Psicovita di Niki de Saint Phalle

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Psicovita di Niki de Saint Phalle
RINGRAZIAMENTO
Capita che uno scrittore debba ringraziare una Musa ispiratrice, a volte un editor, altre una collaboratrice che ha procurato materiali, traduzioni, testi, a volte un’amica che ha compiuto ricerche e sopralluoghi,
occhi al posto dei propri, mani e cervello a sostegno, quando non in
sostituzione, di funzioni in cui lo scrittore non sempre eccelle.
Può anche capitare che debba affidarsi a una persona leale per ricevere consigli su tagli da operare nel testo, revisioni anche consistenti,
modifiche strutturali ravvisabili solo da uno sguardo esterno, sensibile
e partecipe. È noto che tali modifiche possono essere suggerite solo
da una persona coraggiosa e che in certi casi la pietà non è la massima forma di benevolenza.
Voglio tributare ciascuno e tutti i meriti di cui sopra a Stefania Tramarin, che ha suscitato e caldeggiato la nascita di quest’opera e con la
sua passione di artista ha creato le condizioni perché potesse vedere
la luce.
Una bambina di undici anni cammina in campagna
d’estate e alla sommità di una roccia vede due serpi
attorcigliate, due opulenti serpenti neri dal veleno mortale
avvinghiati in un dolce movimento. È terrorizzata, non osa
muoversi né respirare. È anche affascinata. Per la prima volta
sta vedendo la morte da vicino. Si chiede se quella sia davvero
la morte o la danza della vita. Rimane a lungo davanti alle
due creature, incantata. È diventata serpente.
Quando la settimana dopo l’erba viene tagliata e si
cospargono di veleno i campi intorno alla casa per sterminare
i serpenti, la piccola si chiede quanto lo sterminio la riguardi
in prima persona.
È l’estate del 1942 nel New England.
La bambina ha visto due serpenti e si è sentita una di
loro. È Eva ed è la tentatrice. La sensibilità di un’artista apre
ferite o sgorga da esse, in un cerchio che riassume se stesso.
Tutto è in nuce. La fatalità si prepara nel gioco eterno della
Necessità. Non li ha sognati, i serpenti, ma i bambini non hanno
solo responsabilità per i propri sogni, devono rispondere
soprattutto delle bizzarrie della realtà. Tutti quei serpenti in
giro in quell’estate così calda, due di loro ad amoreggiare
oscenamente davanti a lei, gli altri a morirle intorno alla casa:
per chi parteggiare, chi essere? Veleno potentissimo nella
loro bocca, terribile veleno per sterminarli. Paura, fascino. La
morte, oppure la danza della vita.
Una sera, nella medesima estate, la bimba trova tra le
lenzuola il cadavere nero di un serpente. Chi è morto, il rettile
o la bambina? È il fratello minore Jean ad avercelo messo, ci
potrebbe scommettere. Non le perdona di essere più piccolo
di lei. Alle sue urla accorre il cugino ventiduenne CharlesHenri, che dormiva nella camera attigua. Charles-Henri teme
che l’animale l’abbia morsa, ne prende la carcassa e la getta
dalla finestra.
Lei è spaventata e lo supplica di lasciarla dormire con
lui, nel suo letto. Tranquillizzata, passa la notte tra le lenzuola
del cugino. L’indomani i genitori sono scioccati nell’apprendere
la notizia che la loro figlioletta di undici anni ha dormito con
un cugino cha ha il doppio della sua età.
L’episodio dell’Estate dei serpenti di Niki de Saint Phalle
ha predisposto il concatenarsi di tutti gli altri episodi come due
diversi convogli su due binari distinti. Il binario dei serpenti
avviluppati e quello della notte passata nel letto del cugino.
Uno dal sapore mitologico. Lo shock della bambina di
fronte ai due serpenti intrecciati risveglia le antiche narrazioni
induiste, attraversa la vecchia Europa, l’Egeo e il Nilo, per
approdare sulle coste amerindiane dove sciamani in preda
a sostanze psicotrope dialogano con lucertole e rettili
impersonandone la sinuosa maestà. Nel minuto incidente
infantile, tutta la storia delle origini del mondo si riannoda all’io
sparuto di una creatura che scopre se stessa. Natura nuda
che richiama quella del corpo appena schiuso alla pubertà.
Nasce nella mente attraverso gli occhi e pervade il corpo con
l’incertezza del mutamento in atto. È una pulsazione interiore.
Il serpente che cambia la pelle, l’identità fisica traballante, la
parte animale che sta per manifestarsi senza connotarsi con
precisione nel corpo della personalità mutante genera una
spinta da dentro verso l’esterno.
L’altro di natura sociale, se non addirittura domestica.
Lo shock dei genitori per il contatto notturno tra la piccola
e il tutt’altro che piccolo cugino è espressione concreta del
clima morale dell’epoca e di quella famiglia in particolare:
arcicattolica, aristocratica, conservatrice. Facile che s’insinui
nella mente dei genitori il sospetto che il sonno riparatore della
fanciulla terrorizzata non sia stato del tutto puro. La malizia
è deviazione tipica dei fanatici: come John Le Carré fa dire a
uno dei suoi personaggi, “il fanatismo nasconde un dubbio
inconfessabile”. Il sospetto di una contaminazione che loro
conoscono molto bene, certo meglio della bambina. Chi vede
il male dove non c’è non è poi così innocente, nonostante la
purezza etica professata a gran voce. La morale iperreligiosa
dei genitori non li salva dal pensar male, li spinge anzi a farlo.
I due binari s’incrociano nella persona dell’undicenne
Niki. Lo scambio ferroviario si trova lì, nel bel mezzo della sua
essenza vacillante. Stretta nella morsa immateriale di presagi
e sospetti, la bambina non immagina che due treni insieme
si siano dati appuntamento alla stessa ora nello stesso posto,
al centro esatto di lei, per scontrarsi invece che scambiare le
direzioni lungo il naturale percorso della vita.
Sarà la memoria, shakerata a dovere tra rimozione e
reminiscenza, tra negazione e ricerca, tra oblio e improvvise
epifanie, a precipitare i due convogli in un ammasso di
ferraglia e detriti, residui di giocattoli e vestigia di ritualità
religiose, colori puerili e forme grottesche culminanti nell’arte
performativa propria di Niki de Saint Phalle.
Ci penseranno i ricordi a mescolare i due binari facendoli
partire da un unico centro, senza riconoscere che quello è
il punto di collisione e non di origine. Ben sconquassati da
una decina di elettroshock e da un coma insulinico praticati
in clinica psichiatrica dieci anni più tardi, i due convogli
esploderanno all’infinito nella sua mente.
La deflagrazione, vista e rivista da mille angolazioni,
reiterata verso un esterno implosivo nell’impulso di scardinare
la conservazione, di reagire alla reazione, di ribellarsi a un
benessere restrittivo, malato, intimamente decomposto,
continuerà a scagliare oggetti in aria nello spirito inquieto di
una bambina cresciuta rimanendo smarrita, rassegnata alla
rivolta.
Nella Bibbia, le colpe dei padri ricadono sulla testa dei
figli e non in semplice forma ereditaria. I figli condividono
le macchie dei genitori in casa, nei campi, dimostrando la
consanguineità del peccato.
La famiglia di Niki non è ebrea. È di estrazione benestante
ma è stata ricchissima. Il padre è un nobile di antica schiatta
e la madre appartiene all’aristocrazia americana. Prima del
1929 lui era un banchiere di successo in Francia. Dopo il
crollo di Wall Street, anche la sua banca è andata a picco e
il fallimento ha spinto la famiglia a emigrare negli Stati Uniti
per ricominciare.
Non tutta la famiglia, non subito.
Catherine Marie-Agnès Fal de Saint Phalle, in seguito
nota come Niki, nasce il 29 ottobre 1930 a Neuilly-sur-Seine
da Jeanne Jacqueline Harper e André Marie de Saint Phalle,
segno zodiacale scorpione, ascendente scorpione. In seguito
al fallimento del padre banchiere, lei e il fratello maggiore
vengono separati dai genitori e mandati a vivere con i nonni
paterni nel dipartimento francese della Nièvre, in Borgogna,
per i tre anni successivi.
Nel 1933 la famiglia si riunisce a Greenwich, nel
Connecticut, ma d’estate la piccola tornerà sempre in Francia
nel castello del nonno materno, l’americano Donald Harper.
Due mondi, due modi di vivere distanti, due universi destinati
a segnarle l’immaginazione.
Una separazione immediata dopo una nascita
problematica: in una lettera alla madre intrisa di rimproveri e
d’amore, Niki rivela la concretezza ancora una volta ambigua
di tale distacco e della sua duplice motivazione. Due binari, di
nuovo, uno mitologico e ultraterreno, simbolico e ancestrale,
l’altro solido e reale, legato alle relazioni interpersonali con
chi sarebbe tenuto ad amarla e non ci riesce.
I due serpenti sono presenti fin dal principio, nel ventre
della madre, nel cordone ombelicale attorcigliato due volte
intorno al collo della piccola. Il medico che aiuta Jeanne
Jacqueline Harper de Saint Phalle a partorire infila le dita
nell’apertura vaginale e dolcemente libera la creatura dal
doppio laccio che la soffoca e che le provocherà a lungo crisi
d’asma in età adulta.
Il segnale simbolico dei due serpenti ha una sua
tangibilità terrena nel primo tentato soffocamento della
bambina. La madre rinfaccerà più tardi alla piccola di essere
arrivata insieme a un mare di disgrazie, di avergliele anzi
portate. Mentre era incinta di lei, Jeanne Jacqueline scopriva
che il marito la tradiva e la crisi del 1929 faceva fallire la
banca di famiglia.
Una gravidanza inondata di lacrime, culminata nella
complicazione del parto che avrebbe potuto costare la vita alla
nascitura. Venire alla luce con la colpa: una morsa soffocante
intorno al collo e le recriminazioni di una madre per i guai
portati al mondo insieme al proprio piccolo corpo.
Il biasimo della madre tradita e impoverita addossa alla
figlia l’avvento di una catastrofe planetaria occidentale del
peso della Grande Depressione, allontanandola da sé per i
primi tre anni di vita e punendo di fatto la colpa con una
separazione contro natura di cui Niki stessa poi, a sua volta,
si renderà responsabile nei confronti dei propri figli.
I due serpenti e il biasimo di chi l’ha messa al mondo. I
binari sono sempre gli stessi, da qui la sua ferrovia ha avuto
origine, realmente e simbolicamente. Qui la mitologia ha
minacciato la sua vita per la prima volta e qui il mondo dei
genitori ha cominciato a mettersi contro di lei. A undici anni
i due segnali si ripresenteranno per esplodere in un episodio
catalizzante che sarà il risveglio della maledizione, il richiamo
a un destino la cui negazione condurrà la poveretta in clinica
psichiatrica all’età di ventidue anni.
Il duplice marchio a fuoco è stato impresso sulla carne di
Niki al principio della sua esistenza, e sarà compito dell’artista
che è in lei trasformare tutto quel male in benedizione.
L’arte permette di trasformare in oro una disgrazia.
Niki, da adulta, sosterrà di essere diventata artista
per sopravvivere a tutte le ferite inflitte dalla vita e da una
famiglia in cui “i bambini si dovevano vedere ma non sentire”.
Si potrebbe invece sostenere il contrario, cioè che proprio
perché era artista nel suo nucleo originario, personale, ha
saputo far tesoro di ogni accadimento, positivo e soprattutto
negativo, metabolizzarlo con abilità e trasformarlo nel senso
superiore di una cultura che denunci e ravveda, che dichiari e
converta, che ricicli il male in espressione emotiva utile a se
stessa e al mondo.
Nella lunga lettera-libro indirizzata alla figlia Laura,
intitolata Il mio segreto, Niki sostiene che molte artiste, molte
donne che hanno subito traumi come il suo, si sono salvate
grazie alla sublimazione, alla scrittura, alla creazione letteraria
che ha permesso loro di restituire il disastro dell’esistenza
a una dimensione superiore, imprigionando e limitando gli
inevitabili impulsi suicidi scaturiti dalle esperienze negative
serbate nel corpo e nel cuore. Non è bastato a Virginia Woolf,
suicida infine, ma a molte altre sì. Scrive questo per includersi
nel gruppo delle sopravvissute.
Niki si è salvata dal suicidio rifugiandosi nell’arte, così
afferma. Appare evidente che l’impulso sia stato quello di
digerire e sputare il trauma, il male, lo shock, la differenza
e la ribellione, vomitarli in forma stilizzata o cruda, sempre
prepotente, mostrarli soprattutto nell’arte più visibile e
autorappresentata, la più impositiva, la più imponente e
solida delle arti: la scultura.
Come sarebbe stata spaventata dai serpenti e innocente
nel letto del cugino ventiduenne undici anni più tardi, così
alla nascita era spaventata dal doppio funicolo che voleva
soffocarla e innocente da qualunque attribuzione la madre
sconvolta volesse imputarle.
Si sarebbe tentati di credere che ce ne sia abbastanza
da permetterle di diventare una grande artista, una volta
superato il trauma. Si potrebbe sostenere - come Niki stessa
fa - che per salvarsi da tutto questo, e dal resto che non
sarà meno greve, l’unica chance sia quella di metamorfizzare
artisticamente i traumi al fine di renderli inefficaci.
Ma traumi come i suoi erano, e probabilmente sono,
all’ordine del giorno. Ciò non è sufficiente a far sorgere nel
mondo miliardi di artisti in grado di creare meraviglie sensate
con le quali “depurare” il proprio spirito malandato. Solo chi
è già artista, chi ha quell’ineffabile talento dello spirito che
sa tradurre in immagini o parole o musica ciò che altri sanno
cogliere al massimo come suggestioni, solo chi possiede quella
sorta d’inspiegabile non so che può trasformare in creazione
artistica qualunque cosa gli accada.
Non è la colpa imputata all’innocente creatura a renderla
artista alla nascita e a generare poi i suoi capolavori, ma è
la dote innata di sensibilità che porta in sé da chissà dove a
creare il prodigio della trasmutazione del male in arte. Questa
è la tesi estetica, soprattutto esistenziale, che nessuno può
probabilmente comprovare ma che ugualmente qui si insiste
nel perorare: Niki si è vista ribaltare immediatamente le
carte che avrebbero potuto offrirle una vita felice, l’agiatezza
familiare e una sensibilità innata per l’arte, nondimeno ha
fatto tesoro di ogni cosa e ha saputo risorgere dalle ceneri in
cui la stoltezza umana ha cercato di ridurla fin dal principio.
Nel 1930 nasce e nel 1933 si ricongiunge ai genitori.
Non lo sa ancora, forse, ma è già segnata dai primi istanti.
Questo inizio ambivalente si ripercuoterà nel resto della sua
esistenza come fosse stata scelta la sua vita per tracciare un
manuale psichico che serva da campione al resto dell’umanità.
La sua capacità di recepire i messaggi “extrasensoriali”
in senso intellettuale, la sua applicazione del pensiero parallela
alla percezione comune del reale, è probabilmente una qualità
connaturata che acuisce via via la sua capacità visionaria
nell’interpretazione dell’universo reale. Tale dote le servirà
non solo a leggere il mondo secondo il suo personalissimo
punto di vista, ma soprattutto a scardinare poi visivamente
per mezzo dell’espressione artistica i luoghi comuni che i
“solidi benpensanti” vorrebbero mantenere stabili.
Le sue tragicomiche feste colorate, tra il truce e il puerile,
su forme ancestrali rivedute in epoca pop e promulgate nel
postmodernismo più acuto, saranno una rivolta contro lo
sguardo grigio e ipocrita di un mondo adulto ingiusto e di
un universo extrareale invasivo fino all’ossessione. I serpenti
torneranno nell’estate del ’42 a richiamare il peso di una
nascita minacciata, colpevole e innocente, sotto il segno di
un doppio scorpione connivente con due serpi.
Una ragazza talmente bella da comparire sulle più
affermate riviste in giovane età, una donna bellissima
tormentata da un passato rimasto in sospeso affronta la
vita con coraggio e porta avanti una battaglia - da eroe, da
supereroe come scriverà lei stessa - che è sopravvivenza
e messaggio al tempo stesso, necessità irrinunciabile e
incommensurabile dono alla cultura dell’umanità. L’io e il
collettivo coincidono nei bisogni e nelle aspettative. I convogli
continuano a correre sui due binari, fino allo scontro del 1942
e oltre, senza mai toglierle la voglia di mettersi alla guida e
superare gli ostacoli nel ruolo di macchinista di entrambi i
treni, avanti, al di là dell’inaccettabile, cocciutamente, con
ogni arma a disposizione. La dolcezza, la solitudine, il silenzio
e lo sparo, la galoppata e la sinuosità della forma, il focolare
domestico e l’amore erotico: tutto ciò che serve a un’eroina
verrà usato con crescente consapevolezza.
È necessario tornare all’età di undici anni per fissare e
comprendere appieno la deflagrazione muta che continuerà a
esplodere di lì in poi nella vita di Niki.
Dopo l’episodio della notte passata col cugino, il germe
dell’immagine erotica di Niki cresce e si fa larva, per uscire dal
bozzolo in forma di creatura compiuta soprattutto nell’animo
del padre André Marie. Attraverso il canale della malizia, del
sospetto su quanto di sconcio potrebbe essere accaduto nelle
coltri tra la ragazzina e il ventiduenne cugino, l’effluvio di Eros
ha cominciato a propagarsi come un gas venefico nella casa
di campagna dei Saint Phalle nel New England.
L’incesto è la cassaforte degli affetti famigliari. Come si
permette un cugino appena adulto di appropriarsi di qualcosa
che proviene direttamente dai lombi del capofamiglia e gli
appartiene in via patrilineare? La bambina non assocerà i due
episodi nemmeno quando scriverà alla figlia Laura la letteralibro che ne narra la sequenza. Quello del cugino rientra
nel canale semantico dei serpenti, al massimo è percepito
come un piccolo cortocircuito che prelude alla catastrofe, una
premonizione piuttosto che una diretta concausa.
Tuttavia basta uno sguardo esterno, meno emotivo, per
rendersi conto della consequenzialità degli eventi. L’idea di
sesso colpevole e di uno sviluppo erotico precoce nella piccola
Niki s’inserisce nella mente dei genitori nell’esatto momento
in cui, l’indomani mattina, mamma e papà si mostrano turbati
dagli eventi della notte. Il peccato ha contaminato Niki,
irreversibilmente, quantomeno nella coscienza dei suoi.
I serpenti, tre in tutto se si considera anche quello morto
che ha provocato lo scabroso abbinamento notturno, hanno
valore simbolico, profetico, non certo determinante quanto
invece il sospetto che ne scaturisce. Se esso da una parte
colpisce la piccola con l’ombra di una colpa aleggiante tra le
lenzuola dell’innocenza, dall’altra offusca la mente del padre
con intenzioni che l’uomo non riuscirà a tenere a freno.
“Avevo undici anni ma avevo l’aria di averne tredici”,
scrive Niki alla figlia Laura cinquant’anni dopo. E racconta
di come un pomeriggio André Marie de Saint Phalle si fosse
messo in testa di cercare la sua canna da pesca nel capanno
degli attrezzi e di farsi accompagnare dalla figlia.
“D’improvviso le mani di mio padre presero a esplorare
il mio corpo in una maniera assolutamente nuova per me”,
spiega. Si può immaginare cos’abbia potuto significare per la
bambina il comportamento del genitore. Niki lo spiega molto
bene nel libro-lettera alla figlia.
In caratteri maiuscoli, disegnati in forma e pelle di
serpente, scrive le quattro sensazioni pescate nella memoria
per descrivere la sensazione più grande e complessa che
in quel momento le serra il petto: VERGOGNA, PIACERE,
ANGOSCIA, e PAURA.
Racconta poi che il papà le disse: “Non muoverti”. E
confessa di aver obbedito come un automa.
A ben guardare, Niki de Saint Phalle ha continuato a
obbedire a quell’ordine inconsapevolmente almeno fino al
1992, data della lettera, serbando in sé questo episodio come
una cosa immonda e forse addirittura preziosa, da trasmettere
alla figlia mezzo secolo più tardi, dopo averla comunicata
artisticamente al mondo in ogni istante della sua vita. Mezzo
secolo, tanto ci ha messo il turbamento a manifestarsi
definitivamente nella forma riflessiva e consapevole di un
testamento, di un lascito che tramandi alla propria erede
il mistero antico capace di confondere donne e uomini e
farli smarrire nel viluppo inquietante dell’incomprensibile
impulsività sessuale.
Il desiderio e la repulsione, il potere dell’adulto e la
vulnerabilità della fanciulla, l’amore di una figlia e quello di
un padre, il rispetto dovuto al genitore e l’autorità da lui
espressa sulla carne della sua carne. Si è all’incrocio di un
groviglio che assomma diversi vettori in modo inestricabile,
immediatamente insolubile. Ci vuole tempo e pazienza,
tempo e sapienza per sciogliere un simile intrico di emozioni,
significati e impeti.
Tutto è serpente in quei quattro sentimenti. L’immobilità
nell’episodio si esaurisce a un certo punto, quando la
bimba si mette a scalciare e si libera per correre nel campo
di erba tagliata a esaurire le forze residue, ma la fissità
dell’avvenimento non troverà mai sbocco nel movimento,
se non tramite l’espressione di un’artista violenta e di una
scultrice megalomane.
Performance di pittura allo sparo s’inanelleranno a
trasformazioni di bambine in dee, in giganti indistruttibili e
variopinti nel tentativo di consumare una vendetta, poi una
rivalsa, un riscatto e infine una riconciliazione con la Natura
Madre e con un qualche Padre primevo, forse, dopo la
morte fisica di quello autentico. L’evoluzione artistica offrirà
l’illusione di un movimento da quell’episodio, tenendolo
invece costantemente immobile quale fulcro emotivo della
sua creatività.
I quattro sentimenti restano bloccati nel punto in cui il
padre le ha ordinato di non muoversi. Le opprimono il petto
come il cordone ombelicale le stringeva il collo alla nascita e
come l’asma la soffocherà in età adulta. Vergogna, piacere,
angoscia e paura: quattro sensazioni elencate in un ordine
scelto con cura per descrivere l’indescrivibile e guardare
l’inguardabile.
Prima viene la vergogna, sentimento definibile come
desiderio di non occupare il corpo che si sta occupando, bisogno
di essere un altro corpo, altrove, un corpo più fortunato, non
esposto a una prova così avvilente.
Secondo viene il piacere, avvinto alla vergogna come un
serpente, legato con la coda alla testa del sentimento che lo
precede e mescolato a esso nell’umida segretezza che li ispira
entrambi. Piacere di un corpo che non si vorrebbe occupare,
piacere che riporta nel corpo che non si vorrebbe essere, da
cui si dovrebbe fuggire. Vergogna che allontana, piacere che
avvicina, il negativo e il positivo che insieme provocano la
scarica elettrica, la differenza di potenziale che ne genera il
fluire.
Angoscia è paura trattenuta, prolungata, anticipata.
L’angoscia viene terza, ad annunciare il sentimento ultimo
che blocca, immobilizza, obbedisce alle parole del padre. “Non
muoverti”, le dice. E la figlia acconsente. Le mani frugano
il piccolo corpo che non riesce a respirare, attanagliato dai
quattro sentimenti dell’orrore silenzioso.
Niki poi scalcia e si disimpegna, è vero. Non si sa quanto
tempo dopo. Corre nel prato fino allo sfinimento. Corre nel
prato come si vede nel durissimo film performance Daddy,
pellicola autobiografica cui l’artista darà linfa e vita nel vero
senso della parola, per la regia di Peter Whitehead, nel 1973.
E pure il film è uno slittamento nel tempo, una ripercussione
di quello sciogliersi. Il film è il tentativo figurato di divincolarsi
dall’episodio fisso nella memoria come, nel concreto, lo era
stato il disordinato scalciare del corpo quel pomeriggio.
“Ci furono parecchie scene di questo genere in quella
stessa estate”, scrive Niki cinquant’anni dopo. In papà
evidentemente la molla era scattata. La bambina non era più
una bambina, il presunto battesimo erotico a letto col cugino,
presunto evidentemente dal genitore come la concomitanza
degli eventi sembra suggerire, gli aveva infilato nella mente
la convinzione che la piccola fosse pronta al sesso e, come un
padre iniziatore in altre culture e in altri tempi, si era sentito
chiamato al diritto, se non al dovere, di essere lui il primo, lui
l’autorizzato dalla natura a insegnare alla figlia cos’è il sesso,
a sconsacrarne il corpo. Il beneficiario dell’iniziazione doveva
essere lui e nessun altro.
Forse pensava questo e forse no, ma com’è pervasa
d’elementi mitologici l’interpretazione della piccola, così
potrebbe esserlo stato il movente che risolse l’uomo a
intervenire pesantemente nella sfera sessuale della sua
secondogenita. Forse si era anche convinto che un giorno la
bambina avrebbe capito.
Oh sì, avrebbe capito. Nella lettera alla figlia, Niki scrive
che suo padre aveva su di lei il terribile potere dell’adulto
sul bambino. Che lei poteva anche dibattersi, tanto lui era
più forte. E che così l’amore della piccola si era trasformato
in disprezzo. “Aveva infranto in me la fiducia nell’essere
umano”, sono le gravi parole usate dall’artista. Cosa cercava
suo padre, si chiede. Il piacere lo poteva trovare altrove, cosa
fu a spingere un individuo timorato di Dio, “arcicattolico”, a
compiere ripetutamente una simile violazione nei confronti
della figlia?
La risposta che si dà è interessante, forse giusta: il
fascino del proibito. “È il divieto e la tentazione di potere
assoluto su un altro essere”. Questa la sentenza di Niki, dopo
una riflessione lunga cinquant’anni.
Osservando l’insieme degli avvenimenti da una certa
distanza, la motivazione da lei data risulta inevitabilmente
parziale. Non basta il divieto ad attrarre un padre nelle spire
dell’incesto.
Il possesso e l’avarizia, l’iniziazione e il fascino del
proibito, l’oscura repressione che sfocia nell’improvviso raptus,
la madida oscurità degli anfratti mentali inerenti al sesso in
persone strutturate da rigidi confini comportamentali dovuti
al lignaggio, l’idea che una certa spregiudicatezza abbia già
invaso la sfera emotiva sempre vicina, procace, sottilmente
quanto inconsapevolmente civettuola di una figlioletta, la
gelosia stessa per l’intimità della propria creatura: tutte queste
sono possibili concause in un mistero dagli esiti devastanti.
A un insieme estremamente composito di moventi non
può che corrispondere un insieme intricato di conseguenze.
Il tradimento della fiducia negli esseri umani di cui parla Niki
è solo una di esse, un punto di arrivo attraverso il baratro
della sfiducia improvvisa nei confronti di un genitore, poi di
entrambi, quindi del nucleo famigliare, infine della vita. C’è
la scoperta del sesso come violazione anziché come naturale
rivelazione dell’età. E la bimba non è immune al fascino
del proibito cui allude, nel momento in cui avverte il corpo
rispondere in modo inatteso e conturbante agli azzardi del
padre.
Il potere assoluto su un altro essere ha anche un risvolto
masochistico in ambito strettamente erotico, suscettibile di
avviare infinite inversioni psicologiche mano a mano che lo
sviluppo del corpo sale verso l’adolescenza per poi farsi adulto.
La scoperta dell’intrusione dei grandi nel mondo dei piccoli si
manifesta con lo shock di un abuso, aprendo nell’universo
infantile una crepa incolmabile, una vulnerabilità infinita e un
infinito bisogno di autodifesa. Chi era preposto a proteggere
viola, il mondo va sottosopra, tutto si scardina, la realtà
mostra le sue mille lingue bifide di serpente, non ci si può più
affidare a nessuno, eppure un giorno ci si dovrà pur affidare a
qualcuno per sfuggire alla sfiducia, magari a un marito, come
Niki farà a soli 19 anni.
Il microcosmo di una bambina in pubertà subisce la
sua vessazione iniziatrice: la vita non è rose e fiori, come
già aveva intuito da piccolissima, quando la colpa l’aveva
allontanata dai genitori. Ora il turbamento si espande in una
sorpresa senza fine, in una instabilità senza riparo. Ciò che è
avvenuto una volta può accadere ancora, in casa. Ciò che per
un attimo è stato forse anche piacevole, pur nell’angoscia,
può continuare a ripetersi senza che nessuno sia in grado di
difenderla.
Parlare con una madre distante, assorbita dai tradimenti
del marito e dalla necessità di conservarselo comunque,
confidarsi con una donna che già l’ha incolpata di aver portato
disgrazie in famiglia venendo semplicemente al mondo, è
impensabile. Potrebbe peggiorare la situazione. I genitori
sono alleati, entrambi sono rimasti gravemente impressionati
per la notte passata da Niki nel letto del cugino. La mamma
non è immune alla malizia, né alle recriminazioni inconsulte
nei confronti degli innocenti.
Meglio tacere. La piccola è sola. Il microcosmo è un
mondo immenso di adulti che disorienta la bambina, un
universo in cui è impossibile difendersi, se non scalciando.
La famiglia si è trasformata in un universo insicuro,
pericoloso, compromesso. Eppure è lì che dovrà crescere, lì
dovrà continuare a vivere fino a che qualcuno non la porterà
via con sé. Fuori in verità sta accadendo di più e di peggio, la
tragedia della piccola è immensa per lei, certamente ignobile
per chiunque, ma il mondo esterno nel frattempo è alle prese
con ben altra tragedia.
In Europa imperversa la guerra.
In America, nel New England, si consumano piccoli
drammi infantili d’iniziazione incestuosa.
In Europa Hitler mette in atto il sistematico genocidio
della gente ebraica.
Nel capanno degli attrezzi della casa di campagna dei
Saint Phalle, nell’estate del 1942, viene dato l’avvio a una
serie di scandali intimi.
Oltre a quelli stilizzati e semplificati nella raccolta di
memorie familiari chiamata Traces, in cui Hitler e il nazismo
compaiono filtrati dal rito dei film che li ridicolizzano, sarà
questo il ricordo di guerra della piccola aristocratica Niki,
questa la molla che la spingerà a prendere il fucile un giorno e
a sfogare la violenza sull’arte, vero simulacro dedicato per una
volta alla sua autentica funzione rappresentatrice. Sarà una
rivalsa intima a far rimbombare l’eco della sua espressione
personale nell’ambito più universale dell’arte contemporanea.
La sublimazione psicanaliticamente intesa, cioè la
trasformazione di impulsi sessuali in manifestazione creativa,
raggiunge l’apice del suo significato nella distruzione
dell’oggetto artistico al posto della creatura che l’intenzione
dell’artista vorrebbe davvero distruggere. È una tecnica di
liberazione della violenza che non crea danni irreversibili,
quanto meno non su esseri viventi, tramutando concretamente
l’assalto distruttore in nuova creatività.
Semplice e geniale.
Due aggettivi che spesso si applicheranno perfettamente
all’arte di Niki de Saint Phalle.
Per continuare la lettura si può acquistare il libro sul sito di
Historica:
http://www.historicaedizioni.com/tag-prodotto/
psicovita-di-niki-de-saint-phalle/
BIBLIOGRAFIA
Harry e io - Niki de Saint Phalle e Harry Mathews (Niki
Charitable Art Foundation & Benteli Publishers 2006)
Niki de Saint Phalle - Pontus Hulten (Kunst und Austellungshalle
del Bundesrepublik - Deutschland 1992)
Niki de Saint Phalle - catalogo a cura di Stefano Cecchetto
(Ed. Skira Ginevra-Milano 2009)
Traces - Niki de Saint Phalle (Acato 2000)
Mon secret - Niki de Saint Phalle (SNELA La Différence Paris
2010)
Jukebox all’idrogeno - Allen Ginsberg (Mondadori 1965)
Una magia più forte della morte - Pontus Hulten Jean Tinguely
(Bompiani 1987)
Joie de vivre - Niki de Saint Phalle (Carlo Cambi 2009)
Traduzioni da inglese e francese a cura di Stefania Tramarin e
Marco Ongaro