Definizioni giuridiche e concetti tecnico

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Definizioni giuridiche e concetti tecnico
Definizioni giuridiche e concetti tecnico-scientifici
Definire la morte: tra diritto e biopolitica
Maurizio Di Masi, Assegnista di ricerca in Diritto privato, Dipartimento di Giurisprudenza, Università di
Perugia
L’attuale dibattito biogiuridico sul “fine vita” impone una riflessione sulla definizione legale di morte.
Se, invero, tradizionalmente la scienza giuridica privatistica non ha mai considerato troppo
problematica in sé la definizione di morte, ritenendola un fatto così semplice e naturale da non rendere
necessaria, a differenza della vita, una «ulteriore determinazione dei suoi elementi» (Savigny), oggi
situazioni quali lo stato vegetativo permanente impongono di tornare a riconsiderare l’importanza di
definire la morte. Quando si muore per il diritto? La risposta non è scevra di una certa discrezionalità da
parte dei medici e dei legislatori che possono perseguire diversi obiettivi di biopolitica del diritto. Tale
quesito che ha ricevuto un’attenzione crescente in seguito allo sviluppo delle tecniche di rianimazione e
a quello della chirurgia dei trapianti: le prime permettono di prolungare la zona grigia tra la vita e la
morte, le seconde aspirano, invece, a espiantare gli organi umani in modo che possano essere trapiantati
in maniera più efficiente. Una volta che la medicina legale ha statuito che la morte è un fenomeno non
immediato ma graduale, si è distinto tra morte biologica, da un lato, e morte clinica o legale, dall’altro.
La prima indica la cessazione dell’intero organismo in tutte le sue parti. Tuttavia, non occorre attendere
la morte biologica per considerare morto un individuo, sicché la seconda, ossia la morte clinica, è
convenzionalmente disciplinata dai legislatori e segue le sorti delle tecniche dei trapianti di organi. Così,
in Italia, è solo con la legge del 29 dicembre n. 578/1993, vigente, che la morte legale si identifica «con
la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo».
In precedenza, l’accertamento della morte avveniva attraverso la semplice e prolungata osservazione
passiva del cadavere e, in seguito, per mezzo del metodo elettrocardiotanatodiagnostico, cioè con la
cessazione del respiro e dell’attività cardiaca (così si esprimeva la legge n. 235/1957).
Con lo sviluppo della tecniche di rianimazione e delle pratiche di trapianto renale e cardiaco è stato
necessario accordare ai medici diagnosi anticipate di morte, tali da permettere interventi sul cadavere i
cui organi espiantabili siano ancora vitali. Non solo: una più aggiornata definizione di morte doveva
permettere anche che il chirurgo che effettuasse il trapianto non fosse punibile per omicidio. Il risultato
è che si sposta, convenzionalmente, la soglia della morte: ciò apre le porte all’accertamento della morte
tramite il metodo elettro-encefalografico tutt’oggi utilizzato, anche rispetto alla legge 1° aprile 1999, n.
91. Se l’attuale definizione legale di morte ha permesso di incoraggiare la pratica - solidarista - dei
trapianti di organi, sotto un’altra prospettiva, essa ha però contribuito, assieme alle tecniche di
rianimazione, a creare la nuova “forma di vita” (Agamben) nota come “stato vegetativo”. La morte, di
conseguenza, perde la sua naturalità e può essere gestita dai medici. Di qui l’opportunità di pensare
nuove soluzioni definitorie di morte, che magari valorizzino la personalità del morente in tutti i casi
“limite”, come fa ad esempio la legge giapponese n. 104/1997, che consente a ciascun cittadino di
scegliere la concezione di morte cui aderire.