non quella di insegnare. Il buon San
Giovanni Paolo II disse una volta ad un'associazione cattolica di insegnanti: la scuola che
si concepisca esclusivamente istruttiva è una scuola nella quale avviene l'alienazione
educativa. Perché la scuola di valore fa crescere il senso del destino, quindi il senso della
cultura, e così facendo dà carne alla personalità dell'uomo. Ma come opzione di fondo che
dev’essere dichiarata. La vostra scuola dichiara la sua cultura di partenza. Chi viene – con
maggior o minor consapevolezza – ritiene di dover accettare questo riferimento della
vostra scuola alla cultura che la precede e la informa.
Una seconda e ultima sottolineatura: tutto questo per chi? Per i bambini e per i ragazzi.
Che devono essere introdotti a loro volta nel cammino alla ricerca del vero, del bene e del
bello. E devono essere introdotti in modo organico, in modo che diventi un cammino che
maturi la loro personalità nelle scansioni della loro vita – fisica, psicologica, affettiva –,
utilizzando tutti i momenti. Perché questo cammino possa essere condotto in modo
adeguato e concreto. Noi apriamo le porte della nostra aula, entriamo e siamo sfidati dai
nostri ragazzi sul problema del destino, anche se non lo sanno, anche se non ne sono
consapevoli. È come se ci dicessero: «ma tu chi sei e perché sei qui? E che cosa vuoi da
noi?». Allora capisci che devi aprire un discorso che va dalla tua persona alla loro. E tutto
quello che viene insegnato deve essere dentro, dentro questo amore alla persona:
Attraverso l'insegnamento cerchi la persona, ti rapporti con essa e cerchi di farla
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camminare fin dove si fermerà lei, fin dove si fermerà la sua libertà. L'educazione, ci ha
insegnato don Giussani, è una sintesi dialettica perché quei due fattori – l’insegnante e lo
studente – non entrano sempre tranquillamente in gioco. È una dialettica tra chi è più
autorevole – cioè tra chi è più maturo, ha una cultura più esplicita, è più consapevole della
propria posizione culturale e ha strumenti per comunicarla – e chi si trova davanti. È
l'autorità che mette in gioco nella vita dei più giovani una ipotesi di vita. Se ci sono
insegnanti autentici uomini di cultura, la scuola non è un'imposizione, un sistema
disciplinare militaresco. Le nostre scuole nei secoli scorsi rischiavano di essere l'anticipo
della caserma. Invece una dialettica è quando io metto in gioco quello che sono, quello
che spero, quello in cui credo. E tu sei una persona, che certo da me è sollecitata a capire
la matematica, ma prima, prima, mentre studi la matematica, sei sollecitato a capire chi
sei. E questo stabilisce un rapporto che non viene meno. Ti darò magari 4 fino alla fine
della scuola perché non sai la matematica, ma dandoti 4 ti vorrò bene e non chiuderò il
rapporto con te perché non hai capito la matematica. Perché che tu l'abbia capita o no,
non è un'offesa a me, ma è una circostanza negativa che si deve cercare di supplire in
qualche modo.
Negli anni eroici appena dopo la contestazione, a Milano si fece un'inchiesta a campione
su tutti gli studenti delle scuola medie superiori sul loro rapporto con i professori. Sapete
cosa era ciò di cui si lamentavano di più gli studenti, che erano già smaliziati perché il ’68
c’era già stato? Del fatto che i loro professori, quando li incontravano in scuola finita l'ora
di lezione, o per strada, non li salutavano. Perché l'uomo, soprattutto quello giovane, ha
bisogno di un rapporto stabile. Per questo la pura aberrazione dell'affettività consiste nel
ridurla a puro meccanismo sessuale senza impegno, senza stabilità, senza responsabilità,
senza obiettivi, senza destinazione. È faticoso farli maturare nella loro responsabilità, noi
non possiamo sostituirci alla loro libertà, ma dobbiamo riempire questa libertà di una
proposta ed aiutarli a verificarla con noi, a cercare di capire se è vera, se corrisponde.
Questo è ciò che deve realizzare una scuola in cui ci sia un esplicito riferimento culturale e
degli insegnanti che hanno una precisa cultura: una convivenza stabile tra insegnanti e
studenti che travalichi necessariamente anche le ore di scuola.
Avete usato il termine “affascinante”, ecco l’educazione è “affascinante” perché impedisce
di invecchiare, di irrigidire la dottrina. Non so se sia vero, come dicono alcuni, che il
pericolo della Chiesa è l'irrigidimento della dottrina. Comunque un insegnante non può
irrigidirsi, perché oggi ogni classe, ogni studente che incontra o sul quale deve dare un
giudizio, lo mette in gioco. È come se gli dicesse: perché sei venuto? Che cosa vuoi da
me? Gabriel Marcel, uno dei più acuti filosofi dello Spiritualismo francese, diceva: «Ama
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chi dice all'altro: tu non puoi morire». In tutti i miei anni di insegnamento e poi anche nel
lavoro che faccio adesso, alla fine della giornata mi sono sempre interrogato se quello che
avevo fatto era il modo per dire alla gente che avevo incontrato: «ricordati che tu non sei
venuto al mondo per morire». È questo che rende affascinante la cultura, perché rende
affascinante la vita. Grazie.
INTERVENTI
Domanda - Hai posto l'accento su una questione che la mia ventennale esperienza di
insegnante continua a ripropormi, un aspetto di fare scuola concreto che genitori e alunni
continuano a ripropormi e su cui ho anche cambiato idea tante volte…: se vuoi fare una
scuola devi avere una posizione culturale, un punto di vista, altrimenti predomina
l'ideologia. La prima cosa che si vede se non c'è una posizione culturale, è che la scuola
diventa noiosissima. Qualcosa che i ragazzi sperano che passi alla svelta, come il
morbillo. Perché non è interessante per i giovani avere a che fare con una scuola che non
apre ad uno sguardo sulla vita. Oggi lavoro in una scuola dove arrivano 600 famiglie con
le posizioni culturali più diverse, ma quella più diffusa parte dal presupposto che è bene
non porsi il problema del destino. Anche i musulmani, che il problema del destino se lo
pongono, pensano che ciò non accada a scuola. È una battaglia quotidiana aprire questa
questione, che pure per i giovani è affascinante. L’idea che mi hai fatto venire è questa:
una posizione culturale che apre al destino, per sua natura, è per tutti. Oggi quindi
occorrono proprio scuole cattoliche, cioè scuole che si facciano portatrici di una proposta
vissuta. Perché mi sembra di vedere che la natura di una scuola che viene dalla fede è
interessante per tutti, non solo per una parte. Siamo nel tempo in cui essere scuola
dev’essere una proposta. Vorrei che mi aiutassi ad approfondire questa intuizione.
S. Ecc. Negri: Ti sono molto grato oltre che per la testimonianza, anche perché hai
introdotto un elemento che era rimasto un po’ in ombra. Oggi, nella disintegrazione totale
della nostra società, se c'è una scuola qualificata è quella con una cultura cattolica.
“Cultura”, non “confessione”, la scuola confessionale è quella nata nel 1600, in un
contesto culturale radicalmente diverso, in cui la facevano da padrone i gesuiti. Oggi c’è
una scuola di cultura cattolica, ci sono 600 famiglie diversissime, come dicevi tu: da quelle
che si accontentano del talk show ad altri. Io faccio una proposta e se mi mandano i
ragazzi vuol dire che si fidano. Perciò devo andare a fondo. Siccome non c'è una
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situazione ideale, perché il nostro Stato non ha avuto il coraggio della libertà – forse
perché è uno stato liberale e non libero! –, allora devo sentirmi condizionato dal fatto che
quelli che mi mandano a scuola non sono tutti cattolici? Devo preoccuparmi che se
sapessero quello che io faccio non me li manderebbero? Io dico che qualora se ne
accorgessero, che non me li mandino più! Ma io devo accettare in modo positivo la sfida
che è la fiducia. La gente che si fida è un valore. Dentro questa gente che si fida ci può
essere qualcuno per cui il dialogo con te può diventare un cammino. Come nella
catechesi: prepariamo 20 bambini alla Comunione, di questi 20 solo 3 famiglie vogliono
partecipare a questo cammino. Io li preparo tutti. Se tornando a casa trovano dei genitori
che sono in sintonia con quello che dico io, meglio! Se non li trovano, Dio li aiuterà lo
stesso, i bambini. Io l’ho sempre detto: se fate la scuola cattolica solo per quelli che la
pensano come voi, chiudetela pure subito. Voi dovete fare la scuola per tutti. Tutti sanno
che voi fate una scuola qualificata, si fidano, pur non comprendendo tutto ma per
un'intuizione: è una grazia. Valorizzate questa fiducia e restituitegli dei ragazzi che
abbiano fatto un cammino di maturità e che saranno riconoscenti. Non dovete costringerli
a venire lì per sempre. Se ad un certo punto saranno scontenti, non li manderanno. Non è
una scuola quella senza una proposta, non è una scuola neanche laica. Una proposta
quindi, poi, deve essere tenuta, sostenuta, deve diventare il criterio di selezione del
personale docente. A parità di condizioni, senza fare discriminazione ideologiche, tra uno
che si presenta con una cultura esplicitamente cattolica e pronto ad insegnare in quella
direzione e uno che si presenta neutro, o addirittura che sia contrario, pur non facendo
male, è chiaro che una scuola che sceglie il secondo non porta la scuola a un grande
successo. La proposta di un'istituzione scolastica deve diventare coerente nelle scelte e
nelle applicazioni; ma dico di più: anche nella scuola statale! Ho riaperto recentemente il
documento degli anni Ottanta Il laico cattolico testimone della fede nella scuola: la cosa
che è più lontana dai professori cattolici è entrare a scuola partendo da un'esplicita
testimonianza. Mentre se fanno così, anche in una scuola così disarticolata, dove spesso
anziché il confronto c'è lo scontro, nell'ora di scuola si realizza una vera esperienza vera di
scuola. È questo, secondo me, il motivo per cui, grazie alla testimonianza di centinaia e
centinaia insegnanti cattolici, la scuola italiana non ha fatto tutto il male che poteva fare.
Ma questa non è una soluzione sociopolitica, perché questa soluzione esigerebbe un
pluralismo di realtà scolastiche nelle quali la proposta sia chiara e perseguita con
coerenza. Ognuno nella sua scuola, insegnando ciò che insegna, mette dentro
un'immagine più vera di scuola. E questo redime tutto quel coacervo di tempo che si
devono perdere in riunioni, sottoriunioni e in riempimenti di verbali. Questa è la libertà che
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un uomo ha sempre.
Domanda - A proposito di libertà, lei diceva che non possiamo sostituirci alla libertà di chi
abbiamo davanti, ma possiamo aiutarlo a riempirla e verificarla. Da mamma e da
insegnante, io mi trovo spesso di fronte ad una libertà che non si muove o che non lo fa
come dico io. E mi irrigidisco eccome! Può approfondire la questione.
S. Ecc. Negri: L'irrigidimento di cui parli tu implica una vigilanza del cammino educativo
che può e deve diventare correzione. Io volevo solo evitare l'idea che il passaggio di una
proposta avvenga meccanicamente o impositivamente: non si comunica la verità per
imposizione ma, come dice il Concilio per la Fede, da persona a persona e con dolcezza.
La proposta però deve assumersi anche la responsabilità di fissare le condizioni nelle
quali matura. La disciplina, nella scuola così come nella casa, non è un valore in sé e per
sé, ma è una condizione per la maturazione del cammino educativo. Vivere nel disordine
fisico, ambientale, a maggior ragione vivere nel disordine morale, non costituisce una
possibilità di cammino. Perciò no all'irrigidimento, se diventa un'imposizione. Ma è un
irrigidimento negativo anche dire fai ciò che ti pare e piace, il permissivismo.
L'autoritarismo e il permissivismo sono le facce dello stesso errore, che rende tutto
tecnica. Il problema invece è una compagnia educativa che sa modulare la sua presenza
a un bambino di 8 anni a cui devi poter chiedere (ed anche imporre) alcune cose. Ad uno
di 18 è più difficile, ma non impossibile neanche in quel caso, a fronte della percezione
che uno ha che se non interviene, questo si perde, si rovina.
La nostra proposta deve allora mettere in primo piano e responsabilizzare la libertà dei
ragazzi e dei giovani a rispondere in maniera personale, in modo che possano iniziare a
fare un cammino: «vieni dietro di me». Dice Paolo, presentandosi come autorità per la
gente che lui aveva chiamato alla fede: quello che avete visto, udito e imparato da me
fatelo anche voi. L'educazione implica una imitazione, libera, cosciente, personale,
responsabile. Ma l'educazione non è un'auto-educazione, ma l’assimilazione di una
proposta che, man mano che si cammina, si riconosce come sempre più corrispondente
alla mia umanità. Da quando il Papa Benedetto XVI lanciò per primo, in un congresso a
Roma, il tema dell'“emergenza educativa” molti vescovi se ne sono interessati e io ho
scoperto che l'emergenza educativa non è quella dei giovani, ma degli adulti. Perché
quello che era assolutamente chiaro è che una fetta del mondo adulto si sottraeva alla
propria responsabilità educativa. Allora ho trovato un passo bellissimo di Bernanos,
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personaggio poliedrico, che in un saggio sullo scoppio della prima guerra mondiale, scrive:
«abbiamo chiesto a coloro che ci precedevano delle ragioni adeguate per vivere, per tutta
risposta ci hanno mandato a morire sulla Marna», la prima terribile battaglia tra francesi e
tedeschi sul fiume omonimo, durata 5 giorni in cui sono morti 150.000 francesi e 200.000
tedeschi. Adesso si mandano a morire sulla Marna, ma sulle autostrade dove i ragazzi
tornano sbronzi dalle discoteche, e non si interviene mai con una reale, anche solo minima
regolamentazione dell'uso delle droghe e dell'alcool. La piazza della mia cattedrale per
tutti i fine settimana è infestata da centinaia di giovani che fanno di tutto e di più. Le
autorità istituzionali difendono in modo assolutamente astratto un concetto di libertà che è
quello che ha rovinato il mondo. L'impegno a farsi responsabilmente promotori di una
proposta è una cosa impegnativa, come fare il padre e la madre. Fare il padre e la madre
è molto di più che avere un certo feeling psicologico con i figli. Siamo amicissimi dei nostri
figli, facciamo molto insieme, ma il rapporto è spesso rivolto ad un aspetto immediato. Il
mio papà che lavorava 20 ore al giorno, perché eravamo in tanti, non sapeva neanche
cos'era la psicologia dell'età evolutiva. Faceva quel che poteva, qualche sberla la dava. La
disciplina è un valore essenziale per aiutare i giovani a capire che ci sono delle regole che
devono essere seguite. È essenziale, perché senza di questo anche la proposta più
strabiliante che fai non attecchisce. Dovete dare il senso che i valori si acquistano sempre
anche con sacrificio e che la disciplina è un aspetto del sacrificio, non è un fine in se
stessa, non è un ideale. La disciplina è essenziale per interiorizzare sul piano esistenziale
la propria proposta di vita. Dei bambini che crescono senza disciplina, non è detto che
crescano: crescere vuol dire assimilare una proposta in modo personale.
Appunti non rivisti dall’autore
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