Psicovita di Niki de Saint Phalle
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Psicovita di Niki de Saint Phalle
RINGRAZIAMENTO Capita che uno scrittore debba ringraziare una Musa ispiratrice, a volte un editor, altre una collaboratrice che ha procurato materiali, traduzioni, testi, a volte un’amica che ha compiuto ricerche e sopralluoghi, occhi al posto dei propri, mani e cervello a sostegno, quando non in sostituzione, di funzioni in cui lo scrittore non sempre eccelle. Può anche capitare che debba affidarsi a una persona leale per ricevere consigli su tagli da operare nel testo, revisioni anche consistenti, modifiche strutturali ravvisabili solo da uno sguardo esterno, sensibile e partecipe. È noto che tali modifiche possono essere suggerite solo da una persona coraggiosa e che in certi casi la pietà non è la massima forma di benevolenza. Voglio tributare ciascuno e tutti i meriti di cui sopra a Stefania Tramarin, che ha suscitato e caldeggiato la nascita di quest’opera e con la sua passione di artista ha creato le condizioni perché potesse vedere la luce. Una bambina di undici anni cammina in campagna d’estate e alla sommità di una roccia vede due serpi attorcigliate, due opulenti serpenti neri dal veleno mortale avvinghiati in un dolce movimento. È terrorizzata, non osa muoversi né respirare. È anche affascinata. Per la prima volta sta vedendo la morte da vicino. Si chiede se quella sia davvero la morte o la danza della vita. Rimane a lungo davanti alle due creature, incantata. È diventata serpente. Quando la settimana dopo l’erba viene tagliata e si cospargono di veleno i campi intorno alla casa per sterminare i serpenti, la piccola si chiede quanto lo sterminio la riguardi in prima persona. È l’estate del 1942 nel New England. La bambina ha visto due serpenti e si è sentita una di loro. È Eva ed è la tentatrice. La sensibilità di un’artista apre ferite o sgorga da esse, in un cerchio che riassume se stesso. Tutto è in nuce. La fatalità si prepara nel gioco eterno della Necessità. Non li ha sognati, i serpenti, ma i bambini non hanno solo responsabilità per i propri sogni, devono rispondere soprattutto delle bizzarrie della realtà. Tutti quei serpenti in giro in quell’estate così calda, due di loro ad amoreggiare oscenamente davanti a lei, gli altri a morirle intorno alla casa: per chi parteggiare, chi essere? Veleno potentissimo nella loro bocca, terribile veleno per sterminarli. Paura, fascino. La morte, oppure la danza della vita. Una sera, nella medesima estate, la bimba trova tra le lenzuola il cadavere nero di un serpente. Chi è morto, il rettile o la bambina? È il fratello minore Jean ad avercelo messo, ci potrebbe scommettere. Non le perdona di essere più piccolo di lei. Alle sue urla accorre il cugino ventiduenne CharlesHenri, che dormiva nella camera attigua. Charles-Henri teme che l’animale l’abbia morsa, ne prende la carcassa e la getta dalla finestra. Lei è spaventata e lo supplica di lasciarla dormire con lui, nel suo letto. Tranquillizzata, passa la notte tra le lenzuola del cugino. L’indomani i genitori sono scioccati nell’apprendere la notizia che la loro figlioletta di undici anni ha dormito con un cugino cha ha il doppio della sua età. L’episodio dell’Estate dei serpenti di Niki de Saint Phalle ha predisposto il concatenarsi di tutti gli altri episodi come due diversi convogli su due binari distinti. Il binario dei serpenti avviluppati e quello della notte passata nel letto del cugino. Uno dal sapore mitologico. Lo shock della bambina di fronte ai due serpenti intrecciati risveglia le antiche narrazioni induiste, attraversa la vecchia Europa, l’Egeo e il Nilo, per approdare sulle coste amerindiane dove sciamani in preda a sostanze psicotrope dialogano con lucertole e rettili impersonandone la sinuosa maestà. Nel minuto incidente infantile, tutta la storia delle origini del mondo si riannoda all’io sparuto di una creatura che scopre se stessa. Natura nuda che richiama quella del corpo appena schiuso alla pubertà. Nasce nella mente attraverso gli occhi e pervade il corpo con l’incertezza del mutamento in atto. È una pulsazione interiore. Il serpente che cambia la pelle, l’identità fisica traballante, la parte animale che sta per manifestarsi senza connotarsi con precisione nel corpo della personalità mutante genera una spinta da dentro verso l’esterno. L’altro di natura sociale, se non addirittura domestica. Lo shock dei genitori per il contatto notturno tra la piccola e il tutt’altro che piccolo cugino è espressione concreta del clima morale dell’epoca e di quella famiglia in particolare: arcicattolica, aristocratica, conservatrice. Facile che s’insinui nella mente dei genitori il sospetto che il sonno riparatore della fanciulla terrorizzata non sia stato del tutto puro. La malizia è deviazione tipica dei fanatici: come John Le Carré fa dire a uno dei suoi personaggi, “il fanatismo nasconde un dubbio inconfessabile”. Il sospetto di una contaminazione che loro conoscono molto bene, certo meglio della bambina. Chi vede il male dove non c’è non è poi così innocente, nonostante la purezza etica professata a gran voce. La morale iperreligiosa dei genitori non li salva dal pensar male, li spinge anzi a farlo. I due binari s’incrociano nella persona dell’undicenne Niki. Lo scambio ferroviario si trova lì, nel bel mezzo della sua essenza vacillante. Stretta nella morsa immateriale di presagi e sospetti, la bambina non immagina che due treni insieme si siano dati appuntamento alla stessa ora nello stesso posto, al centro esatto di lei, per scontrarsi invece che scambiare le direzioni lungo il naturale percorso della vita. Sarà la memoria, shakerata a dovere tra rimozione e reminiscenza, tra negazione e ricerca, tra oblio e improvvise epifanie, a precipitare i due convogli in un ammasso di ferraglia e detriti, residui di giocattoli e vestigia di ritualità religiose, colori puerili e forme grottesche culminanti nell’arte performativa propria di Niki de Saint Phalle. Ci penseranno i ricordi a mescolare i due binari facendoli partire da un unico centro, senza riconoscere che quello è il punto di collisione e non di origine. Ben sconquassati da una decina di elettroshock e da un coma insulinico praticati in clinica psichiatrica dieci anni più tardi, i due convogli esploderanno all’infinito nella sua mente. La deflagrazione, vista e rivista da mille angolazioni, reiterata verso un esterno implosivo nell’impulso di scardinare la conservazione, di reagire alla reazione, di ribellarsi a un benessere restrittivo, malato, intimamente decomposto, continuerà a scagliare oggetti in aria nello spirito inquieto di una bambina cresciuta rimanendo smarrita, rassegnata alla rivolta. Nella Bibbia, le colpe dei padri ricadono sulla testa dei figli e non in semplice forma ereditaria. I figli condividono le macchie dei genitori in casa, nei campi, dimostrando la consanguineità del peccato. La famiglia di Niki non è ebrea. È di estrazione benestante ma è stata ricchissima. Il padre è un nobile di antica schiatta e la madre appartiene all’aristocrazia americana. Prima del 1929 lui era un banchiere di successo in Francia. Dopo il crollo di Wall Street, anche la sua banca è andata a picco e il fallimento ha spinto la famiglia a emigrare negli Stati Uniti per ricominciare. Non tutta la famiglia, non subito. Catherine Marie-Agnès Fal de Saint Phalle, in seguito nota come Niki, nasce il 29 ottobre 1930 a Neuilly-sur-Seine da Jeanne Jacqueline Harper e André Marie de Saint Phalle, segno zodiacale scorpione, ascendente scorpione. In seguito al fallimento del padre banchiere, lei e il fratello maggiore vengono separati dai genitori e mandati a vivere con i nonni paterni nel dipartimento francese della Nièvre, in Borgogna, per i tre anni successivi. Nel 1933 la famiglia si riunisce a Greenwich, nel Connecticut, ma d’estate la piccola tornerà sempre in Francia nel castello del nonno materno, l’americano Donald Harper. Due mondi, due modi di vivere distanti, due universi destinati a segnarle l’immaginazione. Una separazione immediata dopo una nascita problematica: in una lettera alla madre intrisa di rimproveri e d’amore, Niki rivela la concretezza ancora una volta ambigua di tale distacco e della sua duplice motivazione. Due binari, di nuovo, uno mitologico e ultraterreno, simbolico e ancestrale, l’altro solido e reale, legato alle relazioni interpersonali con chi sarebbe tenuto ad amarla e non ci riesce. I due serpenti sono presenti fin dal principio, nel ventre della madre, nel cordone ombelicale attorcigliato due volte intorno al collo della piccola. Il medico che aiuta Jeanne Jacqueline Harper de Saint Phalle a partorire infila le dita nell’apertura vaginale e dolcemente libera la creatura dal doppio laccio che la soffoca e che le provocherà a lungo crisi d’asma in età adulta. Il segnale simbolico dei due serpenti ha una sua tangibilità terrena nel primo tentato soffocamento della bambina. La madre rinfaccerà più tardi alla piccola di essere arrivata insieme a un mare di disgrazie, di avergliele anzi portate. Mentre era incinta di lei, Jeanne Jacqueline scopriva che il marito la tradiva e la crisi del 1929 faceva fallire la banca di famiglia. Una gravidanza inondata di lacrime, culminata nella complicazione del parto che avrebbe potuto costare la vita alla nascitura. Venire alla luce con la colpa: una morsa soffocante intorno al collo e le recriminazioni di una madre per i guai portati al mondo insieme al proprio piccolo corpo. Il biasimo della madre tradita e impoverita addossa alla figlia l’avvento di una catastrofe planetaria occidentale del peso della Grande Depressione, allontanandola da sé per i primi tre anni di vita e punendo di fatto la colpa con una separazione contro natura di cui Niki stessa poi, a sua volta, si renderà responsabile nei confronti dei propri figli. I due serpenti e il biasimo di chi l’ha messa al mondo. I binari sono sempre gli stessi, da qui la sua ferrovia ha avuto origine, realmente e simbolicamente. Qui la mitologia ha minacciato la sua vita per la prima volta e qui il mondo dei genitori ha cominciato a mettersi contro di lei. A undici anni i due segnali si ripresenteranno per esplodere in un episodio catalizzante che sarà il risveglio della maledizione, il richiamo a un destino la cui negazione condurrà la poveretta in clinica psichiatrica all’età di ventidue anni. Il duplice marchio a fuoco è stato impresso sulla carne di Niki al principio della sua esistenza, e sarà compito dell’artista che è in lei trasformare tutto quel male in benedizione. L’arte permette di trasformare in oro una disgrazia. Niki, da adulta, sosterrà di essere diventata artista per sopravvivere a tutte le ferite inflitte dalla vita e da una famiglia in cui “i bambini si dovevano vedere ma non sentire”. Si potrebbe invece sostenere il contrario, cioè che proprio perché era artista nel suo nucleo originario, personale, ha saputo far tesoro di ogni accadimento, positivo e soprattutto negativo, metabolizzarlo con abilità e trasformarlo nel senso superiore di una cultura che denunci e ravveda, che dichiari e converta, che ricicli il male in espressione emotiva utile a se stessa e al mondo. Nella lunga lettera-libro indirizzata alla figlia Laura, intitolata Il mio segreto, Niki sostiene che molte artiste, molte donne che hanno subito traumi come il suo, si sono salvate grazie alla sublimazione, alla scrittura, alla creazione letteraria che ha permesso loro di restituire il disastro dell’esistenza a una dimensione superiore, imprigionando e limitando gli inevitabili impulsi suicidi scaturiti dalle esperienze negative serbate nel corpo e nel cuore. Non è bastato a Virginia Woolf, suicida infine, ma a molte altre sì. Scrive questo per includersi nel gruppo delle sopravvissute. Niki si è salvata dal suicidio rifugiandosi nell’arte, così afferma. Appare evidente che l’impulso sia stato quello di digerire e sputare il trauma, il male, lo shock, la differenza e la ribellione, vomitarli in forma stilizzata o cruda, sempre prepotente, mostrarli soprattutto nell’arte più visibile e autorappresentata, la più impositiva, la più imponente e solida delle arti: la scultura. Come sarebbe stata spaventata dai serpenti e innocente nel letto del cugino ventiduenne undici anni più tardi, così alla nascita era spaventata dal doppio funicolo che voleva soffocarla e innocente da qualunque attribuzione la madre sconvolta volesse imputarle. Si sarebbe tentati di credere che ce ne sia abbastanza da permetterle di diventare una grande artista, una volta superato il trauma. Si potrebbe sostenere - come Niki stessa fa - che per salvarsi da tutto questo, e dal resto che non sarà meno greve, l’unica chance sia quella di metamorfizzare artisticamente i traumi al fine di renderli inefficaci. Ma traumi come i suoi erano, e probabilmente sono, all’ordine del giorno. Ciò non è sufficiente a far sorgere nel mondo miliardi di artisti in grado di creare meraviglie sensate con le quali “depurare” il proprio spirito malandato. Solo chi è già artista, chi ha quell’ineffabile talento dello spirito che sa tradurre in immagini o parole o musica ciò che altri sanno cogliere al massimo come suggestioni, solo chi possiede quella sorta d’inspiegabile non so che può trasformare in creazione artistica qualunque cosa gli accada. Non è la colpa imputata all’innocente creatura a renderla artista alla nascita e a generare poi i suoi capolavori, ma è la dote innata di sensibilità che porta in sé da chissà dove a creare il prodigio della trasmutazione del male in arte. Questa è la tesi estetica, soprattutto esistenziale, che nessuno può probabilmente comprovare ma che ugualmente qui si insiste nel perorare: Niki si è vista ribaltare immediatamente le carte che avrebbero potuto offrirle una vita felice, l’agiatezza familiare e una sensibilità innata per l’arte, nondimeno ha fatto tesoro di ogni cosa e ha saputo risorgere dalle ceneri in cui la stoltezza umana ha cercato di ridurla fin dal principio. Nel 1930 nasce e nel 1933 si ricongiunge ai genitori. Non lo sa ancora, forse, ma è già segnata dai primi istanti. Questo inizio ambivalente si ripercuoterà nel resto della sua esistenza come fosse stata scelta la sua vita per tracciare un manuale psichico che serva da campione al resto dell’umanità. La sua capacità di recepire i messaggi “extrasensoriali” in senso intellettuale, la sua applicazione del pensiero parallela alla percezione comune del reale, è probabilmente una qualità connaturata che acuisce via via la sua capacità visionaria nell’interpretazione dell’universo reale. Tale dote le servirà non solo a leggere il mondo secondo il suo personalissimo punto di vista, ma soprattutto a scardinare poi visivamente per mezzo dell’espressione artistica i luoghi comuni che i “solidi benpensanti” vorrebbero mantenere stabili. Le sue tragicomiche feste colorate, tra il truce e il puerile, su forme ancestrali rivedute in epoca pop e promulgate nel postmodernismo più acuto, saranno una rivolta contro lo sguardo grigio e ipocrita di un mondo adulto ingiusto e di un universo extrareale invasivo fino all’ossessione. I serpenti torneranno nell’estate del ’42 a richiamare il peso di una nascita minacciata, colpevole e innocente, sotto il segno di un doppio scorpione connivente con due serpi. Una ragazza talmente bella da comparire sulle più affermate riviste in giovane età, una donna bellissima tormentata da un passato rimasto in sospeso affronta la vita con coraggio e porta avanti una battaglia - da eroe, da supereroe come scriverà lei stessa - che è sopravvivenza e messaggio al tempo stesso, necessità irrinunciabile e incommensurabile dono alla cultura dell’umanità. L’io e il collettivo coincidono nei bisogni e nelle aspettative. I convogli continuano a correre sui due binari, fino allo scontro del 1942 e oltre, senza mai toglierle la voglia di mettersi alla guida e superare gli ostacoli nel ruolo di macchinista di entrambi i treni, avanti, al di là dell’inaccettabile, cocciutamente, con ogni arma a disposizione. La dolcezza, la solitudine, il silenzio e lo sparo, la galoppata e la sinuosità della forma, il focolare domestico e l’amore erotico: tutto ciò che serve a un’eroina verrà usato con crescente consapevolezza. È necessario tornare all’età di undici anni per fissare e comprendere appieno la deflagrazione muta che continuerà a esplodere di lì in poi nella vita di Niki. Dopo l’episodio della notte passata col cugino, il germe dell’immagine erotica di Niki cresce e si fa larva, per uscire dal bozzolo in forma di creatura compiuta soprattutto nell’animo del padre André Marie. Attraverso il canale della malizia, del sospetto su quanto di sconcio potrebbe essere accaduto nelle coltri tra la ragazzina e il ventiduenne cugino, l’effluvio di Eros ha cominciato a propagarsi come un gas venefico nella casa di campagna dei Saint Phalle nel New England. L’incesto è la cassaforte degli affetti famigliari. Come si permette un cugino appena adulto di appropriarsi di qualcosa che proviene direttamente dai lombi del capofamiglia e gli appartiene in via patrilineare? La bambina non assocerà i due episodi nemmeno quando scriverà alla figlia Laura la letteralibro che ne narra la sequenza. Quello del cugino rientra nel canale semantico dei serpenti, al massimo è percepito come un piccolo cortocircuito che prelude alla catastrofe, una premonizione piuttosto che una diretta concausa. Tuttavia basta uno sguardo esterno, meno emotivo, per rendersi conto della consequenzialità degli eventi. L’idea di sesso colpevole e di uno sviluppo erotico precoce nella piccola Niki s’inserisce nella mente dei genitori nell’esatto momento in cui, l’indomani mattina, mamma e papà si mostrano turbati dagli eventi della notte. Il peccato ha contaminato Niki, irreversibilmente, quantomeno nella coscienza dei suoi. I serpenti, tre in tutto se si considera anche quello morto che ha provocato lo scabroso abbinamento notturno, hanno valore simbolico, profetico, non certo determinante quanto invece il sospetto che ne scaturisce. Se esso da una parte colpisce la piccola con l’ombra di una colpa aleggiante tra le lenzuola dell’innocenza, dall’altra offusca la mente del padre con intenzioni che l’uomo non riuscirà a tenere a freno. “Avevo undici anni ma avevo l’aria di averne tredici”, scrive Niki alla figlia Laura cinquant’anni dopo. E racconta di come un pomeriggio André Marie de Saint Phalle si fosse messo in testa di cercare la sua canna da pesca nel capanno degli attrezzi e di farsi accompagnare dalla figlia. “D’improvviso le mani di mio padre presero a esplorare il mio corpo in una maniera assolutamente nuova per me”, spiega. Si può immaginare cos’abbia potuto significare per la bambina il comportamento del genitore. Niki lo spiega molto bene nel libro-lettera alla figlia. In caratteri maiuscoli, disegnati in forma e pelle di serpente, scrive le quattro sensazioni pescate nella memoria per descrivere la sensazione più grande e complessa che in quel momento le serra il petto: VERGOGNA, PIACERE, ANGOSCIA, e PAURA. Racconta poi che il papà le disse: “Non muoverti”. E confessa di aver obbedito come un automa. A ben guardare, Niki de Saint Phalle ha continuato a obbedire a quell’ordine inconsapevolmente almeno fino al 1992, data della lettera, serbando in sé questo episodio come una cosa immonda e forse addirittura preziosa, da trasmettere alla figlia mezzo secolo più tardi, dopo averla comunicata artisticamente al mondo in ogni istante della sua vita. Mezzo secolo, tanto ci ha messo il turbamento a manifestarsi definitivamente nella forma riflessiva e consapevole di un testamento, di un lascito che tramandi alla propria erede il mistero antico capace di confondere donne e uomini e farli smarrire nel viluppo inquietante dell’incomprensibile impulsività sessuale. Il desiderio e la repulsione, il potere dell’adulto e la vulnerabilità della fanciulla, l’amore di una figlia e quello di un padre, il rispetto dovuto al genitore e l’autorità da lui espressa sulla carne della sua carne. Si è all’incrocio di un groviglio che assomma diversi vettori in modo inestricabile, immediatamente insolubile. Ci vuole tempo e pazienza, tempo e sapienza per sciogliere un simile intrico di emozioni, significati e impeti. Tutto è serpente in quei quattro sentimenti. L’immobilità nell’episodio si esaurisce a un certo punto, quando la bimba si mette a scalciare e si libera per correre nel campo di erba tagliata a esaurire le forze residue, ma la fissità dell’avvenimento non troverà mai sbocco nel movimento, se non tramite l’espressione di un’artista violenta e di una scultrice megalomane. Performance di pittura allo sparo s’inanelleranno a trasformazioni di bambine in dee, in giganti indistruttibili e variopinti nel tentativo di consumare una vendetta, poi una rivalsa, un riscatto e infine una riconciliazione con la Natura Madre e con un qualche Padre primevo, forse, dopo la morte fisica di quello autentico. L’evoluzione artistica offrirà l’illusione di un movimento da quell’episodio, tenendolo invece costantemente immobile quale fulcro emotivo della sua creatività. I quattro sentimenti restano bloccati nel punto in cui il padre le ha ordinato di non muoversi. Le opprimono il petto come il cordone ombelicale le stringeva il collo alla nascita e come l’asma la soffocherà in età adulta. Vergogna, piacere, angoscia e paura: quattro sensazioni elencate in un ordine scelto con cura per descrivere l’indescrivibile e guardare l’inguardabile. Prima viene la vergogna, sentimento definibile come desiderio di non occupare il corpo che si sta occupando, bisogno di essere un altro corpo, altrove, un corpo più fortunato, non esposto a una prova così avvilente. Secondo viene il piacere, avvinto alla vergogna come un serpente, legato con la coda alla testa del sentimento che lo precede e mescolato a esso nell’umida segretezza che li ispira entrambi. Piacere di un corpo che non si vorrebbe occupare, piacere che riporta nel corpo che non si vorrebbe essere, da cui si dovrebbe fuggire. Vergogna che allontana, piacere che avvicina, il negativo e il positivo che insieme provocano la scarica elettrica, la differenza di potenziale che ne genera il fluire. Angoscia è paura trattenuta, prolungata, anticipata. L’angoscia viene terza, ad annunciare il sentimento ultimo che blocca, immobilizza, obbedisce alle parole del padre. “Non muoverti”, le dice. E la figlia acconsente. Le mani frugano il piccolo corpo che non riesce a respirare, attanagliato dai quattro sentimenti dell’orrore silenzioso. Niki poi scalcia e si disimpegna, è vero. Non si sa quanto tempo dopo. Corre nel prato fino allo sfinimento. Corre nel prato come si vede nel durissimo film performance Daddy, pellicola autobiografica cui l’artista darà linfa e vita nel vero senso della parola, per la regia di Peter Whitehead, nel 1973. E pure il film è uno slittamento nel tempo, una ripercussione di quello sciogliersi. Il film è il tentativo figurato di divincolarsi dall’episodio fisso nella memoria come, nel concreto, lo era stato il disordinato scalciare del corpo quel pomeriggio. “Ci furono parecchie scene di questo genere in quella stessa estate”, scrive Niki cinquant’anni dopo. In papà evidentemente la molla era scattata. La bambina non era più una bambina, il presunto battesimo erotico a letto col cugino, presunto evidentemente dal genitore come la concomitanza degli eventi sembra suggerire, gli aveva infilato nella mente la convinzione che la piccola fosse pronta al sesso e, come un padre iniziatore in altre culture e in altri tempi, si era sentito chiamato al diritto, se non al dovere, di essere lui il primo, lui l’autorizzato dalla natura a insegnare alla figlia cos’è il sesso, a sconsacrarne il corpo. Il beneficiario dell’iniziazione doveva essere lui e nessun altro. Forse pensava questo e forse no, ma com’è pervasa d’elementi mitologici l’interpretazione della piccola, così potrebbe esserlo stato il movente che risolse l’uomo a intervenire pesantemente nella sfera sessuale della sua secondogenita. Forse si era anche convinto che un giorno la bambina avrebbe capito. Oh sì, avrebbe capito. Nella lettera alla figlia, Niki scrive che suo padre aveva su di lei il terribile potere dell’adulto sul bambino. Che lei poteva anche dibattersi, tanto lui era più forte. E che così l’amore della piccola si era trasformato in disprezzo. “Aveva infranto in me la fiducia nell’essere umano”, sono le gravi parole usate dall’artista. Cosa cercava suo padre, si chiede. Il piacere lo poteva trovare altrove, cosa fu a spingere un individuo timorato di Dio, “arcicattolico”, a compiere ripetutamente una simile violazione nei confronti della figlia? La risposta che si dà è interessante, forse giusta: il fascino del proibito. “È il divieto e la tentazione di potere assoluto su un altro essere”. Questa la sentenza di Niki, dopo una riflessione lunga cinquant’anni. Osservando l’insieme degli avvenimenti da una certa distanza, la motivazione da lei data risulta inevitabilmente parziale. Non basta il divieto ad attrarre un padre nelle spire dell’incesto. Il possesso e l’avarizia, l’iniziazione e il fascino del proibito, l’oscura repressione che sfocia nell’improvviso raptus, la madida oscurità degli anfratti mentali inerenti al sesso in persone strutturate da rigidi confini comportamentali dovuti al lignaggio, l’idea che una certa spregiudicatezza abbia già invaso la sfera emotiva sempre vicina, procace, sottilmente quanto inconsapevolmente civettuola di una figlioletta, la gelosia stessa per l’intimità della propria creatura: tutte queste sono possibili concause in un mistero dagli esiti devastanti. A un insieme estremamente composito di moventi non può che corrispondere un insieme intricato di conseguenze. Il tradimento della fiducia negli esseri umani di cui parla Niki è solo una di esse, un punto di arrivo attraverso il baratro della sfiducia improvvisa nei confronti di un genitore, poi di entrambi, quindi del nucleo famigliare, infine della vita. C’è la scoperta del sesso come violazione anziché come naturale rivelazione dell’età. E la bimba non è immune al fascino del proibito cui allude, nel momento in cui avverte il corpo rispondere in modo inatteso e conturbante agli azzardi del padre. Il potere assoluto su un altro essere ha anche un risvolto masochistico in ambito strettamente erotico, suscettibile di avviare infinite inversioni psicologiche mano a mano che lo sviluppo del corpo sale verso l’adolescenza per poi farsi adulto. La scoperta dell’intrusione dei grandi nel mondo dei piccoli si manifesta con lo shock di un abuso, aprendo nell’universo infantile una crepa incolmabile, una vulnerabilità infinita e un infinito bisogno di autodifesa. Chi era preposto a proteggere viola, il mondo va sottosopra, tutto si scardina, la realtà mostra le sue mille lingue bifide di serpente, non ci si può più affidare a nessuno, eppure un giorno ci si dovrà pur affidare a qualcuno per sfuggire alla sfiducia, magari a un marito, come Niki farà a soli 19 anni. Il microcosmo di una bambina in pubertà subisce la sua vessazione iniziatrice: la vita non è rose e fiori, come già aveva intuito da piccolissima, quando la colpa l’aveva allontanata dai genitori. Ora il turbamento si espande in una sorpresa senza fine, in una instabilità senza riparo. Ciò che è avvenuto una volta può accadere ancora, in casa. Ciò che per un attimo è stato forse anche piacevole, pur nell’angoscia, può continuare a ripetersi senza che nessuno sia in grado di difenderla. Parlare con una madre distante, assorbita dai tradimenti del marito e dalla necessità di conservarselo comunque, confidarsi con una donna che già l’ha incolpata di aver portato disgrazie in famiglia venendo semplicemente al mondo, è impensabile. Potrebbe peggiorare la situazione. I genitori sono alleati, entrambi sono rimasti gravemente impressionati per la notte passata da Niki nel letto del cugino. La mamma non è immune alla malizia, né alle recriminazioni inconsulte nei confronti degli innocenti. Meglio tacere. La piccola è sola. Il microcosmo è un mondo immenso di adulti che disorienta la bambina, un universo in cui è impossibile difendersi, se non scalciando. La famiglia si è trasformata in un universo insicuro, pericoloso, compromesso. Eppure è lì che dovrà crescere, lì dovrà continuare a vivere fino a che qualcuno non la porterà via con sé. Fuori in verità sta accadendo di più e di peggio, la tragedia della piccola è immensa per lei, certamente ignobile per chiunque, ma il mondo esterno nel frattempo è alle prese con ben altra tragedia. In Europa imperversa la guerra. In America, nel New England, si consumano piccoli drammi infantili d’iniziazione incestuosa. In Europa Hitler mette in atto il sistematico genocidio della gente ebraica. Nel capanno degli attrezzi della casa di campagna dei Saint Phalle, nell’estate del 1942, viene dato l’avvio a una serie di scandali intimi. Oltre a quelli stilizzati e semplificati nella raccolta di memorie familiari chiamata Traces, in cui Hitler e il nazismo compaiono filtrati dal rito dei film che li ridicolizzano, sarà questo il ricordo di guerra della piccola aristocratica Niki, questa la molla che la spingerà a prendere il fucile un giorno e a sfogare la violenza sull’arte, vero simulacro dedicato per una volta alla sua autentica funzione rappresentatrice. Sarà una rivalsa intima a far rimbombare l’eco della sua espressione personale nell’ambito più universale dell’arte contemporanea. La sublimazione psicanaliticamente intesa, cioè la trasformazione di impulsi sessuali in manifestazione creativa, raggiunge l’apice del suo significato nella distruzione dell’oggetto artistico al posto della creatura che l’intenzione dell’artista vorrebbe davvero distruggere. È una tecnica di liberazione della violenza che non crea danni irreversibili, quanto meno non su esseri viventi, tramutando concretamente l’assalto distruttore in nuova creatività. Semplice e geniale. Due aggettivi che spesso si applicheranno perfettamente all’arte di Niki de Saint Phalle. Per continuare la lettura si può acquistare il libro sul sito di Historica: http://www.historicaedizioni.com/tag-prodotto/ psicovita-di-niki-de-saint-phalle/ BIBLIOGRAFIA Harry e io - Niki de Saint Phalle e Harry Mathews (Niki Charitable Art Foundation & Benteli Publishers 2006) Niki de Saint Phalle - Pontus Hulten (Kunst und Austellungshalle del Bundesrepublik - Deutschland 1992) Niki de Saint Phalle - catalogo a cura di Stefano Cecchetto (Ed. Skira Ginevra-Milano 2009) Traces - Niki de Saint Phalle (Acato 2000) Mon secret - Niki de Saint Phalle (SNELA La Différence Paris 2010) Jukebox all’idrogeno - Allen Ginsberg (Mondadori 1965) Una magia più forte della morte - Pontus Hulten Jean Tinguely (Bompiani 1987) Joie de vivre - Niki de Saint Phalle (Carlo Cambi 2009) Traduzioni da inglese e francese a cura di Stefania Tramarin e Marco Ongaro