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SOMMARIO Culture Economie e Territori Rivista Quadrimestrale Numero Quattordici, 2006 Focus: Michel Foucault Pag. 3 Michel Foucault e la cameralistica. Biopolitica, regolazione e storia dello stato moderno di Merio Scattola Pag. 23 La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica di Giuseppe Gangemi Pag. 48 Entre la discipline et la cure di Mario Galzigna Pag. 56 Foucault e la “nascita della biopolitica” di Maurizio Ministri Pag. 61 Biopolitica contro biopotere di Santa De Siena Focus: Bruno Leoni Pag. 85 Per un profilo di Bruno Leoni giurista e filosofo. Con trentadue lettere inedite a Widar Cesarini Sforza di Girolamo De Liguori Pag. 89 Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza di Girolamo De Liguori Segno Veneto Pag. 12 Università di Padova e professori nella storia passata e recente di Mario Quaranta 1 2 Merio Scattola Michel Foucault e la cameralistica. Biopolitica, regolazione e storia dello stato moderno Focus: Michel Foucault La fortunata, seppure discussa, pubblicazione dei corsi tenuti da Michel Foucault al Collège de France tra il 197 e il 1984 ha messo a disposizione del pubblico, tra gli altri, anche due importanti testi (Foucault 2 4a e Foucault 2 4b), recentemente tradotti in italiano da Paolo Napoli, Mauro Bertani e Valeria Zini (Foucault 2 5a e Foucault 2 5b), nei quali il filosofo francese si propone di ricostruire la storia del pensiero politico ed economico occidentali utilizzando le idee di biopolitica e di biopotere, due categorie che vanno godendo di un crescente favore nella discussione filosofica, storica e antropologica (Esposito 2 4). Com’è proprio della sua epistemologia genealogica, anche in quest’occasione Foucault intreccia nel suo discorso il darsi dei fenomeni storici e il contemporaneo emergere delle categorie, dei “dispositivi”, delle “tecnologie” di sapere che rendono conoscibili quegli stessi fenomeni e che anzi sono la condizione sostanziale della loro esistenza. Egli affronta così alcuni punti nevralgici della riflessione sull’ordine politico, giuridico, economico della società moderna e sviluppa un discorso che ha al suo esatto centro il problema della regolazione. La tesi fondamentale di questo suo lavoro d’indagine archeologica e di ricostruzione genealogica, quella che potremmo chiamare la sua intuizione fondamentale, si può infatti esprimere nei termini seguenti: regolazione politica e regolazione economica, nonostante le apparenze, non sono fenomeni diversi, ma hanno la stessa origine e sono, al fondo, la stessa cosa. Inoltre quella di regolazione politica non sarebbe una categoria universale, che si può applicare alla storia intera e a tutte le espe- rienze umane, ma avrebbe una vicenda assai limitata nel tempo e corrisponderebbe sostanzialmente all’epoca moderna. Solo per gli ultimi quattro secoli e solo per le società che hanno conosciuto il fenomeno dello Stato sarebbe possibile parlare di regolazione politica, perché regolazione, nel senso specifico del “governare per regole”, farebbe tutt’uno con “governo dello Stato”. 1. Il dispositivo di Foucault Secondo la ricostruzione di Foucault si possono identificare due grandi forme della convivenza umana, ovvero due forme fondamentali di politica. Si potrebbe anche affermare che l’umanità ha finora attraversato due sole grandi epoche, l’una dall’antichità all’inizio del XVII secolo, l’altra dal Seicento ai giorni nostri. Nella prima epoca la politica era immersa in una dimensione, Foucault dice, “cosmo-teologica” (Foucault 2 4a, 355, 356), operava in riferimento a un ordine universale, dal quale essa dipendeva, e agiva eminentemente come “sovranità” (Foucault 2 4a, 329). Si potrebbe qui discutere sull’opportunità di utilizzare un termine così segnatamente moderno (Quaritsch 197 249–251; Quaritsch 1986), per nominare una situazione per eccellenza pre- e anti-moderna, laddove con “sovranità” Foucault inequivocabilmente designa quello che le fonti medievali e primomoderne indicavano come maiestas, ovvero una forma d’autorità umana consacrata da un ordine teologico-politico superiore e corrispondente a un attributo precipuo di Cristo “assiso alla destra del Padre”, che al Figlio trasmette questo “raggio divi- 3 n.14 / 2006 no” affinché a sua volta lo comunichi ai re della terra (Scattola 2 ; Scattola 2 1). Se Foucault non usa la designazione antica, ma quella moderna, si deve forse al fatto che Jean Bodin, volgendo in latino i suoi Sei libri della repubblica, scelse di tradurre il concetto di souveraineté con il termine maiestas, stabilendo così un nesso diretto tra le due nozioni (Scattola 1999a; Scattola 1999b), che Foucault ripercorre al contrario nominando con l’espressione moderna il contenuto antico. Obiettivo della sovranità-maiestas è, in ogni caso, quello di realizzare la virtù giacché essa è “un rapporto di essere, un rapporto di qualità dell’essere, un rapporto di virtù” (Foucault 2 4a, 329). Essa si occupa infatti primariamente del “come” degli uomini, e suo compito è quello di fare in modo che ciascuno sia come deve essere ovvero che ciascuno diventi buono e virtuoso. Le virtù sono tuttavia fissate in leggi che si esprimono in giudizi del sovrano e si realizzano nell’agire dei singoli. Di conseguenza la sovranità-maiestas dovrà essere una relazione tra sovrano e singolo secondo la forma del giudizio giuridico, dove il primo delibera sul bene e sul male nei rapporti tra gli uomini. La dimensione nella quale si realizza la virtù è propriamente quella dell’anima (si potrebbe anche dire della mente) e perciò la sovranità si rivolge agli uomini in quanto esseri spirituali: essa è la guida, il governo delle anime, e di conseguenza deve essere un “pastorato”. A quest’epoca, durata dall’antichità per tutto il Medioevo e fino all’inizio del Seicento, succedette l’età moderna, la quale nacque dall’eresia fondamentale” della ragion di stato (Foucault 2 4a, 329). L’“eresia dei politici” (ma anche l’“eresia dei Politiques”) consistette nella volontà caparbia di identificare le regole interne di funzionamento delle società politiche per organizzarne l’agire esclusivamente sui dettami di tale conoscenza. “I politici sono quelli che hanno detto: lasciamo da parte questo problema del mondo e della natura, cerchiamo la ragione intrinseca all’arte di governare, definiamo un orizzonte che possa permettere di fissare esattamente quelli che devono essere i principi razionali e le forme di calcolo specifiche di un’arte del governo” (Foucault 2 4a, 355). 4 Questa politica sgancia lo stato dall’ordine cosmoteologico, si concentra sulle forze presenti in un territorio e intende elaborare in primo luogo un’arte del governo. Essa è dunque essenzialmente un governo su forze capaci di agire e si rivolge non al “come” gli uomini possono essere, ma a ciò che essi possono fare. Altrimenti detto, la politica moderna non si rivolge all’anima, bensì al corpo ed è “biopolitica” che opera nel campo del “biopotere” (Foucault 2 4a, 3) per governare gli uomini, i corpi, in modo da massimizzare la loro attività, ovvero le forze attive su di loro. La biopolitica ha “per vero soggetto l’uomo” ovvero la specie umana nei suoi tratti biologici fondamentali (Foucault 2 4a, 329 e 3), ed è eminentemente “governo”, “ragione governamentale” o “governamentalità”. Tale “ragione governamentale”, che, in ossequio alla sua origine, si può chiamare semplicemente anche “ragion di stato”, si espresse storicamente in forme diverse. La sua prima realizzazione si può collocare tra il Seicento e la prima metà del Settecento con la police francese e la Policey o cameralistica tedesca, una tecnologia di politica interna, abbinata sempre a una tecnologia diplomatica dell’equilibrio in politica estera. La seconda realizzazione della governamentalità, che sostituì questa prima forma, fu la fisiocrazia, cui fecero seguito le altre immaginazioni moderne dell’economia politica. Sia le scienze di polizia sia la fisiocrazia sono forme di regolazione/regolamentazione, cioè di governo per regole e non per leggi, laddove le Policeywissenschaften svilupparono una regolamentazione statuale ed esterna rispetto alle forze in gioco, mentre la fisiocrazia teorizzò una regolazione economica endogena, naturale (Foucault 2 4a 352). Nonostante le profonde differenze tra ragione politica e ragione economica, non si tratta tuttavia di forme radicalmente alternative, di ristrutturazioni complessive del sapere umano, come lo fu la ragion di stato rispetto al pastorato, bensì sono due varianti, due declinazioni di uno stesso paradigma, che ottimizzano progressivamente la stessa ragione governamentale (Foucault 2 4a, 356). Sono due immaginazioni del rapporto tra forze nelle quali si raggiungono livelli di massimizzazione sempre più alti. Merio Scattola 2. Foucault e Justi La police e lo “stato di polizia” furono dunque la prima forma governamentale moderna; se si vuole, furono la prima forma di stato moderno. Ciò che in francese si chiama police, in Germania venne indicato come Policeywissenschaften, scienze di polizia, e il più importante esponente di questo ramo del sapere sarebbe stato Johann Heinrich Gottlob Justi. Così dice Foucault: “È proprio quel tipo di definizione della polizia che trovate in colui che è stato certamente il più grande dei teorici della polizia, un tedesco che si chiama von Justi e che alla metà del secolo XVIII, negli Elementi generali di polizia, ha dato questa definizione della polizia: è l’insieme delle ‘leggi e dei regolamenti che riguardano l’interno di uno stato e che mirano ad affermare e ad aumentare la potenza di questo stato, che mirano a fare un buon uso di tali forze’” (Foucault 2 4a, 321). Che cos’erano dunque le scienze di polizia e perché citare proprio questo autore? Johann Heinrich Gottlob Justi (172 –1771) fu in effetti uno dei più acuti autori della cameralistica tedesca del Settecento, un personaggio brillante e intraprendente che fu oggetto di aneddoti e di oscure illazioni. A Vienna dal 1751, godette di grande fama come professore di eloquenza e cameralistica al Theresianum, ma nel 1754 dovette rinunciare, probabilmente per malriuscite speculazioni, alla carica di consigliere imperiale per le finanze e le miniere dell’Ungheria e dei territori ereditari. Dal 1755 all’estate 1758 si trattenne a Gottinga con le cariche di consigliere per le miniere e di direttore di polizia e con il privilegio di tenere lezioni in quella che allora era l’università più importante dei territori tedeschi. Ma per un ennesimo dissesto finanziario dovette partire frettolosamente anche da qui per rifugiarsi Danimarca, dove si dedicò alla stesura di alcuni tra i suoi scritti teorici più importanti (Justi 1759a; Justi 176 a). Dal 176 fu a Berlino, dove nel 1765 venne chiamato da Federico II a dirigere le miniere e le industrie del vetro e del ferro. Ancora una volta il successo mancò: Justi venne accusato, forse ingiustamente, di avere abusato di fondi statali e morì in carcere prima della conclusione del processo (Inama 1881; Michel Foucault e la cameralistica Frensdorff 19 3; Dittrich 1974). Come scrittore politico Justi fu un poligrafo prolifico e dai molteplici interessi, autore di saggi, trattati e manuali, editore di periodici e miscellanee, e si cimentò anche nel genere del romanzo. Tra le sue opere principali sono l’Economia dello stato ovvero trattazione sistematica di tutte le scienze economiche e camerali del 1755, I lineamenti di un buon governo del 1759, La natura e l’essenza degli stati e Le fondamenta della potenza e della felicità degli stati ovvero esposizione dettagliata dell’intera scienza di polizia, entrambi del 176 . Su Justi e sul suo ruolo nella cameralistica, così come viene indicato da Foucault, si possono fare tre riflessioni, ciascuna delle quali si può condensare in una breve tesi. La prima riguarda la storia della cameralistica, a proposito della quale si può sostenere che vera cameralistica fu solo la disciplina universitaria del Settecento strutturata sui principi del diritto naturale. In secondo luogo è necessario considerare le forme del sapere nelle quali si inserivano le scienze di polizia e camerali e in questo caso si deve dire che la vera cameralistica fece sempre parte di un rigoroso sistema delle scienze dello stato. In terzo luogo bisogna considerare i rapporti tra cameralistica e statistica, che si possono sintetizzare affermando che cameralistica e statistica furono due scienze complementari, le due facce di una stessa medaglia. 3. La disciplina universitaria delle scienze di polizia e camerali Una caratteristica fondamentale della cameralistica viene segnalata da Foucault stesso: si tratta di un sapere di tipo applicativo che tuttavia ha un legame particolare con il mondo delle università. Di fatto in questo particolare legame si replica un elemento essenziale del pensiero politico tedesco, che nacque da subito organizzato in discipline e insegnamenti di tipo accademico (Scattola 2 3, 9–46; Scattola 2 2–2 3, 5–39) dopo che le trasformazioni indotte dalla Riforma avevano fatto delle università il centro privilegiato di elaborazione e di trasmissione delle competenze teologiche, giuridiche, medico-scientifiche e politiche. Quella che Foucault chiama “scienza di polizia” è quindi 5 n.14 / 2006 in realtà solo una parte del complesso più vasto che comprende le “scienze di polizia e camerali” o, con termini più recenti, la “cameralistica” ovvero il “cameralismo”. Questa, che genericamente si potrebbe definire come la versione tedesca del mercantilismo, si distingue dalle esperienze europee coeve per tre tratti caratteristici: è sapere prevalentemente universitario, s’inserisce in un sistema disciplinare di scienze della politica e ha una fondazione giusnaturalistica collegata all’agire della sovranità statuale. In via d’approssimazione si può perciò affermare che la forma matura della cameralistica, un sapere dalla storia abbastanza lunga, coincide con la disciplina universitaria del Settecento (Schiera 1968, 2 ). Halle, Gottinga e Gießen sono le tre università tedesche alle quali è legata l’evoluzione di quest’insegnamento. Nel 1727 a Halle e a Francoforte sull’Oder vennero introdotte per la prima volta cattedre di scienze economiche e camerali; a Gottinga fiorì verso la metà del secolo la statistica, la scienza sorella della cameralistica; a Kaiserslautern, nel Palatinato, venne costituita nel 1774 la prima “Scuola superiore di cameralistica”, mentre a Gießen nel 1777 venne fondata la prima facoltà di scienze camerali sotto la guida di Friedrich Carl von Moser e Johann August Schlettwein. Se il 1727 può essere assunto come l’anno d’inizio della cameralistica universitaria, la fine della disciplina si deve porre negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione francese poiché nel 1784 venne chiusa la scuola di Kaiserslautern, mentre l’anno successivo la stessa sorte toccò alla facoltà di Gießen. Il periodo d’oro della cameralistica è perciò il cinquantennio compreso tra il 173 e il 178 . Come si concilia tuttavia questo fatto, che le scienze politico-camerali siano un fenomeno proprio del secolo XVIII, con la loro storia, che sembra risalire almeno al XVI secolo? Policey è infatti un termine che deriva dal latino medievale politia e quindi dal greco politeia, nel senso di “buona costituzione” o “buon ordine” di una città. Con questo significato esso si trova attestato in documenti pubblici e privati del XV e del primo XVI secolo, sempre in relazione con le nozioni di governo, reggimento, diritto e pace. “Indica sem- 6 pre il buon ordine pubblico di una città o di una comunità - un ordine che naturalmente, come voleva lo spirito del tempo, non si limita alla sicurezza e all’igiene, ma comprende la vita morale e religiosa in senso lato” (Maier 198 [1966] 96). In questo senso la Policey ha due caratteristiche fondamentali. In primo luogo essa si riferisce sempre all’idea di bene comune, beatitudine, felicità, benessere e implica non solo la tutela, bensì soprattutto la promozione attiva del bene dei sudditi, sia garantendo la sicurezza sia imponendo comportamenti normati. In secondo luogo essa coinvolge contemporaneamente la vita materiale e la vita spirituale: propone provvedimenti per l’approvvigionamento alimentare, per la salute della popolazione e la salubrità delle città, ma, con leggi suntuarie, censura e governo del culto, elabora anche forme di controllo dei comportamenti pubblici e privati, delle dottrine professate, dell’educazione dei sudditi. Considerando invece l’altro estremo della sua storia, si potrebbe far coincidere la fine di questa disciplina con la trasformazione del suo nome, un fenomeno apparentemente marginale, che alla fine del Settecento da Policey venne normalizzato in Polizei. La forma moderna del termine venne infatti scelta negli anni della rivoluzione francese per indicare un campo di attività dello stato che si prefigge esclusivamente la tutela materiale e la sicurezza dell’ordine esterno (Preu 1983 226–248) e che in tal modo perse i due obiettivi positivi della cameralistica, la promozione del benessere e la cura della felicità spirituale, affidati alla libertà della singolarità individuale. La cameralistica, l’altra parte nel complesso delle scienze di polizia e camerali, faceva evidente riferimento alla camera fisci, al tesoro del principe e intendeva essere la dottrina per la corretta amministrazione delle risorse raccolte dal sovrano. Essa insegnava non solo la gestione delle entrate e delle uscite del tesoro, ma si preoccupava allo stesso tempo della produzione dei cespiti di ricchezza e perciò, essendo una dottrina della creazione delle risorse, era inestricabilmente connessa alle scienze di polizia, così come il benessere del principe era in relazione proporzionale e diretta con il benessere dei sudditi. Per essere tanto più potente il principe doveva perciò fare in modo che i suoi Merio Scattola sudditi fossero tanto più felici o ricchi. Le scienze di polizia e camerali potevano contare su una tradizione abbastanza lunga, che tuttavia raccoglieva materiali d’ascendenza assai diversa. Tra le opere che la storiografia (Maier 198 [1966], 1 5–151; Schiera 1968, 15–26) annovera tra i capisaldi di questa disciplina troviamo infatti specula principum, testamenta principum, trattati sulla legislazione e sulle autorità territoriali, opere della ragion di stato, manuali di politica cristiana, scritti sull’arte del governo o del reggimento, libri di prudenza, esposizioni dell’economica e Hausväterliteratur, ovvero quella letteratura rivolta al governo della casa. In questo conglomerato si nota tuttavia una chiara linea di demarcazione. Se consideriamo i dieci titoli più rilevanti nella storia della cameralistica dai suoi inizi alla metà del Settecento (Oldendorp 153 ; Osse 1555; Obrecht 1644 [1617]; Reinking 1653; Seckendorf 1656; Becher 1668; Schröder 17 4; Gasser 1729; Dithmar 1731; Zincke 1742), possiamo vedere che l’eterogeneità è massima per le prime cinque opere, mentre, via via che ci avviciniamo al secolo XVIII, si impone in modo sempre più evidente un’unità di tipo disciplinare. Quella pubblicata da Johann Oldendorp nel 153 è infatti una raccolta di suggerimenti per il buon governo della città rivolta ai consiglieri municipali. Melchior von Osse, dopo essere stato cancelliere di Giovanni Federico il Magnanimo, scrisse invece un Testamento politico, ad uso del principe elettore Augusto di Sassonia e del suo successore, all’insegna dei principi della prudenza (Stolleis 1988, 89) . Lo scritto di Georg Obrecht si rifà nel titolo, Cinque segreti politici, alla letteratura degli arcana imperii e nel contenuto alla letteratura giuridico-fiscale del primo Seicento (Bornitz 1612; Besold 1614; Besold 1615; Conring 1663). La Polizia biblica del cancelliere Dietrich Reinking è una riesposizione della tradizionale dottrina cetuale luterana, ricavata da fonti scritturali e in polemica con la letteratura della ragion di stato. Lo stato del principe tedesco composto da Veit Ludwig von Seckendorf, cancelliere del ducato di Sassonia Coburgo-Gotha, è infine una dottrina del reggimento nella quale ancora si sente l’eco del vecchio genere degli specula principum. Gli altri cinque titoli mostrano invece il progressi- Michel Foucault e la cameralistica vo amalgamarsi di questo sapere in una disciplina ben definita e legata all’università. Johann Joachim Becher e Wilhelm Schröder sostengono posizioni dichiaratamente mercantiliste. Simon Peter Gasser e Justus Christoph Dithmar sono i due professori che occupano le prime due cattedre di cameralistica, rispettivamente a Halle e a Francoforte sull’Oder, e infatti, caratteristicamente, scrivono entrambi un’Introduzione alle scienze economiche, di polizia e camerali, così come anche quelli di Georg Heinrich Zincke sono Lineamenti di un’introduzione alle scienze camerali. La sola recensione dei contenuti non rende tuttavia pienamente giustizia della trasformazione intervenuta tra gli scritti del primo e quelli del secondo gruppo, ovvero tra il sapere prudenziale del Seicento e le discipline scientifiche del Settecento. Il passaggio tra i due secoli poté naturalmente beneficiare di un incremento considerevole nelle conoscenze e nei metodi di controllo del territorio, direttamente dipendenti dai progressi nelle tecniche di coltura e di produzione, tuttavia gran parte delle conoscenze politico-camerali del Settecento fu ereditata direttamente dalle tradizioni precedenti e anche alcuni schemi di organizzazione del sapere non erano per nulla nuovi. L’interesse per la popolazione, per la crescita demografica e per l’espansione di tutte le forze operanti in un territorio, la consapevolezza che lo status politico di un principe dipendeva direttamente dal buon ordine della comunità e dalla prosperità dei suoi sudditi erano convinzioni diffuse già agli inizi del Seicento (Obrecht 16 6; Obrecht 16 8), come anche già ampiamente attestato era lo schema che univa le conoscenze fiscali e quelle di polizia, l’idea cioè che le Policey - e le Cameralwissenschaften costituissero un’endiadi di parti complementari e inscindibili (Crüger 16 9; Boeckler 1672?). Ciò che invece mancava e che il Settecento introdusse come una novità radicale, come una ristrutturazione radicale e fondamentale della conoscenza, era la gabbia concettuale all’interno della quale si dovevano rifondere gli spezzoni del vecchio sapere. Se consideriamo in questa prospettiva, cioè dal punto di vista delle strutture teoriche interne e dei concetti organizzanti, le dieci opere appena ricordate, vedremo che i primi cinque titoli raccolgono 7 n.14 / 2006 opere che fanno riferimento a un’idea trascendente di ordine e a un bene che abbraccia più livelli o dimensioni dell’essere. Il loro discorso si muove su molteplici piani dell’esperienza e tocca allo stesso tempo campi che il lettore moderno chiamerebbe politici, morali, teologici, economici, giuridici, medici, e che risultano unificati dal fatto di appartenere a un medesimo ordine verticale in grado di collegare Dio, l’anima e tutte le forme sociali e naturali nelle quali si esprimono le sue diverse relazioni. Si tratta perciò di scritti di natura prevalentemente prudenziale, i quali raccolgono una notevole messe di conoscenze pratiche per fornire punti di riferimento all’azione, ma che non aspirano a un’unità di dottrina. Indicano possibilità, ma non possono né vogliono farsi scienza. I cinque scritti del Settecento semplificano invece drasticamente la successione e la complessità dei piani della trascendenza per ridurli a un’unica dimensione orizzontale nella quale agiscono esclusivamente i corpi e per la quale, al posto delle trasformazioni di qualità tra i diversi piani dell’essere, è ammissibile soltanto la riproduzione infinita della quantità materiale. Essi strutturano le loro conoscenze attraverso un concetto immanente di benessere, si affidano a un’idea integrata di stato e ambiscono a unificare le loro conoscenze in un unico concetto. È il diritto naturale moderno, quella disciplina che fu introdotta nelle università dei territori tedeschi per la prima volta nel 1661 con Samuel Pufendorf, a fornire la gabbia concettuale capace di trasformare la vecchia congerie di conoscenze in una disciplina scientifica, selezionando e volgendo tutte le conoscenze in un’unica direzione come per effetto di una polarizzazione ottica. In questa dimensione unitaria la cameralistica del Settecento si presenta come una scienza o un complesso scientifico e procede secondo un ordine di fondazione deduttivo nel quale le conoscenze di grado superiore producono e giustificano le conoscenze di grado inferiore. Essa dovrà dunque innanzi tutto identificare un principio unificante primo, interno alla conoscenza politica e perciò corrispondente all’essenza dello stato. Poiché il diritto naturale moderno insegna che lo stato è un apparato logico in grado di generare la società attraverso l’unità di una sola volontà, questo sarà 8 anche il primo postulato della cameralistica, mentre il suo secondo assunto sarà la ricerca del benessere, cioè la massimizzazione delle forze dello stato. Sono questi due presupposti, la sovranità e il benessere, che nelle esposizioni settecentesche vengono presentati anche come causa e fine dello stato, i due elementi fondamentali sui quali si struttura la gabbia logica delle discipline cameralistiche. Solo per la loro presenza un sapere eterogeneo viene ristrutturato in una disciplina rigorosa e solo grazie alla loro azione è possibile parlare di Policeyund Cameralwissenschaften in senso proprio. 4. I sistemi delle scienze dello stato La costruzione di un sapere o di una disciplina della cameralistica avvenne dunque all’inizio del Settecento, partendo da un complesso di conoscenze in parte già disponibili e costruendo un corpus unitario strutturato dai concetti di sovranità e di benessere. Tutte le esposizioni delle Policey- und Cameralwissenschaften sono infatte precedute e accompagnate da una, per quanto sintetica, fondazione generale che si rifà alla teoria della sovranità da un lato e alla teoria del benessere dall’altro. Questo processo di razionalizzazione vale a tutti i livelli, sia per i singoli insegnamenti sia per il sapere politico in generale: ogni singola disciplina aspira a costituirsi in dottrina scientifica, e tutte insieme esse ambiscono a formare un apparato organico e metodico. Obbedendo a questa regola generale di distribuzione, le conoscenze politiche del Settecento tendevano a disporsi nella tipica forma dei “sistemi delle scienze dello stato” (Fischer 1783; Schlözer 1793; Voß 1796–18 2), che erano caratterizzati da una sequenza rigorosa di discipline collocate in ordine gerarchico e quindi da un ideale epistemico di rigore deduttivo, secondo il quale le conclusioni di un insegnamento di grado superiore costituiscono allo stesso tempo i principi da cui muove un insegnamento di grado inferiore, in modo tale che l’inferiore sia sempre applicazione del superiore e quanto più si scenda nella gerarchia dei saperi tanto più ci si avvicini ai singolari attraverso una serie di progressive attuazioni. La sequenza dei sistemi delle scienze dello stato cominciava Merio Scattola abitualmente con il diritto pubblico universale, cui seguiva la dottrina delle costituzioni. Una volta definita una particolare costituzione interveniva la dottrina degli affari di governo, che a sua volta si specificava nelle scienze di polizia e camerali. La statistica infine forniva una rilevazione delle forze e dei processi presenti in ciascuno stato particolare. Si tratta di uno schema ricorrente, che è possibile ritrovare anche nelle opere di Justi. Il diritto pubblico universale, che contiene sempre una fondazione del potere statuale di tipo giusnaturalistico, e la dottrina delle costituzioni, che definisce le diverse specie di stato compatibili con i principi della sovranità, vengono sviluppati da Justi nel trattato La natura e l’essenza degli stati, dove egli indaga su origine, fondamento e fine delle repubbliche, sulla natura del sommo potere, sui moventi delle diverse forme costituzionali, sui rapporti tra sommo potere e sudditi e sull’essenza delle leggi (Justi 176 a) . Partendo dai principi acquisiti dal diritto pubblico universale e dalla dottrina delle costituzioni, I lineamenti di un buon governo indagano i caratteri generali del governo di uno stato e definiscono alcuni criteri generali per l’amministrazione degli affari pubblici, criteri che dovrebbero guidare le scelte dell’esecutivo indipendentemente dallo specifico delle materie in discussione. Il primo problema da affrontare in questo caso è quello della commisurazione tra potere sovrano e benessere dello stato giacché è necessario conciliare due esigenze apparentemente opposte. Da un lato bisogna infatti garantire efficacia al comando politico raggiungendo il massimo grado di unitarietà e di univocità, ma dall’altro lato è importante che le scelte sovrane siano compatibili con lo scopo dello stato, con la crescita complessiva di tutte le sue forze. Il comando deve perciò essere libero, ma non può essere libero di fare il male e di agire contro il fine generale; deve essere allo stesso tempo sovrano e controllato, ovvero contemporaneamente illimitato e limitato, una condizione che si può realizzare in due modi: introducendo nel potere sovrano meccanismi di bilanciamento interno oppure prevedendo forme di limitazione autogena. Dopo che l’introduzione ha rapidamente ripercorso le tappe della fondazione giusnatura- Michel Foucault e la cameralistica listica, ricordando così i principi stabiliti dalle discipline superiori, dai quali la dottrina degli affari di governo deve partire, il secondo libro dei Lineamenti di un buon governo enumera i criteri di costituzione di ciascuna tipologia di governo e ricorda come le diverse parti dell’autorità sovrana debbano essere messe in grado di bilanciarsi reciprocamente per raggiungere la migliore forma possibile di amministrazione. Poiché un grande potere è di per sé pericoloso e terribile, la volontà assoluta della sovranità illimitata deve essere moderata ricorrendo a una serie di massime, che non hanno ovviamente alcuna forza coercitiva, ma indicano tuttavia le condizioni prudenziali alle quali ciascun potere può sperare di conservarsi. Bisogna dunque garantire una ragionevole libertà ai sudditi, considerare la proprietà dei privati intoccabile, non interferire con la giustizia, evitare di aumentare le spese e fare guerra solo in caso di estrema necessità (Justi 1759a). Nel corso del Settecento questo particolare settore delle scienze dello stato conobbe un’evoluzione particolare che conviene qui ricordare, anche perché essa aiuta a far luce sulla lettura di Foucault. La scienza degli affari di governo ora delineata comprendeva infatti anche un secondo ambito di attività, corrispondente alle dottrine della deroga, che mal si concilia con gli obiettivi di crescita interna delle forze territoriali perché esso, in nome dello stato, può in qualsiasi momento chiedere di sacrificare risorse e benessere per scopi non trasparenti o segreti. In questo caso i sistemi delle scienze dello stato settecenteschi mostrano una tendenza marcata perché escludevano o limitavano drasticamente la pratica della deroga negli affari interni. Non è infatti pensabile che il sovrano violi la legalità nel rapporto con i cittadini; oppure una tale infrazione nella ricerca del benessere comune è ammissibile solo per fare fronte a situazioni di estrema gravità, quando si può salvare lo stato nel suo complesso solo sacrificando una sua parte o trasgredendo ai principi fondamentali che lo reggono. La pratica della deroga resta invece tollerata entro determinati limiti negli affari esteri, dove viene concepita come il nucleo teorico delle relazioni internazionali perché i rapporti tra stati non sono regolati da un diritto coattivo, ma da un dirit- 9 n.14 / 2006 to volontario, basato in ultima istanza sul calcolo del tornaconto. Questi due ambiti vennero distinti anche terminologicamente in due discipline separate: l’“arte del governo” e la “prudenza di stato” (Scattola 2 3, 51 –514). L’arte del governo, una pratica buona e accettabile, è una scienza applicativa che ricava i propri principi dalle scienze dello stato di ordine superiore (diritto pubblico universale, dottrina delle costituzioni. Gottfried Achenwall, un contemporaneo di Justi, scrisse a tal proposito parole illuminanti. “La politica si fonda sul diritto naturale e particolarmente sul diritto pubblico naturale, perché nessuna azione illecita può mai diventare veramente un mezzo per ottenere la felicità, bensì essa non potrà che essere un ostacolo. Perciò le azioni illecite, quando le si volesse presentare come mezzi per incrementare il bene comune, non sarebbero solo inutili, ma anche dannose. Con l’aiuto del diritto naturale vengono quindi determinati i confini propri della prudenza di stato. Ciascuna regola politica che violi questi confini, sia in conflitto con una legge naturale e non superi la prova del diritto universale non è una regola politica, ma un errore, un ostacolo alla felicità dello stato; essa può al massimo conseguire un bene apparente e deve perciò sempre essere ascritta alla falsa politica e alla stoltezza di stato” (Achenwall 1761, 4). La dottrina della prudenza di stato, che coincide essenzialmente con la vecchia ragion di stato, non ha invece questo radicamento disciplinare e logico nel diritto naturale, ma resta a disposizione indiscriminatamente di qualsiasi scopo, anche quando viene perseguito un fine contrario al principio del benessere. “I dotti del passato chiamarono la politica ratio status, mescolandola talvolta con l’arte di governo, dalla quale tuttavia essa si differenzia per il fatto che non persegue un proprio scopo determinato, bensì si sforza di raggiungere negli affari pubblici qualsiasi fine arbitrario, approntando i mezzi atti a realizzarlo” (Fischer 1783, 9). Anche Justi condivideva al fondo questa logica, che separa politica da ragion di stato, e fu perciò un avversario dichiarato del principio di equilibrio, il campo di più raffinato esercizio della ratio status, contro il quale scrisse due violente requisitorie (Justi 1758; Justi 1759b), tacciandolo d’essere una 10 vera e propria “chimera”, mentre identificò nella monarchia universale la forma politica idealmente consona alle scienze camerali (Justi 1761b). Se dunque un principio generale dell’epistemologia politica settecentesca è che dottrina della deroga e cameralistica sono incompatibili, non si potrà individuare, come fa Foucault, il principio unificatore dell’esperienza politica moderna nella ragion di stato, che mantiene dentro di sé sia l’arte di governo buona sia quella cattiva, bensì quel vero presupposto teorico sia delle scienze di polizia sia della nuova scienza politica sarà da ricercare nel diritto naturale. Le discipline che completano la discesa gerarchica dalla teoria alla pratica e che uniscono, nell’ultima applicazione, i principi universali del diritto naturale ai dettagli delle circostanze di governo sono le scienze di polizia e camerali, che Justi ha illustrato in ampie e dettagliate trattazioni (Justi 176 b e Justi 1755) e in esposizioni riassuntive e sintetiche. I Lineamenti brevi e sistematici di tutte le scienze economiche e camerali del 1761, dopo un’introduzione dedicata ai principi generali, che definisce stato, sovranità, costituzione e specificità della monarchia, propongono la prima grande divisione della materia con le seguenti parole. “L’intera dottrina di tutte le scienze economiche si divide naturalmente in due parti. La prima di esse comprende la politica e le scienze di polizia in senso lato, così che quest’ultima abbraccia le scienze del commercio assieme all’economica in senso proprio; la seconda parte insegna invece le scienze camerali in senso stretto” (Justi 1761a, 51 –511). Le scienze di polizia si dividono a loro volta in due grandi settori, l’uno riguardante i doveri del sovrano e i mezzi che egli deve mettere in atto per assicurare la felicità dei sudditi, l’altro i doveri dei sudditi. Il sovrano, i cui compiti si lasciano riassumere nei due concetti di sicurezza e di ricchezza, deve in primo luogo procurare la sicurezza esterna con una politica estera saggia e attrezzando un esercito efficiente, mentre, per assicurare la tranquillità interna deve conservare rapporti equilibrati tra i ceti, esercitare attentamente la giurisdizione, sorvegliare la vita, i costumi e la religione dei sudditi, promuovere l’educazione elementare e superiore, rimuovere i comportamenti viziosi, garantire la Merio Scattola sicurezza delle strade, vigilare sulle arti e sulle professioni e tenere sotto controllo i prezzi delle merci. Soprattutto il controllo politico esercitato sulla religione dà una chiara misura della distanza che separa questa cameralistica del Settecento dalla prudenza seicentesca, ancorata all’ordine del trascendente. La professione di fede viene ora considerata solo per le sue ripercussioni sul gioco delle forze sociali, mentre viene messa tra parentesi la domanda sulla relazione con Dio e sui doveri che essa comporta, ed è quindi del tutto rimossa l’apertura che la religione istituisce nella comunità politica giacché riporta il suo ordine ad una dimensione più ampia. “A proposito della religione un governo saggio deve, a mio parere, adottare il principio secondo cui bisogna evitare il più possibile la divisione in materia di fede perché in tal modo si diffondono tra i sudditi divisioni e ostilità, o quanto meno diffidenza e spirito di parte. Ma se la divisione è già presente, non bisogna tentare di eliminarla perseguitando o scacciando le persone o ricorrendo ad altri mezzi violenti, perché in tal modo si provoca la rovina, la miseria e lo spopolamento del paese, né si devono far mancare al paese commerci e manifatture per mantenere un’unica religione” (Justi 1761a, 521). L’altra sezione dei doveri del sovrano riguarda la ricchezza dello stato, la quale consiste di tre elementi: la quantità crescente di popolazione, giacché “nessun paese [...] potrà mai avere troppi abitanti” (Justi 1761a, 524), i commerci con l’estero e le miniere. Per quanto attiene all’abbondanza di sudditi, bisogna attirare singoli e famiglie dall’estero con opportune offerte e fare crescere la popolazione locale con un’accorta politica sanitaria e alimentare. I commerci con l’estero sono l’unica fonte di accumulazione di metalli preziosi e vanno favoriti con un’opportuna politica doganale, con la fondazione di manifatture per produrre le merci richieste da altri paesi, con trattati commerciali favorevoli, con una rete viaria adeguata e un sistema di tassazione orientato all’esportazione. La circolazione della ricchezza accumulata con gli scambi esteri viene inoltre incrementata dalla sicurezza e facilità del credito e dalla buona organizzazione di manifatture e commerci, la quale richiede che si fondino, si premino e si proteggano le fabbriche di Michel Foucault e la cameralistica merci esportabili, che si richiamino lavoratori esperti dall’estero, che si limitino i monopoli, che si regoli accuratamente l’importazione e che si doti il paese di fiere e mercati adeguati. Il quadro delle misure economiche si completa infine con le leggi sul buon ordine dell’artigianato e di tutte le altre professioni e con le istituzioni pubbliche contro l’ozio, l’elemosina e lo spreco. I doveri dei sudditi, la seconda grande parte della polizia, possono essere diretti o indiretti, laddove i primi si riassumono nell’obbligo di obbedienza e di fedeltà, mentre i secondi comprendono tutte le attività con le quali il singolo contribuisce al benessere complessivo dello stato mentre persegue la propria felicità. In quest’ultimo caso si entra nel campo particolare dell’economica, la quale, in senso proprio, comprende sia l’arte di condurre la casa e le attività produttive e morali che in essa hanno luogo, sia la gestione della città e il governo dell’agricoltura. Con l’economica si conclude la polizia, alla quale fa seguito la cameralistica in senso proprio, ovvero la gestione delle risorse che affluiscono al governo del sovrano. Essa si lascia facilmente dividere in una parte dedicata alle entrate e in una riservata alle uscite. Le entrate possono essere ordinarie o straordinarie, laddove le prime comprendono i proventi del demanio, gli appannaggi reali o regalia, a loro volta divisi in sei categorie (dogane e pedaggi, tasse postali, caccia e foreste, miniere, conio, acque), e le contribuzioni o imposte versate dai sudditi. Le uscite comprendono invece due grandi capitoli, quello militare e quello civile, i quali, secondo il modello tedesco, vanno sempre amministrati da istanze collegiali. Justi non scrisse opere dedicate alla statistica, l’ultima disciplina dei sistemi settecenteschi; le due caratteristiche fondamentali di questa disciplina sono tuttavia evidenti in ogni momento e a ogni livello della sua argomentazione politica. Egli infatti immagina in primo luogo lo stato come un complesso di elementi interdipendenti, obbligati da una dinamica interna a massimizzare le loro relazioni, e adotta per tutti i fenomeni politici una prospettiva sistemica. Il principio di razionalizzazione disciplinare è anche qui identificato nel costrutto della sovranità, al quale spetta una posizione al 11 n.14 / 2006 tempo stesso forte e debole perché è il criterio di sussistenza dello stato, che permette l’unificazione della volontà, ma deve anche commisurarsi alle altre componenti per garantire il fine del benessere. In secondo luogo tutti gli elementi dello stato sono disposti sullo stesso piano orizzontale secolarizzato, entro il quale è possibile solo l’espansione indeterminata e teoricamente illimitata del quantitativo. 5. Scienze di polizia e statistica La terza considerazione sulla cameralistica, scelta da Foucault come originaria forma di governamentalità moderna, può essere fatta a proposito della statistica, la disciplina trascurata da Justi, perché essa fornisce importanti informazioni sul significato che il secolo XVIII assegnava al concetto di stato. Le scienze di polizia e camerali sono discipline eminentemente applicative, giacché sono chiamate ad amministrare le forze dello stato; il sapere che invece descrive ciò che le scienze politicocamerali governano è la statistica. Si può quindi affermare che questi due insegnamenti sono i due lati di uno stesso sapere: come pura descrizione e conoscenza in un caso e come applicazione e amministrazione nell’altro caso. La statistica settecentesca, che è l’antenata dell’omonimo sapere moderno, si può definire come la disciplina che descrive lo stato, ovvero la condizione, di uno stato. Essa si applica dunque solo agli stati e alle loro parti; non è una disciplina matematica, ma originariamente la sua forma è descrittiva e discorsiva poiché soltanto dalla metà del Settecento si svilupparono da un lato la statistica demografica di Johann Peter Süßmilch (Süssmilch 1741), dall’altro la statistica tabellare che descriveva gli stati riportandoli a una serie di dati distribuiti in modo complanare (John 1884, 88-95 e 241–273). Questa prima versione della statistica, coltivata in modo particolare nei territori tedeschi e chiamata anche “statistica universitaria”, possiede uno statuto epistemico del tutto particolare: non è una scienza, perché non è una conoscenza di principi e di conclusioni necessarie né è una conoscenza di universali (come il diritto pubblico universale), che opera con concetti e classi di oggetti, bensì si 12 concentra sui singolari. Perciò essa è una notitia ovvero una Kunde e venne chiamata dapprima notitia rei publicae singularis, in seguito Staatenkunde e quindi Statistik. Essa infine non descrive solo gli elementi costituzionali di uno stato ovvero il suo diritto pubblico, come anche non presenta soltanto i dati economici o sociali, come avviene nella statistica e nell’economia moderne, ma delinea tutti gli elementi giuridici, materiali, antropici e culturali di cui si compone uno stato e descrive tutte le relazione nelle quali essi interagiscono reciprocamente e sistemicamente. La storia di questo sapere ha molti punti di contatto con la cameralistica e procede di fatto parallelamente a essa. Anche la statistica ha una lunga preistoria perché il progetto di descrivere dettagliatamente le società politiche in tutti i loro aspetti, correlandoli in un quadro complessivo, è molto antico e annovera nomi famosi, come Aristotele o Giovanni Botero (Aristotele 1991, VII, 4, 1325b 33–1326b 26; Botero 1591–1592), o legati all’ambito tedesco, come Bartholomaeus Keckermann o Christoph Besold (Keckermann e Alsted 1611; Besold 1619; Werdenhagen 1632). Fu tuttavia solo dopo la metà del Seicento che la notitia reipublicae singularis acquisì un profilo ben definito attraverso un processo di generazione in parte ancora oscuro. Johann Andreas Bose annunciò nel 1656 a Jena le prime lezioni di “geografia storico-politica”, mentre il suo maestro Johann Heinrich Boeckler pubblicò due anni dopo una dissertazione sulla notitia reipublicae basata sui testi di Tacito (Boeckler 1658). Hermann Conring d’altra parte tenne il suo primo corso di statistica a Helmstedt nel 166 , lo sunteggiò in un suo trattato del 1662 e lo vide pubblicato contro il suo volere nel 1675 (Conring 1662; Conring 173 ; Oldenburger 1675). Nel 1676 infine venne edita postuma anche l’Introduzione generale alla descrizione delle repubbliche della terra di Bose, che vale come la prima opera sistematica di statistica (Bose 1676). Dalla fine del Seicento questo sapere politico si stabilizzò in una disciplina rappresentata in molte università del Sacro Romano Impero e nella seconda metà del Settecento raggiunse la maturità scientifica e il massimo prestigio accademico allorquan- Merio Scattola do Gottfried Achenwall e August Ludwig Schlözer (Achenwall 1748; Schlözer 18 4), entrambi attivi a Gottinga, elaborarono anche una teoria dei suoi fondamenti metodologici. Il declino di questo insegnamento coincide con la ricezione dell’economia politica di Adam Smith nella stessa università di Gottinga e con la trasformazione della aritmetica politica di Süßmilch, ancora radicata nel quadro fisico-teologico, nella statistica di Gauß, una scienza matematica dei fenomeni probabilistici, che studia la distribuzione di eventi casuali, quali sono le scelte degli attori del mercato, retti da impulsi irrazionali ed egoistici. Questa nuova statistica s’incarica di fornire stime razionali di prevedibilità per i comportamenti complessi di individui irrazionali. Ciascuno cerca infatti il proprio tornaconto né segue regole predefinite o riducibili a una successione di cause ed effetti, bensì compie movimenti singolarmente imprevedibili. La statistica matematica moderna è dunque connessa al mercato, come la statistica politica proto-moderna era congiunta allo stato. Questo fondamentale legame, che nella statistica universitaria collega costituzione statuale e benessere, è particolarmente evidente negli autori della metà del Settecento. Nella sua fondazione teorica Gottfried Achenwall propone di chiamare la statistica “scienza dello stato” perché essa mostra il nesso effettivo che unisce le diverse componenti della comunità politica, e distingue perciò la dottrina dello stato, che insegna come una repubblica dovrebbe essere, da questa scienza dello stato, che invece mostra come una repubblica concretamente è. Stato in questo senso può essere solo “l’essenza di tutto ciò che si trova in una società civile e nel suo territorio” (Achenwall 1749, 3) così che devono rientrare nella sua descrizione tutti quegli elementi che influenzano in qualche modo il suo benessere. Achenwall è molto chiaro in tal senso. “Bisogna considerare qui solo ciò che riguarda in modo significativo il benessere di una repubblica, nel senso che può impedirlo e favorirlo, e che, con una sola parola, si può chiamare: ciò che è particolare. [...] La scienza di un regno contiene dunque la conoscenza approfondita di tutte le effettive particolarità di una società civile” (Achenwall 1749, 3–4). La costituzione di uno stato non si può per- Michel Foucault e la cameralistica ciò esaurire nella semplice enumerazione degli istituti del suo diritto pubblico, ma deve comprendere, se assunta in senso ampio, ma efficace, tutte le sue “particolarità”, tutti gli elementi in grado di influenzare il suo benessere. Della costituzione di uno stato fanno dunque parte la sua posizione geografica, l’orografia, l’idrografia, la natura della popolazione, il carattere nazionale, le coltivazioni praticabili, le forme di allevamento possibili, oltre naturalmente alla struttura della sovranità, alla distribuzione dei poteri, alle consuetudini giuridiche e ai privilegi dei ceti (Achenwall 1756, 3). E se un qualche insetto nocivo fosse in grado di influenzare significativamente il benessere dello stato, perché danneggia i raccolti e provoca carestie, esso andrebbe considerato nella costituzione dello stato al pari delle leggi di successione al trono. La statistica, cui spetta il compito di descrivere quest’articolato insieme materiale, concepisce dunque lo stato come un complesso di forze di varia natura, ma in grado di interagire e di influenzarsi reciprocamente, e perciò essa comprende soltanto gli elementi giuridico-costituzionali, ma considera anche i dati geografici, antropologici, morali, culturali, religiosi, zoologici, botanici. In secondo luogo essa descrive le forze di uno stato in un rapporto sistemico dando indicazioni per l’intervento delle scienze politico-camerali, che devono lavorare all’interno di questa rete di influenze reciproche. Il primato del politico è in tal modo messo fortemente in discussione, giacché è evidente che non tutte le forme di governo sono compatibili con tutte le estensioni territoriali, con tutti i caratteri nazionali o con tutte le latitudini geografiche. La sovranità viene perciò a occupare una posizione delicata e paradossale: il sovrano e, in generale, il complesso giuridico-costituzionale è la condizione di esistenza di uno stato, ma allo stesso tempo è condizionato da tutti gli altri fattori e deve correlarsi a essi. È allo stesso tempo una costante e una variabile. Questo complesso sociale, composto di elementi giuridici e politici, ma anche materiali, tende a debordare dal concetto di stato, non è più semplicemente rappresentabile come una struttura politico-giuridica e costituzionale edificata sul solo fondamento della sovranità; per indicarlo viene infatti usato il termine bürger- 13 n.14 / 2006 liche Gesellschaft (società civile). Non stupisce dunque che August Ludwig Schlözer, allievo e successore di Achenwall a Gottinga, abbia proposto di separare i termini “società statuale” e “società civile”, intendendo con quest’ultima espressione una forma di comunità umana già in grado di garantire alcune funzioni sociali fondamentali, ma non ancora dotata di una struttura di sovranità (Schlözer 1793, 63–78). Lo stesso Schlözer accentuò anche l’aspetto dinamico della statistica, proponendo di riassumerne l’essenza nella formula Vires unitae agunt - le forze di uno stato, unite dalla costituzione, agiscono nell’amministrazione (Schlözer 1793, 1 ; Schlözer 18 4, 59) -, e identificò con chiarezza la sua funzione di integrazione politica perché essa aiuta il singolo cittadino a comprendere il proprio ruolo nella compagine statuale, a intendere i meccanismi di produzione del benessere e a prestare perciò spontaneamente quanto gli viene richiesto dall’obbligazione politica. D’altro canto essa agisce nello stesso senso anche sul sovrano favorendo la sua commisurazione alle altre forze dello stato (Schlözer 18 4, 36 e 51). 6. Cameralistica e governamentalità Se dunque i termini fondamentali delle scienze di polizia, della cameralistica e della statistica sono quelli che abbiamo ora descritto, in che rapporto sta la ricostruzione biopolitica di Foucault con la storia delle discipline politiche del secolo XVIII? In effetti, il nesso tra cameralistica e governamentalità, tra Justi e Foucault, risulta assai stretto, e questo per un motivo che lo stesso filosofo francese denuncia apertamente e che si potrebbe formulare nel modo seguente: il discorso sulla police francese ed europea è coerente con la Policey di Justi perché la prima può parlare solo con le categorie della seconda. Infatti solo i territori tedeschi avrebbero conosciuto una vera teoria della cameralistica, mentre l’Italia per esempio sarebbe rimasta estranea al fenomeno e in Francia sarebbe stata sviluppata solo una pratica, ma non una dottrina della police. A nostra disposizione rimangono dunque solamente le categorie e i concetti della Policey tedesca, e se vogliamo interpretare le manifestazioni europee della police, non possiamo che 14 guardarle attraverso le categorie, i concetti, le teorie della disciplina tedesca. In altri termini, la police diventa trasparente attraverso la Policey. Ed effettivamente lo stesso Foucault adotta una strategia retorica assai singolare nel corso delle sue lezioni perché prima fissa il concetto della polizia aiutandosi con la definizione di Justi, quindi rinviene le stesse categorie in uno scritto utopico del 1611, La Monarchie aristodèmocratique di Louis Turquet de Mayerne, per ritornare infine alla Germania del tardo XVIII secolo, dove ritrova un’ulteriore conferma della propria ricostruzione nel Liber de politia pubblicato da Peter Karl Wilhelm von Hohenthal nel 1776 (Foucault 2 4a, 321). Si tratta evidentemente di una retroproiezione, a proposito della quale non sussiste alcun dubbio sull’adeguatezza della lettura di Justi, che è assunto come canone ermeneutico, mentre inevitabili sono le riserve sulla lettura dei testi del primo Seicento, che vengono interpretati alla luce della cameralistica del secolo posteriore. Perplessità può sollevare anche la funzione attribuita all’idea di ragion di stato, la quale viene concepita come un fattore di modernizzazione della politica, per definizione antitradizionale, anticetuale, antireligioso, in termini che ricordano ricostruzioni novecentesche come quella di Friedrich Meinecke (Meinecke 1977 [1924]) e che rivalutano soprattutto la componente libertina di autori come Gabriel Naudé. In quest’ottica la tradizione della ragion di stato viene presentata come la prima vera rivendicazione dell’autonomia e della scientificità della politica contro il dominio estrinseco della morale e della teologia, e come un sapere autonomo e scientifico perché fondato sullo stato, un oggetto proprio, dotato di una razionalità intrinseca e mosso da una forza espansiva tendente alla crescita indeterminata. Ma ora sappiamo che la ragion di stato è stata anche un discorso politico non legato alla scienza, ma alla prudenza, e una tradizione politica di conservazione e di cura, non di espansione (Borrelli 1993; Borrelli 2 ). La tesi di Foucault è che la governamentalità della ragion di stato moderna si sarebbe dotata di due apparati tecnologici strettamente connessi fin dalla loro nascita: la dottrina dell’equilibrio internazionale e la dottrina della polizia. Le due tecnologie Merio Scattola sarebbero apparentate in quattro modi diversi. In primo luogo sarebbero legate da un rapporto di analogia morfologica perché entrambe ricercherebbero un equilibrio tra forze capace di garantire la crescita, in campo interstatuale l’una, in ambito intrastatuale l’altra. In secondo luogo esse starebbero in una relazione di reciproco condizionamento, perché ogni stato può mantenere l’equilibrio internazionale solo se fa crescere ordinatamente le proprie forze, mentre è destinato a provocare uno squilibrio internazionale quando trascura i propri compiti di polizia interna, con la conseguenza che ciascuno stato deve vigilare su tutti gli altri affinché ognuno di essi abbia una buona politica e non disturbi l’equilibrio. In terzo luogo esisterebbe tra ragion di stato e scienze di polizia un rapporto di strumentazione comune perché entrambe utilizzano il mezzo conoscitivo della statistica, la quale permette sia di descrivere le dinamiche interne di uno stato sia di comprendere le forze che interagiscono nell’equilibrio internazionale. In quarto luogo sarebbe fondamentale per entrambe lo spazio urbano del commercio. Già le stesse fonti del Settecento ci ricordano tuttavia che l’equilibrio non consiste in un sistema stabile, in una distribuzione ordinata delle forze, nella quale i pieni e i vuoti sono fissati in partenza e devono essere mantenuti invariati, anche a costo dell’ingerenza negli affari di altri stati, come sostiene Foucault. Il gioco dell’equilibrio non mira a mantenere inalterati tutti gli attori dello status quo, ma è una sistema dinamico di compensazione omeostatica, continuamente in movimento, nel quale tutti gli attori possono anche radicalmente mutare purché la somma totale delle forze sia uguale a zero e nessuna parte prevalga su tutte le altre riducendo la molteplicità a unità. Foucault proietta quindi la nozione di equilibrio ordinato propria della Policey sull’idea di equilibrio anarchico della ragion di stato, senza considerare che polizia e ragion di stato sono inconciliabili. Allo stesso anche la statistica non è del tutto compatibile con la dottrina dell’equilibrio perché la politica di potenza tra gli stati è basata sull’occultamento delle informazioni, sugli arcana imperii, cioè sulla negazione del principio di trasparenza della conoscenza statistica. Perciò Justi, come abbiamo Michel Foucault e la cameralistica visto, combatté esplicitamente l’una e l’altra, la ragion di stato che ravvisa nella sola potenza lo scopo dello stato e la dottrina dell’equilibrio tra gli stati che ne è la proiezione in campo internazionale. Queste discrepanze tra ragion di stato e polizia risalgono effettivamente a una caratteristica di fondo del ragionamento di Foucault, che identifica senza resto police e Policey anche se esse non sono esattamente la stessa cosa. Si può chiarire preliminarmente il rapporto tra queste due nozioni dicendo che la Policey è solo una parte della police. Foucault invece insiste sulla connessione originaria esistente tra polizia e ragion di stato: la police sarebbe l’arte del governo, la tecnica propria del politico, chiamato ad amministrare la forza dello stato, l’ars politica, che in ultima istanza si riduce a un’applicazione costante della deroga. “In altre parole, la polizia è la governamentalità diretta del sovrano in quanto sovrano. Diciamo inoltre che la polizia è il colpo di stato permanente. Il colpo di stato permanente che si esercita, che si gioca in nome e in funzione dei principi della sua propria razionalità, senza doversi plasmare o modellare su regole della giustizia date altrove” (Foucault 2 4a, 347). Ma se il governo è deroga continua alle leggi fissate, allora lo stato è un ente sui generis che obbedisce a una legge propria, a una forza di espansione non formalizzabile in termini giuridici o etici, un ente che tende ad imporsi in quanto tale. Lo stato è il politico che vuole affermare, allargare, espandere il politico, è una potenza non giuridica e non morale, il cui concetto è destinato alla deriva verso l’idea di potenza. Ed infatti Foucault traduce la definizione di Justi, che parla di Vermögen, di “patrimonio” dello stato, con il termine puissance, come se si trattasse di cavalcare l’espansione indefinita della potenza politica e non di amministrare il patrimonio delle ricchezze di una società umana (Foucault 2 4a, 321 e 335). Quest’identificazione di police e ragion di stato, di Policey e puissance, non rende tuttavia ragione alla cameralistica di Justi e a tutta la tradizione tedesca, che invece si opposero risolutamente ed esplicitamente al principio della deroga perché la ragion di stato subordina sempre la crescita inter- 15 n.14 / 2006 na alla potenza esterna ed è dunque un fattore di distruzione di risorse e una fonte di disordine interno. Come abbiamo visto, Justi condannò in più occasioni la ragion di stato e la dottrina dell’equilibrio, mentre la tradizione universitaria distinse nell’arte politica la parte buona e orientata al principio della regolarità dalla parte malvagia e prossima al principio della deroga. Se dunque la police comprende nel suo interno anche la ragion di stato, bisognerà dire che la Policey corrisponde a una sola sua parte, a quella che coltiva la trasparenza dei comportamenti pubblici e che si vincola al rispetto delle regole date. Una delle condizioni di funzionamento dello stato di Policey è infatti che l’agire del sovrano e dei sudditi sia sempre perspicuo, perché solo attraverso questa evidenza tutte le forze possono integrarsi e interagire reciprocamente. 7. Il guadagno teorico I rilievi contro la lettura di Foucault si possono riassumere in due punti: egli sottovaluta, anzi trascura del tutto, il ruolo del diritto naturale nel costituirsi delle discipline di governo dello stato moderno ed egli sopravvaluta la funzione della ragion di stato nello stesso processo, concependo l’intera politica moderna come una declinazione della ragion di stato. In sostanza, vede ragion di stato dove invece c’è – perché lo dicono le fonti – diritto naturale. Queste obiezioni riguardano le modalità della lettura, gli strumenti che Foucault sceglie per articolare il discorso della sua interpretazione, non toccano tuttavia il disegno generale e l’intenzione fondamentale, che naturalmente potrebbero essere realizzati anche con altri strumenti concettuali e ponendo l’accento su altri fenomeni della politica moderna. Il progetto di Foucault, nella sua essenza, persegue infatti un’analisi genealogica dei rapporti tra stato e società, e in modo particolare studia come si sia prodotto quel campo di relazioni che chiamiamo “società” a partire da quell’altro campo di relazioni che chiamiamo “stato”. “Come è nata la società dallo stato?”, questa è la sua domanda. E soprattutto: “Perché questo processo è stato necessario?” Ora, poiché la necessità è propria solo del sapere, 16 quella domanda dovrà essere posta in termini di discorso, come processo di produzione, trasformazione, ridislocazione di conoscenze. La genealogia della società dallo stato non fu dunque la conseguenza di forze esogene, ma consistette in una strutturazione o ristrutturazione fondamentale della conoscenza. Posto in questi termini, il problema si presenta molto arduo perché non si tratta tanto di ricorrere alla sociologia della conoscenza, spiegando come una società si sia data un certo quadro di sapere, bensì bisogna spiegare in termini di produzione di sapere come si siano originate da un lato le forze che producono i saperi (stati, partiti, classi ...), ma dall’altro lato anche come sia nato il campo stesso (la società) nel quale avvenne quella produzione. Un progetto quindi, che, pur essendo dedicato alle forze materiali, muove dalla loro “non materialità” e che ha come oggetto specifico un processo autopoietico. Ricercare il nesso necessario tra stato è società vuol dire che l’una è il prodotto obbligatorio dell’altro ovvero che il politico inevitabilmente conduce al sociale. Lo stato moderno è dunque sorto per questo, e il suo l’obiettivo, il suo fine, la sua ratio essendi sono stati fin dall’inizio di rendere possibile la società. Lo stato è pieno di società fin dalla sua comparsa e viceversa, alla fine, la società è la forma realizzata di stato. Sulla necessità della genealogia, del passaggio dall’uno all’altro, Foucault pone dunque un accento molto marcato, ed è questa enfasi che gli consente di riaprire in modo inaspettato la questione del rapporto tra politico e sociale, tra regolazione politica e regolazione economica. La riflessione filosofico-politica sulla modernità muove dalla priorità del politico rispetto al sociale e presuppone che lo spazio relazionale umano moderno venga costruito preventivamente dal politico, nella fattispecie dallo stato, che mette a disposizione uno spazio, un agone, neutralizzato nel quale possono poi svilupparsi tutte le altre forme di relazione. D’altra parte, questo presupposto generativo non viene mai meno e quindi ciò che crea le condizioni fondamentali per la socializzazione può anche toglierle in qualsiasi momento. Il sociale è dunque sempre sospeso sul politico ed è sempre revocabile, se per un qualche motivo Merio Scattola viene meno la costante prestazione di neutralizzazione che quello fornisce. In altri termini si potrebbe anche affermare che lo stato, poiché permette continuamente la società, può anche in qualsiasi momento ritrasformarla in stato. In questo quadro la nascita della società civile è spiegata in due modi diversi, anche se a un esame attento entrambi mostrano di pensare la relazione negli stessi termini oppositivi e immaginano la dimensione politica e quella sociale come due campi non risolvibili l’uno nell’altro. La prima spiegazione si può riassumere con la formula: la società è un accidente dello stato. Sebbene solo lo stato sia l’unica e vera forma di relazione politica, esso lascia fuori da sé alcuni spazi che vengono considerati irrilevanti o ininfluenti ai fini dell’obbligazione politica. Questi settori, che originariamente sono soltanto il non-politico, si cristallizzano, reclamano indipendenza e alla fine si rivoltano contro lo stesso stato che li ha prodotti. La critica nata nel sociale produce così la crisi del politico e rappresenta l’esito di una “patogenesi” (Koselleck 1972 [1959]). La società è un accidente o anche un incidente dello stato perché non era prevista nel disegno originario del politico. Lo stato non era comparso per far nascere la società, eppure, per una perversione del suo progetto originario, ha raggiunto un risultato contrario a quello previsto dalla sua natura. Con una formula si potrebbe dire: “Non doveva andare così, ma alla fine è andata proprio così”. La seconda spiegazione si potrebbe riassumere così: la società è una possibilità dello stato. È questa la versione che s’incontra nelle interpretazioni che vedono in Hobbes il padre della società civile. Anche in questo caso lo stato è concepito come la vera forma di relazione tra uomini; esso tuttavia permette fin dall’inizio la formazione di spazi di libertà nel suo interno che si possono via via sviluppare fino a reclamare completa autonomia. Non è uno sviluppo necessario, nel senso che non era compito dello stato produrre un ambito civile, che gli rimane essenzialmente estraneo, tuttavia questa era una possibilità insita nella sua stessa costituzione. La formula ora suona: “Poteva andare così, nulla lo vietava, e alla fine è andata esattamente così”. Michel Foucault e la cameralistica La spiegazione tentata da Foucault non è né del primo né del secondo tipo, bensì imbocca un’altra via che pensa i due termini non come conflittuali, ma come fondamentalmente identici. Essa si può sintetizzare con l’espressione: la società è la necessità dello stato. Non è solo un accidente, che è accaduto contro ogni logica, né è una possibilità che poteva o non poteva avverarsi, bensì la società è il vero scopo dello stato, il fine per il quale lo stato è sorto. Questo capovolgimento di prospettiva è possibile perché qui lo stato moderno si presenta primariamente come governo, governamentalità e biopotere. Questa, che è l’intuizione fondamentale della teoria biopolitica di Foucault, produce una situazione paradossale, che tuttavia pertiene all’essenza stessa della politica nell’età moderna. Lo stato infatti nasce qui per dissolversi nella società. Questo paradosso, del resto caro proprio a quel Settecento di Lessing messo a tema da Foucault, ci ricorda che il vero scopo di ogni istituzione disciplinante e di ogni apparato coercitivo è quello di scomparire, cioè quello di trasformarsi in corpo, in comportamento spontaneo, libero, dei corpi. Forse è il paradosso di ogni apparato, quello di realizzarsi scomparendo come apparato esterno per diventare corpo, alla stregua delle sentenze scritte nella carne della Colonia penale. La società è infatti tanto più società quanto più produce forme di autogoverno, cioè quanto più realizza spontaneamente i comandi, le regole di governo, dello stato, ed è tanto più libera quanto più alto è il suo grado di autogoverno. Lo stato invece è tanto più stato, cioè è tanto più compiutamente governo, quanto più produce società in grado di autogovernarsi, ovvero quanto più esso scompare nella società, quanto più la società presta liberamente e spontaneamente ciò che lo stato è nato per assicurare. Lo stato nasce per scomparire, nel suo DNA ha iscritta la sua scomparsa, la sua dissoluzione in società, la produzione di un governo automatico. Che lo stato realizzi la libertà, significa dunque che la società attua liberamente il governo dello stato. Compimento e dissoluzione coincidono e sono la radice della necessità di questo rapporto: “Doveva fin dall’inizio essere così, e così infatti è stato”. È, infine, una relazione non oppositiva perché politico e sociale sono al fondo 17 n.14 / 2006 la stessa cosa e possono contraddirsi solo rispetto alle loro forme di realizzazione storica, più o meno compiute, ma non rispetto al loro telos. Una conseguenza di questo ragionamento è particolarmente interessante. Nel Novecento è stata in più momenti lamentata la crisi dello stato, e questa constatazione si ripete anche ora, di fronte ai processi di globalizzazione e di federazione, che sembrano destrutturare la forma statuale classica internazionalizzandola verso l’alto e regionalizzandola verso il basso. Se il ragionamento di Foucault gode di qualche plausibilità, se cioè tra stato e società, tra politica ed economia, tra sovranità e mercato esiste una continuità necessaria, questa conclusione potrebbe venire completamente rovesciata perché nella misura in cui l’un campo si realizza a spese dell’altro non ne elimina affatto le ragioni, ma anzi le rafforza. Ci si potrebbe allora chiedere se lo stato stia veramente scomparendo, e si potrebbe arrivare alla conclusione, solo apparentemente paradossale, che ora in realtà lo stato si sta realizzando come mai prima e proprio per questo, perché tutti i corpi della terra stanno spontaneamente, “liberamente”, diventando stato, può anche dissolvere gli apparati di governo e di coercizione esteriore. Riferimenti bibliografici Achenwall, G. (1748), Vorbereitung zur Staatswissenschaft der heutigen fürnehmsten Europäischen Reiche und Staaten, Göttingen, A. Vandenhoeck. Achenwall, G. 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Entrambi i volumi sono stati curati, sotto la direzione di François Ewald ed Alessandro Fontana, da Michel de Senellart. I due corsi di lezioni formano un dittico la cui unità risiede nella problematica del biopotere che Foucault ha introdotto nel corso del 1975-76, volume pubblicato con il titolo Bisogna difendere la società. In quel corso di lezioni di metà degli anni Settanta, Michel Foucault si pone il problema di rinnovare il pensiero della sinistra e di contribuire alla costruzione di una seconda sinistra, una sinistra più movimentista sul piano strettamente politico e più kantiana che hegeliana sul piano culturale. Va ricordato che, in quegli anni, era appena iniziata, per opera di François Mitterand, la ristrutturazione della sinistra socialista francese con la ricostruzione (durante il decennale della sua azione come segretario del partito, dal 1971 al 1981) del partito socialista francese e la creazione di un’alleanza che lo porta a vincere le elezioni, nel 1981, dando inizio al lungo periodo di Presidenza Mitterand. I due volumi sono stati pubblicati in Italia in un momento politico particolare, quando la sinistra italiana sembrava destinata a sconfiggere con facilità e con largo margine il centrodestra di Silvio Berlusconi, ponendo fine alla “anomalia italiana”. Invece, la vittoria c’è stata, ma risicata (al Senato solo per il meccanismo della legge elettorale, non per il numero di voti ottenuto) e molti sospettano che il governo della sinistra che ne nascerà sarà instabile, forse destinato a non durare per tutta la legislatura. La rimonta di Berlusconi negli ultimi mesi di campagna elettorale, inoltre, ha sorpreso la sinistra per la credibilità che questi ha mostrato (malgrado i tanti errori nei cinque anni di governo) e la facilità con cui ha spazzato via gran parte delle illusioni, apparentemente accreditate sul piano anche culturale e scientifico, dei nostri uomini politici. Queste illusioni si erano maturate nel tempo, a partire dagli anni Ottanta, in una sempre più stretta alleanza tra scienza politica élitista e post-marxismo. Negli anni Ottanta, sotto la spinta delle riforme di Gorbaciov, il Partito Comunista Italiano aveva cercato di sganciarsi dal vecchio impianto ideologico e aveva pensato di esserci riuscito al punto da arrivare a modificare il proprio nome, passando a diventare Partito Democratico della Sinistra, prima, e Democratici di Sinistra, poi. Nel frattempo, per una serie di inchieste contro la corruzione, inchieste dette inchieste di Mani Pulite, il Partito Socialista Italiano si era praticamente dissolto e aveva lasciato completamente libero lo spazio tra il centro e la sinistra tradizionale marxista. Questo mentre i DS, che costituiscono oggi il partito più forte della coalizione di centrosinistra, stavano riformulando la propria visione della politica sulla base delle teorie élitiste, in particolare di Norberto Bobbio (uno studioso che si è sempre definito socialista e, più esattamente, liberalsocialista) e Giovanni Sartori (uno studioso conservatore accreditato, prima di Mani Pulite, più di posizioni 23 n.14 / 2006 di destra che di posizioni di sinistra, ma che il problema del conflitto di interessi legato alle attività imprenditoriali di Berlusconi ha avvicinato alle posizioni della sinistra). Aderendo alle posizioni di questi due padri fondatori della scienza politica italiana, la sinistra postcomunista ha finito per accreditare, tra le altre, la convinzione che i principali leader del centrodestra (Silvio Berlusconi, figura carismatica di Forza Italia, e Umberto Bossi, leader carismatico della Lega Nord) fossero populisti (come li definisce Tarchi, allievo di Sartori, in un volume sul populismo in Italia del 2 3) ed anche antipolitici (come li definisce Mastropaolo, allievo di Norberto Bobbio, in due volumi del 2 e del 2 5). Fidando in questa convinzione, il principale esponente dei DS, Massimo D’Alema, aveva dichiarato, verso la metà del 2 5, subito dopo le elezioni amministrative regionali vinte dal centrosinistra, che era arrivato il momento di porre fine all’antipolitica (il modo di fare politica degli avversari) e di ritornare alla politica (il modo di fare politica dei partiti tradizionali o dei professionisti della politica). Le elezioni politiche del 2 6 hanno, infatti, mostrato che le cose non sono così semplici e che, da una parte, Berlusconi rappresenta qualcosa di profondo nella società italiana, mentre, dall’altra, la sinistra non ha ancora elaborato strumenti culturali adeguati a comprendere la novità di Berlusconi. In questo contesto, i due volumi di Foucault possono costituire un’occasione per una riconsiderazione critica della cultura politica della sinistra (operazione critica che, però, deve essere fatta soprattutto attraverso una revisione della cultura tradizionale della scienza politica italiana che ha così profondamente innervato la cultura dei professionisti della politica di sinistra). L’ipotesi di Foucault è che la cultura della sinistra si possa sottrarre all’influenza della cultura marxista attraverso l’utilizzo - che il curatore del volume definisce “disinvolto” (Foucault 2 5b, 349) – del concetto di regolazione introdotto da Kant nella Critica della ragion pura (II volume): Analitica trascendentale, cap. II, sezione Ottava (“Principio regolativo della ragion pura rispetto alle idee cosmologiche”) e Appendice alla Dialettica trascendentale (“Dell’uso regolativo delle idee della ragion pura”). Questa proposta di Foucault (utiliz- 24 zare il concetto kantiano di regolazione per costruire una nuova cultura di sinistra) consiste, come vedremo, nell’identificare regolazione politica e partecipazione. In questo Foucault intuisce che è proprio la partecipazione la richiesta che può scavalcare a sinistra l’impostazione conservatrice e autoritaria del socialismo reale. Tuttavia, come esempio e come modello di alternativa al socialismo, egli al tempo ha solo la dissidenza russa che non fa del tema della partecipazione la richiesta politica fondamentale. I dissidenti, infatti, sono mossi da motivazioni più complesse, che nascono da nostalgie, conservatorismo e anche richieste di partecipazione (ma non come richiesta principale). Le cose, però, cambieranno con la comparsa di Solidarnosc in Polonia, dove la richiesta di partecipazione viene posta in primo piano per la forza della società civile polacca. Solo che Solidarnosc è diversa ed è molto di più della dissidenza presente in altri Paesi in quanto è un punto di incontro, garantito dalla centralità acquisita nel mondo occidentale con l’elezione a Papa di Giovanni Paolo II, della dissidenza polacca, della cultura liberale cattolica di ispirazione francese e della cultura operaia polacca. In questo miscuglio di influenze culturali è nata la grande modernità e la grande capacità di presa del movimento Solidarnosc. Quando questa unione si sgretola, dopo la caduta del Muro di Berlino, questa grande sintesi (che forse mai ci sarebbe stata se non ci fosse stato quel grande Papa) si dissolve e ognuno va per una strada diversa (con una parte del mondo cattolico che comincia a rifiutare la modernità). Foucault, quindi, individua il tema giusto, ma indica come protagonista di riferimento una corrente culturale non matura per raccogliere in senso progressista l’alternativa al socialismo reale e alla cultura tradizionale della sinistra (la dissidenza non darà, salvo eccezioni, grandi prove dopo la caduta del Muro di Berlino e non sarà mai assunta come modello nel mondo occidentale). Né si può dire che Foucault sia in anticipo sui tempi (per aver previsto la richiesta di partecipazione che arriverà dalla Polonia, dove è presente una società civile molto viva e una relativa cittadinanza attiva). Che la democrazia deliberativa, e quindi la partecipazione, fosse l’elemento mancante del socialismo reale lo aveva Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica intuito, quaranta anni prima di Foucault, un federalista italiano: Silvio Trentin, esule antifascista e protagonista della Resistenza (sia in Francia che in Italia). Anche la soluzione proposta da Trentin, nel 1935, consisteva nel proporre di trasformare la struttura per decidere tipica dello Stato centralizzato in una struttura per partecipare e nel concepire il federalismo come lo strumento per passare dalla prima alla seconda. Inoltre, la soluzione proposta da Trentin è interna alla tradizione marxista e, di conseguenza, più suscettibile di produrre risultati di una proposta come quella di Foucault che fa appello agli avversari del socialismo. Silvio Trentin utilizza una sola volta, nella sua opera maggiore e più importante (La crise du Droit et de l’Etat), il concetto di regolazione e lo fa proprio trattando il tema del rapporto tra regolazione e costituzione. Nel farlo, cita Rousseau, Kant e Rosmini, ma soprattutto Giorgio Del Vecchio che, attraverso le Lezioni di diritto, è il tramite dello stesso Trentin con Vico. La pars construens dell’argomento di Trentin è così svolta: «Nel mondo morale, la posizione dell’essere comporta l’attribuzione ad ogni altro essere del grado di entità che gli appartiene. L’uomo come essere morale, come incarnazione potenziale del valore supremo si trova legato agli altri uomini da un legame che sorge dalla sua stessa natura e che non può infrangere che violando la legge della sua vita morale. Dal momento che riconosce nel suo "io" la dignità della persona, cioè dal momento in cui acquisisce la nozione del suo essere, l’uomo è inserito, di colpo, nella vita sociale; poiché per il solo effetto di questa presa di coscienza, mentre è portato irresistibilmente a pretendere dagli altri il rispetto del valore incoercibile che incarna, si trova tenuto, in omaggio a questo stesso valore, a rispettare in tutti gli altri soggetti, reali o anche solo possibili, la dignità che reclama per sé, e, pertanto, ad entrare virtualmente in rapporto con essi. [In nota aggiunge: “In un ordine puramente razionale - scrive Giorgio Del Vecchio -, il principio del diritto non si può separare dal principio del dovere. Da un lato, l’uomo (non come individuo, ma come partecipe della subiettività universale) ha un valore infinito, e quindi una ragione di pretendere da chicchessia di essere rispettato nella sua personalità (di essere trattato come persona, e non come cosa); dall’altro lato, correlativamente, l’uomo ha il dovere (esigibile da altri, e quindi giuridico) di riconoscere l’altrui subiettività, e di entrare conseguentemente in un rapporto virtuale con tutte le reali, o anche semplicemente possibili, personalità altrui; rapporto che non consiste in altro che in questo riconoscimento reciproco. Non a torto Antonio Rosmini stabiliva su questa base il punto di contatto tra la Filosofia teoretica e la Filosofia pratica (che, come è noto, nel sistema del Kant appaiono scisse e quasi lontane l’una dall’altra). Il “riconoscimento pratico dell’essere”, e cioè l’attribuzione a ogni ente del suo grado di entità, è insieme un principio di ragione teoretica e di ragione pratica od etica” (Stato e Società degli Stati, “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 1932, fasc. I, p. 2)]. Al di sopra della costrizione di ordine biologico, vi è dunque un’esigenza, un imperativo di ordine morale che obbliga l’uomo a costituirsi in società con i propri simili. È solo questo imperativo che potrà fornire il principio secondo il quale la società umana dovrà organizzarsi in quanto comunione di esseri morali. Il bisogno fisico che spinge l’uomo a protendersi al di fuori, ad entrare in contatto con l’umanità che lo circonda, comporta, è vero, di per se stesso, la necessità che venga posto un limite alle attività individuali nelle loro reciproche interferenze. Ma perché questo limite possa trasporsi nel mondo morale bisogna che sia accettato dalla Ragione, che sia rapportato, nel suo fondamento ultimo, ad una esigenza della Ragione. È così che nello statuto della vita sociale ogni limite non diviene legittimo che a condizione di concorrere alla salvaguardia di quel fine immanente che, in ogni ragionevole coesistenza, si identifica con la persona umana. [In nota aggiunge: La tesi di G. Renard che piazza il fine attraverso l’imperativo nato dal dato etico nell’affermazione dell’ordine giuridico si fonda manifestamente sulla sostituzione arbitraria del valore finale del Diritto con i suoi mezzi di realizzazione. V. C, Renard, La valeur de la loi. Critique philosophique de la notion de loi, Paris, Sirey, p. 16 e segg.]. 25 n.14 / 2006 Alla base della vita collettiva vi è dunque, piuttosto che una "comunione di coscienze" secondo la formula di Hauriou [in nota, il riferimento bibliografico: Précis de droit constitutionnel, 2° ediz., 1929, p. 2 e segg. – V. anche Aux sources du Droit. Préface de Paul Archambault], la coscienza del comune destino di tutti i conviventi in quanto persone [in nota il riferimento bibliografico: Laun, La démocratie. Essai sociologique, juridique et de politique morale, Paris, Delagrave, 1933 p. 45 e segg.]. Se si volessero poi qualificare i rapporti che si istituiscono tra i membri di una società umana, in conseguenza della loro comune sottomissione all’imperativo per il quale l’essere morale non può realizzarsi che in quanto essere sociale, si potrebbe ben affermare che si tratta - come ha dimostrato da tempo una celebre dottrina che ci si è invano accaniti e ci si accanisce a voler distruggere - di un accordo volontario che è allo stesso tempo necessario, per ciò stesso che corrisponde ad una esigenza "ineluttabile". L’uomo non è uomo che partecipandovi. "In altri termini - come osserva assai giustamente Del Vecchio - la riunione degli uomini in società non è un fatto arbitrario, ma è un atto comandato dalla natura umana stessa e che, perciò, si compie necessariamente, senza che vi sia bisogno di una manifestazione empirica di consenso. Qui risiede il significato essenziale della teoria contrattuale nella sua forma più alta, come si desume dalle opere di Rousseau e di Kant; il contratto sociale è un’idea a priori che esprime la necessità, nel senso morale del termine, della coesistenza umana, necessità alla quale nessuno può sottrarsi a meno di infrangere la legge del dovere" . [In una lunga nota aggiunge: Stato e Società degli Stati, loc. cit., p. 5, V. anche: Lezioni di filosofia del Diritto, 193 , p. 89 e 9 e Sui Principi generali del diritto. Extrait de l’Archivio Giuridico, 1921. “Che la libertà e l’uguaglianza debbano riconoscersi nello Stato, non è già conseguenza di ciò, che lo Stato abbia avuto origine dal contratto; ma, al contrario, lo Stato deve supporsi aver avuto origine da contratto perché quei fondamentali diritti vi siano riconosciuti. Il punto di vista empirico è così superato: il contratto sociale non è più un fatto, né dipende dall’arbitrio di alcuno; ma è il necessario 26 risultato di termini dati obiettivamente, e fissi per natura di cose; è l’interferenza ideale dei diritti connaturali degli individui. Così è la massima del contratto per Rousseau un significato eminentemente regolativo, ossia deontologico: esso è il tipo universale della costituzione politica, che la ragione rivela come conforme alla sostanza dell’uomo; e serve perciò quale criterio per valutare le costituzioni esistenti” (Lezioni, p. 89. V. anche dello stesso autore, a questo soggetto, l’importante monografia: Su la teoria del contratto sociale, Bologna, 19 6, e W. Eckstein, Contributo alla teoria del contratto sociale, “Rivista internazionale di filosofia del diritto”, 1934, p. 477 e segg.). Davy nel collocarsi dal punto di vista puramente sociologico, non manca di estrarre, anche egli, l’autentica portata della dottrina contrattualista di Rousseau … “Nel diritto e nella morale primitiva – scrive – questa pressione su noi di qualche cosa che non è noi e davanti alla quale noi ci inchiniamo, questa obbligazione, per chiamarla con il suo nome, è passivamente subita e pesantemente imposta dalla tradizione e dalla comunità alla massa indivisa degli individui in cui le coscienze, come noi abbiamo detto, sono proiettate, per così dire, all’esterno, e sono fuse sulla piazza pubblica nell’uniformità di tutte le altre. Ma un progresso verrà dove questa pressione sarà volontariamente organizzata e così creata dall’individuo, invece di essere subita. Si passerà, identicamente, dall’eteronomia alla autonomia, ma guardando sempre la “nomia”, condizione di ogni morale e di ogni diritto, e in cui la forma permanente a fianco di un contenuto e di modalità variabili rimane sempre una pressione sull’individuo, pressione che si esercita su di lui o che egli esercita su sé, ma sempre pressione e sempre pressione che si esercita. Rousseau aveva ammirabilmente visto che il grande problema è di dare alla legge morale o sociale liberamente voluta la stessa specie di necessità impellente che alla legge della natura inevitabilmente subita” (Le problème de l’obbligation chez Duguit et chez Kelsen, Archives de philosophie de Droit, 1933, p. 31)]. Senza l’appoggio di queste considerazioni generali sarebbe ben difficile rendersi conto dei fenomeni più caratteristici della vita sociale. Coloro che le Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica hanno trascurate sono spesso caduti nelle contraddizioni più stridenti. [In nota aggiunge: È il caso di questi scrittori politici che, ricollegandosi alla dottrina del monismo materialista, affermano che la sola spiegazione che noi possiamo dare dei fenomeni, è causale e non teleologica, che non c’è niente nel mondo che non sia materia e movimento della materia, e mentre si lamentano della speranza di far cadere, attraverso l’abolizione del dualismo dello spirito e della materia, l’ultimo baluardo teorico della divisione degli uomini in classi, in quelli che danno degli ordini e in quelli che li realizzano, in sfruttatori e in sfruttati, si trovano impotenti, alla fine, a contraddire la supremazia della forza e a impedire che i principi di cui essi si vantano servano a giustificare il misconoscimento di questo postulato dell’eguaglianza che essi pongono pure alla base di tutti i loro sviluppi teorici. V. R. E. Charlier, L’anarchisme-communisme, tesi per il dottorato, Rennes, 193 , p. 59 e segg. V. anche H. See, Matérialisme historique et interprétation économique de l’histoire, Giard, 1927; Turgeon, Critique de la conception socialiste de l’histoire, Sirey, 193 ]. È soprattutto il caso degli scrittori che impegnandosi a definire e ad analizzare la nozione di libertà politica non hanno a volte saputo resistere alla tentazione di rappresentare l’uomo libero con il cliché immaginario e leggendario di essere anti— sociale. [Il riferimento specifico di Trentin è a Kelsen, La démocratie. Sa nature. Sa valeur, Traduzione di Eisenmann, p. 1, e di fatto al Circolo di Vienna, cui Kelsen è vicino, e al neopositivismo]». Segue la pars destruens dell’argomento di Trentin che si propone di rinnovare la teoria marxista dello Stato con una soluzione che rimane interna alla riflessione marxista rivoluzionaria. In questa pars destruens, Trentin critica la tradizione decisionista che, da Hobbes a Kelsen, fa discendere la norma, la legge e la regola dal nulla normativo, cioè che ipotizza che il processo di regolazione possa essere un processo costruito in modo interamente artificiale senza considerare la tradizione, l’etica e i principi deontologici del diritto naturale. Invece, la soluzione proposta da Foucault si pre- senta, da una parte, come un’alternativa esterna al marxismo e, dall’altra, come una radicale alternativa interna alla scienza politica europea, a quella scienza politica che fa della politics e del concetto di sistema politico il cardine della propria lettura della governamentalità. Da ciò il senso del titolo di questo scritto che non pretende, però, di essere esaustivo del tema del rinnovamento della cultura politica della sinistra, essendo questo tema talmente complesso da dover essere trattato in uno scritto più ampio. Al tema del rinnovamento della cultura della sinistra saranno dedicate, in questo scritto, solo considerazioni sufficienti a delineare l’esigenza del rinnovamento. La scienza politica cui Foucault, direttamente, si contrappone con questi due volumi è quella rimasta egemone fino a un quarto di secolo fa, quella che comincia, in Europa, con gli élitisti (gli italiani Mosca e Pareto – per quanto quest’ultimo possa essere interpretato anche come il primo ad avere proposto una strada alternativa con il concetto di ottimo paretiano - e il tedesco Roberto Michels) e quella che è cominciata, negli U.S.A., con Woodrow Wilson (Lowi 1992). Lowi, nell’affrontare il tema dei rapporti tra Stato e scienza politica, spiega, con riferimento agli Stati Uniti, come e perché la scienza politica è stata, a sua volta, un fenomeno politico. Egli chiarisce, infatti, che non vi è una sola scienza politica, ma diverse, e che alcune sottodiscipline tendono a divenire egemoniche perché sono in sintonia con un dato sistema politico e con una data politica. Lowi, addirittura, si spinge fino a dire che “La scienza politica americana è un prodotto dello stato americano” (Lowi 1992, 1). Solo che, continua Lowi, lo Stato in nome del quale parlava, ai suoi inizi, la scienza politica americana non era ancora nato (fino al 193 , il concetto di stato americano era da considerare un ossimoro). La scienza politica americana, quindi, si è riconosciuta a lungo in uno Stato ancora da costruire. Uno Stato con le caratteristiche della burocratizzazione e della tecnocratizzazione dei suoi apparati. Queste due caratteristiche si ripercuotevano nella particolare concezione del metodo che la scienza politica americana cercava di affermare: “un realismo politico che significava 27 n.14 / 2006 riferimento solo ai fatti, qui ed ora, ed esposizione del gap tra le istituzioni formali e le realtà [oltre al fatto che] il sistema americano fosse permanente e che la scienza della politica implicasse lo studio e la ripartizione delle cose politiche dentro un contesto unico e permanente. [Di conseguenza,] La scienza politica [americana] era ateoretica perché non aveva alcun concetto di una Seconda Repubblica o di qualche altro regime alternativo” (Lowi 1992, 1-2). In altri termini, la scienza politica americana si considerava definitivamente fissata nel proprio dizionario e nei propri strumenti classificatori perché aveva dimenticato la lezione di Tocqueville per il quale occorreva costruire una nuova scienza della politica per ogni nuovo mondo (Lowi 1992, 3). L’idea che a una nuova società democratica occorresse una scienza politica era stata, infatti, formulata per la prima volta da Alexis de Tocqueville ne La democrazia in America. In particolare, egli aveva individuato il punto nel quale la democrazia francese aveva, a suo parere, completamente mancato il proprio obiettivo: aveva condiviso la convinzione che si potesse costruire la democrazia lasciando inalterato l’apparato statale centralizzato, tipico del governo assoluto precedente alla rivoluzione francese. Secondo Tocqueville, invece, la democrazia nasceva nelle istituzioni locali e in particolare nel Comune. “Proprio nel Comune risiede la forza dei popoli liberi. Le istituzioni comunali [...] mettono [la libertà] alla portata del popolo e, facendogliene gustare l’uso, abituano a servirsene. Senza istituzioni comunali [...] il dispotismo, respinto all’interno del corpo sociale, ricompare presto o tardi alla superficie” (1982, 7 ). Questo argomento di Tocqueville è utilizzato anche per spiegare la differenza tra il Nord e il Sud degli U.S.A. in termini di valori democratici affermatisi nel tempo. Tocqueville parte, infatti, dall’osservazione che le istituzioni della democrazia locale sono organizzate, nel Nord degli U.S.A., intorno al Comune, mentre, nel Sud degli U.S.A., sono organizzate su territori più ampi, costituiti dalle Contee che raggruppano insieme più Comuni. Tocqueville sostiene che questo fa sì che la democrazia locale, ma anche la democrazia nazionale, sia più sentita al 28 Nord di quanto sia sentita al Sud. Inoltre, egli collega questo discorso al tema del pericolo che dalla democrazia si sviluppi una nuova aristocrazia e che questa possa essere distruttiva per la democrazia stessa. Tocqueville vede il problema in termini di reti sociali sostenendo che coloro che finiscono per assumere ruoli dirigenti in una democrazia sono coloro che hanno le reti di relazione più forti all’interno del territorio interessato da una data istituzione democratica. Nel Nord degli U.S.A., dove la democrazia locale è strutturata intorno al Comune, l’unità istituzionale più piccola possibile, le reti che veramente contano, sono quelle comunali: per esempio, la rete di relazioni di un droghiere, in un piccolo Comune, è molto spessa ed è possibile che il droghiere, il farmacista e il medico siano al centro delle reti più influenti. Ma queste reti non sarebbero mai così influenti da non poter permettere a un operaio di contrapporsi loro con le sue reti, nate magari dal comune lavoro, dalla frequentazione di un bar, dalla pratica di un hobby, etc. Nel Comune, quindi, e questo è tanto più vero quanto più è piccolo il Comune, le reti di ciascun individuo sono più o meno della stessa forza. Il che contrasta la tendenza che si formi, attraverso la democrazia, un’aristocrazia. Nel Sud degli U.S.A., dove la democrazia locale è strutturata intorno alla Contea, costituita da più Comuni, già la rete del droghiere conta meno perché i suoi clienti appartengono solo a un Comune. Al posto della rete di un droghiere diventa più rilevante la rete di un grossista che abbia in quella contea la possibilità di stabilire contatti frequenti con più droghieri, la rete del medico di famiglia finisce per essere soverchiata dalla rete di un amministratore di ospedale e quella dell’operaio dalla rete del padrone che ha più attività e più scambi nella Contea. Le reti che contano, già a livello di Contea, sono più “aristocratiche” rispetto alle reti di un Comune e queste aristocrazie diventano sempre più esclusive a mano a mano che si va verso la provincia, la regione e lo Stato nazionale. Per questo, si può constatare che, nella dimensione nazionale, contano soprattutto i partiti, mentre in quella locale contano anche singoli individui. Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica Infatti, nella dimensione del piccolo Comune anche semplici cittadini possono competere con i loro rappresentanti eletti. Per questo, la partecipazione dei cittadini alle politiche più controverse è sempre un ottimo antidoto all’aristocrazia della democrazia e vivifica la democrazia. Quello che Tocqueville non immaginava ancora era che il cemento ideologico dei nuovi partiti di massa avrebbe sconvolto questo quadro che egli aveva tracciato prima della comparsa dei partiti cosiddetti ideologici (a cominciare dai partiti operai). Per questo, malgrado Tocqueville, la teoria élitista della scienza politica, con la comparsa dei partiti di massa, ha potuto identificare l’aristocrazia democratica nel senso di Tocqueville (quell’aristocrazia che nasceva dalla democrazia e ne costituiva un pericolo) con l’essenza realista della democrazia stessa (lo hanno sostenuto Mosca, Pareto, Michels, ma anche Bobbio, Sartori, e tutta la Scienza Politica tradizionale italiana). Quello che la scienza politica tradizionale non considera ancora, e dovrebbe aggiornarsi a farlo presto, è che, con la fine del cemento ideologico, riappare la necessità di pensare alla democrazia e ai pericoli che la minacciano, nei termini, aggiornati ovviamente, in cui la pensava Tocqueville. Il che vuol dire, e questo vale anche per l’Italia, che ogni nuova repubblica presuppone una nuova scienza politica. La scienza politica americana, continua Lowi, ha anticipato di molto, alla fine del XIX secolo, la cosiddetta Seconda Repubblica americana (che si afferma definitivamente con la seconda guerra mondiale) e ha costituito una componente del movimento di riforma che ha portato alla trasformazione dello Stato federale americano in vero Stato nazionale. Ma poiché una scienza politica può costruirsi prima che si costruisca lo Stato di riferimento, nel senso che può essere una scienza politica rivolta al futuro, allo stesso modo può essere che una scienza politica possa rimanere accademicamente attiva ed anche egemone nel proprio ambito semantico anche dopo che lo Stato o il sistema politico che essa continua a descrivere non esiste più. Questo spiegherebbe, appunto, le inattuali considerazioni di Sartori sul movimento studentesco fatte ben 33 anni dopo: la scienza dell’opinione pubblica italia- na potrebbe trovarsi in quello stato che John Dewey chiama di inerzia e che consiste nel fatto che una persona o un intero ambiente sociale continua a fare affermazioni sulla realtà che potrebbero essere facilmente dimostrate come illogiche o non sostenibili. Prendendo sul serio le affermazioni di Lowi, e il recupero che egli propone di fare delle teorie di Tocqueville, il problema diventa il seguente: la caduta del Muro di Berlino, come causa rilevante per tutti i Paesi europei, la ristrutturazione del sistema politico italiano come conseguenza di Mani Pulite, la nascita dell’UE nel 1994, o, ancora, le modificazioni di prospettive interne e internazionali in seguito all’11 settembre 2 1, ai movimenti collettivi dopo Seattle, alle guerre e agli attentati successivi, etc. hanno prodotto mutamenti tali da giustificare il nascere di un nuovo sistema politico nazionale (una Seconda Repubblica italiana) o di un nuovo sistema politico mondiale prodotto della globalizzazione? Se sì, e credo che la risposta sia proprio sì, occorre domandarsi: è nata quella nuova scienza dell’opinione pubblica capace di descrivere il nuovo mondo? Quali sono i nuovi strumenti di analisi con cui andrebbe affrontata l’analisi della Seconda Repubblica italiana? Come si riconoscono gli strumenti di analisi superati della scienza politica? Ed infine: il funzionamento della democrazia è descritto per quello che realmente è o per quello che si desidererebbe che fosse? Vecchi e nuovi concetti e strumenti di analisi Theodore J. Lowi ha colto perfettamente le differenze di funzionamento della democrazia americana (più pragmatica, cioè mancante del cemento ideologico dei partiti europei) rispetto alla democrazia europea. La differenza maggiore che egli individua è la seguente: “I partiti politici possono [...] svolgere, da un lato, funzioni sia costituenti [la gestione pragmatica del conflitto è più importante dei principi da cui nasce il conflitto], sia legate a determinate politiche [la sostanza per cui si entra in conflitto, soprattutto quando questa nasce da contrapposizioni di principio]; questi partiti possiamo chiamarli ‘partiti responsabili’. D’altra parte, 29 n.14 / 2006 i partiti politici possono svolgere funzioni soltanto costituenti. I partiti nelle democrazie europee tendono ad essere bifunzionali o ‘responsabili’; i partiti negli Stati Uniti tendono ad essere unifunzionali o ‘costituenti’”(1998, 185). Probabilmente, i partiti europei sono diventati bifunzionali, cioè costituenti e responsabili, e quelli americani unifunzionali, cioè costituenti, perché i partiti europei sono stati più ideologizzati e, quindi, tendenti ad essere omogenei (il che vuol dire, in pratica, tendenti a strutturare le reti locali sulla base di quelle nazionali). Quando si cominciano a vedere gli effetti della de-ideologizzazione della società, per la caratteristica di avere partiti unidimensionali, la società americana si può concentrare sull’implementazione delle politiche pubbliche, cioè sui costi e sugli impatti ambientali che vengono sopportati dalle popolazioni locali. Questa nuova tendenza si manifesta sia nella destra che nella sinistra americana. L’Italia si dimostra in ritardo in questa evoluzione sia per quanto riguarda i partiti di destra che per quanto riguarda quelli di sinistra. E così, mentre la destra si ristruttura, dopo Mani Pulite, su posizioni decisamente decisioniste (come mostra sia la “Legge obiettivo” approvata nel 2 1 che delega, in tema di infrastrutture e insediamenti produttivi strategici, tutti i poteri allo Stato centrale negando potere ai governi locali sia la proposta di riforma costituzionale tendente a rimuovere tutti gli ostacoli al decisionismo del capo del governo sperimentati nel corso di una intera legislatura), la sinistra si preoccupa ancora (è questo il senso del senso attribuito dai DS, nel 1998, alla sostituzione di Prodi con D’Alema alla guida del governo e, nel 2 6, all’elezione di Napolitano a Presidente della Repubblica) di legittimarsi come forza di governo e di difendersi dalle accuse di ideologismo o di partitocrazia. Per il resto, sembra che la sinistra sia rimasta ancorata all’idea di Stato centralizzato, esclusivo interprete dell’interesse generale. Apparentemente, tutte le reti (sia quelle locali che le più ampie fino alle nazionali) influenzano allo stesso modo un partito ideologizzato, mentre, di fatto, invece, finiscono per prevalere le reti nazionali che sono quelle più forti e rilevanti. Per questo, ogni partito ideologizzato viene governato 30 dalle reti nazionali, cioè dalle posizioni che modellano le reti locali o, non riuscendo a farlo, le escludono dalle mediazioni o dalle negoziazioni politiche. In altri termini, ogni partito ideologizzato viene governato, sia al centro che alla periferia, da quello che gli élitisti chiamano le élite. Le cose cambiano, tuttavia, quando i partiti si liberano del cemento ideologico che tende a uniformare le reti deboli sulla base di quelle forti. In questo caso, i partiti (fatta salva la capacità di resistere del vertice di ogni partito, cioè della cosiddetta nomenclatura) tendono a produrre comportamenti diversificati a livello locale rispetto al livello nazionale e, a volte, cominciando da alcune periferie per espandersi ad altre, tendono a far prevalere esigenze politiche legate a diverse strategie derivanti da reti deboli di alleanze che riescono a prevalere, per singole politiche, su quelle nazionali. Inoltre, si creano lo spazio per quella che viene detta “partecipazione” che arricchisce la democrazia locale e costituisce la base per la democratizzazione anche della vita politica nazionale. Ed è proprio contro questa logica della “partecipazione” che si incentra la critica della scienza politica élitista. Tutto ciò che è invito alla “partecipazione”, infatti, viene codificato, dalla scienza politica élitista, come espressione di populismo (Tarchi 2 3) o di antipolitica (Mastropaolo 2 e 2 5). Detto in altri termini, la scienza politica élitista sta cercando di classificare in più rigorose definizioni di vecchi concetti (è il caso di Tarchi) o in nuovi concetti (è il caso di Mastropaolo) i fenomeni politici più recenti: la Lega Nord, Forza Italia, movimenti come i girotondi, i no-global, etc. Il volume di Tarchi ha come titolo L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi. L’autore, già nel titolo, annovera tra i movimenti populisti i girotondi, cioè quel movimento che, a detta di studiosi della recente vicenda pugliese (Livolsi 2 5), è tra i fattori che hanno determinato il tipo di processo che ha finito per produrre i risultati inattesi della doppia vittoria di Vendola, militante di Rifondazione Comunista, alle primarie e alle elezioni regionali. Inoltre, il punto di partenza di Tarchi, dichiarato sempre nel titolo, è quel movimento qualunquista di Guglielmo Giannini che pochi ormai ricordano ma che ha dato origine a un Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica termine (qualunquismo) che è stato utilizzato dai politici italiani della Prima Repubblica come termine per esecrare tutto ciò che non si condivideva o non si considerava serio. “Sei un qualunquista!” era un’accusa che si sentiva anche a sproposito e dalla quale qualche politico (ma, soprattutto, molti elettori) si è dovuto (si sono dovuti) difendere strenuamente per i primi cinquanta anni della Repubblica. Ma, ed è questo il punto che fa differenza, ci si doveva difendere da altri politici o da altri elettori, non dagli scienziati della politica: il concetto di qualunquista, e anche quello di populista, è stato poco usato nella scienza politica italiana, e sempre in contesti marginali. La sensazione che si ricava dal volume di Tarchi è che egli recuperi un dizionario politico vecchio e, tra l’altro, logorato dall’uso per darne una formulazione al fine di spiegare i mutamenti intervenuti nel sistema politico italiano nel corso degli anni Ottanta (con l’affermazione dei movimenti regionalisti tipo Liga Veneta e Lega Lombarda, secondo Gianfranco Miglio) o agli inizi degli anni Novanta (con Mani Pulite). Quello che si deve riconoscere a Tarchi è il merito di avere cercato di dare una definizione più rigorosa e “scientifica” del concetto di populismo che, nei dieci anni precedenti, veniva sempre più usato dagli scienziati della politica, con definizioni provvisorie o approssimative. Alfio Mastropaolo, invece, ha preferito introdurre nel dibattito scientifico un nuovo concetto (antipolitica) per sostituire quello di populismo: “l’antipolitica altro non è che la versione aggiornata di quell’antico fenomeno, pur sempre di vaga e ardua definizione che è il populismo” (Mastropaolo 2 , 29). L’opinione sottesa all’analisi di Tarchi e di Mastropaolo è quella di considerare il populismo e l’antipolitica come espressione, anche, del “sessantottismo”. Questo rifiuto o disprezzo per il movimentismo affermatesi, in Europa, dopo il 1968, è condiviso da Sartori il quale ne parla esplicitamente in un saggio (prima edizione del 2 ) che ha per titolo Pluralismo, multiculturalismo ed estranei. Saggio sulla società multietnica (la seconda edizione è stata aggiornata dopo quell’evento traumatico che è stato l’11 settembre 2 1 ed è stata stampata nel dicembre del 2 1). Il giu- dizio negativo di Sartori sul movimento studentesco è espresso in una nota, la numero 1 di pag. 12 , inserita esattamente alla fine di una frase sull’Islam (nella citazione, dopo la frase, viene riportata la nota): “Da una trentina d’anni a questa parte l’Islam è in retromarcia “rifondante”. La sua componente aperta e occidentalizzante è in deflusso, mentre la sua componente fideistica e integralista ne costituisce la marea montante. [Nota 1 a piè pagina:] Non vale ribattere che i fondamentalisti sono relativamente pochi. In contesti di fanatismo e di violenza, i pochi fanno per tutti. La cosiddetta rivoluzione studentesca della fine degli anni ’6 fu gestita da un 5% della popolazione universitaria. Le percentuali pesano in democrazia, ma sono insignificanti in contesti non democratici” (Sartori 2 1, 119-2 ). Nel corso di questo scritto, nell’analisi che sarà avanzata del volume di Foucault, emergerà con evidenza che il concetto portante di tutto il volume è il concetto di regolazione, che questo concetto è fortemente connesso al concetto di partecipazione. Dice, infatti, Foucault: “se la popolazione nella città, nella scarsità, nell’economia, diventa un fattore di regolazione attiva, ecco che essa diventa un nuovo attore e con questo attore si sviluppa un nuovo concetto: la partecipazione ai meccanismi di regolazione attraverso la libera adesione o razionalità. Ma, se la popolazione è un attore che si regola, non la si può comandare con un fa questo o non fare quest’altro, ma la si deve considerare come una fonte di iniziative apprezzabili e, in fondo, più razionali dell’ubbidienza” (Foucault 2 5a, 66). Questo implica un mutamento radicale del punto di vista spostando l’attenzione dal problema della “statalizzazione della società” al problema della “governamentalizzazione dello Stato” (Foucault 2 5a, 89). Questo mutamento di ottica modifica radicalmente il paradigma interpretativo della scienza politica che passa dalla centralità dei nodi individuati da Stein Rokkan (sistema politico, cleavage, etc.) alla centralità del tema delle varie forme “di razionalità di governo, che si accavallano, si sostengono reciprocamente, si contestano, si combattono a vicenda. Arte di governare secondo la verità, arte di governare secondo la razionalità 31 n.14 / 2006 dello stato sovrano, arte di governare seconda la razionalità degli agenti economici, e più in generale arte di governare in base alla razionalità degli stessi governati” (Foucault 2 5b, 258). Inoltre, mentre Stein Rokkan ipotizza che il sistema politico sia costruito attraverso fratture sociali che si costituiscono in cleavage (attraverso le varie rivoluzioni: luterana, inglese, industriale, francese e sovietica) dando origine a partiti più o meno ideologici (che esprimono la dimensione destra/sinistra od orizzontale della politica), Michel Foucault ipotizza che le rivoluzioni (a cominciare da quella luterana, continuando con quelle inglese, francese e bolscevica) cominciano sempre come rivolta di condotta (che esprime la dimensione capo/gregari o verticale della politica) e si trasformano, poi, a rivoluzione finita, in una frattura sulla dimensione orizzontale della politica, cioè in un sistema politico contrapposto tra destra e sinistra (quando viene realizzata la statalizzazione della società attraverso la razionalità dei partiti). Di questo, però, si parlerà più avanti. Adesso, per chiudere la descrizione delle nuove tendenze della scienza politica élitista, saranno presentati coloro che, più frequentemente, utilizzano il concetto di antipolitica (un concetto che ha avuto una lunga gestazione nella cultura europea e che, in questi ultimi anni, sta trovando un grande rilancio) e in che senso e contro chi o che cosa lo utilizzano (si potrà, così, enucleare uno schieramento culturale di contrapposizione ed evidenziare che questo schieramento è trasversale ai partiti). Oltre a tutti gli scienziati della politica élitisti (che lo usano contro i movimenti a partire dal ’68), questo concetto è utilizzato da molti politici di sinistra. Il più determinato tra questi ultimi è stato Massimo D’Alema che se ne è servito, nella seconda metà del 2 5, dopo la vittoria del centrosinistra alle amministrative, per pronosticare la vittoria della sinistra contro la destra dichiarando che la prevedibile (e facile) vittoria andava configurandosi come il riaffermarsi della politica contro l’antipolitica (quella tendenza a criticare i partiti che, cominciata timidamente nel ’68, aveva portato alle retoriche di Berlusconi e alle sue vittorie nel 1994 e nel 2 1). La destra, da parte sua, non ha gradito questa pole- 32 mica (anche perché la polemica contro l’antipolitica è sempre stata l’arma preferita della destra conservatrice) e il fatto che la sinistra si fosse appropriata di questo concetto per utilizzarlo a fini elettorali. Questo non gradimento si è manifestato con durezza nel corso di una polemica sollevata dal Presidente della Regione Veneto contro le tesi di laurea su Berlusconi antipolitico assegnate da scienziati politici padovani di formazione élitista (questa polemica è descritta in Gangemi 2 6). Il paradosso è che la sinistra italiana utilizza la polemica contro il sessantottismo senza rendersi conto che condivide questa polemica con tradizionali conservatori: Sartori, per esempio, il cui conservatorismo è ampiamente noto e si era manifestato con durezza di fronte alla ventilata vittoria del PCI contro la DC nel 1975; Tarchi, le cui posizioni giovanili di estrema destra sono ampiamente note; etc. Ma anche persone come Gianni Baget Bozzo se ne serve per denunciare il Concilio Vaticano II come anticipatore di una tendenza culturale che ha prodotto nichilismo, sessantottinismo e antipolitica e, giustamente, nega che quella che gli appare come una deriva abbia niente a che fare con la tradizione dei partiti politici marxisti. Dice, infatti, in un volume scritto a quattro mani: “Questa deriva nichilista e anti-politica è figlia del post-sessantottinismo e non c’entra niente con il comunismo marxista tradizionale” (Baget Bozzo e Iannuzzi 2 6, 39). In altri termini, il conservatorismo cattolico (che ancora avversa il Concilio Vaticano II), quello postmarxista della sinistra tradizionale dei DS (rappresentato da Massimo D’Alema) e quello borghese e laico della scienza politica italiana (Sartori, Turchi e Mastropaolo) fa ricorso alla categoria dell’antipolitica per poter condannare (pur nella diversità delle sfumature), insieme, nichilismo, Islam, sessantottinismo e qualsiasi richiesta di partecipazione o di democrazia deliberativa. Per questo, Michel Foucault, mentre propone un’alternativa per la sinistra, di fatto propone una nuova strategia culturale per affrontare (ritornando a una tradizione politica precedente la rivoluzione statalista ed élitista) le nuove sfide alla democrazia e all’Occidente e una nuova cultura contro il conservatorismo trasversale della destra e Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica della sinistra, un conservatorismo che trova il suo tessuto connettivo non tanto nel marxismo, quanto nell’élitismo e nella statalismo. La derivazione kantiana del concetto di regolazione Michel Foucault, nel 1978, dopo un viaggio di tre settimane passate in Giappone, lavora molto a reinterpretare la filosofia kantiana e, soprattutto, il concetto di regolazione che Kant pone alla base del giudizio sintetico a priori. Questo concetto è stato utilizzato da Kant per mostrare come alcune idee che sono assunte come universali, sono invece il risultato dell’esperienza (quindi sono concetti sintetici), ma siccome sono validi per tutti gli uomini essi costituiscono, per loro, anche un a priori. È il curatore a sostenere che Michel Foucault riprende il concetto di regolazione da Kant e chiarisce che questo concetto kantiano viene stravolto nell’uso che ne fa Foucault (cosa che probabilmente è vera, ma irrilevante, in quanto i concetti non sono validi o non validi per la correttezza del loro sviluppo rispetto alla genesi che hanno, ma sono utili o inutili nell’uso che se ne fa). L’uso che Foucault fa del concetto di regolazione è molto efficace e, per questo, va considerato come un’acquisizione importante. Il suo punto di partenza è uno scritto (La logica della libertà) di Michel Polanyi, fratello del più noto Karl Polanyi, nel quale si legge che la “funzione principale di un sistema di giurisdizione è di governare l’ordine spontaneo della vita economica” (2 5b, 147). Il punto di arrivo è la definzione dello Stato come arbitro (un punto al quale arriva, nel 1935, nel trattare il tema de La crise du Droit et de l’Etat, anche Silvio Trentin). “Mentre la regolazione economica si produce spontaneamente, mediante le proprietà formali della concorrenza, per contro, la regolazione sociale – intesa come regolazione sociale dei conflitti, delle irregolarità di comportamento, dei danni provocati dagli uni agli altri, ecc. – richiederà un interventismo sempre maggiore, e in particolare un interventismo giudiziario, che dovrà essere praticato come arbitrato nel quadro delle regole del gioco” (Foucaut 2 5b, 148). Foucault non conosce, o non considera rilevante, l’apporto alla teoria della regolazione offerto da Karl Polanyi, fratello di Michael. A Karl si attribuisce, infatti, non solo un ampio uso di questo concetto (nel volume La grande trasformazione), ma anche la sua prima estensione oltre l’uso tradizionale che distingueva due soli campi di applicazione della regolazione: la regolazione economica e la regolazione politica. Karl Polanyi parla, infatti, anche di una regolazione comunitaria. In particolare, nel capitolo 4 de La grande trasformazione, egli descrive la natura senza precedenti dell’esperienza storica diretta da prezzi di mercato. Egli dice che “Un sistema del genere in grado di organizzare tutta la vita economica senza aiuti o interferenze esterne merita senz’altro di essere chiamato autoregolato” (1974, 57). In altri termini, secondo Polanyi, anche se è sempre esistita una società con economie basate su una qualche forma di mercato, non se ne conosce “alcuna, antecedente alla nostra, anche approssimativamente regolata e controllata dal mercato” (1974, 58). Al di là di questo fatto che distingue il moderno dall’antico, continua Karl Polanyi, Max Weber aveva dimostrato “l’immutabilità dell’uomo come essere sociale” (1974, 6 ) e, quindi, l’impossibilità di dirigerlo o determinarlo. La conclusione di Polanyi è che si può regolare la vita dell’uomo solo attraverso gli stessi meccanismi con cui si regola il Mercato. Karl Polanyi mostra, sulla base di una vasta documentazione antropologica (1974, 33843) che nel passato l’economia era dentro un sistema di rapporti sociali, che persino l’idea di essere pagati per il lavoro fatto non è naturale ed è molto recente e, infine, che esistono altri due “principi del comportamento non primariamente associati all’economia: la reciprocità e la redistribuzione”. Da queste affermazioni, si deve concludere che Karl Polanyi vede, nella società premoderna, l’esistenza di tre forme di regolazione: la economica o autoregolazione; la politica basata sulla redistribuzione (operata attraverso le imposte e il loro utilizzo); la comunitaria basata sulla reciprocità (e sul dono, cui Karl Polanyi fa accenni espliciti). Gli economisti successivi, ma anche sociologi e scienziati della politica, hanno usato Karl Polanyi per affer- 33 n.14 / 2006 mare che, non solo nelle società precedenti all’affermazione del mercato, ma anche nella società contemporanea si sono affermate tre forme di regolazione. Theodore J. Lowi, successivamente, ha proposto che per autoregolazione sia intesa esclusivamente la regolazione automatica in base a indici e ha citato come esempio la legge U.S.A. del 1972 per l’indicizzazione dei contributi all’assistenza sociale (1988, 285). Questo perché hanno ritenuto che la regolazione economica sia identica, nel procedimento adottato, alle altre due e che usare solo per la prima il concetto di autoregolazione significasse affermare che la regolazione politica e quella comunitaria fossero diverse dalla regolazione economica. La rivista italiana “Stato e Mercato” ha dedicato molta attenzione al tema della regolazione. Il primo e più importante saggio apparso sulla rivista sull’argomento regolazione è stato il saggio di Wolfang Streek e Philippe C. Schmitter, del 1985, in cui si parla, seguendo sempre Karl Polanyi, di tre forme di regolazione (Comunità, Mercato e Stato o Burocrazia) che si basano su solidarietà spontanea, competitività dispersa e controllo gerarchico ed ipotizza l’esistenza di una quarta forma detta Associazione (o più appropriatamente Associazione corporativa) che sarebbe basata sulla concertazione organizzativa (Streek e Schmitter 1985). Il saggio ha operato una giusta rivalutazione del concetto di corporazione - che era stato abbandonato dalla teoria politica perché, fino agli anni Trenta, veniva utilizzato come sinonimo di democrazia deliberativa (e ha permesso a qualcuno di considerare democratici, nel senso della democrazia corporativa, fascismo e nazismo) - ridando al concetto di corporazione una sua più adeguata definizione teorica. La proposta di Streek e Schmitter va considerata importante non in quanto presenti una coerente tipologia delle quattro forme di regolazione, ma in quanto è espressione dell’intuizione che bisogna ipotizzare l’esistenza di una quarta forma di regolazione. Purtroppo, il saggio di Streek e Schmitter prende in considerazione gli ordini sociali, cioè i risultati della regolazione, non i processi di produzione di un ordine sociale, cioè la possibilità che la vita produca effetti non desiderati e non previsti. Inoltre, il 34 loro riferimento allo Stato come sinonimo di Burocrazia (Streek e Schmitter 1985, 48) fa pensare che il problema della regolazione venga visto più come un fatto di procedure che come la conseguenza di processi che possono sfuggire al controllo procedurale. Sensazione che viene ulteriormente rafforzata quando si constata che essi vedono il problema della regolazione ancora in termini di un’efficacia che è considerata in senso tecnico e non in senso procedurale: “Uno stato che, in aree selezionate, passa dal controllo diretto a quello procedurale, non diventa uno stato debole, in termini di efficacia politica, in realtà può trarne vantaggi” (Streek e Schmitter 1985, 78), Il saggio ha, comunque, reso di moda il concetto di regolazione e questo ha fatto sì che seguissero, sulla stessa rivista, altri saggi che hanno proposto altri usi del concetto di regolazione. Escludendo il saggio di Michele Salvati (sui rapporti tra Teoria della Regolazione e Political Economy) pubblicato nel 1988, saggio che si caratterizza per il fatto che il concetto di regolazione viene usato in modo appropriato, altri autori, sulla stessa rivista hanno proposto usi impropri o discutibili del concetto di regolazione. Per esempio, Carlo Trigilia, che ha pubblicato, sempre nel 1985, un saggio sulla “regolazione localistica” e Tanja A. Börzel che, nel 1998, ha pubblicato un saggio sulla “regolazione europea”. Il problema è che le scienze sociali europee, ma soprattutto la scienza politica italiana, non hanno ancora appreso ad usare correttamente, nel senso derivato dalla filosofia di Kant, il concetto di regolazione. Tanto è vero che Giovanni Sartori usa il concetto di regolazione come sinonimo di decisione in un saggio nel quale afferma che il principio maggioritario è principio regolativo, vale a dire, come chiarisce immediatamente dopo, è criterio decisionale (2 1, 34). In questo modo, egli fa coincidere il concetto di regolazione (che ha una lunga storia e tradizione in filosofia della politica e anche un ben diverso significato in economia) e il concetto di decisione (in altri termini, egli dà un’accezione tecnico-formale, e non interattiva, al concetto di regolazione). Una volta identificata regolazione con decisione, gli scienziati della politica tradizionale (e con essi alcuni politici della sinistra italiana) hanno finito Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica con identificare regolatore con decisore e regolazione con produzione di regole. Così, chiunque, in un dato contesto abbia o sembra avere un qualche potere per condizionare, anche solo in parte, le regole della politica, finisce per essere definito regolatore e ciascuna delle sue azioni espressione di una qualche forma di regolazione. Per chiarire questo uso inappropriato e fuorviante del termine, riporto, più in avanti, un elenco di espressioni utilizzate da Gianni Riccamboni, decano della scienza politica padovana. Riccamboni, sul tema della regolazione, rappresenta istituzionalmente l’intera Università di Padova, dal momento che è, appunto, il responsabile del Master in Regolazione Politica dello Sviluppo Locale (Master finanziato con il Fondo Sociale Europeo). Ecco l’elenco delle espressioni utilizzate in un saggio del 2 1: “autoregolazione” (2 1, 46); “autoregolazione sociale” (2 1, 17); “regolazione sociale” (2 1, 17); “regolazione associativa” (2 1, 62, nota 98); “regolazione comunitaria” (2 1, 62, nota 98); “regolazione dei partiti” (2 1, 3 ); “regolazione politica” (2 1, 45); “regolazione politica istituzionale” (2 1, 46); “regolazione della spesa pubblica” (2 1, 46-7); “regolazione delle reti imprenditoriali” (2 1, 46); “regolazione familiare o parentale” (2 1, 18); “regolazione istituzionale” (2 1, 3 ); “regolazione della Chiesa” (2 1, 3 ); “regolazione della rete comunitaria cattolica” (2 1, 46); “regolazione predisposta dalle istituzioni religiose” (2 1, 18); “approccio regolazionista” (2 1, passim); “centro di regolazione” (2 1, passim); “modello Veneto di regolazione” (2 1, passim); etc. Pur senza far riferimento al valore filosofico del concetto, alcuni sociologi hanno proposto (recuperando il significato del termine da K. Polanyi) usi molto significativi del concetto. Per esempio, Arnaldo Bagnasco che ha ipotizzato l’esistenza di quattro meccanismi di regolazione e ha sostenuto di averli tenuti presenti per la pianificazione strategica della città di Torino. “I sociologi che lavorano all’approccio della regolazione sociale hanno trovato un riferimento importante nei lavori di K. Polanyi, poi sviluppati da molti in direzioni diverse. Derivandolo sostanzialmente da Polanyi, adottai uno schema analitico basato su quattro meccani- smi di regolazione: reciprocità (regole di scambio con contenuto economico non esplicito), mercato, organizzazione e scambio politico (ovvero regolazione politica)” (Bagnasco 2 4, 72). Dati i limitati (e dichiarati) obiettivi di questo scritto (in termini di utilizzo del concetto di regolazione per contribuire al rinnovamento della cultura politica della sinistra), mi limito a sottolineare che le intuizioni di Streek e Schmitter e di Bagnasco sono da condividere, anche se sono convinto che la quarta forma di regolazione non sia nè quella ipotizzata dai primi due, né quella ipotizzata dal terzo. L’ipotesi è che, oltre alle tre forme di regolazione individuate da Karl Polanyi (l’economica, la politica e la comunitaria) esista una quarta forma di regolazione: la regolazione cognitiva. Vari sono gli elementi che fanno pensare che questa quarta forma di regolazione sia stata persino intuita da altri autori. Innanzitutto, alcune considerazioni di Bruno Leoni (Freedom and the Law) che ha intuito la possibilità (anzi la necessità in base al suo concetto di liberalismo integrale) di concepire il liberalismo come la concezione del principio della regolazione economica trasferito nella politica nella forma di una regolazione politica che si contrappone a ogni forma di coercizione (compresa quella operata attraverso una legge che non rispetti il principio, da lui inteso in senso molto radicale, della certezza del diritto). Egli, come si vede in una sua lettera del 22.5.1942 (Lettera VI a Widar Cesarini Sforza pubblicata in questo numero) spiega come gran parte del pensiero giuridico “degli degli ultimi cent’anni si è costantemente applicato a sostituire il principio regolativo-costitutivo del diritto naturale, su un principio meramente costitutivo, ma senza riuscirvi mai: in questo sforzo si sono avvicendati il giusnaturalismo variamente restaurato nella forma neo-kantiana e lo storicismo non del tutto coerente dei “positivisti” (sensu juridico); miranti, l’uno e l’altro, a riconoscere il valore non più solo apparente della storia, ma anche incessantemente affaticati nel tentativo di evadere dalla storia e in certo senso di dominarla. (Ciò porta a dubitare se sia possibile tener fermo a un principio costitutivo che non sia anche regola- 35 n.14 / 2006 tivo, per elaborare una vera e propria filosofia del diritto, e d’altra parte a dubitare se, in ogni caso, sia ammissibile una scienza del diritto: se infatti il principio è costitutivo-regolativo, esso esce dalla scienza e dalla stessa filosofia per entrare nel dominio dell’azione pratica; se poi esso è meramente costitutivo, rischia di diventare un puro canone d’interpretazione storica, buono per la ricerca di ciò che gli uomini intesero per diritto nei vari luoghi della terra e nei vari momenti della loro storia, ma non per fondare una scienza del diritto...)”. Questo passo della lettera sintetizza il fulcro del primo capitolo della sua opera prima e rivela la lunga gestazione di una posizione che troverà la sua completa formulazione nell’opera maggiore (Freedom and the Law) dove arriverà a descrivere gli effetti e il funzionamento della regolazione, soprattutto quando presenta come esempi di regolazione, sia il Mercato, sia lo sviluppo della scienza e della tecnologia. In questo modo segnala l’esistenza, accanto alla regolazione economica e alla regolazione politica, della regolazione cognitiva. La proposta implicita nel titolo di questo scritto è, per intendersi, quella di una rifondazione della scienza politica italiana a partire dall’opera del meno studiato (dagli scienziati politici italiani) rifondatore della scienza politica italiana dopo il fascismo: Bruno Leoni. Rifondare la scienza politica a partire da Leoni, che insegnava Filosofia del Diritto e Dottrina dello Stato e si interessava dei meccanismi di regolazione spontanei del Mercato, significa puntare su un sapere relazionale, su un sapere per il quale quello che più conta è la possibilità di entrare in contatto ed essere in sinergia con tutti gli altri saperi (secondo il principio, affermato da Quine e di cui gradatamente si stanno cogliendo tutte le implicazioni, che per definire un concetto scientifico è necessario definire, tendenzialmente, non di fatto, i concetti di tutte le scienze). Significa anche affermare il principio che il criterio della valutazione delle scienze non è più quello tradizionale classico della verità, ma è quello della qualità con una accezione della qualità che va considerata come lo snodo di rete, cioè il punto di passaggio di quanti più possibili movimenti (di 36 traiettorie) di superficie. Significa accantonare l’idea tradizionale che la qualità del sapere consista nello scendere in profondità (tramite approfondimento di tematiche circoscritte) verso il punto che individua la specificità (o la sostanza delle cose). L’idea da accogliere è che questa specificità, se esiste, non sia un punto, ma una traiettoria, non sia quindi individuabile nella profondità, bensì nella densità delle molteplici direzioni che si diramano da ogni snodo e nella prossimità a tutto ciò che è in movimento nella propria e nelle altre scienze. Come intuisce il giovane Leoni, il regolativo ha a che fare con le pratiche e le pratiche non sono vincolabili a qualche tipo di confine: la routine, il territorio, il settore, etc. Le pratiche sono il movimento che deborda ogni confine artificiale e, tuttavia, produce la regolazione, cioè un tipo di regola che non è assimilabile alla regola costitutiva di confini (per esempio la norma giuridica, la decisione, etc.), ma alla regola come “regolarità statistica”, quindi come equilibrio che si stabilisce per piccolissimi aggiustamenti. Regolazione è, in questa accezione, non tanto il contrario di rivoluzione (come pure alcuni la vogliono intendere), quanto il contrario di programmazione, pianificazione, strategia individuale che nasce da un “grande disegno”. Regolare vuol dire, infatti, accompagnare senza contrastare le linee di tendenza, vuol dire agevolare in modo che l’equilibrio naturale che si arriverebbe comunque a produrre sia ottenuto con la minore vischiosità possibile e con il massimo possibile di rispetto dei valori dell’etica, della logica e del diritto (naturali). Regolare vuol dire riformare attraverso una politica di piccoli passi, valutando ad ogni passo i sottoprodotti, cioè le conseguenze non intenzionali e, a volte, non desiderate dell''azione. Regolare vuol dire non imporre alla natura confini artificiali soprattutto quando questi confini sono talmente profondi o costituiscono barriere così insormontabili che finiscono per produrre effetti non desiderati che non sono visibili subito, ma appaiono un decennio o una generazione dopo. Regolare vuol dire intervenire in corso d’opera secondo una razionalità ex post che non nasce mai dalla proposta di un singolo individuo o di un gruppo di individui, ma dall’interazione tra tutti gli individui (dal Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica più consapevole al meno consapevole). Regolare vuol dire sperimentare per prova ed errore, con successivi aggiustamenti. Vuol dire non proporre mai una soluzione preconfezionata, nemmeno nel proporre come titola questo scritto un “rimedio alla malattia senile” di una disciplina, ma vuol dire costruire la soluzione per piccoli passi, per piccoli aggiustamenti, per tanti piccoli interventi costituiti da letture e riletture della letteratura esistente, laddove la lettura consiste nello scavare l’opera di uno studioso per trovarci anche pochi o piccoli appigli alla propria proposta (e pochi, anche se non piccoli, sono, per esempio, quelli individuati in Trentin, Leoni, etc.). Regolare vuol dire, per esempio, esplorare anche Habermas, alla ricerca di un piccolo accenno contenuto in un breve passo di una delle sue prime opere. In questo breve passo, Habermas sostiene che sostiene che parlare di due sole forme della regolazione (la politica e la economica) significa riconoscere (ma anche accettare) che nella società industriale le sfere regolate dal potere e dal denaro, con la formazione dello Stato e del Mercato, si siano rese autonome dalla vita sociale nel suo complesso e pretendano di rispondere ai comandi di una logica propria ed esclusiva. Questa conclusione, sul piano cognitivo, continua Habermas, è accettabile solo per casi limite; sul piano politico è il motivo per cui il neopositivismo è una cultura che indebolisce la democrazia (Gangemi 1999) ed è anche il motivo per cui non solo non è accettabile che si parli di sole due forme di regolazione e non è sufficiente il considerarne solo tre, senza includere anche la regolazione cognitiva. A queste, possono essere aggiunte anche considerazioni che possono essere fatte su alcune linee di sviluppo del pensiero filosofico moderno (Gangemi 2 1). Infine, le ultime considerazioni possono essere fatte discendere dagli studi di antropologia di Mary Douglas che individua ben quattro dimensioni nelle quali la società primitiva sente di dover regolare le azioni che possono distruggere la società intaccandone la coesione. A questo proposito, ricordo che Mary Douglas (1991; 1993) ha rilanciato la tesi, già presente in Durkheim, che esiste un comportamento razionale naturale dei primitivi in quanto questi affronterebbero i pericoli naturali (e gli eventi ad essi connessi) in modo da rafforzare i valori comunitari. In altri termini, il pericolo viene affrontato in termini politici (per salvare il patto costitutivo) in quanto le società primitive sono (o si sentono) politicamente fragili. Invece, nella società moderna, il pericolo che deriva da eventi naturali o prodotti dall’agire umano viene sottovalutato da politica e ideologie e affrontato alla luce della scienza perché il patto costitutivo delle società moderne è considerato (ma lo è veramente?) più solido. La tesi, che si va qui a sostenere e che è perfettamente compatibile con le teorie di Foucault sulla regolazione, è che è stato il paradigma della modernità ad avere affidato questo ruolo eccessivo alla scienza e alla sua capacità di prevenzione delle dinamiche autodistruttrici che la società può far emergere. Un corollario di questa tesi è la constatazione che questo paradigma è diventato determinante, nella pratica politica europea, con la rivoluzione francese e, nella teoria politica, con Thomas Hobbes. Prima di Hobbes e della rivoluzione paradigmatica cominciata con lui e portata a maturità con la rivoluzione francese, la società occidentale non si rappresentava come antropologicamente diversa dalla società antica e il paradigma implicitamente assunto come valido era quello che rappresenta l’attore politico come operante sempre in condizioni di ambiguità (un paradigma che ha trovato la propria prima formulazione esplicita, coerente e completa con Gioanbattista Vico). Questo paradigma premoderno (oggi recuperato e riformulato come postmoderno) teneva conto (almeno nelle filosofie prevalenti, e certamente in Gioanbattista Vico, per quanto non con la consapevolezza di oggi) delle quattro dimensioni del pericolo presenti in ciascuna società che Mary Douglas, dopo avere chiarito che molti popoli considerano il corpo come una metafora della società, così sintetizza: “il primo il pericolo che preme sui confini esterni; il secondo è il pericolo che deriva dalla trasgressione delle linee interne al sistema; il terzo è il pericolo presente nei margini delle linee; il quarto è il pericolo causato dalla contraddizione interna, quando certi postulati fondamentali vengono negati da altri postulati fondamentali, in modo tale che in 37 n.14 / 2006 certi punti il sistema sembra in conflitto con se stesso” (1993, 196). Nella mia lettura della Mary Douglas, questi diversi tipi di pericoli sono connessi con le istituzioni che vengono costruite per gestire le dinamiche intorno ai pericoli e ai confini: 1) ciò che preme sui confini esterni (dell’individuo, del gruppo, del territorio) si configura come potestas, e dà origine alla istituzione detta Stato (il quale gestisce, secondo alcuni, il potere, inteso come forza esercitata in modo legittimo, secondo altri dovrebbe esprimere autorità, intesa come forza esercitata in modo legittimo e giusto - su questo punto sono fondamentali le considerazioni di Hannah Arendt, per la quale la democrazia presuppone un rapporto tra elettore ed eletto che non può essere di potere, ma deve essere di autorità. Secondo questa definizione della Hannah Arendt, l’autorità si distingue dal potere in quanto questo è connesso all’uso della forza, mentre l’autorità è connessa all’evidenza. In altri termini, l’autorità, a differenza del potere, è quel senso di libera adesione a un ordine emanato dalle istituzioni che rappresentano la cittadinanza -); 2) ciò che si svolge sulle linee di confine prefigura la necessità di istituzionalizzare le pratiche sociali connesse alla cupiditas (la vecchia e predatoria auri sacra fames) quando non sottomessa a regole ma che, una volta tenuta sotto controllo, diventa ricerca di utilitas (la forma ingentilita della civilizzazione prodotta dal commercio) e contribuisce allo sviluppo degli scambi o delle transazioni quando regolata nella istituzione del Mercato; 3) ciò che si svolge lungo le linee interne sono i valori su cui si costruisce l’identità di ogni gruppo sociale nella istituzione detta Comunità (questa identità comunitaria Fichte sosteneva manifestarsi, prima, nella forma immatura della contrapposizione tra “io” e “non io”, cioè costruzione dell’identità dell’uno attraverso l’esclusione o il non riconoscimento dell’identità dell’altro, e, poi, nella forma matura della differenziazione tra “io” e “un altro io”, cioè costruzione dell’identità dell’uno attraverso l’inclusione o il riconoscimento dell’identità dell’altro); 4) ciò che produce contraddizioni interne ha a che fare con il logo quando non si riconosce valore alle 38 credenze degli altri, ma solo alle proprie, o diventa dialogo quando si tenta di socializzare il sapere in quella istituzione sociale detta Mente (cioè la Mente come arena cognitiva, che si costruisce nella scuola, nei centri di ricerca, nel complesso editoriale-accademico, nei mass media, etc.). E anche questa Mente, a volte si presenta nella forma immatura dell’arena intesa come luogo della ricerca e riproduzione della verità o come luogo per la contesa tra differenti epistemologie della superbia, alla Croce o alla Gentile; la Mente come (prevalentemente) luogo della costruzione comune di asseribilità garantite e condivise (nel senso di Dewey), cioè come luogo in cui si produce sapere pubblico come componente irrinunciabile per la costituzione del pubblico – nella comunità, nella politica, nell’economia e nel sapere -. La Mente, in questo senso, si manifesterebbe nella forma matura della vichiana epistemologia dell’umiltà, che è la base della democrazia. Il percorso da violenza a potere come forza solo legittima e ad autorità come forza legittima e giusta, da cupidità a utilità e quindi a scambi e transazioni, da logo a dialogo, da identità basate sull’esclusione dell’altro a identità basate sul riconoscimento implica regolazioni cioè interazioni che, nel presente scritto, saranno valutate solo nella forma di processi virtuosi (una regolazione presuppone sempre il risultato virtuoso di regole che si ottengono spontaneamente dall’interazione; una regolazione che produce circoli viziosi è, per definizione, una regolazione che non si è riuscita a realizzare). Il che non vuol dire che non si debbono prendere in considerazione anche le conseguenze non virtuose, ma che occorre centrare l’attenzione sulle difese che la società stessa manifesta spontaneamente di fronte a conseguenze non virtuose (e e questo implica, al limite, il riferimento all’eterogenesi dei fini). Sempre Mary Douglas parla di interazioni non completamente virtuose che possono dare origine a contaminazione (cioè a deviazioni e ambiguità che, in parte, ricadono sotto quello che viene detto il dilemma di Pericle o il dilemma del prigioniero e, in parte, vanno ben oltre questo tipo di dilemma). Infatti, il ricorso all’idea di contaminazione è, come chiarisce l’autrice, un modo per Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica risolvere le cadute che si possono verificare “nella sfera che si interpone tra quel comportamento che un individuo approva per sé e quello che approva per gli altri; tra quello che approva come questione di principio e quello che desidera ardentemente per se stesso in quel preciso istante, e in contraddizione con il suddetto principio; tra quello che approva a lungo termine e quello che approva entro un termine piuttosto breve. Tra tutto ciò vi è una possibilità di scarto” (1993, 2 6). Questa possibilità di scarto estende il dilemma del prigioniero ben al di là di quanto siano disposti a concedere non solo i sostenitori del paradigma dell’attore razionale, ma persino molti critici di questo paradigma. La contestazione che Mary Douglas opera di questo paradigma, infatti, è molto più radicale di qualsiasi contestazione fornita da altri studiosi, antropologi o sociologi o altro. Il tentativo di utilizzare, come fattori esplicativi di molti fenomeni sociali complessi, le quattro forme della regolazione nasce dalla constatazione che la scienza ha sopravvalutato le proprie possibilità e i propri risultati perché si è illusa di sostituire la natura (interattiva) con la convenzione, l’ambiguità con l’incertezza e l’intermediazione culturale con l’avalutatività. Nel fare questo, ha identificato il proprio sapere codificato con l’interità del sapere socialmente valido o necessario e ha sottratto l’intera scienza al concetto di regolazione (negando o ignorando l’interazione cognitiva che costruisce la dimensione sociale della Mente). Sicurezza, Territorio, Popolazione “Qual è, infatti, quel sovrano che non abbia cercato di gettare un ponte sul Bosforo o di spostare montagne?” (Foucault 2 5a, 32). Questi tipi di interventi venivano considerati come l’essenza stessa del governare e solo con il XVII secolo in Gran Bretagna e con il XVIII secolo in Francia, si diffonde, invece, la consapevolezza, con i fisiocratici, che questi tipi di interventi sono il problema perché sono artificiali e sbagliati. La razionalità di mercato secondo i fisiocratici nasce dal fatto che gli attori economici sono razionali e che la loro razionalità, se lasciata libera di manifestarsi, produce un risultato collettivo razionale. È un nuovo atteggiamento, una nuova concezione della razionalità che si manifesta per la prima volta nell’economia, ma che è già anticipata da tanti altri fattori che concorrono a governamentalizzare lo Stato. “Uno dei grandi effetti dell’astronomia di Copernico e di Keplero, della fisica di Galileo, della storia naturale di John Ray, della grammatica di Port Royal e di tutte queste pratiche discorsive e scientifiche” (Foucault 2 5a, 171) è stato quello di mostrare che Dio governa il mondo secondo leggi semplici che sono alla portata delle sue creature. Una scoperta che riporta a rileggere in modo più moderno il dialogo sul Monte Sinai tra Mosé e l’Onnipotente nel corso del quale, come si legge nella Genesi e viene confermato nel Deuteronomio, Mosè, adottando la logica naturale di cui tutti gli uomini sono dotati, “convince” l’Onnipotente che non è necessario distruggere il popolo d’Israele e che sarebbe bastata la punizione già ricevuta. Allo stesso modo, a partire dal XVII secolo, comincia a diffondersi l’idea della governamentalità come dell’arte di governare in base alla razionalità degli stessi governati e non più come l’arte di governare in base alla razionalità del sovrano assoluto. Insieme a questa, si opera una seconda modifica sostanziale nella scienza politica perché si passa dalla considerazione degli attributi del sovrano e, quindi, da un intento classificatorio - posizione di Machiavelli, ma anche della scienza politica élitista (Gangemi 2 6) – alla concezione della scienza politica come descrizione di un processo – posizione di Francesco Bacone – che riguarda l’economia e l’opinione. A questo punto Foucault fa una storia della statistica (intesa come scienza del governo dello Stato) e di altre discipline connesse al tema dello Stato e non sempre si rende conto che, pur accettando la logica della regolazione economica, molti si posizionano sul tema della regolazione politica suddividendosi tra coloro che sostengono che la razionalità della politica è la razionalità dei governanti e altri che sostengono che è la razionalità dei cittadini. Questo ha portato alla formulazione di due diverse e contrapposte scienze della statistica: la prima concepisce la statistica come un fatto di calcolo numerico e prende il nome di aritmetica poli- 39 n.14 / 2006 tica (tra l’altro questa impostazione ha forti affinità con la filosofia e la logica di Hobbes e di Hegel) e la seconda concepisce la statistica come un fatto comparativo e prende il nome di statistica universitaria (tra l’altro questa impostazione ha forti affinità con la filosofia e la logica di Bacone che concepisce la scienza come un processo che si svolge di fronte a una speciale giuria costituita da tutti gli esperti del tema). Va aggiunto che, con Robert Boyle, il senso dell’affermazione di Bacone secondo cui la scienza cresce e si afferma di fronte a una giuria di scienziati acquista un senso molto chiaro perché, nella polemica intercorsa tra Boyle e Hobbes sul tema dell’esperimento delle pompe ad aria, diventa evidente che la vittoria è arrisa, dopo venti anni, a Boyle perché si costituì a suo favore quello che egli chiamò un “collegio invisibile” di scienziati (in quanto essi si contattarono, si informarono, presero posizioni e fecero propaganda a favore di Boyle più che di Hobbes). La diversa funzione politica delle due scienze della statistica fu evidente per il fratto che, nei tre Paesi europei culturalmente più importanti del tempo, l’aritmetica politica prevalse nell’impostazione di studiosi molto vicini a sovrani assoluti o autoritari (il fondatore dell’Aritmetica Politica fu William Petty, al servizio di Cromwell, Süssmilch fu al servizio di Federico II di Prussia, e in Francia il passaggio dal governo rivoluzionario al governo napoleonico ha rappresentato il passaggio della prevalenza della statistica universitaria alla prevalenza dell’aritmetica politica), mentre la statistica universitaria prevalse nell’impostazione di studiosi che vivevano in e operavano al servizio di regimi meno autoritari (per esempio Achenwall e Conring che lavoravano nell’Università di Gottinga sotto il governo del Sacro Romano Impero tedesco). Nell’Ottocento, lo stesso problema si riprodusse all’interno degli studi empirici della politica nella forma della distinzione tra una disciplina, la scienza politica, che riconosceva la centralità della società (civile) e una disciplina, la scienza dell’amministrazione, che riconosceva la centralità dell’azione di governo. Questa distinzione si è, poi, persa con lo sviluppo della scienza politica élitista quando si è affermata la distinzione tra la raziona- 40 lità della regolazione politica (non più un’infinità di microeventi che si sviluppano nella società e producono un equilibrio collettivo, ma una regolazione ristretta a una minoranza che, poi, si manifesta verso i gregari come controllo del rispetto delle regole e delle norme) e la razionalità della regolazione economica (una razionalità collettiva come risultato dell’equilibrio raggiunto nell’interazione libera di tutte le razionalità individuali). Foucault ripropone l’idea che la regolazione politica esprima, in un diverso contesto di azione, la stessa razionalità della regolazione economica. “Lo stato è l’idea regolatrice della ragione di governo...Lo Stato è principio di intelligibilità di ciò che è, ma anche di ciò che deve essere” (Foucault 2 5a, 2 6-7). In altri termini, sostiene Foucault, lo Stato è il risultato di un processo di negoziazione ed è il risultato di politiche che vengono istituzionalizzate nella prassi e mutano continuamente. Una concezione che, nel XX secolo, viene rilanciata da un importante filosofo del diritto cattolico, Giuseppe Capograssi: “È stato il fatto di una lunga e grave lotta di interessi diversi e spesso contraddittori, di tentativi faticosi di molte forze e di molte volontà, per conseguire scopi loro del tutto particolari, sforzi egoistici di questa e di quella classe effetto di transazioni e di accomodamenti e anche di sopraffazioni e di violenza, risultato insomma di un immenso incrocio di egoismi e di particolarismi, che hanno fatto l’essere concreto e l’ordinamento vigente dello Stato. Dalla pratica e dall’industria interessata, violenta, accanita degli uomini di Stato della grande aristocrazia inglese, è nato il sistema di gabinetto, divenuto centro e anima dello Stato moderno” (Capograssi 1959, 419). Nei confronti del gabinetto si è creato un sistema di obbligatorietà e inderogabilità che hanno assunto obbligazione giuridica e che vanno distinte “da tutte le altre posizioni, azioni, situazioni, che formano la intera trama del concreto e che solitamente vanno sotto il nome vago di ‘politiche’”(Capograssi 1959, 419-2 ). Da queste affermazioni si deduce che, secondo Capograssi, tutto ciò che non assume carattere di obbligatorietà e inderogabilità è una politica e che il sistema di obbligatorietà e inderogabilità nasce dall’istituzionalizzazione di queste Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica politiche. La giuridicità obbligatoria del sistema di gabinetto o di altri sistemi non nasce dall’opinione pubblica, bensì dall’interazione dell’operare concreto degli interessi che hanno spostato il focus della giuridicità rispetto all’articolazione giuridica astratta. La costituzione astratta è il risultato logico e speculativo di quelli che Vico chiamava “indottrinati”. La costituzione materiale è il risultato della vita e del concreto agire degli interessi. La costituzione materiale non si afferma per obbligo, ma per adesione spontanea a una prassi che si è consolidata nel tempo e che si evolve gradatamente nel tempo. La costituzione materiale è il risultato della regolazione politica. “Il movimento della realtà sociale e storica ha dunque portato a questo risultato, che tutti i sistemi scritti, con i quali si era cercato di determinare il disegno e la sagoma del diritto costituzionale, sono stati superati, ed è nato nella realtà un sistema un organismo un insieme di funzioni che si discutono profondamente e talvolta contraddittoriamente dagli schemi costituzionali. Questo è il fatto centrale e capitale di cui i giuristi devono prendere atto, e dare una giustificazione completa” (Capograssi 1959, 429). Naturalmente, questo processo di realizzazione dello Stato attraverso politiche, che è una tendenza naturale che si afferma con la modernità, non si realizza senza problemi e senza arretramenti. Ma qual è il valore costituzionale di questi arretramenti, cioè di questo prevalere della regolazione politica intesa come governamentalità diretta del sovrano in quanto sovrano? La risposta di Foucault è drastica e inequivocabile: “In questo senso, la polizia è il colpo di stato permanente che si eserciterà in nome e in funzione dei principi della sua stessa razionalità, senza doversi conformare o modellare sulle regole di giustizia stabilite altrove...È un colpo di stato permanente, ma di che strumento si avvale? Del regolamento, dell’ordinanza, del divieto e della consegna. La polizia interviene secondo il modo del regolamento” (Foucault 2 5a, 246). Questo colpo di stato consiste nella statalizzazione della società, nel fatto che le leggi non vengono concepite come regole che fissano l’equilibrio raggiunto autonomamente dalla società, ma come una razionalità che viene imposta alla società e che questa deve accettare, pena le sanzioni più gravi. La logica, la razionalità, diceva Hobbes è proprietà del Leviatano e anche la pretesa di discutere una legge del sovrano che non si condivide si può configurare come atto di insubordinazione. La logica sperimentale, obiettava Boyle, è una razionalità processuale (sottoposta al giudizio del collegio invisibile degli scienziati) alla quale tutti devono sottomettersi (cittadini e sovrani). La logica della regolazione politica, continua Foucault, è la logica dell’arte del governo secondo la razionalità dei governati. Costruire ponti sul Bosforo può essere la logica dei sovrani, ma non necessariamente la logica dei governati. Non è detto che un ponte sul Bosforo sia un atto razionale perché esso potrebbe portare a risultati non desiderati e non previsti. La razionalità dei governati è da preferire non perché essi non sbagliano mai, ma perché la società civile è l’espressione della naturalità, il cui equilibrio è prodotto della regolazione, e non può essere sostituita dall’azione (autonoma rispetto alla società) dello Stato, perché questa azione non produce equilibrio, bensì squilibrio tendenziale. Nascita della biopolitica Il punto di partenza di Foucault è la descrizione che Robert Walpole, leader del partito Whig in Gran Bretagna, primo ministro fra il 172 e il 1742, forniva del proprio modo di governare: Quieta non movere. Cioè, non toccare ciò che se ne sta tranquillo. Questo è, secondo Foucault, il senso profondo del concetto di regolazione. Era comunque, questo, un principio cui si rifaceva la Repubblica di Roma e l’accusa contraria viene da Sallustio riferita all’operato di Catilina (che non intendeva lasciare stare le cose che se ne stavano tranquille). Sallustio è uno degli autori, insieme a Cicerone (non a caso deciso avversario di Catilina), cui si ispirano i neorepubblicani John Pocock e Quentin Skinner. Questo permette di collegare la riflessione di Foucault al neorepubblicanesimo o neoromanesimo che comincia la propria rilettura della storia della filosofia politica a metà degli anni Settanta, più o meno quando anche Foucault 41 n.14 / 2006 comincia la sua opera di analisi della direzione del principio che Bisogna difendere la società. Sempre secondo Foucault, il principio operativo del quieta non movere è lo stesso principio della Common Law secondo cui bisogna stare decisis, rimanere al precedente. L’obiettivo di Foucault, a partire da queste premesse, è quello di “scrivere la storia senza ammettere a priori che esistevano cose quali lo stato, la società, il sovrano, i sudditi” (2 5b, 15). Questo non vuol dire che queste cose non esistono, ma che bisogna costruire un metodo a partire dall’assunto che qualcosa che ha quei nomi esista, ma che questo qualcosa debba essere un risultato, cioè un a posteriori, della ricerca. Foucault intende dire che Stato, società, etc. non hanno essenza. E successivamente, egli chiarisce, a proposito dello Stato: “Lo stato non è universale, non è in sé una forma autonoma di potere. Lo stato non è altro che l’effetto, il profilo, la sagoma mobile di un processo di statalizzazione, o di statalizzazioni incessanti, di transazioni continue, che modificano, spostano, rovesciano, oppure introducono insidiosamente – poco importa – le fonti di finanziamento, le modalità di investimento, i centri di decisione, le forme e le modalità di controllo, i rapporti tra poteri locali e autorità centrale, ecc.” (2 5b, 75). Secondo Foucault, lo Stato è un nuovo modo di governare che esprime una data forma di razionalità. Sia razionalità che regolazione sono termini usati per indicare che esistono dei limiti entro cui si svolge l’azione di governo, anche se non sono limiti giuridici, ma sono limiti che provengono da una prassi che si è consolidata nel tempo. La regolazione, in questo senso, non è un tentativo di limitare l’abuso di sovranità, ma è il tentativo di limitare l’eccesso di governo. Il primo ambito in cui si manifesta questa nuova razionalità di governo è nell’economia. Nella politica questo nuovo modo di governare viene definito “governo fragile”, nel senso che è un governo che si pone come obiettivo quello di intervenire con il minimo di interventi possibili. Questo modo di governare viene definito “giusto” in una concezione della giustizia che non scende dall’alto, ma emerge dall’interazione tra le azioni dei cittadini quando le cose se ne stanno tranquille. Per questo 42 si dice che il prezzo di mercato è il prezzo giusto quando il mercato funziona in modo corretto e tranquillo. Allo stesso modo, considerando la regolazione giudiziaria (l’interazione tra gli attori della giustizia, compresi gli attori che iniziano azioni civili e penali o le subiscono) come una componente rilevante della regolazione politica, la vera politica è quella che tutti gli attori condividono. Il che non vuol dire, ovviamente, che ogni condannato si deve dichiarare giustamente condannato dal giudice, quanto che egli riconosca al giudice il ruolo di arbitro, cioè che con quelle prove che sono state portate in dibattimento chiunque, al suo posto, sarebbe stato condannato. Ma vuol dire anche qualche cosa di più ampio che non riguarda solo il giudice, ma anche l’esecutore di un’eventuale sanzione. L’esempio più appropriato di questa seconda fattispecie mi sembra l’episodio di quei due motociclisti della polizia che, alla fontana di un bivio, molti anni fa, aspettavano la macchina di un sarto che trasporta dei ragazzi nella scuola che si trovava in un paese vicino. I due poliziotti guardavano i ragazzi spaventati (per la consapevolezza che dal giorno dopo avrebbero dovuto alzarsi due ore prima e tornare due ore dopo per poter andare ogni giorno a scuola servendosi di una scassatissima corriera, l’unico mezzo titolare del diritto di trasporto di persone tra quei due paesi) e si scusavano per il pesante verbale che erano costretti a redigere e la diffida che facevano all’autista, di non continuare quel trasporto non autorizzato di persone. Essi continuavano a ripetere: “ci dispiace! Siamo comandati! Qualcuno vi ha denunciato”. Il concetto di regolazione politica è quel tipo di applicazione della giustizia che tutti condividono, in tutti i contesti, e in cui il senso comune della gente non contrasta con la logica della sanzione amministrativa o penale. Visto in questi termini il problema, non si tratta di affermare una concezione ideologizzata del liberalismo, bensì dell’affermarsi di una logica di naturalismo (in cui la natura non è quella fisica, ma quella dell’uomo e della sua cultura). Su questo punto, Foucault precisa che il liberalismo non è nato come naturalismo, ma come teoria del governo frugale, cioè come teoria tendente a riprodurre nell’azione politica la razionalità del- Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica l’agire economico. La legittimità della sovranità, per lungo tempo, ha seguito due diverse vie che, schematicamente, possono essere così descritte: 1) la via assiomatica-rivoluzionaria che parte dal diritto pubblico e dal diritto naturale e che concepisce la legge come volontà ; 2) quella liberale e utilitarista che si articola sulla regolazione economica e che concepisce la legge come transazione. Alcuni fattori intervenuti gradatamente hanno tenuto insieme, collegandole tra loro, le due vie: “l’assiomatica fondamentale dei diritti dell’uomo e il calcolo utilitaristico dell’indipendenza dei governati” (Foucault 2 5b, 5 ). In questo modo, gradatamente, il liberalismo si è tradotto in naturalismo. Questa pratica del naturalismo, secondo Foucault, non è solo una forma di rispetto di questa o quella o di tutte le libertà, ma è una forma di governo che consuma libertà. “È consumatrice di libertà nella misura in cui non può funzionare veramente se non là dove ci sono delle libertà [...] La nuova ragione di governo ha dunque bisogno di libertà, la nuova arte di governo consuma libertà. Se consuma libertà è obbligata anche a produrne, e se la produce è obbligata anche a organizzarla” (2 5b, 65). La libertà, quindi, serve come elemento di regolazione, a condizione che questa libertà sia stata prodotta e organizzata. L’azione della regolazione politica è azione di limitazione dello Stato, ma anche del potere delle élite, ed è l’unico strumento, come ha lucidamente spiegato lo scienziato della politica Bruno Leoni, nel volume Freedom and the Law, per sostituire al governo degli uomini sugli altri uomini, il governo impersonale della legge, la Rule of law intesa nel senso radicale in cui la ha intesa e descritta Leoni. Secondo questa concezione, gli uomini che possono fare e disfare la legge senza rispettare precedenti, consuetudini o il senso diffuso della “giustizia giusta” non sono mai, per definizione, sottomessi alla legge, ma essi, con la giustificazione della legge, sottomettono gli altri uomini ai loro voleri o alle loro visioni di uomini di parte. La regolazione non è la razionalità del non voler intervenire o del “lasciar fare, lasciar passare”, ma è la razionalità di intervenire solo quando le cose non se ne stanno tranquille, nel mercato come nel diritto come nell’amministrazione. L’intervento, insomma, non è meno denso, ma solo diverso da quello di chi vuole dare l’indirizzo giusto alle cose, invece di riconoscere la naturalità delle cose come devono andare secondo libertà e giustizia. Non un lasciar fare, ma un operare secondo l’etica sociale dell’impresa o l’etica sociale della politica o l’etica sociale della scienza. Foucault spiega che il fascismo e il nazismo, o in genere lo Stato totalitario del XX secolo, non è uno sviluppo dello Stato burocratizzato condotto al suo limite, cioè non è lo sviluppo della governamentalità statalizzante, ma il prosieguo di una sorta di governamentalità non statale. Su questo punto, Foucault lascia indeterminato il problema dell’arte di governo secondo la razionalità di partito cui accenna in altra parte del testo (2 5b, 158) e cui non accenna dove elenca le (già citate) varie arti di governo nel loro influenzarsi reciproco. “Nel XIX secolo, vedremo emergere tutta una serie di razionalità di governo, che si accavallano, si sostengono reciprocamente, si contestano, si combattono a vicenda. Arte di governare secondo la verità, arte di governare secondo la razionalità dello stato sovrano, arte di governare secondo la razionalità degli agenti economici, e più in generale arte di governare in base alla razionalità degli stessi governati” (2 5b, 258). La governamentalità di partito viene introdotta, come concetto, in un altro contesto perché, secondo Foucault, si sviluppa da un principio diverso. Foucault ipotizza che “il principio dei regimi totalitari non vada ricercato nella direzione di uno sviluppo intrinseco dello stato e dei suoi meccanismi; lo stato totalitario non coincide, cioè, con lo stato burocratizzato condotto al suo limite. Lo stato totalitario è qualcos’altro. Il suo principio va cercato non nella governamentalità statalizzante o statalizzata che vediamo nascere nel XVII e nel XVIII secolo, bensì all’interno di una governamentalità non statale, appunto in quella che si potrebbe chiamare una governamentalità di partito” (2 5b, 158). Questa ipotesi di Foucault va compresa in due assunti impliciti: il primo che la regolazione politica sia una regolazione interna in quanto non è il risultato di un’imposizione, ma è il risultato di transazioni (2 5b, 24); il secondo che la governamentalità di partito sia esterna alla regolazione 43 n.14 / 2006 politica in quanto la transazione non è tra partito e società civile, ma è, al massimo, interna al partito o ai partiti. Per regolazione interna Foucault concepisce il fatto che la regolazione è il risultato delle stesse forze che, nel Medioevo, hanno prodotto il potere del Re: l’esercito e le istituzioni giudiziarie (2 5b, 19). Il potere sull’esercito fu limitato, per transazione (quella che si può considerare la prima campagna stampa del mondo moderno), attraverso l’azione di Lord Shaftesbury primo in Inghilterra. Sempre in Inghilterra, la regolazione giuridica ha prodotto, sempre nel XVII secolo e sempre a partire dall’Inghilterra, un diritto facendo diventare la legge lo strumento di limitazione del potere del Re (2 5b, 21). Per questi motivi, Foucault considera i partiti come esterni alla regolazione politica, che è regolazione interna. Naturalmente, questo non implica un giudizio negativo totale dell’azione dei partiti perché, in alcuni periodi - per esempio per i Trenta Gloriosi anni dopo la seconda guerra mondiale - e in alcune circostanze - nelle questioni multi-issue che costituiscono la dimensione di routine dell’arte di governare (Gangemi 2 5) - i partiti riescono ad essere rappresentativi dei governati e la governamentalità di partito può coincidere con la governamentalità dei governati. In altri contesti, invece, l’accrescimento dello Stato può implicare un degrado della dimensione amministrativa interna dello Stato e una sostituzione dell’apparato amministrativo interno con una élite esterna (un modo concreto con cui questo degrado si può operare è il clientelismo che non ha niente a che vedere con la rappresentatività, anzi, ne è la negazione). Infine, il processo di statalizzazione della società può essere favorito dai partiti quando questi si trasformano in partitocrazia, cioè quando essi considerano la dimensione multi-issue in cui operano come chiusa rispetto alla dimensione single-issue (Gangemi 2 5), cioè quando i partiti si chiudono ai comitati di cittadini, ai movimenti collettivi, cioè alle varie forme di transazione e partecipazione che implicano un ruolo attivo della società civile. Spesso la prova che questa chiusura dei partiti si sta realizzando sta nel fatto che i leader dei partiti cominciano a usare i concetti di antipolitica e di populismo per classificare in queste categorie 44 chiunque si richiami all’arte di governo secondo la razionalità dei governati. Conclusione Volendo utilizzare il concetto di regolazione per rinnovare la cultura delle sinistra, non bastano i concetti di regolazione politica e regolazione economica di cui parla Foucault (concetti che egli fa appartenere alla stessa razionalità). È vero che concepisce anche la regolazione politica in riferimento alla partecipazione e questo implica che egli introduca di fatto una terza forma di regolazione, che chiama ancora politica, ma che è già comunitaria. Per distinguere le varie forme di regolazione è necessario non solo distinguerle lungo la dimensione verticale della razionalità (della verità, del sovrano assoluto, dei partito o élite e dei governati), ma esse vanno anche distinte secondo una dimensione orizzontale della razionalità (la razionalità dell’utilità, corrispondente alla regolazione economica; la razionalità del dono, corrispondente alla razionalità comunitaria, cioè alla regolazione che Foucault basa sulla partecipazione; la razionalità del danno, corrispondente alla razionalità politica, nella versione del controllo amministrativo e giudiziario; la razionalità della costruzione del senso, corrispondente alla regolazione cognitiva). Nella concezione tradizionale, prima di Foucault, la regolazione politica opera secondo la razionalità della “strategia del danno” (nel senso che la partecipazione non viene richiesta nella forma della preferenza o del consenso, ma si considera sufficiente che venga fornita per evitare le sanzioni e i danni che ne conseguono, se la non partecipazione intesa come disubbidienza o violazione - viene individuata). L’ambiguità nasce dal fatto che il vincolo che lega i cittadini allo Stato è detto obbligazione politica ed è una forma di contratto molto più forte del contratto economico perché presuppone che quanti oggi accettano sacrifici, lo facciano in nome di vantaggi (o anche solo di minori danni) che avranno domani e, quindi, si aspettano che il patto che lega coloro che fanno sacrifici a coloro che ne hanno i vantaggi sia garantito fino al momento in cui quello che viene dato possa essere reso. Le regole che sono alla base della regola- Giuseppe Gangemi La biopolitica rimedio alla malattia senile della scienza politica zione politica prendono il nome di norme legittime, nel senso che sono decise secondo ritualità ben definite nella costituzione stessa dello Stato. Il Bene pubblico che lo Stato immette nel sistema, in quanto detentore della forza e in condizione di esercitare il monopolio della forza legittima, è l’ordine pubblico che produce sicurezza. La forma degenerata di questa regolazione è quella che porta i governati a concludere che “lo Stato è assente” o che “lo Stato è delinquente”. In effetti, come sostiene anche Foucault, il termine Stato sta a indicare un attore collettivo astratto, nel senso che si usa il concetto di Stato non perché uno Stato esista in modo palpabile e visibile, ma perché si vuole indicare con un solo nome il risultato di una serie infinita di interazioni (cioè di politiche) che sono, da una parte, il prodotto di un sistema giuridico dotato di una forte positività e, dall’altra, risultati conseguenti all’applicazione di quel sistema giuridico. Altra cosa, ovviamente, è ipotizzare che la regolazione politica sia il frutto della partecipazione intesa come motivazione che non nasce dalla paura del danno ma dalla strategia del dono. Quando si incomincia a valutare la regolazione politica in senso innovativo (facendola coincidere con la partecipazione spontanea dei governati), si comincia già a parlare di regolazione comunitaria e si è obbligati a uscire dalla dimensione dell’incertezza per entrare nella dimensione dell’ambiguità, cioè in una concezione della razionalità alternativa a quella (ed incomprensibile dal punto di vista) della teoria dell’attore razionale. La regolazione comunitaria è basata sulla razionalità del dono, una razionalità che sfugge alla comprensione della teoria dell’attore razionale. Questa teoria, infatti, presuppone che il lavoro, il dedicare attenzione ed energie è cosa che va ascritta dalla parte dei costi e che, di conseguenza, quanto maggiori sono questi costi, tanto maggiori devono essere i benefici attesi o realizzati per motivare l’azione sulla base dell’utilità. La teoria dell’attore razionale presuppone che, in un’associazione, nella quale gli individui si debbano battere per realizzare un vantaggio che viene equamente distribuito tra tutti i componenti la società, l’azione più razionale, quella che ottimizza il rapporto costi/benefici non è la cooperazione per raggiungere quel beneficio collettivo, ma la non cooperazione quando cooperano gli altri. Nella partecipazione, cioè nella regolazione comunitaria, quello che nella regolazione economica verrebbe considerato un costo, viene considerato un beneficio (o almeno più neutralmente verrebbe escluso dai costi). Poiché questi tipi di comportamento partecipativi, che si possono definire come basati sulla strategia del dono, sono presenti (e spesso frequenti) nella società, non si può ignorare l’importanza del ruolo che può svolgere la regolazione comunitaria. Inoltre, senza regolazione comunitaria nessuna società si reggerebbe, non essendo sufficienti a tenere insieme la società le sole strategie dell’utilità (regolazione economica) e del controllo, attraverso la minaccia del danno (regolazione politica in senso tradizionale). Il principio sulla cui base si muove la regolazione comunitaria è quello che, seguendo Grozio, possiamo chiamare appetitus communitatis. Si tratta di un appetitus, cioè di desiderio, di aspirazione, perché può subire una degenerazione quando spinto fino alle conseguenze più radicali ed estreme. L’appetitus communitatis è il motore della regolazione comunitaria e questa funziona se ciascun componente della comunità costruisce per interazione con gli altri appartenenti alla comunità la propria identità con doni che rimangono dentro una dimensione di reciprocità. Il dono è, nella normalità, un gesto, un frutto, un riconoscimento che trova riscontro in analoghi comportamenti della comunità: non è così, invece, nelle situazioni di fondamentalismo, nelle quali il dono è la vita e l’identità si annulla nella comunità (ma in questo caso ci troviamo già nella versione degenerata della regolazione comunitaria). La regolazione cognitiva si riscontra, infine, ogni qualvolta (anche se non solo) si ha a che fare con un processo di costruzione di senso o con un tipo di pratica sociale che precede il costituirsi delle istituzioni. I processi di costruzione di senso si realizzano in quella che Robert Merton ha chiamato struttura cognitiva della conoscenza (tutto ciò che è pura strategia comunicativa depurata dai ruoli, dalle utilità e dai rapporti di forza tra gli attori) e in quella che egli ha chiamato struttura sociale della 45 n.14 / 2006 conoscenza (i ruoli, le utilità e i rapporti di forza tra gli attori che operano nella costruzione di senso). Anche questa regolazione si muove nell’ambiguità perché si muove tra i due estremi costituiti dalle due diverse e, spesso, conflittuali strutture. Infatti, la razionalità ha a che fare con un processo di costruzione di senso o con un tipo di pratica sociale che precede il costituirsi delle istituzioni o, se queste istituzioni sono già affermate, confligge con la struttura sociale che regge queste istituzioni. La struttura cognitiva opera nella dimensione baconiana in cui tutti sono uguali di fronte all’argomento, all’argomentazione, ma si scontra con la concezione hobbesiana della verità che presuppone che il padrone della verità sia tale per il ruolo che occupa (il Leviatano è considerato da Hobbes, non solo il padrone del diritto, ma anche il padrone della logica). La prima grande manifestazione del conflitto tra struttura cognitiva e struttura sociale ha visto come protagonisti Galileo e la Chiesa e ha visto trionfare la seconda; un’altra grande manifestazione di questo stesso tipo di conflitto si è manifestata nella ventennale polemica tra Robert Boyle e Thomas Hobbes. Secondo la ricostruzione che Schapin e Schaffer (1994) hanno fatto della lunghissima polemica tra Hobbes e Boyle sugli esperimenti per la pompa ad aria, il primo faceva appello alla struttura sociale per destituire di fondamento le esperienze di Boyle che pretendeva che l’esperimento potesse smentire qualsiasi autorità scientifica (la struttura sociale della conoscenza) in nome di una logica che era nella natura; Boyle impiegò venti anni per trionfare con le sue teorie sperimentali perché molto faticoso fu il processo che portò gradatamente la comunità scientifica a schierarsi dalla sua parte. Ottenuto questo risultato, fu Boyle a recuperare in parte l’argomento di Hobbes in quanto sostenne che la logica sperimentale non era autoevidente e, quindi, andava sottoposta a una giuria di pari gradi, cioè di scienziati. In questo modo, egli presentò l’idea dell’argomentazione sperimentale e scientifica come un processo simile alla pratica delle corti di giustizia inglesi secondo le quali solo una giuria poteva mostrare la fondatezza di un esperimento attraverso procedure deliberative. Boyle comprese che, 46 per la propria vittoria, era stato determinante il costituirsi di un “collegio invisibile”, cioè il fatto che una comunità di pari si era pronunciata sia assistendo agli esperimenti di Boyle, sia ripetendo gli stessi esperimenti altrove, sia leggendone i resoconti sulle riviste specializzate. Si deve a Boyle la comprensione che la scienza procede per successivi equilibri che vengono raggiunti attraverso la regolazione, come effetto di un processo deliberativo che può durare anche decenni. La regolazione cognitiva è fondamentale per capire anche il concetto di governamentalità di Foucault che presuppone sempre alla base di ciascuna arte di governare un diverso tipo di razionalità: arte di governare secondo la verità; arte di governare secondo la razionalità del sovrano assoluto; arte di governare secondo la razionalità degli agenti economici; arte di governare secondo la razionalità dei partiti; arte di governare secondo la razionalità dei governati. Senza considerare come essenziale la regolazione cognitiva, cioè il processo deliberativo relativo a ciascuna arte di governo, non si capisce infatti come e perché possano esistere (e in che cosa possano differire l’una dall’altra) queste tante diverse forme di razionalità. Riferimenti bibliografici Baget Bozzo, G. e R. 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Almagisti, “Forme di regolazione e capitale sociale in Veneto”, Venetica, XV, pp. 9-62 Sartori, G.(1957), Democrazia e definizioni, Bologna, Il Mulino Sartori, G.(1993), Democrazia: cosa è?, Milano, Rizzoli Sartori, G.(2 1), Pluralismo, multiculturalismo ed estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli Tarchi M. (2 3), L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, Roma-Bari, Laterza Tocqueville, A.(1982), La democrazia in America, Milano, Rizzoli 47 Mario Galzigna Entre la discipline et la cure * Focus: Michel Foucault * Da “Critique”, 696, mai 2 5, per gentile concessione di Yves Hersant. 1 E. D. Esquirol, Des Passions, considérées comme causes, symptômes et moyens curatifs de l’aliénation mentale, Didot, Paris 18 5, pp. 76-77. 48 Dans un Essai sur la mélancolie publié à Paris en 18 4, le docteur C. A. T. Charpentier rapporte un cas clinique fort surprenant: «Un curé âgé de 58 ans, d’une constitution robuste, menait avant la Révolution une vie active. Au commencement de la Révolution, il se prononce pour la réforme du haut-clergé; mais il est trés affecté des excès de la Révolution et de la destruction totale de la religion. Il perd différentes sommes qu’il avait placées. Les églises sont rouvertes pour redevenir bientôt des temples clécadaires. M.*** tombe alors dans la plus grave mélancolie. Il devient sombre, taciturne, ne veut plus manger. Il s’accuse d’avoir commis des crimes horribles; désespéré de la miséricorde divine, il dit étre un scélérat indigne de jouir de la vie. Il se précipite dans un puits. Persuadé que tout le monde est instruit de son histoire, il n’ose paraître. À la sollicitation de ses amis, il va en société et y est comme tout le monde. Dès qu’il est seul, les idées de désespoir s’emparent de lui. Après avoir gardé le lit pendant 15 jours, il se précipite une seconde fois dans le même puits. Quelque temps après, même accident. Pendant deux ans, il passe dans cet état. On lui apporte les articles organiques du concordat. Aussitôt après la lecture de cette pièce, M.*** court de tous côtés, voit ses amis, leur annonce sa guérison. En effet, depuis cette époque, il jouit d’une santé parfaite”. Remarquable description, qu’Esquirol cite dans sa thèse de doctorat1: à l’aube de la psychiatrie emerge clairement une mélancolie perçue comme pathologie de la perte, comme malaise lié à une profonde incertitude identitaire et aux convulsions de l’époque révolutionnaire. A l’angoisse de la perte s’ajoutent le sentiment de culpabilité, l’autoaccusation, le délire, le déracinement social; mais aux tentatives de suicide succède une «guérison» aussi brusque que surprenante, que le texte met en scène comme une consequence de la suppression du symptòme. Grâce à son entourage, le patient a pu lire des articles qui démentent et neutralisent ses angoisses et ses craintes. Le geste thérapeutique, en l’occurrence, a pour but précis de ressouder la fracture entre monde intérieur et monde extérieur qui provoquait la dérive pathologique : par ce geste, il s’agit de rendre au sujet interné son aptitude à produire un examen de la réalité adéquat, comme dirait la clinique actuelle, en privant ainsi de ses fondements tout l’édifice délirant. Dans Le Pouvoir psychiatrique sont rassemblés les cours tenus par Michel Mario Galzigna Entre la discipline et la cure Foucault au College de France, pendant l’année universitaire 1973-1974. La transcription et la riche annotation sont dues a Jacques Lagrange, dont le travail impressionnant a pour résultat de restituer fidélement la parole de Foucault: son phrase fulgurant, son lexique inventif, sa rhétorique incisive, avec ses ruptures, ses répétitions, ses variations, ses dérives. Le texte interroge la psychiatrie d’un point de vue critique et historique, en soulevant des questions et des problèmes qui à trente ans de distance ne semblent nullement obsolètes. En révélant le montage du dispositif psychiatrique, Foucault met en évidence, parmi les diverses techniques du traitement de la folie, une manière particulière de «soigner» le délire, adoptée au tout début du XIX siècle par la «protopsychiatrie» française et anglaise: chez Pinel par exemple, mais aussi chez l’aliéniste anglais Joseph Mason Cox, auteur des Practical Observations on Insanity (publiées à Londres en 18 4 et traduites deux ans plus tard en français, sous le titre Observations sur la démence). Michel Foucault emprunte à cet ouvrage nombre de citations, ainsi qu’une description clinique qui ménte qu’on s’y arréte. Un patient âgé d’une quarantaine d’années, en proie à sa «passion du commerce », développe un delire qu’on dirait aujourd’hui hypocondriaque: il se sent frappé de graves maladies, notamment de celle qu’à l’époque on appelait la «gal répercutée» (p. 129). Les médecins tentent vainement de le convaincre qu’il est indemne de tous ces maux, et Mason Cox ajoute: «Aucun raisonnement ne put ni le dissuader, ni le distraire. On se détermina alors à faire une consultation solennelle de plusieurs médecins réunis, qui après l’avoir bien examiné et étre convenus entre eux de la nécessité d’entrer dans les idées du malade, décidèrent unanimement que sa conjecture était fondée, et qu’il fallait absolument faire reparaître la gale. On lui prescrivit en conséquence des applications rubéflantes, au moyen desquelles il lui sortit successivement sur différentes parties du corps un grand nombre de boutons, pour la guérison desquels on n’eut besoin que de lavages fort simples; mais dans leur administration on fit semblant d’user de beaucoup de précautions pour ne pas donner lieu a une nouvelle répercussion. Ce traitement prolongé pendant quelques semaines réussit fort bien. Le malade fut complétement guéri, et recouvra, avec sa raison et sa santé, toutes les facultés de son esprit». Son délire, commente Foucault, avait été satisfait. Une folie délirante qui a pour pivot une croyance fausse, une illusion, une erreur ne saurait être combattue avec des démonstrations et des raisonnements auxquels, la plupart du temps, l’aliéné se montre réfractaire. Il faut l’affronter en manipulant la réalité, pour rendre celle-ci conforme au délire. Aussi fait-on «délirer la réalité», note Foucault (p. 13 ), afin que le délire ne soit plus délire; on le délivre de l’erreur, afin qu’il n’erre plus. Avec la psychiatrie naissante apparaissent ainsi deux approches distinctes de la folie délirante: d’une part, la manipulation du réel, à la manière décrite par Cox, qui recourt à la fiction pour résorber la fracture entre le moi et le monde. La question de la rivérité, et donc le problème de la vérité de la folie, se situent au centre même de la cure, surgissant de la confrontation directe entre médecin et malade (p. 132). Mais, d’autre part, se fait jour la tentative qu’évoque le texte de Charpentier: sa description clinique, que Le Pouvoir psychiatrique ne cite pas, est passible de l’analyse que propose Foucault du pouvoir psychiatrique post-pinellien comme pouvoir d’imposer la réalité. Il s’agit, comme on l’a vu, 49 n.14 / 2006 d’exhiber devant le patient des niveaux de réalité susceptibles de falsifier, de démentir, de délégitimer les contenus de son délire, en utilisant l’autorité hiérarchique qui régit la vie asilaire. Le psychiatre, que Foucault défmit comme maître et seigneur du réel, est devenu - voilà sa fonction et sa tâche - celui qui «assure au réel le supplement de pouvoir nécessaire pour qu’il s’impose à la folie». Mais le psychiatre est aussi celui qui, inversement, «doit ôter à la folie le pouvoir de se soustraire au réel». A partir du xix siècle, il est donc devenu «un facteur d’intensification du réel, l’agent d’un sur-pouvoir du réel» (p. 132). Il faut préciser que c’est surtout dans la seconde moitié du siècle que les aliénistes suivront le mouvement: c’est-à-dire quand le modèle organiciste de la dégénérescence envahit victorieusement le domaine de la psychiatrie. Alors l’aliéniste se mue définitivement en «seigneur du réel», fort du pouvoir disciplinaire que confère l’institution et par lequel le réel est «imposé à la folie au nom d’une vérité détenue une fois pour toutes par ce pouvoir sous le nom de science médicale, de psychiatrie» (idem). La nosographie psychiatrique et l’anatomie pathologique - en d’autres termes, la taxinomie et l’étiologie - sont les deux sources de la vérité : les deux principales articulations du discours véridique sur quoi s’appuie la pratique des psychiatres pour se légitimer comme science médicale. Dès lors, le problème de la vérité se situe en dehors de la relation thérapeutique, indépendamment de la contingence des rapports de force ou de dialogue entre médecin et malade: il s’installe dans une zone franche, sûre, sans équivoque, où cessant d’être un problème il devient le fondement stable du pouvoir disciplinaire et des pratiques asilaires. Le problème de la vérité se fait ainsi régime de vérité, permettant au psychiatre de devenir clairement «seigneur de la réalité», sans les ambiguités que connaissaient encore Pinel et Mason Cox (p. 131). Mais chez Foucault, ce passage est trop brusque. L’évolution a été historiquement moins simple. Charpentier, comme on l’a vu, avait dès 18 4 mis au point une stratégie thérapeutique consistant à imposer la réalité au délire: a cette date, il faisalt déjà ce qui, selon Foucault, n’allait être realise en milieu asilaire qu’après Pinel. Ce dernier, dans la premiere édition de son Traité médico-philosophique sur l’aliénation mentale, ou la manie (18 ), renvoie souvent à des expériences thérapeutiques semblables a celles qu’évoque Mason Cox: c’est-à-dire à des «traitements moraux» consistant à adapter le réel au contenu du délire des patients. Il procède donc à la manière de Mason Cox, du moins au début. Mais quelques années plus tard, en 18 9, on le verra adopter d’autres méthodes. C’est dire que l’évolution dont parle Foucault n’a été ni generale, ni définitive, ni irréversible. En 1813 par exemple, dans l’édition londonienne de ses Observations - auxquelles j’emprunte les citations qui vont suivre -, ce même Mason Cox justifie encore l’utilité de la pia fraus, de la ruse juste et compassionnelle, et de ce que Foucault appelle des stratagèmes de vérité (p. 34-36): l’auteur anglais y voit des «expédients ridicules», mais «indispensables». Il rapporte à ce propos non seulement des cas cliniques précis, dont quelques-uns sont repris par Foucault, mais aussi de véritables types récurrents de délires auxquels le médecin oppose ordinairement des fictions. Ce n’est pas là une nouveauté dans l’histoire de la méde- 50 Mario Galzigna Entre la discipline et la cure cine ancienne et moderne; ainsi l’article «Mélancolie» de l’Encyclopédie de Diderot et d’Alembert insiste-t-il sur la nécessité, pour le «médecin prudent», d’accompagner le delire du malade: «Il faut qu’un médecin prudent sache s’attirer la confiance du malade, qu’il entre dans son idée, qu’il s’accommode à son délire, qu’il paraisse persuadé que les choses sont telles que le mélancolique les imagine». Pour éviter tout schématisme simplificateur, il faut noter que dans l’histoire de la médecine et de la psychiatrie l’accommodemet au symptôme et l’imposition de réalité n’ont pas représenté deux étapes successives d’une même évolution linéaire: il s’agit bien plutôt de deux strategies thérapeutiques observables ensemble à des époques différentes, ou présentes ensemble chez un méme auteur, dans un même texte, à un même moment de l’histoire. Dans l’article «Mélancolie», par exemple, sont mentionnées les deux strategies: aussi bien la simulation et le recours à la pia fraus, a la «ruse», qu’une strategie plus dure, relevant de ce que Foucault appelle l’imposition de réalité, et consistant à «contrarier ouvertement» les «sentiments» des mélancoliques délirants et à «exciter en eux des passions qui leur fassent oublier le sujet de leur délire». Que simulation et imposition ne se succèdent pas linéairement, mais puissent coexister et se substituer l’une à l’autre, c’est ce que confirme exemplairement Piriel. Par exemple, dans la premiére édition de son Traité, est décrit (p. 237) le cas d’un tailleur mélancolique et délirant enfermé a Bicêtre: soupçonné sous la Terreur d’avoir critiqué la condamnation à mort de Louis XVI, il était depuis lors obsédé jour et nuit par l’idée qu’on allait le guillotiner. Avec l’aide de trois jeunes médecins, le surveillant met en scéne un faux procès; le malade est absous par une prétendue commission du corps législatif, qui lui enjoint de rester six mois encore à Bicêtre où il pourra exercer son métier et faire profiter de ses compétences les aliénés. Le patient retombe néanmoins dans un état de prostration, qui amène Pinel à le considérer comme «incurable». Alors que la scène évoquée par Mason Cox s’achève sur une sorte de triomphe thérapeutique - la guérison exhibée par le patient lui-même devant tous ses amis -, nous avons ici l’aveu d’un de ces «échecs» dont Pinel parlait avec finesse dans la premiere edition de son traité: échecs provoqués par l’opacité intérieure des patients et par la difficulté de pénétrer le secret de leurs pensées». Non sans raison, dans la deuxième édition (18 9), Pinel omet l’histoixe du tailleur mélaneolique, en ajoutant en revanche toute une section consacrée à la «police intérieure des asiles»: règles de comportement, organisation de la discipline, ergothérapie, travail obligatoire, etc. Toute une panoplie de mesures destinées à rapprocher les patients des évidences du sens commun et à leur rendre les habitudes perdues d’une vie au jour le jour. Entre 18 et 18 9 s’observe ainsi une metamorphose de l’attitude clinique, dans un contexte que caractérise une perte de confiance dans les possibilités de guérir, de pénétrer l’intériorité des patients, d’accéder au sens et à la structure de leur délire. A une strategie thérapeutique tendant à manipuler la réalité, pour lui faire confirmer la vérité du délire - strategie qui ne sera jamais tout à fait abandonnée, et qui n’est pas sans ressemblance avec la prescription ou le déplacement du symptôme pratiqués récemment encore par Paul Watzlawick -, vient s’adjoindre une stratégie d’imposition du réel à la folie, qui ôte au délire la pos- 51 n.14 / 2006 2 Voir, à cet égard, l’article «Aliénation » écrit en 1812 par Pinel pour le célèbre Dictionnaire des sciences médicales publié par Panckoucke. 3 Dans la même page est cité presque littéralement le passage de l’Encyclopédie évoquant un mélancolique soigné avec «complaisance» par le docteur Tulp, que Rembrandt a immortalisé dans un tableau célèbre. 4 Des Passions, op. cit., p. 78-79. 52 sibilité de se soustraire au réel. Le «traitement moral», dans cette perspective, prend souvent I’aspect d’une thérapie incitative et fonctionnelle, visant à faire reconnaître la réalité et la vérité, par deux moyens distincts mais complémentaires: en convoquant d’une part la pratique médicale et pharmacologique, d’autre part «l’amour du vrai et la supériorité des lumières»; d’un côté «les connaissances de la médecine», de l’autre «celles de l’ideologie»2. Un exemple encore de l’alternance, voire de la coexistence des deux démarches thérapeutiques pendant les vingt premières années du siècle: c’est le même Pinel, si méfiant envers les simulations complaisantes, qui en 1816 (dans un article sur la «Mélancolie» publié dans l’Encyclopédie méthodique) mentionne la «ruse», le «stratagème» thérapeutique dont parlaient déjà l’Encyclopédie et Mason Cox à propos de patients d’un type particulier: les mélancoliques délirants persuadés d’avoir dans l’estomac des serpents, des grenouilles ou d’autres animaux3. L’accompagnement du symptôme, que l’on trouve déjà dans la médecine prépsychiatrique et que, comme Mason Cox, ont adopté à leurs débuts Pinel et Esquirol, on le retrouve plus près de nous non seulement chez Paul Watzlawick, mais aussi dans un tout autre contexte chez Carlos Castaneda et dans l’enseignement de son maître mythique, le sorcier Don Juan. Quant à la suppression du symptôme, ou à la lutte contre le symptôme (selon l’expression du même Paul Watzlawick), elle est surtout le fait d’une psychiatrie clinique post-pinellienne armée de son «savoir» et de sa discipline. Ainsi, à partir des leçons de Foucault, peut se poser une question fondamentale: qu’est-ce qui caractérise la première phase du «traitement moral» décrite par des auteurs comme Pinel, Mason Cox, Haslam, le jeune Esquirol, dans la premiere décennie de la psychiatric (entre 18 et 18 9, c’est-à-dire entre les deux premières éditions du Traité de Pinel)? Cette période héroique, surévaluée par certains, il se peut que Foucault la sous-évalue. Il s’agirait en somme de comprendre le sens qu’ont pu revêtir le jeu de vérité entre patient et médecin, le renvoi au monde intérieur du malade, la confiance optimiste dans la possibilité de le modifier. Dans sa thèse de doctorat déjà citée, Esquirol écrit à propos des fous: «Ils raisonnent tous plus ou moins; ils ne nous paraissent délirants que par la difficulté où nous sommes de connaître l’idée premiére à laquelle se rattachent toutes leurs pensées, tous leurs raisonnements. S’il était facile de se mettre en harmonie avec cette idée mère [je souligne], nul doute qu’on guérirait un plus grand nombre d’aliénés»4. C’est sur des passages de ce genre que s’est développée, surtout en France (dans le sillage de Marcel Gauchet et Gladys Swain) une interprétation riche et approfondie, mais partielle, du «traitement moral» considéré comme ancêtre de la psychothérapie. Du même coup a été sous-estimé le poids de l’institution, de ses disciplines, de ses tendances despotiquement répressives: bref, de ce qu’Esquirol lui-même appelle l’«appareil de force», que le médecin dirige et que garantit une efficace «distribution tactique du pouvoir», selon l’expression de Foucault. La séparation entre fonctions thérapeutiques et disciplinaires, entre soins et surveillance, implique en effet une repartition coordonnée des rôles et une forte structure hiérarchique: derriere le «médecin en chef» viennent les Mario Galzigna Entre la discipline et la cure médecins auxiliaires, les infirmiers, les «surveillants», les «servants» et «gardiens». Sans doute Pinel a-t-il ôté aux fous leurs chaînes, mais non pour les libérer, comme l’ont soutenu nombre d’hagiographies au xix siècle et quelques textes naïvement idéologiques au xx. Le prétendu geste libérateur, véritable mythe de fondation des disciplines psychiatriques, a consisté à prendre les fous dans les mailles efficaces d’un nouveau filet. Foucault l’a souvent dit et répété (tout en sous-estimant les rôles respectifs de l’empathie et de la contention dans la relation thérapeutique): c’est la mise en place du pouvoir disciplinaire qui rend possible l’élaboration psychiatrique d’un discours de vérité. L’asile, l’hôpital, en tant que système disciplinaire, est une «machine à guérir», garantissant une cure efficace; et le discours de vérité, l’émergence de la vérité comme operation psychiatrique, ne sont rendus possibles que par des techniques de contrôle des internés. Perdre de vue ce lien entre thérapie et contrôle, entre dialogue et coercition, reviendrait aujourd’hui à donner aux thérapeutes une sorte de bonne conscience; à étayer sur une ancienne et prestigieuse tradition, fortement mythifiée, l’oubli de la prise de pouvoir qu’implique inévitablement la prise en charge de la maladie. Ce dangereux oubli du lien entre vérité et pouvoir, Foucault nous permet de l’éviter. Pour poursuivre sur cette voie, il faudrait désormais faire porter l’analyse sur la thérapie dialogique de la psychiatrie naissante et, plus généralement, de toute la psychiatrie clinique5. Par exemple, lorsque le jeune Esquirol parle de la nécessité de « semettre en harmonie avec l’«idéemère» dont dépend le développement du délire, sa remarque apparemment mineure est en réalité inaugurale: elle laisse entrevoir les conditions de possibilité de ce que la psychopathologie la plus raffinée appelle, aujourd’hui, une véritable empathie clinique. Cette dernière trouve ses racines historiques dans le système disciplinaire de l’asile, micropouvoir qui allie paradoxalement la répression et la cure, la violence et l’écoute, le dialogue et le contrôle. Il faut ajouter que, dans ce dispositif, le patient a aussi la capacité de résister au pouvoir du médecin et des appareils théoriques et pratiques qui l’étayent: sur ce point, on trouve dans Le Pouvoir psychiatrique des pages particulièrement suggestives. Ainsi Foucault évoque-t-il (p. 137) la grande insurrection simulatrice dont la Salpêtrière fut l’épicentre, de l’époque de Pinel et d’Esquirol jusqu’aux célèbres hystériques de Charcot, prodigieuses interprètes d’un jeu théâtral. Phénomène de lutte, note Foucault, et non phénoméne pathologique; l’hystérie et la simulation sont «l’envers militant du pouvoir psychiatrique» (p. 138). Nous préférerons dire que tout en demeurant une souffrance psychique, une lacération, la pathologie mentale - produite aussi par le savoir/pouvoir des médecins peut représenter une résistance, une insurrection active contre le conformisme et la violence plus ou moins explicite des institutions. Sur la scène asilaire du xix évoluent des «patients» qui sont tout à la fois des malades et des opposants (hystériques, mélancoliques, schizophrènes, etc.), produits par la psychiatrie comme patients à assujettir et qui, dans leur opposition au pouvoir disciplinaire, font émerger quelque chose comme un monde intérieur: un monde souvent opaque, secret, enigmatique, masqué derrière les jeux de la simulation, mais un monde intérieur auquel le savoir du médecin doit reconnaître une relative autonomie. Ce thème, Foucault ne l’a développé que dans ses 5 Sur ces questions, je me permets de renvoyer à mon ouvrage, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna , Venezia, Marsilio, 1992 (3a édition). 53 n.14 / 2006 derniers ouvrages. Le savoir panoptique du médecin, voué à produire l’absolue transparence et la docilité totale de l’interné, doit accepter que ce dernier, capable d’exprimer une résistance et un conflit, ne soit pas toujours entièrement visible et contrôlable. Aux marges de la discipline emerge toujours ce que Foucault appelle l’écart, l’irréductible, l’inclassable: une zone d’ombre, une secrète richesse, un espace «intérieur» qui demeure, ajouterons-nous, souvent impénétrable. Cette fuite, cette soustraction, cet antagonisme des sujets nourrit sans trêve les redéfinitions d’une nosographie qui, souvent avec lenteur, se transforme dans le temps et l’espace, à mesure que varient les sujets eux-mêmes et les contextes famillaux, sociaux, culturels. Foucault nous enseigne a comprendre ces transformations en éclairant aussi, dans leur dimension historique et anthropologique, les categories nosographiques qu’utilise la psychiatrie: il montre leurs frontières instables, leur nécessaire plasticité. C’est l’un de ses apports majeurs. Il est souhaitable que la machine «généalogique» de Foucault - ce qu’il aimait à appeler sa «boîte à outils» - puisse servir aussi à des cliniciens, à des travailleurs sociaux, à des praticiens de toute sorte. A ce niveau-là aussi, elle révélera sa puissance heuristique. Comme le disait Foucault lui-méme en 1975, a propos de l’«usage» qu’il faisait de Nietzsche: «La seule marque de reconnaissance qu’on puisse témoigner à une pensée [...J, c’est précisément de l’utiliser, de la déformer, de la faire grincer, crier. Alors, que les commentateurs disent si l’on est ou non fidèle, cela n’a aucun intérét». 54 55 Maurizio Mistri Foucault e la “nascita della biopolitica” Focus: Michel Foucault Queste brevi note hanno l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su alcune tematiche sollevate da Foucault nelle sue lezioni tenute al Collège de France nell’anno accademico 1978-1979. Tali lezioni, che hanno come titolo “Nascita della biopolitica” sono state pubblicate recentemente (2 5) in Italia dalla casa editrice Feltrinelli. Si tratta di un testo certamente non lineare nei suoi sviluppi e che si prefigge l’obiettivo di analizzare le forme della “governamentalità” liberale. Già dalla individuazione dell’oggetto di studio, e cioè il liberalismo, Foucault affronta, ma non risolve, un serio problema terminologico rappresentato dalla mancata distinzione fra liberalismo e liberismo. Comunque sia, Foucault si propone di analizzare il “liberalismo come quadro generale della biopolitica”. Lo stesso termine di biopolitica rappresenta,a sua volta, una sfida terminologica e concettuale ad un tempo. Nella accezione di Foucault il termine biopolitica indica la complessa interazione fra regimi politici e popolazione. A mio modo di vedere credo che sia lecito discutere se il termine di biopolitica possa essere considerato equivalente a quelle di “istituzioni”, con un forte richiamo agli apporti che, in tale materia, sono venuti dalle scuole istituzionaliste e neo-istituzionaliste, sia da quelle che si sono costruite sul terreno della politologia che da quelle che si sono costruite sul terreno della economia politica. In un certo senso Foucault “riduce” l’analisi dell’arte di governare al liberalismo, quale quadro generale della biopolitica. Debbo dire che queste lezioni di Foucault, forse 56 perché proprio ricche di molte considerazioni, mi hanno dato l’impressione di non possedere una struttura fortemente coesa da un punto di vista concettuale. Ma sono pronto ad ammettere che una simile percezione derivi certamente dai miei limiti. Comunque, la prima impressione che ho ricevuto è che si tratti di un argomentare rivolto, in una certa misura, con la testa all’ indietro. Questo probabilmente non per colpa di Foucault ma per un semplice fatto temporale. Credo cioè che le considerazioni di Foucault sarebbero state ben diverse se se avesse potuto riflettere sulla caduta del comunismo, sull’ingresso di paesi come la Cina e l’India nel novero delle grandi potenze economiche a regime sostanzialmente liberista, sulla esplosione del liberismo (non necessariamente del liberalismo) a livello mondiale. Ho detto a regime liberista, anche se non liberale come nel caso della Cina. Quello del rapporto fra liberalismo (in quanto dottrina politica) e liberismo (in quanto dottrina economica) è questione antica e già nella prima metà del secolo scorso ne dibatterono Luigi Einaudi e Benedetto Croce. Il primo che sosteneva l’impossibilità di un divorzio, nella prassi, tra liberismo e liberalismo ed il secondo che sosteneva la possibilità che una società liberale potesse essere non liberista. Di fatto, le esperienze del fascismo e del nazismo, come quella della Cina moderna, hanno dimostrato e dimostrano che è possibile che una società liberista possa avere regimi politici non-liberali. Insomma, dico queste cose perché ritengo che sarebbe stato interessante vedere come lo stesso Foucault, se fosse Maurizio Mistri vissuto per conoscerli, li avrebbe inquadrati nella sua analisi; o se la sua analisi avrebbe potuto essere notevolmente diversa qualora avesse dovuto tener conto di vicende che si sono verificate dopo la morte dello stesso Foucault. Comunque sia, vorrei partire dalla critica di Foucault della “ragion di stato”. Ebbene, Foucault si chiede in che cosa consista l’arte di governare. Egli risponde che l’arte di governare (secondo il principio della ragion di stato) consente nel rendere forte e saldo lo stato stesso. In un certo senso la sua idea di governo è incentrata sul ruolo autopoietico delle istituzioni finalizzate al mantenimento dello Stato. In una certa misura posso essere d’accordo con tale tesi; per altri versi mi pare che sia riduttiva, nel senso che trascura la storia attraverso la quale le regole, e cioè le istituzioni si formano, e che non necessariamente possono ritenersi stabili ab aeterno. Certamente lo Stato cerca di mantenersi in vita anche attraverso il cambiamento delle istituzioni. Ecco, allora che si pone una questione rilevante, nel senso che se lo stato è il prodotto del processo genetico delle istituzioni Foucault spiega con una certa fatica come lo stato possa sopravvivere se cambiano le istituzioni. Dice Foucault: “lo stato non esiste che di per se stesso e in funzione di se stesso” (p.16). Tuttavia, secondo me, lo stato modificando le proprie istituzioni (regole di comportamento) cambia di volta in volta la propria forma, anche se ne rimane inalterato il substrato territoriale e soprattutto se ne rimane inalterato il suo sistema di potere. Si prenda, ad esempio, il caso della Cina; qui abbiamo un sistema di potere che è rimasto sostanzialmente inalterato, mentre sono cambiate le istituzioni economiche. Ci si può chiedere se sia più importante il substrato territoriale dello Stato o la forma istituzionale. Se è più importante questa seconda lo stato cambia e se cambia è perché tale cambiamento è funzionale alle esigenze dei gruppi sociali e politici che ritengono necessario il cambiamento. Il mantenimento di certe componenti dello stato, e cioè il suo substrato territoriale ed anche certe Foucault e la “nascita della biopolitica” forme di tipo istituzionale (ad esempio la Repubblica o la Monarchia) non risponde soltanto ad esigenze di conservazione ma anche ad esigenze di carattere cognitivo. I gruppi sociali e/o politici che si impegnano per il cambiamento di alcune regole istituzionali lo fanno modificando l’architettura costituzionale ma utilizzando materiali istituzionali già presenti in loco. Fuor di metafora si può cambiare la forma dello stato utilizzando largamente le istituzioni e le organizzazioni che già vi esistono. Ma non sono i materiali a fare lo stato perché è la disposizione di questi che fanno lo Stato. La mia è una posizione evolutiva in virtù della quale assumo che le istituzioni e le organizzazioni hanno finalità che rispondono alle esigenze di gruppi egemoni o che sono egemoni sotto vari profili (economico, militare, culturale, religioso, ecc.). Tra l’altro il rafforzarsi dell’una o dell’altra posizione non ha effetti soltanto sulla architettura costituzionale di uno stato ben individuato; ha effetti sulla natura delle relazioni fra gli stati e queste non tardano a produrre effetti anche sulle istituzioni interne di ciascun stato. Sotto questo aspetto ci sono considerazioni di Foucault (p.19) che coincidono con quanto ho adesso affermato. Alla luce di quanto finora detto è l’analisi dei limiti del potere dello stato che va focalizzata. Perché il potere dello stato si limita, o auto-limita, nella misura in cui la rottura dell’equilibrio può comportare il rischio per i gruppi egemoni di perdere l’egemonia conquistata. In fondo i confini dell’egemonia sono mobili perché spesso le azioni di un gruppo egemone possono comportare reazioni di altri gruppi e, a volte, tali reazioni possono essere devastanti per il gruppo egemone. Anche le misure di politica economica rispondono al principio dell’equilibrio dinamico delle forze in campo. Qui giungo alle riflessioni di Foucault in merito alla economia politica il cui contenuto semantico è andato cambiando nel tempo. Dalle vecchie concezioni mercantiliste, secondo cui l’economia politica doveva essere funzionale alle esigenze di potenza dello stato, alle più moderne concezioni, secondo cui la economia politica deve servire a produrre consenso attorno alle scelte fon- 57 n.14 / 2006 damentali dei governi. Io non so se sia del tutto vero, come dice Foucault (p.25) che l’economia politica debba servire a mantenere l’equilibrio fra gli stati che, per questo motivo, hanno bisogno della concorrenza. Forse l’idea di Foucault può essere espressa in altro modo. Vale a dire che credo che occorrerebbe mettere in rilievo la dialettica tra ricerca della forza economica dello stato e divisione del lavoro. Per aumentare la propria forza uno stato deve aumentare la propria produzione. Ma per aumentare la propria produzione uno stato deve impegnarsi in un processo di divisione del lavoro. Il che implica un accrescimento delle interdipendenze fra gli Stati, secondo la lezione di Adam Smith e di David Ricardo. A tale proposito vorrei ripensare alla esperienza delle guerre monetarie fra i paesi europei e della scelta di accrescere i legami fra di loro attraverso la creazione di una moneta unica e la conseguente rinuncia al potere di governare la moneta da parte degli stessi stati nazionali. Come ho detto poco sopra credo che l’equilibrio tra gli stati sia il frutto della esigenza, tutta interna agli stessi stati, di ricercare il consenso dei propri cittadini sulle scelte fondamentali di politica economica. Un tale consenso lo si ottiene con politiche che privilegiano lo sviluppo interno rispetto alle egemonie internazionali. Dire che la questione economica è sempre posta all’interno della pratica di governo porta a conclusioni parziali. L’altra parte delle conclusioni rovescia l’assunto; vale a dire che posso affermare che è la pratica di governo che si colloca all’interno della economia. Semmai i due piani sono interdipendenti ed è questa interdipendenza ad assicurare un equilibrio fra le spinte alla affermazione autocratica dello stato e le spinte alla affermazione delle autonomie dallo stato o, comunque, a modificare l’architettura istituzionale dello stato. In parte Foucault mi pare che aderisca a tale tesi (p.28). Quel principio della divisione del lavoro, che sta alla base dei rapporti cooperativi fra gli stati, è lo stesso principio che sta alla base dei rapporti di mercato dentro lo stato. C’è nella riflessione di Foucault sul mercato qualche aspetto che, a mio modo di vedere, ha bisogno di essere calibrato. 58 Davvero il mercato, nel medioevo, era un luogo di attuazione della giustizia? Io non credo che il mercato del medioevo avesse la funzione di proteggere dalla frode (p.38) dal momento che non di rado a frodare, ad assumere comportamenti fraudolenti era lo stesso sovrano. Comunque, è certamente centrale nella economia politica il rapporto tra mercato e frode, o se vogliamo, tra mercato ed asimmetrie comportamentali. Quella della correttezza dei comportamenti dei soggetti che operano nel mercato è diventata la grande ossessione dei paesi moderni economicamente avanzati. Una ossessione che si traduce in minuziose e severe legislazioni in merito alla correttezza. Nei paesi economicamente e, vorrei dire, culturalmente più arretrati non c’è una analoga attenzione nei riguardi dei comportamenti dolosi, della corruzione pubblica e privata, della indifferenza verso l’ambiente, della indifferenza verso le ingiustizie che generano dumping sociale. La costruzione del mercato moderno nei paesi economicamente avanzati è la traduzione concreta dell’avanzare di un maggior senso di giustizia; oggi più che un tempo. So che questa affermazione può suscitare obiezioni, anche forti. Ad esempio si può sostenere che lo sviluppo del mercato moderno consente una maggiore precarizzazione nei rapporti di lavoro. La risposta a questa obiezione non va ricercata nella forma delle istituzioni che reggono il mercato, ma in primo luogo nel rapporto fra sviluppo tecnologico e mercato ed, in secondo luogo, nell’affermarsi dei processi di globalizzazione. Con questo voglio dire che la precarizzazione nei rapporti di lavoro è essenzialmente il frutto della fine dei processi produttivi fordisti e dell’avvento dei processi produttivi dominati dalle nuove tecnologie informatiche. Non credo che si possano fermare tali processi, perché il focus dei processi produttivi si è spostato dalla proprietà dei mezzi di produzione alla proprietà delle idee per la produzione. Venendo alla globalizzazione essa ha rappresentato e rappresenterà sempre di più il modo con cui alcuni grandi paesi del Terzo mondo interpretano l’ingresso nella modernità, puntando a vendere nei mercati ricchi dei paesi a più vecchia tradizione industriale. L’unica risposta possibile è Maurizio Mistri la chiusura dei “nostri” mercati alle merci straniere. Si tratterebbe di una risposta possibile, ma socialmente iniqua e storicamente perdente. Non credo che ci si possa fare alfieri di una concezione autarchica della vita economica, che condannerebbe i paesi del Terzo Mondo ad una situazione di minorità economica inaccettabile. Ecco perché ritengo di poter dire che, malgrado i costi dell’aggiustamento del mercato mondiale al nuovo ruolo di importanti paesi del Terzo Mondo ed all’influenza dello sviluppo delle tecnologie, il mercato moderno, quello modernissimo, è più “giusto” del mercato antico anche se esistono enormi differenze sociali, comunque non inferiori a quelle che si produrrebbero in mercati contrassegnati dal blocco dello sviluppo tecnologico e dalla chiusura autarchica. In merito alla funzione del legislatore ci sono dei passaggi in Foucault che riguardano il rapporto fra diritto ed economia (p.45). Ebbene Foucault si chiede che cosa ne è del diritto dal momento che c’è una sfera dell’umana attività che sfugge alla regolamentazione giuridica da parte dello stato. Se ho ben capito nella esposizione di Foucault c’è l’idea che diritto ed economia siano due insiemi di regole che in qualche modo si escludono vicendevolmente. Tuttavia, una situazione di questo genere non rappresenta affatto un indebolimento del diritto, ma un modo che il diritto ha di delegare il funzionamento del mercato a regole che si autodeterminano, attraverso processi che sono essenzialmente auto-organizzativi. Ciò che andrebbe messo in rilievo è il rapporto fra istituzioni e diritto o se si vuole, nei termini della scuola di Friburgo, tra istituzioni e regole costituzionali. C’è un ampio filone di ricerche nel campo dell’economia che si richiama ai principii della constitutional political economy (CPE) ed è su questi che desidero soffermarmi. Ebbene, la CPE si differenzia dalla economia politica standard perché pur accettando il principio della ottimizzazione di funzioni obiettivo date, si pone il problema del ruolo che hanno le norme di comportamento nel raggiungere con efficacia gli obiettivi predeterminati. La scelta di regole di comportamento, socialmente condivise, prefigura una strutturazione sociale dei rap- Foucault e la “nascita della biopolitica” porti individuali; tuttavia ciò non significa rigettare l’utilitarismo perché la determinazione individuale delle funzioni obiettivo di carattere sociale parte comunque dalla determinazione di regole che governano i rapporti tra gli individui. Nella dimensione sociale gli individui possono accordarsi per definire regole che sanzionano in positivo comportamenti individuali anche attraverso lo strumento della norma giuridica. Insomma, la CPE si occupa della scelta delle regole aventi una sanzione pubblica e quindi della scelta razionale dei vincoli al comportamento individuale. Per questo non riesco a comprendere perchè Foucault (p.81) consideri singolare che l’economia sia creatrice di diritto pubblico. Un corretto funzionamento del mercato si basa su regole, sia quelle implicitamente accettate a livello individuale, che quelle codificate attraverso quelle che la scuola di Friburgo chiama costituzioni economiche. Senza regole, private e pubbliche, individuali e collettive, non c’è mercato e non c’è economia. E’ sulla qualificazione di razionale di tale scelta che l’economista moderno deve riflettere con attenzione, perché la scelta razionale a livello pubblico non è affatto in contraddizione con le scelte razionali che gli individui compiono. Mi riferisco a due filoni concettuali rilevanti, e cioè alla teoria del coordinamento dei comportamenti individuali in un contesto sociale (alla Hayek) e la sua controparte metodologica che è la teoria dei giochi. In un mercato, dove interagiscono diversi e spesso numerosi individui il coordinamento delle azioni individuali avviene nei punti che sono punti di equilibrio secondo la teoria dei giochi. Certo i soggetti che partecipano alle negoziazioni non raggiungono mai l’obiettivo che erano preposti all’inizio; raggiungono obiettivi di livello minore in termini di utilità. Tuttavia, si tratta di livelli di utilità pur sempre maggiori di quelli che essi ritrarrebbero stando fuori del gioco del mercato. A volte, gli agenti che operano nel mercato possono trovare utile effettuare “pagamenti laterali”, e cioè compensare alcuni soggetti affinché continuino a partecipare al gioco del mercato. Qui si torna ad un punto che, in un qualche modo, avevo indirettamente toccato poco sopra. Vale a 59 n.14 / 2006 dire che non esistono mai scelte ottime in assoluto, ma esistono scelte che possono essere migliori o peggiori di altre. Tra liberismo ed autarchia, ai fini del benessere delle popolazioni, in prospettiva il liberismo è migliore. Tra progresso scientifico e tecnologico e blocco del progresso scientifico e tecnologico è migliore la scelta a favore del progresso scientifico e tecnologico. Semmai, occorre adeguare le istituzioni al cambiamento, ma perché il cambiamento sia garantito occorre che le istituzioni siano sufficientemente flessibili. Debbono esserlo per evitare di ingabbiare i processi dinamici e debbono esserlo per potersi trasformare. Le mie affermazioni non sono poi del tutto lontane da quelle che F. fa in merito al liberalismo. Anche se F. ritiene filosoficamente contraddittorio il fatto che una società liberale si dia, per sopravvivere, regole che apparentemente contrastano con la logica della libertà di mercato. Secondo me non c’è contraddizione perché la società liberale non cerca l’ottimo assoluto, ma cerca continuamente quello relativo, adattandosi con flessibilità. La flessibilità, anche istituzionale, è la caratteristica di una concezione politica non dottrinaria ma empirica, mentre la rigidità istituzionale del comunismo è stata la caratteristica di una società dottrinaria e avversa all’ uso dell’empiria nella costruzione del sociale. In proposito voglio fare un paragone ben lontano dalla vita sociale. Prendiamo un essere umano che abbia problemi di cuore ed al quale viene impiantato un cuore artificiale. Un dottrinario direbbe che tale persona perde, in tal modo, i suoi caratteri umani, che c’è una contraddizione fra il suo essere un essere umano ed il suo divenire un essere meccanico. Forse per evitare la contraddizione dottrinaria sarebbe meglio lasciar morire quell’individuo. Il liberale non è interessato a tali sottigliezze dottrinarie. Egli ritiene che inse- 60 rendo una componente meccanica nel corpo di quell’individuo lo può salvare e se ne infischia di ogni eventuale dibattono sulle contraddizione tra umano e meccanico. Quello che voglio dire è che i processi evolutivi delle società non sono predicibili a priori e che una società forte è quella che si sviluppa adattando le istituzioni ai vincoli esterni che di volta in volta si manifestano. Anche le istituzioni si modificano e non necessariamente una società liberale esalta l’adozione di un liberismo assoluto. Ricerca il liberismo laddove è più efficace dello statalismo e non rigetta a priori le forme di regolazione dei mercati. Come ho detto all’inizio ho avuto l’impressione che Foucault usi il termine liberale e liberista senza le dovute distinzioni. Così può essere che certe mie osservazioni critiche, allo stato attuale, finiscano per esser infondate. Proprio per questo vorrei passare dalla critica a Foucault ad una riproposizione autonoma delle regole attraverso cui la società si costruisce, senza progetti a priori, ma adattandosi agli stessi processi evolutivi dell’ambiente, cominciando da quelli che sono il frutto dell’azione dell’intelligenza umana, e cioè le innovazioni scientifiche e tecnologiche. Sono queste gli elementi catalizzatori dei cambiamenti sociali; come catalizzatori non sono prevedibili e non sono ordinabili da parte di autorità amministrative. Da questo punto di vista, malgrado tutto, mi pare di trovare alcune assonanze nel pensiero di Foucault sul neoliberalismo (p.115). Queste brevi note non vogliono certo rappresentare una analisi critica del contenuto dell’intero libro di Foucault, ma solo riflessioni tratte da alcuni dei molti spunti che un libro così denso, ed anche a-sistemico ha finito per offrire a chi, come me, è un economista e quindi solo in parte addentro alle problematiche più specificatamente filosofiche che Foucault tratta. Santa de Siena Biopolitica contro biopotere Focus: Michel Foucault L’avventura resta sconosciuta. L’era planetaria affonderà forse prima di potersi sviluppare pienamente. L’agonia dell’umanità forse non porterà che morte e rovine. Ma il peggio non è ancora certo, tutto non è ancora stato giocato. Senza che ce ne sia per questo certezza e nemmeno la probabilità, c’è la possibilità di un avvenire migliore. E. Morin L’umanità insieme alla biosfera del pianeta sono di fronte ad un bivio. Riusciranno a scegliere il percorso migliore? Il loro destino non è ancora del tutto tracciato. Molto si può ancora fare. Molte scelte possono trasformarlo per ri-cominciare un’altra storia. Biopolitica e Biopotere sono due problematiche da me prese in riesame, in relazione al duplice dinamismo calorico sia dell’attuale dibattito teorico sulla mondializzazione, sia degli eventi tragici in seguito all’acuirsi delle replicanti crisi in Medioriente, Palestina, Libano, agli insensati attacchi che, in ogni parte del pianeta, coinvolgono le popolazioni civili, che compromettono le sorti dell’intero pianeta dal punto di vista ecosistemico. Come è noto le turbolenze e le instabilità politiche in questa area, come in ogni altra, generano ripercussioni e conseguenze imprevedibili sull’intero assetto geo-politico mondiale. Ma ciò di cui siamo sempre più consapevoli è che da tempo, le criticità, le caoticità tendono ad avere sempre di meno il carattere dell’estemporaneità e sempre di più quello della permanenza. Sempre meno quello della casualità e spontaneità e sempre più quello della determinatezza e razionalità organizzata. Il carattere autopoietico dei sistemi aperti si manifesta in tutta la sua agghiacciante ambivalenza. Processualità complesse che, a diversi piani della scala temporale locale e globale, sono da me osservate sulla base delle note categorie foucaultiane della microfisica del potere e della biopolitica, ma ripensate e reinterpretate in una prospettiva ecologica. Prenderò, pertanto, in esame le due nozioni di Caos e Politica che a mio giudizio esprimono con estrema chiarezza due apparenti polarità. Polarità che, in prima istanza, rinviano a due principi opposti, quello del disordine e dell’ordine, ma che nascondono, invece, una relazione di complicità estrema, di cui cercherò di dimostrarne l’interdipendenza. In opposizione, se si pensa alla nozione classica di politica, ma anche a quella attuale di governance, intendendo con essa la teoria e la pratica di ciò che concerne il governo di qualcosa, oggi non inerente soltanto la gestione della cosa pubblica, ma ogni dimensione della vita associata mossa da interesse e volta al raggiungimento di un fine; comportamento risoluto, agito con un approccio, che Sen definirebbe, di ordinamento ‘ponderato’, completo o parziale che sia (SEN, 2 2). Se vista da una prospettiva più ampia occorre, perciò, pluralizzare il significato della nozione e parlare di politiche in senso più esteso; in quanto, il moltiplicarsi e dei luoghi e dei soggetti e delle pratiche, complessificano l’agire “politico” e ci inducono sempre di più a declinarla al plurale. Infatti, in ogni contesto e a qualsiasi livello dei sistemi e dei sottosistemi bio-socio-economico-politici, nei quali sia richiesta una scelta e, dunque, una decisione, qualsiasi azione è definibile come atto politico. Anche se per giungere ad esso sono necessarie lunghe procedure, passaggi istituzionali ed este- 61 n.14 / 2006 nuanti mediazioni tra più soggettività, l’atto finale e decisivo resta in sé retto da un implicito principio d’ordine. Atto risolutore necessario cioè alla vita e, dunque, alla sopravvivenza di qualsiasi sistema o essere vivente, sia esso di natura noologica, politica, sociale, economica, relazionale, religiosa, culturale e così via. Ma guardare alla politica o politiche sia pur pluralizzate o mediate dal solo punto di vista dell’attore o del sistema agente di riferimento, significa conservare una visione unidirezionale, troppo riduttiva e parziale; permanere, cioè, entro la logica della semplificazione. Perché pensare l’agire come azione lineare finalizzata al raggiungimento di un fine senza concepire le relazioni con l’ambiente e le caoticità che vi si generano, senza cioè commisurare la proporzione o sproporzione dei mezzi, considerare il gioco perverso ed efficace delle retroazioni che ogni agire comporta, senza tentare di valutare e prevedere gli effetti, le conseguenze, non soltanto sulle cose, ma anche sulle persone, sui processi e soprattutto sullo stesso ambiente, significa non possedere una visione complessa e dunque ecologica della polis. Potremmo perciò giungere ad affermare - ancora una volta - che tutto è politica e che vivere è agire politico, poiché ogni dimensione dell’esistere, del venire alla vita implica atti, decisioni, scelte, comportamenti che rinviano a pratiche e a strategie d’azione individuali o collettive, più o meno mediate e calcolate, differenziabili soltanto in relazione alla diversità dei contesti. E poiché vivere è quell’accadimento nel quale occorre apprendere a nascere continuamente – come sostiene la Edith Stein - un vivere che ha in sé i caratteri dell’effervescenza, della turbolenza, del disordine permanente e dunque del caos, allora ogni ordine che si dà al caos della vita, a ben osservare, è un atto politico. Pertanto, caos e politica, disordine della vita e ordine della politica, sono perciò anche in stretta relazione ricorsiva: in una relazione di inscindibile interdipendenza reciproca. La logica del vivente ci ha insegnato sia l’autonomia sia la dipendenza di ogni sistema e, quindi, la circolarità autopietica dei singoli esseri viventi che agiscono in interrelazione con gli altri sistemi 62 viventi e con il loro ambiente. Se quindi la sopravvivenza stessa di ogni essere vivente dipende dalle sue scelte politiche nei rapporti con gli altri e con l’oikos, cioè la polis, è possibile connettere la nozione di bios, intesa come vita con quella di polis intesa come insieme delle relazioni e azioni politiche e giungere a descrivere ogni politica della vita come biopolitica. Tra caos e politica emergono, allora, strette connessioni se interpretate con lo sguardo complesso della teoria moriniana della complessità; teoria che ha tracciato le ricche e ambivalenti relazioni ambientali di vita e di morte di ogni esistenza (MORIN, 198 , 1983, 2 1); le interretroazioni che ogni essere ha, nell’atto di nascere e vivere, con il suo sistema ecologico e quindi di essere nel suo mondo. Una prospettiva ecosistemica che mi impedisce di conservare la tradizionale distinzione aristotelica tra Zoé e Bios. Avendo essa riconosciuto l’ambiente non come un semplice spazio fisico, ma come un pluriverso, brulicante di diversità, di scambi comunicativi, simbiotici e di interdipendenze reciproche, ricche di vincoli ma anche di possibilità. Più che una polarità o una differenza contrastiva si delinea – allora - una differente tensione tra nuda vita e vita qualificata che apre ad una connessione ecologizzante con l’habitat, in quanto tutte le forme di vita nascono, nel senso di venire al mondo, sempre in un mondo organizzato, apparentemente ordinato, volutamente ritenuto governato, certamente biologicamente e culturalmente strutturato. La biopolitica perciò definisce non solo il governo degli umani e delle loro vite, ma l’insieme delle interrelazioni eco-sistemiche nelle quali ogni bios e zoé possano – in una prospettiva diversa - diventare oggetti di interesse e di cura. Caos è una nozione che ha avuto, nell’ambito della teoria dei sistemi complessi, un successo strepitoso; assumendo per certi versi una funzione strategica, in quanto più di ogni altra capace di descrivere la natura dinamica, processuale ed ecologica di ogni realtà fenomenica. E come in ogni ecosistema, anche nello specifico contesto politico l’idea di caos rinvia a quella di disordine che è al tempo stesso un disordine distruttore/organizzatore, assimilabile all’idea di Santa de Siena crisi, al momento cioè della sua dis-organizzazione sistemica, che nel complesso gioco delle interretroazioni e reciproche interdipendenze può generare processi a cascata di ristrutturazione, trasformazione di vita e di morte. Così, da un punto di vista globale, quale è quello attuale, il caos della mondializzazione potrebbe essere paragonato ad altre precedenti transizioni epocali, poiché implica non una semplice crisi, ma una rottura paradigmatica molto profonda e, al tempo stesso, la possibilità della nascita di una nuova organizzazione. Ma prima di tentare di comprendere la portata caotica dei processi in atto vorrei portare l’attenzione sulla necessità di liberarci innanzitutto dall’hegeliana abitudine mentale a pensare ogni svolta, ogni processualità, considerandola come l’esito di una evoluzione lineare e necessaria, superabile e oltrepassabile positivamente. Logica di semplificazione che non tiene conto del principio cibernetico della retro-azione e della ricorsività moriniana del progresso-regresso. La tendenza ad una positivistica ed ottimistica visione è fondata sugli arcinoti assunti: - Il nostro modello evolutivo di civiltà sia in definitiva il migliore, se non addirittura l’unico possibile; - l’ominidizzazione abbia tracciato e toccato le punte più elevate di sviluppo e di progresso scientifico e tecnologico, sia pur in presenza di ritardi, regressioni, derive e interruzioni di vario genere, e scorra inesorabilmente verso un destino migliore; - le acquisizioni dei principi dei diritti umani nella Dichiarazione universale, delle forme di governo più avanzate della democrazia rappresentativa, delle organizzazioni nazionali degli Stati di diritto e della divisione dei poteri siano ineguagliabili rispetto ad altre forme di civiltà storicamente conosciute e conoscibili; anche quando la effettiva partecipazione civile sia di fatto stata sostituita e surclassata dal ruolo mediatore delle tecnologie comunicative; - il sistema geo-economico-politico-produttivo giuridico e finanziario, dispiegato e imposto all’intera popolazione del pianeta, sia l’unico sistema possibile e non abbia alternative compatibili con altre civiltà e culture; - che questo sistema produttivo non sia in stretta Biopolitica contro biopotere connessione con il malsviluppo e non abbia a che fare con la devastazione ambientale del pianeta, con i conflitti e le guerre, con l’esaurimento delle risorse vitali non rinnovabili, con gli indici di mortalità più elevati della storia e con le ineguaglianze e le povertà diffuse; - l’esaltazione dell’utilitarismo e liberismo economici, assurti ormai a sistema universale, porta all’ottimizzazione paretiana anche se paradossalmente tale equilibrio è fondato sullo sfruttamento e sul permanente divario nord-sud; - la rinnovata fiducia nel diritto positivo quale mezzo di risoluzione di ogni controversia; anche quando è usato in-vece, cioè al posto della forza in modo strumentale e senza più alcun riferimento alle sue fonti; - l’assunzione tacita che la logica mercantile delle privatizzazioni comporti il diritto ad appropriarsi anche dei beni comuni e la possibilità di espropriare ogni risorsa e forma di vita diversa facendo uso dei brevetti e delle tecnologie, esibite surrettiziamente in modo distorto e cioè come risolutrici dei problemi che affliggono l’umanità; - necessità di accettare l’evoluzione dei sistemi politico-giuridici ed economici anche nella loro torsione e direzione ‘ingegneristica’ e quindi sganciata da qualsiasi relazione con l’etica; - permanente illusione a considerare ogni innovazione, trasformazione e applicazione tecnologica come modernizzazione anche quando questa penetra nel bios assumendone impropriamente il controllo; esponendo la vita a nuove forme occulte di biopotere; - l’autistico realismo affetto da immanentismo acuto che ci fa credere che tutto ciò che accade è così e non potrebbe essere diversamente; che giustifica e argomenta ogni comportamento come necessario al più elevato progresso tecnologico e scientifico del genere umano, anche quando questo implica un uso asimmetrico della forza (senza esclusione di mezzi) e della giustizia; Nulla di tutto questo. La realtà va ben oltre. Questa società-mondo, questa che si sta delineando sotto i nostri occhi, questo preciso e particolare modello di sviluppo e progresso civile, scientifico e tecnologico ci da un pianeta fuori controllo. Il quale non è altro che l’infausto esito di processi di 63 n.14 / 2006 lunga durata che hanno riprodotto - ad ogni piano delle singole e complesse realtà - un unico e solo modello di organizzazione antropo-socio-politico che è stato ed è quello del dominio maschile sull’intera vita del pianeta. Un modello fondato, sin dalle sue origini, sulla gerarchizzazione delle società e dei ruoli sociali, sulla subordinazione della donna, sullo sfruttamento selvaggio delle risorse naturali, sulla prevaricazione di alcuni uomini su altri e degli umani in generale sugli altri esseri viventi. Da secoli è sempre lo stesso modello di potere che oggi si sta mondializzando, dominato dal principio élitario di esclusione e di espropriazione della altrui vita. E’ il modello maschile di biopotere che - nel lungo corso del suo aggressivo dominio - ha affermato la politica della guerra e con essa l’esaltazione della forza, della superiorità dei mezzi, di tutte le forme di gerchizzazione sociali, economiche, politiche, militari ed ecologiche, lasciando prevalere il principio di distruzione e morte. In luogo del modello femminile di biopolitica, già presente in alcune civiltà del passato (EISLER, 1996), che avrebbe potuto affermare la politica della pace e, con essa, l’esaltazione della bellezza e della convivenza ecologica paritaria, lasciando prevalere, invece, il principio di creazione e di vita. Un potere che, nel corso della sua presenza nella storia naturale del pianeta, non ha mai ampliato le possibilità di vita esistenti nella biosfera, ma ha sempre agito semmai riducendole, sopprimendone la biodiversità; quella stessa biodiversità che oggi, disperatamente e con ogni mezzo, il potere biotech cerca di preservare, di ripristinare e ricreare nel chiuso di lavoratori artificiali, manipolando in gran segreto e in regime di monopolio i segreti della vita (RIFKIN, 2 ). A partire da questa biforcazione storica, risalente a duemila anni prima di Cristo, c’è stato uno slittamento dal principio di inclusione femminile versus quello di esclusione e al tempo stesso di esclusività maschile, e non già sin dalla modernità o da Norimberga come, invece, sostengono nelle loro analisi Foucault, la Arendt e Agamben (Esposito, 2 4). Si è trattato di un mutamento esiziale che ha fatto 64 emergere ed affermare con tutta la sua parossistica virulenza il paradigma del biopotere, concretizzato ed imposto in tutte o quasi tutte le forme di potere e di governo istituite dagli uomini sulle donne e sulla natura come primato del primate. Tanto che ancora oggi, nonostante i lenti processi evoluzionistici di assimilazione, costellati da contrapposizioni assurde tra civiltà, in questi laceranti e sanguinosi conflitti interetnici, le retoriche discorsive descrivono la politica come quell’azione che porta al successo del vincitore, di uno absolutus su tutti. Così, non solo la civiltà maschile ha precluso e perciò compromesso sul nascere la possibilità di altre politiche, di relazioni sociali paritarie, di condivisione e cogestione delle risorse, degli spazi, delle scelte e decisioni con l’altro genere, insieme al suo portato creativo di civiltà femminile; ma, ha definitivamente compromesso e negato, non possedendolo, un principio ad essa associato, il principio di creazione, di cura e di governo femminile della vita. Vita che è, invece bios, creazione, nascita, nutrimento, con tutta la straordinaria ricchezza offerta dalla diversità biologica e bioculturale, che è anche quella singola capacità di sentirsi in relazione con gli altri e con il mondo, oltre che con se stessi e con i propri simili; relazioni che ciascuno apprende a viversi e sa, nel corso della sua esistenza, autocrearsi. Vivere è esser-ci nella pluralità delle sensazioni emotive, corporee, fisiche, biologiche, poetiche, non solo cognitive, razionali e materiali con gli altri esseri viventi percezioni empaticamente vissute in ambienti naturali nei quali si da e si esprime la nostra unità umana di mente-corpo. Da qui il senso diverso di una biopolitica per ogni forma di vita, estesa e inclusiva degli altri esseri viventi: non solo umani. Una sorta di politica o cosmopolitica come la definisce la Stengers, e di filosofia della vita centrata sul vivente che apra al cosmo, una cosmosophy, filosofia del cosmo (DE SIENA, 2 5). Senza lo smascheramento del paradigma di genere fondato sulla dissociazione, sul dominio e sulla gerarchizzazione dei ruoli sociali, politici ed oggi economici, non si può comprendere il carattere caotico dell’attuale crisi politica e al tempo stesso Santa de Siena il carattere ambivalente dello stesso caos. In altri termini, non ci potrà essere una deriva genesica o generativa di questo caos senza mettere in questione le politiche su scala degli stati, delle società, delle economie, delle politiche della scienza e della ricerca, governate dalla angusta logica del dominio e della sopraffazione. Per porre, invece, al centro della vita, la vita stessa e con essa una nuova idea di bios che abbia in sé il principio vitale del femminile e del maschile insieme. Vita intesa come dono, come possibilità di evoluzione e creazione infinite. E’ questo un principio altro da cui far discendere in primo luogo un’altra visione dell’economia, dello sviluppo, della produzione, della gestione dei beni comuni e, di conseguenza, un diverso modo di intendere le risorse, il benessere, l’agire umano anche quando esso è mosso da interesse individuale. A fugare l’idea di una riproposizione di soluzioni fondamentaliste basti, per tutti, citare il premio Nobel dell’economia Amartya Sen il quale propone un diverso approccio valutativo a ciò che può essere meglio inteso per sviluppo e ricchezza. Gli “economicisti”, egli osserva, concedono il primato al reddito e alla ricchezza, “anziché al tipo di vita vissuta dagli esseri umani e alle libertà sostanziali” pongono l’accento sulla centralità “utilitarista” dell’appagamento mentale “e non del malcontento creativo, o dell’insoddisfazione costruttiva”, hanno l’ossessione “libertaria” per le procedure della libertà “dove le conseguenze derivanti da tali procedure vengono deliberatamente ignorate” e non prendono mai in considerazione una base fattuale di un’etica pratica politica ed economica imperniata sulle libertà sostanziali.(SEN, 2 , p. 25). La mia nozione di biopolitica ha, pertanto, una valenza tutta positiva che si discosta da altre versioni elaborate in precedenza, prima da Foucault ed oggi condivisa da Agamben, ma in parte anche da quella di Deleuze e Gattari, che non la distinguono dal biopotere. Non perché essi siano tutti uomini. Al contrario, colgo invece l’occasione per ringraziare, a nome di tutte le donne ed uomini che condividono questo punto di vista altro, tutti coloro che non si lasciano incantare e irretire dalle forme e dai linguaggi specifici del biopotere. E ringrazio tutti gli uomini che hanno saputo dona- Biopolitica contro biopotere re, sia pur nei limiti della loro cultura di genere, l’empatia, quella straordinaria forza interiore mediata dall’anelito, direbbe Adorno, che va oltre la comprensione. Coloro che hanno saputo riconoscersi ospiti e non padroni del mondo, sostenendo con le loro idee, pur tra mille difficoltà, una biopolitica minore. Poiché come sostiene George Steiner, nelle sue Grammatiche: “siamo stati a lungo ospiti della creazione, e io credo che lo siamo ancora. Al nostro ospite dobbiamo la cortesia del domandare” (Steiner, 2 3). Per biopolitica si è inteso, in questi anni, quel potere esercitato direttamente sui corpi e sulle menti dei sudditi attraverso “tecnonologie politiche” volte a creare una società di controllo. E questo accade – sostiene Agamben - non soltanto in quelle particolari condizioni che ne richiedono l’eccezionalità, cioè quando il bios politikos è sospeso, come voleva Schmitt; ma, al contrario, quale sistematica pratica politica destinata a diventare permanente Stato d’eccezione. Per cui imposizioni, criminalizzazioni, esclusioni, internamenti, sconfinamenti e controlli sulla vita non sono pratiche marginali ma fondative dello Stato e del suo diritto di imporle per legge (Agamben, 2 3). Ma proprio questo diritto sovrano di decidere quale sia la vita degna e quale no di essere vissuta, non riguarda - a mio giudizio - soltanto la modernità, appartiene a ogni civiltà del passato; quello ius che implicava la proprietà e delle terre e delle cose e delle persone, dei loro corpi e vite, rinvia piuttosto alle origini. A quel modello di dominio del maschile sul femminile, sulla donna, sulla natura; un dispositivo di potere che si è trasformato poi in un ossimoro per cui: in nome della difesa della vita si è praticata e si continua a praticare la morte. Vita assunta a pre-testo per elaborare macchinose strategie cognitive giustificative di perverse logiche discorsive che nascondono infine brutali desideri di nudo potere. Che squilibrio, eccesso, caos, facciano parte dell’eterno gioco dialettico della vita e della morte, sin nel bios più profondo degli ecosistemi, questo non vuol dire negare lo scarto, la differenza sostanziale che si genera tra teorie e agire politico, tra modelli e realtà fenomeniche, tra stili cognitivi e pratiche. Assumere un comportamento adattivo sul piano 65 n.14 / 2006 sociale non significa forse necessariamente ancora riproporre, in linea di principio, il vecchio cieco evoluzionismo, in versione neo-dialogica? L’idea che una popolazione dopo aver subito una sanguinosa e fratricida guerra (Ex-Jugoslavia), una pesante dittatura (Cile), una distruttiva guerra d’invasione (Iraq), una catastrofe ecologica (Indonesia), uno sterminio etnico (Rwanda), un massiccio bombardamento (Serbia), che sia stata massacrata (Sudan), affamata (Somalia), diseredata (Palestina), umiliata (Libano), contaminata (Bielorussia), espropriata (Equador), possa prima o poi rinascere a nuova vita, è - sul piano della modellistica teorica - ineccepibile. E’ troppo facile e troppo comodo ipotizzare che la vita continua… Ma spostandoci sul piano pratico, reale, quello delle nude vite, delle concrete esistenze, delle condizioni umane, dello stato delle cose, della durata dei processi, delle vite negate - per più generazioni - a bambini, uomini e donne; delle ferite e perdite umane, dei lutti, delle tragedie familiari, delle violenze dentro e sui corpi, della reattività autodistruttiva, della escalation di odi e rancori, delle infinite ritorsioni, dei danni incalcolabili alle strutture e alle infrastrutture essenziali alla vita minima, nulla di questa insensata e micidiale politica di soppressione della vita può trovare giustificazione. Qui il biopotere è nudo. Certamente anche qui la vita è politica, ma nel senso che la politica dipende, asserve la vita ed ha quel carattere immunitario in cui la vuole la modernità, impastata di inutili quanto inefficaci procedure ed interminabili mediazioni tra ormai vuote istituzioni che neutralizzano e paralizzano il vivente. Non certamente la modalità originaria in cui il vivente è, anche nelle sue forme qualificate, ma quella in cui la vita è costretta. Qui non c’è la “grande politica” che sappia intrecciare legami tra vita e politica, perché qui la vita non è potenza in tutta la sua estensione, costituzione, intensità e continuo potenziamento, come la prefigurava Nietzsche; ma è norma, carattere, legge, destinazione, ordine in cui la nudità della potenza si manifesta senza vita. Nella vita, dove c’è caos c’è il suo opposto, l’ordine; ma c’è anche organizzazione. Il caos è, dunque, necessario alla vita, quanto l’ordine e l’orga- 66 nizzazione alla politica. Ma oggi, nella complessità del nostro ipersistema mondo, non c’è soltanto il naturale ciclico processo di generazione e rigenerazione di vita-morte, ma è al lavoro un principio di razionalizzazione che produce un copioso degrado ad ogni livello del sistema che rinvia a quel paradigma di dominio sulla vita in cui consiste il biopotere. Un paradigma che ha innescato, sul piano biologico e in modo irreversibile, un ciclo trofico (ma anche entropico) di nutrimento tra vita animale e vegetale, senza possibilità di ri-generazione delle risorse naturali. E’ così venuto meno proprio quel gioco delle differenze su cui si basa gran parte dell’ottimismo evoluzionistico. Così, sul piano sociale, la dialogica tende sempre di più a restringersi, venendo a mancare quelle soggettività (una volta con un linguaggio mutuato dalla fisica si chiamavano “forze”) capaci di generare reattività creativa, quel gioco cioè di “opposizione” e “resistenza”, di cui ha bisogno per svilupparsi ogni minima dinamica evolutiva che poi è ciò che fa la differenza. Ciò rende ancora più visibile la dissoluzione e, al tempo stesso l’inadeguatezza, delle istituzioni moderne (partiti, parlamenti, Stati) di rapportarsi direttamente alla vita, accentuando la tendenza a scivolare nello stesso vuoto che tale scarto determina, poiché ciò che conta, in negativo, è il suo non essere né bio né politica. Ma è piuttosto la scissione che si apre tra i due termini dell’espressione a prevalere, in una forma che “strappa alla politica il suo bios e alla vita la sua politicità originaria, ovvero la sua potenza costitutiva”(ESPOSITO, 2 4, p. 84). Qualche volta noi, figli della società del cosiddetto benessere, dovremmo provare a misurare la nostra sensibilità vera o presunta, e verificare la tenuta delle nostre convinzioni ideologiche o religiose che siano, di fronte alla esposizione della nuda umanità scorrendo l’agghiacciante racconto che narra la vicenda di Rajid il bambino afgano di Terra e Cenere (2 2). Nessuna argomentazione politica o solidificata logicità economicistica può reggere il confronto, né trovare facile spazio nella memoria di chi la morte la vive e la subisce; trovare parole o preghiere che possano dissolvere paure, devasta- Santa de Siena zioni materiali, psicologiche o ricomporre i luoghi degli affetti vitali. Adorno nel suo Minima Moralia che - lo ricordo aveva come sottotitolo meditazioni della vita offesa, osservava lucidamente: pensare che la vita possa riprendere “normalmente” - o la cultura essere “ricostruita”, come se la ricostruzione della cultura non fosse già la sua negazione - è semplicemente idiota. (ADORNO 1994, p. 55). Ciò che la logica distruttiva degli uomini ha reso “normale” è solo la morte. Un paradigma di morte, uno stile di pensiero e di pratica politica, che per me è descrittivo del Biopotere, diverso e opposto alla biopolitica, la quale è invece reliance come sostiene Morin, è creatività, poiesis infinita, è dono senza reciprocità, è moltiplicazione di possibilità, è esplosione di forme ed esistenze, è vivere per apprendere a nascere nuovamente e non a morire. Politica della vita è libertà, progetto, autocreazione, desiderio di essere e non controllo o soppressione dell’essere. E’ prendersi carico e cura della vita nella sua totalità di relazioni. Pertanto, tutte le forme di coercizione, di limitazione, di arbitrario esercizio della violenza sui corpi, sulle menti, sul libero dispiegamento delle energie emotive e cognitive, in una parola sulla vita di qualsiasi essere vivente, sono definibili come biopotere. Perciò concordo sull’interpretazione in positivo della nozione di biopolitica che ne danno R. Esposito e il gruppo napoletano, intesa come politica-per-la vita, piuttosto che sulla vita. E non parlerei invece di biopolitica minore o dal basso, per indicare quella politica che entra in relazione con ogni forma di vita esposta o amministrata dal potere, in contrapposizione dialettica ad una biopolitica maggiore, come la definisce P. Perticari, senza una opportuna distinzione semantica dal biopotere. (Perticari, 2 3) Proprio perché il potere di controllo e di limitazione della vita non è circoscrivibile al solo ambito della politica, ma alla pluralità delle forme di razionalità ad essa connesse, l’importante è smascherare tutte quelle retoriche della biopolitica che assumono il volto del biopotere. Cosa che non è facile, perché le razionalità multi- Biopolitica contro biopotere ple messe in gioco dalle economie della produzione e della comunicazione, nei differenti sistemi, linguaggi e piani (anche tecnologici), su cui si dispiegano le variegate dinamiche processuali, ci impediscono di cogliere i dispositivi di potere impliciti nelle retoriche discorsive maggioritarie. E che nel gioco imprevedibile e incerto delle coimplicazioni rischiano di risucchiarci continuamente all’interno dello stesso paradigma di pensiero. Modello cui non si sottraggono ormai neppure molte donne che con dovizia di rigore e sorprendente determinazione ne incarnano e mutuano forme comportamentali e stili cognitivi . Così se per una comprensione più analitica occorre un approccio più complesso, allo stesso modo per affermare una biopolitica occorre effettuare un radicale rovesciamento, trasformando la prospettiva da politica ad ecologica, la sola che ci permetta di vedere nel bios non un principio tra gli altri, ma il principio da cui muovere per una politica che apra alla vita, ad una politica della vita, non sulla vita. La mia prospettiva, perciò, è volta a marcare proprio la distanza tra le due concezioni che rinviano a due paradigmi opposti, non semplicemente differenti. Uno incentrato sull’uso della forza e sull’esercizio del potere su tutte le forme di vita da parte di poteri istituzionali e non, elettivi e non, economici, tecno-scientifici, criminosi, finanziari, giuridici, culturali e comunicativi. Quali espressioni delle secolari e difformi degenerazioni che hanno prodotto un preciso tipo di evoluzione e di sviluppo, esito complesso di derive storiche e culturali, di sofisticate strategie cognitive neutralizzanti; di retroazioni, articolazioni, incrostazioni sedimentatesi nei processi lunghi della uominidizzazione. L’altro centrato sulla cura e sulla politica della convivenza con e tra le specie, volto ad accrescere e potenziare ogni forma di vita senza affermare alcun dominio, ma semmai sviluppando le relazioni conoscitive ed esplorando le infinte possibilità ancora oggi ignote, nonostante le complesse articolazioni disciplinari delle scienze, accecate dal principio di esclusione e perciò incapaci di vedere lo yin e yan, le dualità, le complementarietà della complessità vivente (Morin, 2 4). Si tratta, allora, di provocare una rottura paradigmatica capace di dare vita ad una nuova concezio- 67 n.14 / 2006 ne della vita su questo eccezionale uni-verso, nel senso di unico, anche se ancora per poco vitale, quale è il nostro pianeta. Poiché - come sosteneva Foucault - una volta che la vita è diventata un oggetto di potere, la funzione più alta di questo potere è di investire la vita in ogni sua parte e il suo primo compito è quella di amministrarla. Il biopotere si riferisce allora a tutte quelle circostanze e condizioni in cui ciò che è direttamente in gioco non è la riproduzione della vita, ma la produzione e la riproduzione di se stesso. (FOUCAULT, 1977). Naturalmente c’è una relazione dialogica, invisibile e inscindibile, complementare e antagonista, tra biopolitica e biopotere, come tra prodotti e produttori, poiché il biopotere delle grandi potenze industriali e finanziarie produce non soltanto merci e beni di consumo ma anche soggettività biopolitiche che agiscono in contesti produttori di biopotere: bisogni, relazioni sociali, corpi e spiriti. Paradossalmente nella sfera del bios, la vita è destinata a lavorare per la produzione e la produzione a lavorare per la vita. Sia la politicizzazione del biologico (le politiche che si prendono cura della salute, bellezza, sessualità, procreazione), sia la biologizzazione del politico (le politiche riguardanti l’ecologia, l’economia, l’ambiente, le bioculture, la biodiversità, gli aiuti umanitari) si impongono oramai come punti decisivi di esercizio di potere e dunque di biopotere. Così come ogni aspetto del corpo del vivente si situa oggi al centro di una tensione tra biopotere e norma, tra sovranità e statualità. Ed ogni alea, divergenza, malattia, dalla nascita fino alla morte, diventa luogo di artificio produttivo eugenetico e di rivendicazione giuridica. Pertanto sia le alterazioni genetiche, sia gli interventi con le armi in difesa della vita, sono luoghi di presa del potere, soggette cioè ai dispositivi di controllo che attraverso le retoriche discorsive alimentano le false evidenze, come il corpo, la vita, il controllo delle nascite, le condotte, i comportamenti, ed entrano a far parte della sfera degli oggetti di potere. Oggi ogni aspetto di questa ipercomplessità ha assunto le forme della spettacolarizzazione, nel segno dell’efficienza e della perfezione, dalla procreazione alla riproduzione biologica e culturale, 68 incluse le procedure della partecipazione pseudodemocratiche, divenuta una vera e propria biocrazia. Soltanto lo spettacolo - come lo definisce Guy Debord - implica l’inclusione nel sistema di partecipazione del biopotere, occultando e sopprimendo tutto ciò che si erge contro se stesso (DEBORD, 2 2). Ne deriva una condizione surreale della nostra esistenza che non ci fa riconoscere, per esempio, quanto siamo ignari della nostra dissociazione mente-corpo e come e quanto, invece, la percezione fisica (sacra) ed estetica (bellezza) che abbiamo di esso (corpo), sia indotta dai dispositivi socio-economici prodotti dal biopotere sotto forma di un nuovo regime ideologico. Si pensi ai cyborg e alla loro “guerra”, con punte esasperate di ideologismo femminile, a sostegno della perdita della mitica integrità corporea imposta da una cultura veterocristiana (HARAWAY, 1995, CAPUCCI, 1994). Ma, dall’altro verso, si pensi all’eccesso di cultura salutistica, alla denuncia del suo uso strumentale, della cura delle patologie, degli espianti d’organi dal vivente o della loro riproduzione in laboratorio, per iniziare a comprendere le cifre del business intorno a cui ruota ogni mercificazione (RIFKIN, 2 1). Non ci può essere biopolitica in un mercato dell’ideologia nichilista, che fa di ogni forma di vita un principio di sfruttamento in nome del benessere e della cura e trasforma ogni bene comune in merce; cura e benessere rapidamente ignorati quando non acquiescenti e conformi agli standard della salute di tutti. Si tratta allora di svelare le retoriche dietro alle quale si maschera non la biopolitica, ma il biopotere per acquisire una visione più critica della polis del nostro tempo. Poiché questo è il problema. Ritornando alla impostazione iniziale occorre chiarire che cos’è la polis per noi oggi e che cos’è politica? Come sostenuto in precedenza la pluralizzazione dei centri di vita e di potere, dei luoghi e tempi delle decisioni trascendono ormai ogni possibilità di controllo, decomponendo ogni idea di regia e di centro unificato del comando. Ciò ci fa misurare con un potere ubiquo, con una disseminazione dei centri, dei piani, degli ambiti, dei momenti, delle sfere e delle soggettività che influenzano e imprimono Santa de Siena direzioni contraddittorie e ambivalenti ai processi. Ma questo non deve impedirci di vedere i possibili scenari cui aprono e di provare a descriverli. Un primo scenario è quello che consegue alla continua riorganizzazione del biopotere, all’interno della società-mondo: il suo potere reticolare, la sua pervasività e impossibilità di controllo, fanno impallidire le vecchie ipotesi alternative, centrate su blocchi unici contrapposti, ma anche le nuove stentano a decollare, come le moltitudini di Negri e Hardt, la società civile, le reti dei movimenti ecc. (HARDT-NEGRI, 2 3). Anche se hanno l’indiscusso merito di sollecitare e riproporre - naturalmente alle menti civili - il dibattito teorico intorno alle probabili soluzioni o vie di fuga: riformatrici, radicali o liberali, sia pur nelle infinite varianti in cui ognuna si specifica e si evolve. Ma ognuna di esse - a mio giudizio - rivela la sua inefficacia se non pensate in una prospettiva capace di fare emergere la biopolitica come un’occasione strategica; senza cioè mettere seriamente in questione le logiche del biopotere e stabilire relazioni autopoietiche ad ogni piano della vita ecologica, e non solo politica, e quindi sistemica, della vita del pianeta. Una biopolitica che sia in grado di creare forme nuove di reliance tra pratiche, politiche, cure della vita, di produzione, di scambio, di riconoscimenti reciproci, di dialogiche creative, di cittadinanza; ogni qualvolta, cioè, in cui è in gioco la vita intesa come forma di relazione che dà vita, che genera e crea nuove forme di vita. La vita intesa come struttura che connette altre forme di vita che fanno fiorire la vita, non che la dominano, la gestiscono, la comprimono, la comprano, la distruggono, la espropriano esibendo il tesserino della polizia o peggio ancora della norma giuridica. Per trasformare finalmente e dunque sconfiggere quella cultura che da la morte e che ha bisogno della guerra, dei conflitti, della distruzione, della devastazione, di usare mezzi e strumenti mortiferi per far proliferare l’economia, far salire gli indici di borsa, per accrescere potere al potere e che, in definitiva, decide sempre quale direzione e destino debba avere l’evoluzione storica e naturale di questo pianeta. E’ quanto sta accadendo a proposito degli Ogm, Biopolitica contro biopotere sementi modificate, farmaci, fonti idriche, adozioni e traffico d’organi, di droghe e di armi, o con la politica dei brevetti e dei diritti di proprietà e conoscenza. Mentre biopolitica è, invece, difesa della vita, del bios in tutte le sue accezioni; protezione da tutti quei poteri ubiqui e senza luogo (DAL LAGO, 2 3); è denuncia quando essa diviene la posta in gioco di poteri senza scrupoli (SHIVA, 1999; RIFKIN, 2 ); è smascheramento di quelle sovrastrutture che assumono il volto della tecnoburocrazia, tecnoscienza (MORIN, 1994). Biopolitica è, perciò, filosofia e pratica di vita, è politica della Terra, quale arte e strategia alternativa al biopotere istituzionalizzato e normativizzato, reso legale da quello stesso potere politico che, agli occhi delle cittadinanze, sembra aver subito un’altra mutazione genetica, rispondendo non più agli interessi di chi lo elegge, ma a poteri altri, oggi sempre più onnipotenti; da quelli che dominano la scala più elevata (dell’immateriale e virtuale) dell’ economico e del finanziario (produzione, riciclaggio, mafie), a quella più bassa (traffici, microcriminalità, contraffazione e sfruttamento) del sistema di mercato. La polis in cui siamo oggi è tutta dentro la crisi di quei valori “astratti” su cui sono state fondate le istituzioni moderne, diventate ormai gusci vuoti. Ma siamo anche di fronte a quelle negatività invisibili che tragicamente impediscono di vedere le mille modalità in cui si manifestano i poteri mortiferi; che ci impediscono di farci vedere le rivoluzioni della donne e degli uomini che si battano per fare assumere una visione paritaria, ecologica, mutale, poetica alla vita, alle relazioni sociali, alle disuguaglianze nelle ricchezze e nelle opportunità e capacità; che celano - escludendole - altre concezioni del progresso e dello sviluppo, fondate sul principio femminile della natura nelle pratiche dell’esistenza. Siamo dentro la tragicità di uno spettacolo che educa, con le retoriche della crisi della politica, dei fallimenti dell’educazione, del mito della crescita e del benessere, della minaccia del terrorismo, dello scontro di civiltà, della difesa dei diritti umani, degli aiuti umanitari, divenuti tutti i nuovi dispositivi tecnologici nelle mani di poteri invisibili. Poteri - va ribadito - non-elettivi che in loro nome decostrui- 69 n.14 / 2006 scono e riscrivono i nuovi codici semantici, creano nuove metafore, si appropriano - manipolandoli di quei linguaggi nati per contrastarli e svelarli. Un biopotere che sfida e annienta quotidianamente, sul piano dei significati, con le guerre dei simboli (RIVERA, 2 5), con le sue logiche regressive, ogni tentativo di dare vita alla vita, di produrre anticorpi in grado di proteggerla, di sottrarla alla aggressione virulenta di un potere che non sempre fagocita se stesso - come volevano certe visioni escatologiche - ma, purtroppo, da troppo tempo ormai, distrugge le vite degli altri, degli ecosistemi, delle speranze in destini altri, riducendo, in modo sempre più rapido e veloce, le stesse possibilità di vita dell’intera biosfera. Lo spettacolo messo in scena dai sistemi di comunicazione ne ratifica le logiche e ne codifica i linguaggi. Poiché è proprio attraverso il linguaggio che si pongono in atto nuove strategie di dominio, occulte, pervasive, invisibili, virtuali. E’ attraverso di esso che si manipolano e mistificano valori assumendo come propri i significati altri. E’ quanto accade - come coraggiosamente ci racconta Vandana Shiva - a proposito delle foreste, che nel linguaggio economico sono dichiarate improduttive finché sono verdi e lussureggianti, ma diventano risorse soltanto quando vengono abbattute e trasformate in legname pregiato da immettere sui mercati (SHIVA, 1995). Così nel gioco delle libere interpretazioni semantiche ogni significato assume la forma che gli si vuole dare, anche a costo di esercitare torsioni linguistiche, di generare incredibili contraddizioni mentali (double-bind), ampliando le sfere del non-diritto ad ogni ordine di problemi. Il gioco perverso che sul piano della comunicazione politica oggi si fa è quello di continuare a usare una semantica ordinaria per descrivere eventi straordinari che definiscono un altro regime sovrano, che è lo stesso di sempre ma che ha spostato i suoi obiettivi e finalità. La metafora dell’esportazione della democrazia è un plateale esempio di transizione di codice, di mutazione di modelli, di implicazioni teoriche e pratiche notevoli, in quanto essa suppone il congelamento della categoria e al tempo stesso la sua universalizzazione come valore, per coglierne la trasformazione ed effet- 70 tuarne il rovesciamento. E’ il caso di quei macroconcetti quali democrazia, maggioranze di governo, consenso, partecipazione, guerre umanitarie, fuoco amico ecc. Parole che - come annunciava la profezia di Nietzsche - nello spazio-tempo di un secolo non avrebbero avuto più alcun senso. Puntualmente ad ogni occasione di caos organizzato il linguaggio della burocrazia muta e trasforma significati. E’ così che l’impegno per l’intervento agito dalle forze multinazionali di pace, si traduce in un balletto per la definizione delle regole di ingaggio e in intervento multinazionale militare volto ad occupare i territori. Il multilateralismo in pratica diventa il gioco delle potenze per ottenere il comando delle missioni. Nel tempo della comunicazione planetaria, dell’economia immateriale, della società cognitiva, della finanza virtuale, della fine degli stati-nazione tutto sembra liquefarsi, decomporsi, perdere forma, tutto sembra rimesso in gioco: svanisce il noto (l’ordine), si apre l’ignoto (il caos). Il linguaggio, il diritto, la guerra, il corpo, le istituzioni, si deframmentano, componendosi e ricomponendosi in nuovi giochi di carta, come origami, frattali. Ogni corpo su cui era fondato il vecchio ordine discorsivo di potere si decompone, è scompaginato, mutilato, reso inoffensivo non solo con la creazione di nuovi linguaggi, regole e istituti, ma anche con la manipolazione e la trasformazione dei vecchi in nuovi poteri (AGAMBEN, 1996; CUTRO, 2 5). Da questo caos invisibile emergono nuove linee evolutive che tracciano un nuovo ordine mondiale. E’ un ordine che nasce dal caos. E poiché tutto ha inizio dal caos, tutto ritorna al caos. Un caos generativo e generato, spontaneo, ma anche organizzato, deliberatamente prodotto, dal quale si stanno ristrutturando forme inedite di organizzazione, ma al tempo stesso forme antiche di dominio. Così del vecchio “ordine” del mondo, rimangono in piedi soltanto le forme esteriori dell’antico edificio, ma la vita, la vita l’ha definitivamente abbandonato. C’è, dunque, interdipendenza tra Biopotere e Spettacolo: poiché il caos della comunicazione serve il caos della politica. E per uscire dal caos occorre l’ordine imposto da chi - ancora una volta Santa de Siena - ha i mezzi e la forza per farlo. Di imporre, con l’aiuto delle tecnologie, un nuovo linguaggio, un particolare funzionamento del sistema mondiale della comunicazione, nuovi stili di vita e di consumi, nuove abitudini di pensiero. La logica del dominio esige che l’alleanza tra potere politico e sistema mondiale dei media possa fare uso della forza per ristabilire l’ordine e annientare tutto ciò che osi reclamare indipendenza, autonomia, libertà. Ma per converso, tutto deve apparire come se fosse il regno dell’indipendenza, autonomia, libertà. In questo scenario retto dal caos, scompaiono le “sovranità”, istituzioni di controllo, organismi elettivi e maggioritari. I quali non sono ormai che unità di business artificiose, in quanto lo sviluppo globale dell’economia richiede una regolazione minima dei processi produttivi e degli scambi: esige una deregulation che elimini ogni ostacolo allo slancio creativo delle forze del mercato (ZOLO, 2 5). Questo nuovo ordine, infatti, non è nato in seguito alle scelte politiche di organismi sopranazionali preesistenti, ma da accordi tra grandi potenze industriali e aggregazioni regionali e nazionali, come il NAFTA, La Banca Mondiale, il FMI, il WTO, corporations, tra cui in primis quelle della comunicazione. Organismi in grado di autolegittimarsi e di divenire essi stessi fonte di autorità indipendenti, entità giuridiche autonome sostenute da arbitri internazionali, commissioni giuridiche e istituzioni non elettive che non coinvolgono gli Stati. Ma sono soggettività autofondanti che producono da sè la propria immagine di autorità, come quelle teorie che hanno la pretesa di costituire esse stesse principio di spiegazione. Come accade per le Commissioni giudicanti e di valutazione o per i tribunali penali speciali istituiti per giudicare i crimini del’ex-Jugoslavia, o quello dell’Aja. Pensiamo ai processi di Norimberga e di Bagdad i cui tribunali sono stati voluti e gestiti dalle forze occupanti e vincitrici che hanno avuto il potere di selezionare i giudici e decidere i criteri di valutazione. Comunicazione globale e nuovo diritto aprono ad una comunicazione asimmetrica e ad una giustizia asimmetrica (ZOLO, 2 6), che a loro volta istituiscono un dualismo giuridico internazionale inedito. Biopolitica contro biopotere Ed è proprio in questo spazio della comunicazione globale che viene ridotto a brandelli il vecchio diritto internazionale e si fissa la nuova sintesi politica, quella mediazione in grado di eludere tutti i corpi intermedi, le vecchie forme di associazione e rappresentanza sociali, come i partiti, ridotti insieme ai parlamenti a lobbies di potere. Attraverso la comunicazione non solo si esprime ma anche si organizza la mondializzazione: ne giustifica l’immanenza. La esprime e ne controlla senso e direzione dell'immaginario che percorre queste connessioni comunicanti; e, la organizza, moltiplicando e strutturando le interconnessioni tramite le reti. Nelle quali l'immaginario è guidato e canalizzato nel quadro sistemico della macchina comunicatrice nella quale ogni mediazione è assorbita nella macchina di produzione e creazione degli eventi. Comunicazione e biopotere sono coproduttivi e coestensivi, oltre che essere interconnessi e interdipendenti. Sono loro che fissano tempi e spazi della mediazione che non avviene più nei luoghi appositamente e politicamente istituiti. Ed è in questo non-spazio della comunicazione virtuale che si genera la politica virtuale, la phony politics. Come virtuale e insufficiente, osserva Canfora, diventa il principio aritmetico della “maggioranza “ ove lo si assuma “come valore assoluto e tale da recare in se stesso le ragioni della propria legittimazione”. (CANFORA, 2 5, p. 15). Se, infatti, i numeri che danno il consenso delle maggioranze dipendono dai tempi e modi in cui si istruisce il processo informativo, il cuore del problema diventa - allora il sistema di comunicazione. Diventa il problema politico per eccellenza. In quanto la concentrazione di mezzi e potere da come esito la dittatura. Habermas nello sviluppare il concetto di azione comunicatrice, non poteva immaginare il carattere monopolistico della comunicazione e la sua alleanza con il biopotere. Cercando di dimostrarne la sua forma produttrice e le conseguenze ontologiche che ne derivavano, egli partiva sempre da un punto di vista esterno che oggi non esiste più; al contrario, esiste - invece - una produzione comunicatrice autoreferente ed autoorganizatrice che si muove in concerto e in maniera inscindibile con i difformi volti che, di volta in volta, il potere assume. 71 n.14 / 2006 Tra i tanti un esempio, che vale la pena citare, è quello della triste vicenda della pandemia aviaria. Una gigantesca operazione di emergenza planetaria è stata orchestrata sulla base di nessun reale indizio. I casi addotti rientravano nelle fisiologiche percentuali epidemiche, ma sono stati sufficienti per creare sapientemente un clima generale di panico e costringere così i governi all’acquisto di colossali scorte di vaccini prima ancora che fosse identificato il ceppo del virus. Gli interessi economici in gioco sono stati troppo grandi per non suscitare ragionevoli sospetti. L’importanza del sistema di comunicazione è più che mai cruciale in questa fase della mondializzazione. Lo hanno compreso anche le forze eversive ed estremiste, anche quelle che rifiutano la modernizzazione occidentale, le quali non soltanto ne fanno uso, ma lo fanno con le stesse competenze, strategie e mezzi. La virtualizzazione della realtà attraverso i media trasforma la percezione, la educa, la plagia. Ciò che chiamiamo realtà, ha molto poco di oggettivo; la realtà per noi, è un macrofenomeno molto complesso: è l’esito di una combinazione complessa ed evoluta di differenti tempi e modalità di stratificazioni; di diverse, nel senso di differenti e differite, sovrapposizioni di frammenti di reale, di rapide e confuse immagini, di solitarie appercezioni, di rappresentazioni irreali, di simboli e informazioni misti ad immaginario. Il tutto si genera in un ambiente, quello della mente, nel quale giochi di fiducia, diffidenza, cecità, pregiudizi, logicità contorte, definiscono docili danze creative e modellano sinuosi corpi pensanti. Avere il potere di controllo dei mezzi di controllo e propaganda è strategico per qualsiasi potere; perché significa poter controllare la verità e la nonverità. Significa poter decidere ciò che è vero e ciò che è falso, non solo dell’oggi, ma anche del passato. Chi controlla il passato, controlla… il futuro, è uno delle espressioni orwelliane più inquietanti. Nessun linguaggio è escluso. Basti pensare all’arte, all’attuale tendenza cinematografica di costruzione e decostruzione di alcuni dei grandi miti della storia, da Roosevelt a Che Guevara, ai premi Nobel della scienza, all’ arte, come Frida Kalo, alla celebrazione dei grandi eroi del passato come 72 Alexander, Troy. Tutti personaggi raccontati con il linguaggio di oggi, con i modelli di una società che non può che essere consumistica: rampanti uomini e donne pronti a cogliere il successo e ad emergere ad ogni costo nella società che conta. Eventi raccontati in modo completamente decontestualizzato e svuotati di ogni riferimento storico e di ogni significato politico e civile; genialità che non agiscono mai per cause sociali, men che meno politiche, ma solo per interessi individuali; proprio come fanno i leaders politici di oggi. Una retorica attraverso la quale si riscrive la storia sempre più raccontata come l’esito delle gesta dei propri eroi a testimonianza della grandezza della nazione e sempre meno quella della realtà dei problemi umani. Nella quale sempre di più scompare lo Stato con le sue regole e principi razionali e appare la Nazione con i suoi sentimenti e passioni. E’ naturale che sia più importante guidare la Nazione che lo Stato. Nel primo si parla al cuore del popolo, nel secondo ai diritti dei cittadini. E come si sa è più facile convincere del pericolo del nemico, della minaccia terroristica incombente, della necessità di approvare ingenti somme di spesa per gli armamenti, facendo con precisione leva sui sentimenti del popolo più che sulla ragione dei cittadini. Non è un caso che - da sempre - in cima alle preoccupazioni delle società occidentali ci sia la paura. Governare la paura, tutelare il diritto a non aver paura, alla sicurezza, è il pilastro su cui si fonda lo Stato moderno hobbesiano. E’ la condizione su cui si fonda quell’immaginario contratto sociale con il quale il popolo aliena se stesso e la sua sovranità e cede tutti i poteri al Leviatano. Il caos serve questo tipo di politica, serve a creare lo Stato di paura, a produrre la cortina di ferro in difesa delle città. Città Panico, come le descrive Virilio, blindate, armate, controllate in cui in nome dell’ordine e della sicurezza ha facile gioco il potere di chi impone la Legge (VIRILIO, 2 4). Ci rendiamo conto, dunque, che la sistemica megamacchina di cui parla Serge Latouche(1995) non soltanto è auto-poietica, ma è anche auto-validante. Costruisce neostrutture che svuotano o rendono inefficaci tutte le contraddizioni sociali e politiche; crea situazioni nelle quali, anche prima Santa de Siena di neutralizzare la differenza con la coercizione, le assorbe in un gioco di equilibri auto-generatori ed auto-regolatori. Ma soprattutto concorre alla riduzione della complessità, tanto necessaria al governo del nuovo ordine mondiale. Siamo, dunque, all’esaurirsi delle dinamiche strutturanti dello Stato-regolatore, modernizzatore sorto a tutela del sociale e alla conseguente perdita di legittimità nel regolare gli spazi privati degli individui. O meglio ne acquista una nuova con la quale le cittadinanze barattano i loro già ridotti spazi di libertà con la difesa del benessere, sicurezza, identità. In questo scenario a perdere peso e significato sono Parlamenti, Accordi, Protocolli, Costituzioni, Convenzioni; vengono meno i principi dello stesso diritto internazionale e quell’Habeas Corpus su cui si fondavano gli stati liberali moderni. E’ quanto accade al Protocollo di Kyoto, a Guantanamo, all’articolo 11 della nostra Costituzione, ad Abu Graib, al popolo sovrano (americano con la prima elezione di Bush), al Patriot Act, alle regole di ingaggio dei cosiddetti body guards, alla sistematica violazione dei diritti umani in ogni angolo del pianeta e alle risoluzioni dell’ONU puntualmente disattese. In questo caotico scenario caratterizzato dall’arbitrio e dall’eccesso dei poteri, modernità e postmodernità si includono e si escludono a vicenda; tutte le dialettiche si tengono insieme: quella del vecchio Marx che denunciava il disinvolto passaggio dei leaders politici nel sostegno ora ad una classe ora ad un’altra, ponendole comunque sempre in perpetuo conflitto tra loro (oggi estendibile alle identità nazionali e religiose); l’hegeliano aufgehoben, la nozione del superamento, all’occorrenza addotta per giustificare ogni irrazionale brutalità della violenza e assunta come necessaria all’armonia del più generale processo storico; il più sfrenato liberismo quanto la deriva totalitaria dell’Illuminismo denunciata da Adorno e Horkheimer e, oggi, da Agamben. Derive intrinseche alle dialettiche di un mondo localmente amministrato e, globalmente spoliticizzato, compresi i campi di concentramento, i genocidi, echelon, quali logici corollari della storia dell’Occidente. Poiché, come già sostenuto, la logica complessa e perversa del biopotere non appartiene soltanto al Biopolitica contro biopotere nostro tempo. Le aperture e chiusure sistemiche della modernità, non rendono più incerte e ambigue le condizioni umane e a rischio gli scenari oggi più di quanto non lo fossero in passato. La società del rischio è sempre stata tale sia per gli uomini e donne al tempo del medioevo come durante l’impero romano. Tutto dipende dalla prospettiva dalla quale si guarda. Se quella del ricco mercante o dello schiavo sottomesso; del tribuno trionfante o del popolo assoggettato e privato dei suoi beni. E ancora, se la storia la si guarda con l’ottica della visione liberale e la si legge come un graduale progressivo processo di miglioramento, occultandone le interruzioni, le retroazioni, i rinvii; oppure con l’ottica conservatrice e di dominio, e la si vede come una lunga teoria di necessarie oppressioni per eliminare il disordine. Purtroppo non è così semplice e l’oscillazione non è mai solo tra due polarità ben definite come la morte o la libertà, la civiltà o la barbarie. Ci sono state politiche che si sono presentate con il volto della liberazione e dell’emancipazione e che poi tali non si sono rivelate e logiche di potere imposte con la forza che hanno garantito pace e prosperità. Tutte però inscritte nell’unicità di modello che non ha mai né cercato, né voluto la parità delle relazioni, la convivenza pacifica ed ecosistemica. La complessità è più insidiosa e multistratificata per riconoscere soltanto due sole opzioni. Implica una stretta relazione permanente con il caos, una dialogica tra ordine, disordine e organizzazione. (MORIN, 1983). Implica una differenziazione dei luoghi e dei tempi in uno spazio-mondo che non può essere ridotto e osservato da una sola angolazione; una storia che non può incessantemente e impunemente essere srotolata come progressiva, occultando quella regressiva e oppressiva; trionfante per una parte soltanto dell’umanità maschilista, quella occidentale. Il riduzionismo è immorale sostiene Morin nella sua Etica, mentre la complessità necessita di dialogiche, della moltiplicazione dei punti di vista (MORIN, 2 5). Pertanto, ovunque - ora più che mai - bisogna scorgere la compresenza di ampie sfere di non-diritto, di libertà economiche, di repressione selvaggia, di tutele della salute, di bonifica dell’ambiente e di 73 n.14 / 2006 sfruttamento massiccio e fuori controllo di ogni genere di risorsa, di embrioni di vita, di sperimentazioni allucinanti e di scoperte sensazionali e benefiche, di conquiste e di regressioni. Tutto coesiste sia le possibilità, come pare vedano Balibar, Bauman e Beck, in un futuro migliore; sia le negatività. Insomma le Poleis e l’Impero. Quel che è certo è che comunque lo osserviamo il mondo è violenza; una violenza che è implicita in ogni gesto pre e non politico, come giustamente sosteneva la Arent nel suo saggio dedicato a questo tema, in quanto lo spazio politico non è mai puro ( ARENDT, 2 4). Soltanto una prospettiva complessa può aprire ad una visione non riduttiva, altra della politica, della storia, per un’umanità di genere singolare e plurale. La legittima domanda che ci si pone allora è: Quale politica è oggi, dunque, in crisi? La biopolitica o il biopotere? Occorre, a questo punto, fare una distinzione per comprendere la double bind della dimensione globale e locale del biopotere. Poiché la mondializzazione da una parte divide, e dall’altra unifica. A livello locale essa divide e rafforza il suo potere di controllo: territorio e cittadinanze sono sempre più assoggettate a logiche di potere, di controllo burocratico-fiscale (CROUCH, 2 3) che sostituiscono le politiche societarie, legate al territorio dalle vecchie istituzioni, con le politiche identitarie, prodotte dalla deterriorializzazione. Lo statonazionale diventa, così, il luogo dei conflitti che a livello globale non si possono esprimere e in cui si sviluppano dinamiche reattive che richiedono politiche di tutela dell’ordine e della sicurezza. Non solo ma, essendo - quello nazionale - l’unico piano possibile dei rapporti tra cittadini e istituzioni e del loro reciproco controllo, si intensificano le pressioni fiscali e tecnoburocratiche da parte dei poteri comunitari, nazionali e locali, rendendo circoscrivibile e neutralizzabile qualsiasi tentativo di biopolitica. Ma si accrescono anche le chiusure etnicistiche, le fobie xenofobe, i dispositivi di corruzione dei meccanismi politici, soprattutto delle procedure partecipative alla vita politica. Dall’altro - a livello globale - la mondializzazione unifica, si delinea la concentrazione di un sistema omogeneo di poteri retto da organismi sovrana- 74 zionali di natura economica, finanziaria, giuridica e di comunicazione; tendente a uniformare le diversità delle dinamiche e dei processi, che non coinvolgono gli stati, né le loro politiche, che semmai le subiscono, ancor meno le cittadinanze. Un esempio può essere quello della diffusione forzata degli istituti democratici e dei sistemi rappresentativi che va sotto il nome di esportazione della democrazia su scala planetaria. Improvvisamente nel mondo sono fiorite rivoluzioni blu, arancioni, gialle e quando non era possibile farle apparire come spontanee ed autorganizzate si è intervenuti con la forza dissuasiva delle armi. Salvo, poi, ad invalidarne gli stessi meccanismi quando i risultati si sono rivelati non-allineati e non-convergenti alle aspettative e agli interessi delle super-potenze, come è accaduto per l’Ucraina, la Georgia, L’Iran, la Palestina, il Libano ecc. Tutto questo ci induce al passaggio dalla presa di coscienza dello spossessamento della vita e della natura, da parte del biopotere, alla presa di coscienza della autosegregazione umana, della attuale condizione di marginalità e illibertà planetaria. Poiché - ancora una volta - a prevalere sono le forze di dominio; forze non soggette ad alcun controllo che ridisegnano il futuro del nostro pianeta; che senza alcuna legittimazione di natura politica o giuridica stabiliscono il destino di uomini e donne, dell’ambiente, dell’oikos. Esse fanno le politiche. E’ in questo spazio della non-politica, che occorre fare emergere le politiche della vita, le politiche altre, le biopolitiche. Allargando la prospettiva che vada oltre il proprio sguardo politico locale per aprire ad una visone ecologica. Non occorre più usare il tempo della fine per rigenerare la nostra filosofia di vita. Pensare il tempo della fine, come suggerisce Perticari, è pensare in linea con il messaggio heideggeriano dell’essereper-la-morte, del vivere l’attimo e liberare l’angoscia (Perticari, 2 3). Quella filosofia aveva un suo specifico significato nel suo tempo, in quanto rivolta a generazioni di individui educati alla rinuncia, al differimento cristiano della felicità; intrise di filosofie messianiche e rivelatrici della storia, soprattutto hegeliane e marxiane. Incitate a rinunciare alle nietzschiane virtù venefi- Santa de Siena che, per apprendere il sacro dire di si alla vita. Ma a distanza di circa un secolo, quell’insegnamento si è svuotato di senso diventando duro principio di sopravvivenza in una società egoista, consumista e individualista. Si è trasformato in un beffardo slogan edonistico buono per tutte le esistenze, da quella del criminale a quella dell’imprenditore senza scrupoli o del burocrate, dei manager delle multinazionali che ignorano gli effetti delle loro azioni. Quell’appello al qui ed ora ha acquistato il valore di un’irrinunciabile immanenza da parte di una società dei consumi di adulti bambini che vivono solo nell’oggi, in un esteso eterno presente. Un presente che non teme affatto la morte, ma che anzi si dilata sempre di più, tagliando fuori dai suoi orizzonti di senso il passato e il futuro. Per acquistare il futuro, occorre - invece - capovolgere il senso della finitudine. Un futuro che può essere reinventato e ri-progettato soltanto apprendendo a coniugare il tempo dell’essere al congiuntivo oltre che all’infinito, rimettendo in gioco noi stessi e il nostro essere-per-la-vita; che vuol dire proiettare il nostro sguardo oltre; un senso della vita che vada oltre, al di là delle nostre banali e temporali esistenze; essere-per inteso come continuità e possibilità anche dopo la nostra morte. Non per un al di là, concepito come spazio-tempo, che non c’è, ma per un al di là, nel senso del tempo-spazio, che ci potrà comunque essere, con o senza l’apporto della nostra specie. L’anticipazione della morte ha paradossalmente ridotto la freccia del tempo alla dimensione della nostra morte, ai nostri personali destini, producendo il suo effetto opposto; è diventato uno stucchevole malinteso che ha generato un atteggiamento di insensibilità e indifferenza nei confronti della vita e della morte degli altri - accettata o sublimata che sia - ha ricreato un vuoto incolmabile. Il richiamo al nulla si è trasformato nel suo contrario: in un delirio di onnipotenza che esige il tutto; ha prodotto un modo di pensare e uno stile di vita individualistico, mosso dal tutto ora e qui, in una concezione di concorrenza sleale ad ogni piano del vivere che ripropone l’antico motto del mors tua vita mea. Perciò soltanto riscoprendo il senso dell’infinitudi- Biopolitica contro biopotere ne, del gioco infinito com’è quello della vita, del dono della vita che sa donare la vita, di un flusso che scorre l’oltre della temporalità, di un’etica del prossimo, dell’ambiente, delle specie, di tutti coloro che sono diversi e davanti a noi, si potrà trovare una via d’uscita dal biopotere mortifero. Non intendo con questo riproporre una generica filosofia della vita, ma un’etica e una pratica politica qual è l’empatia. Empatia è sentire l’altro, è vivere con e per sé e con e per gli altri; è assumere la propria esistenza come coesistenza, come responsabilità per la propria vita, ma accrescendo anche le altre possibilità, per tutti e tutte coloro che verranno dopo di noi. Soltanto in questa prospettiva si può tentare di porre fine a questo nichilismo assurdo Il vero caos della politica, pertanto, non consiste soltanto in una perdita degli spazi politici pensati dalla modernità per un mondo localizzato, con i suoi ormai inutili artifici procedurali, con il suo immodificabile riduzionismo dallo sguardo a breve, con il fiato corto per la fretta, di chi, come il coniglio di Alice nel paese delle meraviglie batte il tempo, perché sa di non averne più a disposizione, o perché i mercati e le nuove tecnologie stanno reinventando il nostro futuro planetario, e bisogna adattarsi, ma è il punto di giunzione e saldatura di tutto questo, insieme al tempo perduto di una storia spezzata, voluta a metà. La retorica del caos ci deve indurre - allora - a superare l’illusione che si possa uscire con facilità da questi contorti processi tracciati da chi agisce non in nostro nome o che basti semplicemente ripensare o riformulare le vecchie istituzioni di potere o le categorie cognitive. Un autentico cambiamento sarà possibile solo rimarcando la profonda differenza con pratiche diverse, divergenti atte a creare cortocircuiti nelle retoriche delle politiche maggioritarie e a dare vita a pensieri creativi di vita. Poiché, come sosteneva la Arendt la cattiva politica non si combatte e trasforma uscendo dalla politica, ma con una nuova politica. E se, come io credo, la politica è vita, non basta domandarsi soltanto che cosa è la politica, ma piuttosto che cosa è la vita. Senza con ciò riproporre una nuova filosofia vitalistica, ma semplicemente - in quanto filosofia - porre interrogativi. 75 n.14 / 2006 Quanto vale la vita oggi? Quanti “genocidi” e azioni affini, avvengono sotto l’egida dell’ONU? I dati degli “embarghi” imposti a molti paesi, secondo l’Unicef, sono sconvolgenti, provocano la morte di 3 bambini al giorno. Rwanda, Darfur, Bosnia, Guerra del Golfo, Afganistan, Iraq, Palestina enucleano le cifre della crudeltà, delle mille morti quotidiane alle quali assistiamo impotenti come in queste ore, dinanzi all’ennesima crisi in medioriente e all’offensiva demenziale sul Libano. Quindici anni di ricostruzioni spazzati via in pochi giorni. Dappertutto a morire sono sempre i civili. Se la politica è governo, è un farsi carico della vita per tutelarla, chiediamoci, allora, di quale vita parliamo. Chi è responsabile politicamente di tutto ciò. Qui, le politiche tacciono, ma non le loro tattiche e le loro armi. Tutto è fuori controllo. Tutto è nel caos. Ma non si ha forse la percezione di un caos organizzato e programmato? Proviamo a chiederci perché vediamo la nuda vita, la vita di migliaia di uomini, donne e bambini esposta alle necessità delle economie mondiali, subordinata alla sopravvivenza degli apparati militari, delle burocrazie chiuse nelle stanze con l’aria condizionata, alla crescita degli utili delle multinazionali, delle banche, agli elaborati programmi di risanamento del debito, ai Pil nazionali. Debiti dei paesi poveri al di sotto delle soglie di sopravvivenza, che secondo N. Chomsky dovrebbero essere cancellati solo perché “odiosi”, perché contratti da élite di potere senza scrupoli, non dai poveri ai quali si richiede il pagamento. Perché vediamo la vita delle strutture e delle sovrastrutture prodotte dalla civiltà dipendere dalle nude vite di migliaia di popolazioni, di flussi di diseredati, di destini senza destinazione. Perché senza la rottura e la perdita dei loro ecosistemi, senza gli ecocidi, senza il sacrificio della loro carne, senza il bombardamento e la distruzione sistematica delle loro case, dei loro corpi, delle loro vite, l’economia mondiale non cresce e il benessere “non negoziabile” dei paesi ricchi non è tutelato? Non di banalità del male si può più parlare, ma di cinismo, di puro e freddo calcolo imposto con la violenza delle nuove tecnologie e delle retoriche discorsive. Il cinismo e l’efficienza degli zelanti Eichmann, oggi nella versione manageriale delle 76 tecno-burocrazie che razionalmente applicano “decisioni” prese in nessun luogo o in luoghi riservati e ristretti di biopotere. Potere che si dispiega in tutte le sue potenzialità e virulenze, sostenuto dalle retoriche umanitarie, dalle inutili declamazioni del diritto internazionale, dalle false difese dei diritti umani, contro le “finte” ingerenze, contro le artificiose violazioni delle sovranità, dalle chimere del falso progresso. Un potere ammantato da una cortina di ipocrisia, di affettato self-control, di apollineo rigore. Com’è offensiva la violenza esercitata dalle conferenze stampa dei portavoce di governo, dei dipartimenti di stato, pronti a pronunciare discorsive finzioni, ad eiaculare fiumi di parole che non spiegano niente. Palpabile la loro indifferenza mentre trattano la nuda vita dei popoli, davanti a telecamere inchiodate sui loro volti e a giornalisti muti. L’indifferenza di sedicenti giornalisti inviati in ogni angolo del pianeta per raccontare quello che vedrebbero standosene seduti alle loro scrivanie; l’indifferenza nei confronti della nuda verità. E’ questo il volto produttivo del potere di cui parlava Foucault; un potere ubiquo la cui pluralità e multidimensionalità virtualizza ogni responsabilità. Di phony war o dròle de guerre, la guerra irreale e virtuale, aveva parlato Adorno, e della tendenza fascista a respingere come pura propaganda la realtà dell’orrore, affinché l’orrore stesso si attuasse senza incontrare obbiezioni. Ma l’orrore è reale (ADORNO, 1994). Oggi, al contrario, la propaganda usa l’orrore per rendere più irreale la morte. Morte virtuale di una guerra reale. Così la morte viene esibita e resa visibile a tutti attraverso immagini che scorrono sui video del mondo. Ma quanto più è virtuale la morte, tanto più sono annullati gli effetti e ancor più le cause, compresi i mezzi, che la procurano. Si pensi alle bombe su Belgrado e al disastro ecologico, a Falluja e alle polveri bianche, all’uranio impoverito che ha causato migliaia di vittime, comprese le morti dei militari americani e italiani che le hanno adoperate senza le dovute precauzioni. Decine di testimonianze e registrazioni filmiche lo attestano, ma le autorità militari e civili lo negano. Come sono (in)differenti gli atteggiamenti che si generano davanti a quelle immagini, come sono Santa de Siena precisi e calibrati gli effetti della propaganda. Ci sono coloro che vedono come reale la morte e virtuale la guerra, e disapprovano la politica di dominio degli apparati politico-militari che la determinano; e ci sono coloro che, invece, tendono a virtualizzare la morte nella propria mente e vedono come reale soltanto la guerra, giustificandone ogni controffensiva utile a disinnescarla. Ma essi ignorano che la politica della guerra vuole l’escalation, alza sempre di più la posta in gioco, esige la morte per dimostrare la sua difesa della vita. Perché non avviare la nostra macchina riflessiva per svelare tanta violenza e cinismo e crudeltà? Forse perché gli asimmetrici dispositivi comunicativi ne impediscono la denuncia? Forse perché la loro alleanza col biopotere si dispiega con tutta la loro forza e capacità di produzione ideologica e non consente a nessuno di denunciare alcun genocidio? Tutta la politica riduce la complessità delle dinamiche riconducendo le cause del contendere a singoli aspetti dei problemi: li smembra, separa, scinde per meglio dissolverli; è sufficiente di tanto in tanto criminalizzare qualcuno per soddisfare un bisogno di giustizia ed equilibrio. E’, infatti, espressione tipica della cultura politica del biopotere affrontare in modo scisso e separato i problemi, di non riconoscerne la complessità. Riconoscere, invece, il volto collettivo e non individuale dei problemi planetari non più legati a singoli responsabili di turno, dei crimini commessi contro l’umanità, come S. Hussein, Milosevic, Bin Laden ecc., è un primo passo verso una politica altra. Non è accettabile che dopo anni e anni di massacri, di stupri, di violenze e di volgari politiche guerrafondaie, si cerchi il colpevole additandolo come il solo responsabile, oppure, lo si costruisce virtualmente quale nemico - invisibile o visibile all’occorrenza - per avviare il finto balletto della ricerca del tavolo dell’accordo con i tempi lunghi della diplomazia, e predisporre, in tal modo, lo spettacolo della macchina di pseudo-giustizia internazionale pronta a sanzionare i delitti. Perché non vediamo gli attuali dispositivi del biopotere dispiegarsi con tutta la loro capacità di produzione ideologica attraverso l’alleanza criminosa con l’intero apparato mondiale dei media sempre pronto a ricostruire lo stesso ordine del discorso Biopolitica contro biopotere condannando e assolvendo - a seconda dei casi giustiziando fuori dalle aule dei tribunali e appellandosi ad altre leggi: quelle del dovere di cronaca. Un impero mondiale dei media sempre unanime e concorde nel non riconoscere mai alcun luogo delle responsabilità, a decontestualizzare scenari ed effetti, a ignorare con precisione ogni riferimento causale, a non pronunciare mai la parola chiave: genocidio. A tal proposito osserva Dal Lago, sarà forse un giorno il sistema mondiale della comunicazione, insieme ai reali responsabili, chiamato a rispondere sul banco degli imputati, all’accusa di genocidio, perché corresponsabile e reo di aver taciuto?(DAL LAGO 2 ). Le prove, le informazioni che pure potrebbero essere fornite vengono rivestite, ammantate di incertezza, di non fondatezza, nel gioco della comunicazione senza informazione, fatto di rimandi, rimbalzi e smentite, niente è mai vero, ma sempre provabile: tutto è vero, perciò tutto è falso (PERNIOLA, 2 4). Violenza, stupidità, cinismo svelano il volto di un potere dei senza-luoghi, ubiquo, informe, anonimo, poliedrico, plurale, diffuso e replicabile – allo stesso modo e con le identiche strategie - ad ogni livello, piano, ordine del discorso, ma capace di dare la morte. Ma che cosa produce in realtà, a fronte di tanti costi umani, questo potere virtuale, inafferrabile, inesistente che non abita alcun luogo? Produce quel potere di controllo sulla vita ed espropria le ricchezze del pianeta, getta le sue mani sulle fonti vitali, sulle vite degli uomini e delle donne, sulla biodiversità appena salvata, sulle nicchie di bios sopravvissute agli scempi ambientali, alle deforestazioni. Tutto questo ha un solo nome ed è biopotere, cioè il potere di dare la morte alla vita. La politica dei “senza luoghi” è dominata dall’insensatezza e dalla stupidità da un potere che allo stato attuale ha come unica possibilità di crisi la incapacità di tenere a freno la sua stessa stupidità devastatrice (DAL LAGO, 2 3). L’assunto schmittiano della pace quale episodio di una guerra senza fine, se rivolto alla storia dell’intero pianeta, rivela tutta la sua straordinaria ambivalenza. La moltiplicazione dei conflitti, delle ten- 77 n.14 / 2006 sioni, il gioco perverso delle ritorsioni, la loro riproduzione a livelli diversi, pluralizza anche i piani degli effetti, dei coinvolgimenti, ne maschera i tempi, altera la durata dei processi. Tutto è volto a consolidare così una condizione di pace che non è pace e di guerra che non è guerra: la guerra senza luoghi si replica a distanza, si combatte con i media, si esercita con la finanza, si cristallizza in conflitti interminabili, freddi, potenziali, diffusi, impliciti, anche non identificabili come tali. Come le guerre dell’acqua, fatte per il controllo di questa fondamentale risorsa, che stanno devastando interi territori e impoverendo migliaia di contadini inermi, fatte passare agli occhi del mondo, come guerre tribali, religiose e interetniche (SHIVA, 2 4). A questo punto una riflessione semantica si impone, perché continuare a chiamarle guerre, se non ci sono eserciti e a morire sono solo i civili? Non occorre forse modificare questa nozione e darle un altro nome? Perché non ha alcun senso definire guerra qualcosa che non è né militare, né civile, né economica; ciò non solo alla luce degli effetti sulle persone, sugli esodi di massa, sugli stermini programmati ma privi di strategia, sugli ecocidi, sui delitti contro l’ambiente che provoca. Sono ancora troppo vivide le immagini dei bombardamenti su Belgrado, Monstar, Bagdad, Palestina, dove bastava una bomba per distruggere le centrali chimiche, ma ne furono gettate a centinaia. A quel punto non si trattava più di un crimine contro l’umanità, ma sull’intero ambiente, contro la vita stessa del pianeta. Guerre che non sono più guerre non soltanto per i mezzi con cui si combattono, giuridici, finanziari, tecnologici, ma soprattutto per i soggetti che le praticano, che hanno il potere di deciderla e produrla. Non sono più gli stati sovrani a dichiararla, ma entità sopranazionali che nessuno ha eletto, non soggette ad alcun controllo, né di tipo politico, né morale, né giuridico, sfuggenti agli schemi logici, politici e militari tradizionali. Campi di battaglia sono diventati i terreni agricoli presi d’assalto dalla Rivoluzione Verde, prima, e dalla Rivoluzione genetica, poi. Gli input di origine industriale imposti alla agricoltura tradizionale con le monocolture si sono tradotti in una crescita dell’industria agrochimica e dell’uso indiscriminato di 78 combustibili fossili. Ma, osserva la Shiva “questo maggiore consumo di tossine e di energia da parte del settore agricolo non si è tradotto in maggiori disponibilità alimentari”, come si sosteneva. Poiché il sistema di valutazione della produttività è diverso se misurato in termini di costi e benefici, senza considerare la sottrazione di biodiversità e di impoverimento delle varietà, ma guardando soltanto alla “resa” produttiva. “Miglioramento” dal punto di vista delle corporation, o della ricerca occidentale, significa molto spesso “perdita” per il terzo Mondo, e in special modo per i più poveri (SHIVA, 2 1, p. 118). Allo stesso modo porre sul piano normativo i problemi inerenti le questioni dei flussi migratori significa falsificare con le armi del diritto le realtà delle guerre. Così in quanto cittadini, da un lato, subiamo l’inefficacia delle politiche di integrazione, di solidarietà internazionale e, dall’altro, subiamo l’efficacia delle retoriche migratorie, poste in eterno conflitto con le politiche dell’ordine e della sicurezza. E mentre il potere economico si mondializza, quello politico soggiace alle logiche del mercato, imbraccia le armi e l’elmetto per difendersi dalle invasioni pacifiche; l’immigrato diventa una merce, e come lo yougurt e le armi, acquista un prezzo, un tempo di vita con la data di scadenza. In passato a tutti era concesso il diritto a sfuggire al destino di miseria, come dovrebbe essere un diritto di tutti ad esserci con dignità nella storia dell’umanità. E’, infatti, nello stile del biopotere negare l’evidenza di una legittima esigenza, per migliaia di persone, di sfuggire al destino di vita-morte assegnato loro non da presunte forze naturali, ma da politiche predatorie, da una precisa e specifica organizzazione economico-produttiva del lavoro, da una particolare articolazione dei poteri, dalla assenza di politiche sul piano internazionale e di contro da una sovrabbondante presenza di controllo sul piano territoriale. Quante sono le morti civili delle non-guerre? Non si contano più. Come non si contano le cifre che enumerano le morti dei migranti nell’attraversamento dei confini. Mentre le Guerre dei simboli come giustamente le chiama Annamaria Rivera (2 5) traducono queste Santa de Siena tragedie umane in “emergenze migratorie” per poterle così affrontare in termini di “stermini burocratici e industriali” di massa. Secondo Dal lago, la sospensione dell’ordinamento giuridico normale, in un sempre maggior numero di luoghi (stadio di Bari, Hotel Arcades a Roissy, Abu Graib, Guantanamo, San Foca, Lampedusa), rievoca - senza indugi - i passati totalitari e le atrocità che allora si commettevano. Crudeltà che non dipendono dal diritto, ma chiamano in causa il grado di civiltà e di sensibilità etica di chi può esercitare, in quello spazio, funzioni di polizia e reclusione (DAL LAGO, 2 ). Di fronte a tali problematiche questioni la posta in gioco è ben più alta della semplice crisi della politica degli stati-nazionali, e se presa sul serio mette in discussione lo stesso concetto di “cittadinanza”, lo stesso impianto teorico su cui sono stati poggiati i diritti umani, la funzione primaria delle stesse istituzioni. Pone e perciò impone la stessa ridefinizione del giusnaturalistico diritto, quale diritto alla vita, ai corpi, alla carne, a tutto ciò su cui troppo spesso lo sguardo è sistematicamente divelto. Ma accresce anche il rifiuto, il rigetto delle verbose retoriche maggioritarie che fanno giustamente gridare Perniola, Contro la comunicazione (2 4), e Zizek, Contro i diritti umani (2 5), quale estrema ratio contro l’eccesso e la mancanza di pudore. Accade così che di tante politiche non c’è alcuna politica in grado di fare nascere la vita. Mentre la vita è sottratta alle sue possibilità di essere, esperti scienziati dominati dallo spirito prometeico di creare la vita al maschile tentano di produrla nel chiuso dei laboratori, in ambienti sofisticati, asettici, sistemici separati, senza bios. Entrano nei geni, modificano gli embrioni. E mentre una nuova matrice biologica si sta ricreando in laboratorio al di fuori e a là di qualsiasi controllo, la politica di potere si moltiplica, dilaga, si deterritorializza, evade dai compiti e dagli ambiti suoi propri, emigra dai parlamenti, dalle istituzioni sovrane, si dissolve per i cittadini, si decompone per le moltitudini, si tecnicizza per gli amministratori ed esce fuori dai sistemi di controllo, dalle regole descrittive e prescrittive, dai regolamenti, dalle procedure, per riapparire e riappropriarsi prepotentemente del territorio, Biopolitica contro biopotere per difenderlo dal terrorismo, dai fondamentalismi, dalle minacce e dai pericoli batteriologici, per inchiodare - ancora una volta - i nuovi sudditi per terra, e spremerli fiscalmente, per sostenere gli esosi costi dei suoi apparati, e riaffermare il principio del potere ad avere potere, a marcare la distanza di classe tra governanti e governati, tra sudditi e cittadini, tra élite aristocratiche e popolo. A riappropriarsi di nuove forme di controllo sulla vita, mentre - in verità - la vita muore. Spetta a noi riconoscere i dispositivi attraverso cui si ri-producono oggi i meccanismi della società disciplinare, per usare una felice espressione di Foucault, su cui si esercita il controllo dei costumi e degli stili di vita, delle pratiche e delle credenze nel tempo della complessità. Svelarne le retoriche ricorsive, con cui si giustifica l’impotenza e si mistifica la verità, si manipola il linguaggio con torsioni semantiche, come la guerra umanitaria, l’emergenza dei profughi, dei clandestini. In cui ridicoli funamboli si abbarbicano per fornirci stupide spiegazioni in politichese. Un gioco risibile al quale purtroppo non si sottraggono neppure le donne che ormai potrebbero scrivere interi manuali ad uso delle emergenti candidate o su come sopravvivere ad una sconfitta elettorale. Uscire dalla caverna platonica della rappresentazione ideologica della realtà, nella quale siamo tutti immersi, e scavare sotto questa coltre di polveri mediatiche che ricoprono le economie e le politiche mortifere, è un dovere morale della filosofia politica e della teoria del diritto, per fare emergere i limiti, le distorsioni, le mistificazioni che si celano dietro le rappresentazioni e le retoriche abusive delle democrazie rappresentative, che in nome del diritto esercitano nuove forme di potere e di dominio. La stessa politica dei diritti umani finisce per diventare mera retorica senza una efficacia pratica degli organismi internazionali; se non sono in grado di evitare i genocidi dei viventi, di distruggere gli ecosistemi e depauperare le risorse in nome di uno sviluppo impossibile. Purtroppo l’eccessiva fiducia nelle garanzie formali ci rende ciechi e disimpegnati di fronte alle violazioni sistematiche dell’ambiente e alla sospensioni dei diritti di fatto. Per questo occorre riapprendere a cogliere la distanza, la differenza liberata dalle retoriche della 79 n.14 / 2006 politica maggioritaria, tra la riproduzione e riproposizione esponenziale e fittizia dei problemi e la Politica concreta e Vitale dei mondi; sottrarla cioé alla strategia della propaganda e della politica dei più fronti, ossia quella precisa tecnica di far emergere e proliferare più conflitti per farli esplodere contemporaneamente; quel modo di generare una crisi appresso all’altra, creando un generale stato di emergenza permanente, quel preciso caos che rende necessario un ordine, purché sia. Occorre mettere in atto quella differenza liberatoria che ci emancipi e ci insegni a distinguere quelle surrettizie questioni finalizzate a disorientare e a creare il caos, a gettare nell’informe, nel panico. Affinché di fronte al caos non si imponga l’ordine, ma una nuova organizzazione che sappia sfidare la vita. Il paradigma di dominio maschile in verità ha sempre sfidato se stesso e la vita da esso stesso creata, ma occorre anche precisare che, se da una parte ci sono state forme organizzative nate per garantire e armonizzare le condizioni sociali, dall’altra si sono accresciuti sempre più i dispositivi non solo di controllo, ma di corruzione e devianza degli stessi. Con la compartecipazione molto spesso anche di quelle élite giunte al potere col preciso scopo di sconfiggerle e che oggi non hanno difficoltà ad allearsi con qualsiasi forma di organizzazione anche criminosa. Un aspetto eclatante è, infatti, la facilità del riciclaggio del denaro sporco e l’aspetto ormai “legale” di tante pratiche finanziarie. Ne consegue una sempre maggiore difficoltà nel distinguere le azioni legali da quelle illecite, saldando insieme in una unica società criminal-legale tutte le componenti che si intrecciano in modo indissolubile. Quel che è certo è che non si sta realizzando la “via” migliore alla mondializzazione. Ma ci sono tante diverse forme di mondializzazione. E’ indubbio che l’ordine e l’organizzazione facciano parte della logica del vivente, a qualsiasi livello del sistema. Ma non quando il mercato, che da sempre è retto dal principio del dominio “fa” la “sua” legge - come giustamente afferma de Maillard (2 2) - e quando le organizzazioni economico-finanziarie, come quelle criminali tendono a colmare ogni vuoto legislativo autolegittimandosi e ad affrancarsi, deterritorializzandosi, dal con- 80 trollo degli stati. C’è anche qui, tutta intera la crisi dello Stato-nazionale, ravvisabile nel carattere antisociale del crimine e della sua impossibilità a perseguirlo. E come accade per le responsabilità politiche negate dei genocidi, dei crimini contro l’umanità e l’ambiente, ricercate soltanto nel singolo piuttosto che in sistema ampio e diffuso; allo stesso modo anche per il crimine organizzato si trascura l’aspetto ambientale. La condanna del singolo atto criminoso rivela proprio la debolezza e l’insufficienza strutturale dell’impianto giuridico moderno basato sulla responsabilità individuale dell’atto delittuoso. E’ del tutto evidente che una penalità centrata sull’atto soggettivo era adatta ad una società individualistica, semplice e localizzata, che prestava attenzione agli atti commessi dai singoli e sanzionabili civilmente e penalmente oltre che socialmente , ma sempre e contestualizzati in un preciso luogo e connessi ad un preciso comportamento. Al contrario oggi la maggiore difficoltà è propria quella di definire la localizzazione e l’ampiezza dei processi corruttivi, la loro incisività e penetrazione nelle più ampie sfere dell’economia, finanza, politica, ricerca. E’ proprio questo carattere diffuso ed invasivo che ne muta completamente lo scenario. I dati relativi a questi fenomeni registrano, per esempio, come le modalità di formazione del plusvalore e delle strategie di potere abbiano raggiunto forme talmente generalizzabili da non potere più essere sanzionabili in un luogo, perché ormai di portata planetaria. Il mercato più florido è, infatti, diventato quello della Legge, il luogo in cui la asimmetria giuridica è più evidente. Non solo a causa dei vuoti legislativi, ma soprattutto a causa dell’uso privatistico del diritto. Le contraddizioni tra leggi che liberalizzano e leggi che vietano è incontrovertibile. Per cui libero è chi ha accesso alla Legge. Un primo aspetto di tale diritto alla libertà è quello di poter fissare il prezzo delle merci (armi, droga, petrolio, farmaci, ecc.), di chi opera cioè in regime di monopolio. A fissare questo prezzo sono i trafficanti. E’ il caso delle droghe: tanto più sono proibite, più cresce il loro valore di scambio. Lo stesso vale per il petrolio, per i traffici d’organi, per il turismo sessuale, per i conflitti tribali dove il traf- Santa de Siena fico di armi si coniuga con quello delle droghe e dei preziosi che a sua volta alimenta i conflitti, che a loro volta arricchiscono e rafforzano le organizzazioni malavitose. Il mercato dei diritti è il più proficuo e le politiche proibizioniste ne facilitano i profitti ad essi collegati. Ciò vale per il mercato dei rifugiati e degli esodi di massa, un business talvolta provocato e appoggiato dalle organizzazioni umanitarie, come per le piazze finanziarie Off-Shor, giuridicamente definiti “paesi in territori-non-cooperativi”, una sorta di stati spesso appendici più o meno artificiali dei grandi paesi industrializzati. Sono tutti esempi in cui anche la legge è diventata merce, un valore commerciale in vendita al maggior acquirente non più soggetta neppure alla vecchia logica di mercato della domanda e dell’offerta, perché quella non si adoperava con mezzi così insidiosi nel generare la domanda. Ma la guerra è sempre la guerra! Certamente, ma quel che si tenta di dimostrare non è che in passato le guerre fossero meno distruttive o crudeli, oppure generate per motivi più nobili e giustificabili; quanto registrare il mutamento all’interno dello stesso paradigma del biopotere, e cioè che oggi è il sistema produttivo economico e finanziario e non gli Stati ad avere interesse a procurare guerre e conflitti, stragi e rifugiati, nel segno inverso al capitalismo tradizionale: consumare per produrre, distruggere per ricostruire. La tendenza alla decontestualizzazione delle attività rende indefinibile la loro natura, legittimando le pratiche criminali e non, le quali non più sanzionabili in base ai vecchi codici. Tantissime ormai pratiche illecite diffuse rientrano nelle “normali” modalità di funzionamento dei sistemi. Ma riconoscerle significa prenderne coscienza e implicitamente comprendere la particolare natura della crisi centrata sullo stato, quale fulcro dell’organizzazione sociale, politica, economica e giuridica. Dell’esaurirsi della dinamica strutturante dello Stato regolatore. Come la pretesa, da parte di uno Stato, di estendere le proprie norme nazionali sancite dal Patriot Act ad altri stati; una realtà che mette in questione la moderna concezione del rapporto sovranità-terrirorio, la relazione potere-spazio, ma anche la Biopolitica contro biopotere relazione potere-tempo, e attiva, invece, la pratica degli illegalismi. O come la reclusione forzata e la repressione preventiva praticata a Guantanamo in nome di una lotta al terrorismo, fatta con i metodi del terrore, che sembrano essere stati emanati dalla legislazione nazista della Aschutzhaglt, per l’internamento degli ebrei nei lager, la cui base giuridica pare risalga alla legislazione prussiana. Accade anche, in barba a tutti i propositivi di difesa della democrazia e della libertà, di praticare il sequestro di alcuni Ministri di uno Stato sovrano, di arrestarli nel silenzio della comunità internazionale. Sovranità nazionali che subiscono gli attacchi di servizi segreti stranieri al loro interno fino al punto di fare scomparire imam e persone, sottraendole alle autorità giudiziarie nazionali. Appare sempre più evidente come la democrazia non sembri essere affatto una necessità irresistibile, poiché essa scaturisce da processi storici in cui stragi e stati d’eccezione, hanno svolto un ruolo determinante. Ma significa anche domandarsi a che cosa servano le istituzioni così concepite e in che modo riorganizzarle per renderle adeguate ai problemi posti dai nuovi scenari, ma in una prospettiva nuova. Si tratta, infatti, di comprendere l’inadeguatezza delle strategie d’intervento e di risoluzione temporanea e separata dei problemi. Ammettere che il valore della libertà non è negoziabile con alcun altro interesse, meno che meno con quello del benessere. Ma oggi vediamo come, invece, il passaggio dalla società dei consumi a quella dei servizi traduce ogni forma di libertà in valore economico, nel neoliberismo delle merci, beni, capitali che possono circolare in ogni luogo e direzione, tranne le vite delle persone. Tutto ciò non è forse legato a questo preciso modo di essere dei sistemi di dominio? La pluralizzazione delle forme di razionalità svela i mille volti dell’umano inspiegabili con la visione singolare e monocratica della Ragione. Con essa svanisce l’idilliaco scenario dei possibili descritto dalle filosofie del primo novecento nel quale il singolo era ancora in grado di progettare se stesso; ed anche se diventato multiplex, o forse proprio per questo, è sempre più alla mercé delle evoluzioni del mercato, delle tecnologie, divenendo ciò che le sue “circostanze” - direbbe Ortega - gli permettono di 81 n.14 / 2006 essere. Niente affatto ciò che vuole essere! Il programma neoliberista non consente a nessuno di autoprogettarsi senza un cospicuo conto in banca. E quel progetto, mentre da un lato nega allo Stato il suo ruolo di incarnare gli interessi e i valori di una collettività sociale; dall’altra, attiva una passiva accettazione dell’esistente, che ci induce a credere nell’unica rappresentazione possibile: che il nostro progresso è possibile solo accentando il regresso degli altri. Il nostro presunto status di cittadini del mondo ci consente di vivere la nostra dimensione sociale borghese ignorando il resto del mondo sottoproletarizzato. Ora che noi occidentali siamo diventati l’aristocrazia planetaria siamo allo stesso modo insensibili - nelle nostre condizioni di dorata libertà - sia alle sofferenze che al dolore degli altri. Ecco che la biopolitica può avere inizio da qui. Da questa presa di coscienza. Incominciando a “renderci conto“ del dolore dell’altro quale persona degna di vita, delle inutili sofferenze e ferite inflitte agli altri esseri viventi; soltanto sentendo le tonalità della nostra indifferenza, possiamo ri-conoscerci nella nostra violenza e attivare la nostra relazione empatica verso la vita del cosmo, e iniziare a trasformare noi stessi. Per apprendere a ri-nascere in-sieme con gli altri e farci sentire e vivere politicamente la densità della vita. Poiché come sostiene la Stein riconoscere l’altro è un atto di empatia, che mette in moto dispositivi immaginativi con i quali allargare gli orizzonti di comprensione e arricchire la nostra esperienza di vita. Trasformare il paradigma della conoscenza in paradigma dell’empatia significa accrescere le nostre sensibilità umane, le nostre capacità e potenzialità vitali con tutto il nostro essere. Di comprendere quanto inutili e disumane siano le sofferenze inflitte al genere umano e all’ambiente e di apprendere, così, a coniugare le sensibilità femminili e maschili insieme. Sentire empaticamente il dolore degli altri, svestiti, denutriti, sventrati e lacerati nelle carni, non significa conoscere nel senso del sapere, dell’essere “informati”, ma sfuggire proprio a quel gioco men- 82 tale di ricostruzione dell’altro soltanto con la mente, al quale - purtroppo - la nostra cultura dissociativa ci ha educato. Entrare nel suo orizzonte di senso e vivere, spostando lo sguardo, ponendoci al suo posto, provando a vivere la sua vita nel modo in cui è costretto a vivere. Sentire la sua umiliazione, percepire tutto il suo terrore; come quello dei detenuti nel carcere di Guantanamo ed Abu Graib. L’immagine agghiacciante del terrore negli occhi di quell’uomo, non di uno in astratto, messo in ginocchio di fronte al cane, è la materializzazione vivente del terrore di Wiston nella famosa distopia che Orwell si era solo limitato a immaginare. Sentire sulla propria carne il dolore, leggere il dolore sul suo volto rappresenta un intensificazione del vivere, e questo in fondo è come “vivere una nuova vita all’interno della nostra vita” (BOELLA, 2 6, p.72). BIBLIOGRAFIA ADORNO W.T., 1951, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschadìgten Leben, Surhrkamp Verlag, Frankfurt am Main; trad. it.. 1994, Minima Morali. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Milano AGAMBEN, G, 1996, Mezzi senza Fine. 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Con trentadue lettere inedite a Widar Cesarini Sforza(*) Focus: Bruno Leoni Nato ad Ancona nel 1913, Bruno Leoni morì ucciso, in circostanze ancora non ben chiarite, ad Alpignano (Torino) nel 1967. Si era laureato in giurisprudenza con Gioele Solari conseguendo 11 e lode e la pubblicazione della tesi, il 2 novembre del 1935; «e inoltre – come ebbe a ricordare Bobbio – nei soli sette anni trascorsi tra la laurea e la cattedra, vinse un concorso per l’insegnamento della filosofia e della storia nei licei (esame particolarmente difficile per un laureato in giurisprudenza)»1. Ottenne infatti la cattedra di Filosofia del diritto presso l’Univ. di Pavia nel 1942, dove insegnò anche Dottrina dello Stato presso la facoltà di Scienze politiche di cui fu direttore e preside dal 1948 al 196 . Fondò nel 195 la rivista «Il Politico», che riprendeva in un certo qual modo gli «Annali di Scienze politiche», nati nel 1928 e poi sospesi per ragioni politiche, e che fu, come ricorda D’Orsi, «un centro di aggregazione di interessi vari, sulla scia dell’intelligenza multiforme di Leoni»2. Esercitò anche con successo la professione di avvocato civilista a Torino. Le testimonianze attendibili di amici e colleghi ce lo presentano sicuro di se, renitente alle fatiche, dotato di formidabile memoria e di grande talento linguistico: dall’aspetto volitivo e dal portamento energico, era tuttavia gioviale, nonostante «un certo fare imperioso ma non scostante». Amava la musica, Bach e Mozart particolarmente, e conosceva a memoria un imprecisato numero di sonetti del Belli che recitava agli amici, comunicando giovialità e allegria. Durante la seconda guerra mondiale svolse il ruolo di buon cospiratore, conciliando la condizione dell’ufficiale dell’esercito regolare e quella del partigiano con l’impegno dello studioso, raccogliendo, in una commistione esaltante, appunti bibliografici e notizie su prigionieri inglesi per portar loro, come poteva, soccorso. Tracce di quei giorni drammatici, vissuti tra le ansie dello studioso che non vuole interrompere le sue ricerche e le incalzanti incombenze della condizione di soldato, si ritrovano nelle lettere a Cesarini Sforza che di seguito pubblichiamo. Così ne ricorda un incontro suo fortuito Bobbio, nella primavera del 1944 a Torino: * Le lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza sono conservate nel Fondo Cesarini, presso la Biblioteca civica “Balestrazzi” di Parma, Busta 7, Fascicolo 1 e vanno dal 31 gennaio del 1941 al 17 dicembre 1961. 1 D’Orsi (2 , p. 157 in particolare). Presso l’Archivio di Luigi Firpo, che gli fu collega a Torino, esiste un Carteggio, denominato Bruno Leoni, con una scheda di presentazione. 2 Bobbio (2 , p. 399). Qualche mese prima, infatti, precisamente nei giorni 28 e 29 gennaio del ’44, si era riunito a congresso a Bari il Comitato di Liberazione Nazionale. Cfr. gli Atti, a cura di A. Bonanno e C. Valentini, Ed. Messaggerie Meridionali, Bari 1944; ma vedi rist., a cura di Tommaso Fiore, Apicella, Molfetta 1964. […] era naturaliter antifascista. La lunga guerra ci divise. Quando l’Italia fu divisa in due sapevo che, come ufficiale dell’esercito regolare, era rimasto dall’altra parte. Non avevo più avuto sue notizie. Un giorno, primavera del 1944, m’imbattei in lui attraversando piazza Solferino a Torino. Io ero uscito da poco dal car- 85 n.14 / 2006 3 Dalla facoltà di giurisprudenza di Torino uscirono intellettuali di grande statura. Per un sommario elenco delle personalità più rappresentative, vedi ancora D’Orsi (2 , pp. 24-25) con rimandi bibliografici. 4 Leggila in D’Orsi (2 , pp. 67 e 198). 5 Vedi soprattutto la lettera da Follonica del 3, 7, 1942 con la quale Leoni risponde ad una lettera in cui Cesarini aveva precisato al suo giovane interlocutore, «con precisione e con perfetta chiarezza, il suo punto di vista la cui premessa [era] la concezione crociana della scienza». 6 Vedi tra gli altri numerosi interventi della stampa, quello di Lorenzo Infantino su «Corriere della Sera», 7 gennaio 2 4, e ancora ivi l’editoriale del 23 settembre 2 3 e l’art. di Dario Fertilio del 12 dic.- 2 1, nonché su «Sole-24 ore» l’art. di Dario Antiseri, e quello di Carlo Lattieri su «Il Giornale», del 28 giugno n. 2 1. Ma già la sua rivista «Il Politico» gli è andato dedicando numeri speciali, quaderni, analisi del suo pensiero e confronti con gli odierni sviluppi della scienza politica, giuridica ed economica. Né gli è mancato uno studio monografico complessivo della sua notevole produzione scientifica (cfr. Masala 2 3), né l’importante raccolta e riedizione di alcuni 86 cere di Verona e tornato nella mia città avevo ripreso le fila della lotta clandestina coi vecchi amici del Partito d’Azione. Come mai da queste parti? Mi disse subito che era stata una fortuna incontrarmi: veniva dal Sud con una missione importante di cui da buon cospiratore, non mi rivelò il segreto. Aveva bisogno di prender contatto col Comitato di Liberazione. Ricordo che gli fissai un appuntamento con un membro del comitato a un’edicola di piazza Statuto. Poi lo persi di vista3. Appartenne alla nuova generazione degli allievi di Solari che lo aveva subito apprezzato perché ben ferrato nella lingua di Kant e perfetto conoscitore della lingua tedesca4. Ma anche Leoni come gli altri allievi era sottoposto alla rigida sorveglianza del maestro che non permetteva di addormentarsi sugli allori. In una lettera a Bobbio del 21 agosto del 1946, Solari scriveva: «Leoni fu assai soddisfatto per la sua promozione. Ma non ho mancato di dirgli che era una promozione di guerra e di non dormire sul fine raggiunto distraendosi ad altri fini non filosofici»5. Piuttosto ai margini della formazione storicistica solariana, seguita poi da Ettore Passerin d’Entreves, Luigi Bulferetti e Luigi Firpo tra gli altri, era soprattutto interessato ai problemi del metodo della scienza giuridica, alla scientificità della giurisprudenza; e, diversamente in questo da Bobbio, tendeva a cogliere quel che di irrazionale segnava la scienza giuridica e le impediva di fondarsi come disciplina assolutamente formale e rigorosa. Frutto di tale sua propensione è il volume del 1942, Per una teoria dell’irrazionale del diritto che, per quanto concepito e scritto sotto la tenda, al campo, tra un’operazione militare e l’altra, resta uno dei suoi saggi più sofferti e originali. E’ proprio in quel lavoro, infatti, che egli mostra già una grande conoscenza non solo della filosofia crociana di cui smaschera il carattere polemico della sua epistemologia e, soprattutto, il concetto di scienza come ancilla philosophiae, cogliendo tutte le contraddizioni della filosofia dello Spirito incapace d’uscire dal diallele di immaginatio e res; ma anche del più avanzato dibattito europeo sullo statuto delle scienze sociali e dei più recenti sviluppi della critica dell’idealismo in Italia, da Cesarini Sforza a Cammarata di cui confronta e analizza il pensiero in relazione al concetto di diritto, di giurisprudenza (cfr. pp. 25-79 e 8 -2 4). Ma è soprattutto in queste sue lettere scritte al maestro, sotto l’incombenza del concorso e tra i disagi del servizio militare in tempo di guerra, che si può seguire la genesi del suo pensiero: la faticosa gestazione del volume scritto dietro un fittissimo dialogo epistolare con Cesarini che gli risponde più spesso in modo sintetico con cartoline ma, come traspare dalle risposte di Leoni, molto incisivo e chiarificatore6. In un certo senso Cesarini gli fa generosamente da spalla; lo stimola alla critica e all’approfondimento delle tematiche su cui si trova ad intricarsi; e sarebbe auspicabile ritrovare non solo quelle sue lettere ma anche le altre di autorevoli interlocutori di quegli anni come il Cammarata, per meglio seguire lo svolgersi e definirsi della personalità di Leoni giurista e filosofo. Dopo un lungo silenzio ingiustificato su di lui, da alcuni anni sembra ritornato l’interesse degli studiosi e della stampa su questa figura di pensatore politico, di giurista e di filosofo tra i maggiori del secolo scorso7. Si è riconosciuto il processo rigoroso attraverso il quale Leoni è pervenuto alla definizione dei concetti di diritto, politica, stato, economia, venendosi a collocare «in una posizione di rilie- Girolamo de Liguori Per un profilo di Bruno Leoni giurista e filosofo. vo negli studi politologici di quel periodo»8; partendo tra l’altro, come mostrano le sue Lezioni di filosofia del diritto del 1949, dalla distinzione sofistica di physis e nomos, per portarsi alla complessa genesi dell’obbligazione in diritto romano e pervenire infine al cristianesimo cui nega un’idea sua del diritto, della politica come dell’economia, in quanto, come è stato giustamente evidenziato, «dai principi del Cristianesimo tali idee non si possono dedurre. Infatti se le religioni dell’antichità classica erano profondamente compenetrate di elementi giuridici, politici ed economici, il Cristianesimo stravolge quest’ordine di idee poiché il rapporto tra Cristo e i suoi seguaci non ha niente di quel rapporto giuridico»9. Il problema della scienza giuridica è centrale nel pensiero di Leoni, e s’impone fin dal primo volume dedicato alla ricostruzione storica di tale questione al testo che è considerato l’opera sua più importante, pubblicata in inglese nel 1961, Freedom and the law . Esso acquista però, nel contesto complessivo dei suoi scritti, una più ampia dimensione, legato com’è alla concezione articolata del concetto di potere. Per Leoni, in una data società, l’ordinamento giuridico riflette la situazione di potere esistente di fatto; in quanto il potere è da sempre diffuso nella società e ogni individuo ne possiede una parte, da una infinitesima ad altra predominante. Scienza politica allora e scienza giuridica si integrano e pervengono a fondare l’idea stesso dello stato: «…il potere è uno status. Non a caso è apparsa la parola “stato”, che designa una determinata situazione più che una deliberazione o un’azione o un’iniziativa; cioè qualcosa che sottende e tutela iniziative di una società»1 . Nemico delle soluzioni facili o di quelle che egli chiamava argutamente «ricerche a lieto fine», rifiutava la soluzione kantiana che fondava la stabilità della conoscenza del diritto come di altri campi del sapere, «non sulla stabilità dell’oggetto empirico ma su quella delle forme del pensiero»11. Egli, dapprima sulla scorta del Kirchmann, va alla ricerca dell’autonomia del diritto nei confronti della scienza, prospettando l’esigenza di una nuova politica legislativa e giudiziaria, sottoponendo a critica serrata tutti i tentavi di costruzione d’una scienza del diritto, da Windsceld a Merkel, a Stein, Lehmann, Stammler e molti altri. Perviene quindi alla sua originale teoria del diritto come pretesa individuale, che formula nel 1959, nel suo volume, Lezioni di filosofia del diritto; e vi perviene nella piena consapevolezza che diverso è il compito del filosofo del diritto rispetto a quello del puro giurista. Perciò rifiuta Kelsen e il suo normativismo in quanto tale premessa lascerebbe fuori problemi come quello della giustizia e quello della utilità delle norme in relazione ai fini propostisi. La complessa e sempre controllata riflessione sulle questioni del diritto e le connese problematiche politiche, fanno l’attualità di un pensatore che merita maggiore attenzione dalla storiografia e dalla dottrina in un tempo, come il nostro, svenduto all’iconografia, all’immagine e, sovente, all’irriflessiva venerazione del vuoto più desolante. suoi fondamentali saggi come, gli Scritti di scienza politica e teoria del diritto, curati da M. Stoppino, e, le sue Lezioni di dottrina dello stato, fino alla lodevole traduzione della sua più importante opera, Freedom and the Law, con il titolo La libertà e la legge, e Introduzione di R. Cubeddu. 7 Marsala 1, pp.281-282). Ma vedi, Leoni, Il Cristianesimo e l’idea di diritto, «Rivista Italiana per le scienze giuridiche», 1949, ora in Leoni (198 ) (2 8 L’opera è stata tradotta in italiano, oltre che in spagnolo e altre lingue (Leoni 1995). Sul pensiero giuridico del nostro, vedi Barberis (1996). 9 Cfr. Leoni (2 , pp. 159 e sgg). Ma vedi l’analisi di A. Masala (2 1, p. 285 in particolare). 1 Così nella breve premessa a Leoni (194 ) 11 Su tale teoria, cfr. l’importante analisi di M. Stoppino, L’individualismo integrale, in Leoni (198 ). Riferimenti bibliografici Barberis, M.(1996), Diritto e legislazione. Rileggendo Leoni, in «Il Politico», LXXIII, n° 2. Bobbio, N. (2 ), La mia Italia, Firenze, Passigli D’Orsi, A. (2 ), a cura di, La vita degli studi. Carteggio Gioele Solari-Norberto 87 n.14 / 2006 Bobbio. 1931-1952, Franco Angeli, Milano Leoni, B. (194 ), Il problema della scienza giuridica, Torino, Giappichelli Leoni, B. (198 ), Scritti di scienza politica e teoria del diritto, a cura di M. Stoppino, Milano, Giuffré Leoni, B. (1961), Freedom and the Law, Nostrand Company, Princeton 1961, trad. it. La libertà e la legge, con Introduzione di R. Cubeddu, Liberilibri, Macerata 1995 B. Leoni, Lezioni di dottrina dello stato, raccolte da F. Boschis e G. Spagna, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino 2 Leoni, B. (2 4), Lezioni di dottrina dello stato, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino Masala, A.(2 1), Bruno Leoni filosofo della politica, «Il Politico», LXVI, n 2 Masala, A. (2 3), Il liberalismo di Bruno Leoni, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino 88 a cura di Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza(*) Focus: Bruno Leoni Lettera I 31/1/41 Illustre Professore, soltanto ora, con molto ritardo, mi giunge, rispeditami da Torino, la Sua graditissima e lusinghiera cartolina che mi accusa ricevuta delle mie modeste pubblicazioni (Il problema della scienza giuridica e Il valore della giurisprudenza ecc). Quasi contemporaneamente ricevo notizia che la prima di tali pubblicazioni, che mi fu stampata a spese dell’Istituto giuridico di Torino, viene ora presentata con speciale relazione alla Reale Accademia delle Scienze a Torino dall’ottimo professor Solari, che ha avuto anche in questa occasione la bontà di incoraggiarmi e di assistermi, come ha fatto sempre fin dagli anni dell’Università . Sono lietissimo che Ella abbia piacere di possedere personalmente i miei scritti: ciò mi fa pensare che Ella li appoggi. Le sarei anzi molto riconoscente se un giorno Ella avesse la bontà di esprimere pubblicamente o privatamente (il mio indirizzo di casa è: Corso Casale 28 , Torino), il Suo autorevolissimo parere su di essi, tanto più che Ella ha sui problemi che vi si dibattono una competenza indiscutibile. Mi permetto di rivolgerLe questa preghiera non per vanità, ma per l’interesse scientifico della questione e per l’importanza del Suo giudizio in proposito. E ciò, sebbene – richiamato da otto mesi – io sia ormai lontano dai libri e dagli studi. Mi creda Suo dev.mo Bruno Leoni Lettera II 25/2/41 Illustre Professore, di passaggio a Torino (Corso Casale 28 ) in breve licenza, ho trovato la Sua graditissima cartolina, nella quale mi annuncia il Suo proposito di occuparsi del mio lavoro sulla scienza giuridica “assieme ad altri scritti italiani recenti che hanno reso di attualità la questione”. Spero di avere presto la possibilità di leggerLa, e attendo con tanto più vivo interesse il suo scritto, in quanto Ella dissente – come posso rilevare da un breve accenno apparso sull’ultimo fascicolo del “Bollettino” – dal punto di vista da me modestamente accennato nel mio lavoro . E a questo proposito, sono troppo indiscreto nel pregarLa di inviarmi qualche numero di 89 n.14 / 2006 detto Bollettino, specie l’ultimo (che più mi riguarda)? Ciò perché, nelle mie attuali condizioni, mi è assai difficile, per non dire impossibile, procurarmelo! (Il mio indirizzo più sicuro è sempre quello di casa). Le sono veramente gratissimo e La prego di credere ai migliori miei sentimenti. Suo Bruno Leoni Lettera III Punta Ala 2-1-42 Illustre e gentilissimo Professore, ho tardato a scriverLe nella speranza, ma dimostratasi vana, di darLe qualche buona notizia circa la stesura del mio lavoretto sulla norma (suggeritomi dalla recente nuova lettura di talune Sue opere) e che Ella così gentilmente mi aveva offerto di pubblicare nel suo pregiatissimo Bollettino. Purtroppo gli impegni di servizio (siamo nuovamente, e inaspettatamente, in corso di trasferimento) mi impediscono di ripulire e condurre a termine il lavoro . Me ne dispiace moltissimo, ma non dispero di portare a buon fine la cosa in un tempo abbastanza breve, naturalmente fidando, più che sulle mie forze, sulla Sua bontà e tolleranza. Vorrei, a questo punto, rivolgerLe una preghiera. Quanto Ella mi ha detto del Corso da Lei tenuto ora all’Università, mi ha vivamente interessato: non dubiti che il Corso medesimo potrebbe essere letto da me con profitto e che probabilmente potrei riceverne qualche [?] suggestione per lo sviluppo del mio modestissimo pensiero sul problema delle scienze . Potrebbe Ella favorirmi qualche indicazione per l’acquisto del volume? Gliene sarò davvero gratissimo. Il mio indirizzo rimane per ora e certo per [altro?] tempo Punta Ala-Follonica (Grosseto) 354a Batteria. Colgo la gradita occasione per ringraziarLa vivamente della bontà e cortesia da Lei dimostratami a Roma e per porgerLe i migliori auguri per l’anno incipiente. Mi creda il Suo dev.mo Bruno Leoni P.S. Il prof. Cammarata, che ho visitato a Trieste, La ringrazia de’ Suoi saluti e promette, se pure sine die, la continuazione del Suo saggio, che egli intende dedicare anche, se ho ben capito, al problema della scienza . Lettera IV 354a Batteria. Punta Ala 13/1/42 Follonica (Grosseto) Gentilissimo Professore, La ringrazio della Sua cordiale e gentilissima cartolina. Ella ha la bontà di sollecitare il mio articoletto… Forse l’avermi visto in borghese Le fa dimenticare la mia attuale situazione, che non è la più propizia alla stesura di un articolo! Per esempio, ora abbiamo un nuovo trasferimento, che avverrà soltanto qui vicino, ma che richiede un lavoro intenso e prolungato per la grande quantità di materiale (baracche ecc.) da spostare e da ricollocare a posto. È vero che l’articolo dovrebbe esser breve: ma anche in poche pagine è possibile (almeno per me) adden90 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza sare un numero eccessivo di sciocchezze, se non si ha il tempo e la calma per pensarci prima… Avevo buttato giù qualche cosa, ma ora mi hanno assalito gli scrupoli. Era mio intento esaminare il concetto di “norma giuridica”, circoscrivendo l’argomento a quello di norma intesa come “regolarità”. Mi prometto di esaminare anzitutto la Sua concezione e, forse in altro breve saggio, quella del prof. Cammarata. Ma per questo sento il bisogno di rilegger parecchie cose e in primo luogo il Suo “Concetto del diritto ecc.” che è stato per me sempre assai pieno di stimoli, ma che, appunto per questo, non riesco mai a ricordare abbastanza . Mi pare che Le avevo accennato a Roma a questi miei intenti: tenderei a considerare la determinazione della vera natura della norma giuridica come essenziale per la risoluzione del problema delle scienze; questo spiega la cautela con la quale vorrei addentrarmi nell’argomento. Le sono gratissimo della Sua offerta di inviarmi il Suo Corso: sarà per me veramente un acquisto prezioso e credo che lo leggerò con interesse non minore di quello che ha sempre suscitato in me la lettura dei Suoi scritti filosofico-giuridici, così [provvidi?] di ispirazioni e così istruttivi per gli argomenti di cui mi occupo. RinnovandoLe vivissimi ringraziamenti, sono il Suo Bruno Leoni Lettera V Bruno Leoni – 354a Batteria – Follonica (Grosseto) 13-5-42 Illustre e gentilissimo Professore, di ritorno alla mia vita abituale di militare, penso con viva, profonda gratitudine alla bontà e cortesia veramente eccezionali che la Commissione ha voluto dimostrarmi, durante e dopo la discussione dei miei modesti lavori. In modo particolare sono grato a Lei, gentilissimo Professore, che mi ha onorato della Sua simpatia, consentendomi anche di esporre liberamente, sul piano dell’oggettività scientifica, taluni miei modestissimi rilievi sulle Sue autorevoli e così interessanti dottrine. Ciò mi è stato di vero conforto, e di incitamento vivissimo per la più difficile prova del concorso, ed ha premiato nel modo più ambito gli sforzi che cerco di compiere in questi studii con crescente passione, a malgrado delle difficoltà molto gravi, impostami dalla mia particolare situazione. Purtroppo, due anni di vita militare, durante i quali sono stato trasferito dal fronte occidentale a quello jugoslavo, ed infine alle coste della Maremma Toscana, sempre in luoghi lontani dai centri di studio e dalla stessa vita civile, hanno spesso interrotto, e comunque rallentato assai, il ritmo del mio lavoro, quando, proprio al momento del mio richiamo, stavo per intensificarlo e svilupparlo in più direzioni. Ma non dispero che di ciò i miei futuri giudici vogliano tenere benevolo conto, ammettendo, accanto alla considerazione del poco che ho prodotto, anche quella di ciò che negli ultimi due anni avrei potuto (sia pure nei limiti delle mie modeste forze) produrre, se non fossi stato chiamato a prestare la mia opera come ufficiale dell’esercito. Ora raccoglierò alcune cartelle – frutto di lunghe meditazioni svolte sul proble91 n.14 / 2006 ma che mi ha sempre interessato, e nelle quali mi ha servito di vera guida la Sua opera di filosofo. Mi auguro che intervenga una proroga dei termini perentori per la presentazione dei titoli, e consentire – come Ella così cortesemente mi accennava – una pubblicazione meno affrettata di questo nuovo lavoro, del quale Le comunicherò quanto prima il piano, che il Prof. Solari già conosce e che ha avuto la bontà di approvare ottenendomene la pubblicazione in una nuova Memoria dell’Istituto Giuridico di Torino . Non dispero di potere, a latere, elaborare in poche pagine, il promesso articolo per la Sua pregiata Rivista. Ma il tempo è così poco!… A Roma, in casa di mio cugino presso il quale ero ospite, trovai le Sue Lezioni nell’edizione 1939 e ne ho ormai ultimata l’interessantissima lettura! Le sarò [però?] gratissimo se Ella vorrà ora mandarmi le Lezioni del 1942, anche perché costituiranno un prezioso materiale per studiare la fase più recente del Suo pensiero sul problema che mi occupa . E Le sarò non meno grato se Ella vorrà segnalarmi quegli altri eventuali Corsi, da Lei tenuti, che abbiano una particolare importanza per l’argomento del mio studio (che sarà forse il primo a considerare ex professo, criticamente, la Sua posizione in ordine al problema della scienza). Mi voglia credere, illustre Professore, il Suo devotissimo Bruno Leoni Lettera VI Follonica – 22.5.42 Illustre e gentilissimo Professore, ho ricevuto la Sua gradita cartolina, ed oggi le Sue tanto desiderate “Lezioni” 1941/42. Le sono profondamente grato per la bontà che Ella ha voluto ancora una volta dimostrami, e La prego di credermi se Le dico che leggerò con grandissima attenzione il Suo Corso, dal quale certo trarrò molto profitto e preziosi incitamenti a riflettere. Ho terminato da qualche giorno la stesura definitiva di un primo capitolo del mio lavoro (che, sebbene debba essere scritto con molta rapidità, rappresenterà, bene o male, il frutto delle ricerche e riflessioni che ho potuto svolgere in questi due ultimi anni). A rileggerlo, mi pare che potrebbe forse stare anche a sé, come saggio staccato, il cui eventuale titolo potrebbe essere “Giusnaturalismo, filosofia del diritto e scienza giuridica” . Vi sostengo la tesi che la decadenza dei diritto naturale nella moderna speculazione del diritto, lungi dall’essere un fatto da lasciar registrare allo storico delle idee, sia in realtà, non solo storicamente, ma logicamente, connessa colla più vasta crisi della filosofia e della scienza del diritto, che datano dall’avvento della scuola storica e che durano tuttora. Infatti, tanto la filosofia quanto la scienza sono tuttora in cerca di una costante “giuridica” da elevare alla storia, e ciò dal momento in cui la costante (comunque atteggiata) della speculazione giusnaturalistica si è dissolta nella Weltanschauung storica. Il pensiero degli ultimi cent’anni si è costantemente applicato a sostituire il prin92 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza cipio regolativo-costitutivo del diritto naturale, su un principio meramente costitutivo, ma senza riuscirvi mai: in questo sforzo si sono avvicendati il giusnaturalismo variamente restaurato nella forma neo-kantiana e lo storicismo non del tutto coerente dei “positivisti” (sensu juridico); miranti, l’uno e l’altro, a riconoscere il valore non più solo apparente della storia, ma anche incessantemente affaticati nel tentativo di evadere dalla storia e in certo senso di dominarla. (Ciò porta a dubitare se sia possibile tener fermo a un principio costitutivo che non sia anche regolativo, per elaborare una vera e propria filosofia del diritto, e d’altra parte a dubitare se, in ogni caso, sia ammissibile una scienza del diritto: se infatti il principio è costitutivo-regolativo, esso esce dalla scienza e dalla stessa filosofia per entrare nel dominio dell’azione pratica; se poi esso è meramente costitutivo, rischia di diventare un puro canone d’interpretazione storica, buono per la ricerca di ciò che gli uomini intesero per diritto nei vari luoghi della terra e nei vari momenti della loro storia, ma non per fondare una scienza del diritto. Ma tutto questo sviluppo non appartiene al primo capitolo). Concludo, inquadrando in questa vicenda della speculazione moderna il problema della scienza: che intendo – per la sua stretta connessione con gli altri in base alla ricerca della costante giuridica – come lo stesso problema del diritto naturale, o della filosofia del diritto, o del diritto tout court, sotto un aspetto particolare. Donde la sua importanza filosofica e la sua vivissima attualità. Questo il capitolo, che occupa (testo e note) ventitré-ventiquattro pagine dattilografate molto fitte, ma che potrebbero diradarsi sfrondando le note, nel caso che il capitolo dovesse apparire anche come saggio staccato. Se l’argomento La può interessare, sarei lieto di sdebitarmi in qualche modo dell’impegno preso quando ebbi l’onore di conoscerLa: e ciò in attesa di sottoporre alla Sua approvazione qualche altro [exsctractum?] del mio lavoro, per esempio quello su “Legge naturale e legge giuridica”. Ad un Suo cortese cenno, potrei provvedere a far fare copia del capitolo per inviarglielo in visione nel caso che Ella preveda come possibile la Sua pubblicazione sul Bollettino di questo libro. In altra mia, mi permetterò di comunicarLe il piano del mio lavoro, sul quale La vorrei modestamente pregare di comunicarmi i Suoi rilievi, qualora Ella avesse la bontà, il tempo di farlo ecc. Intanto Le rinnovo i miei vivissimi ringraziamenti e La prego di credere alla mia profonda stima e alla mia sincera devozione. Suo Bruno Leoni Lettera VII 354a Batteria – Follonica (Grosseto) 1-6-42 Illustre e graditissimo Professore, La ringrazio di cuore della Sua cortesissima cartolina, ed ho già provveduto a spedire a Torino il manoscritto del 1° capitolo del mio lavoro. Poiché la dattilografa è molto abile, credo che riuscirò a farLe avere costì il dattiloscritto entro breve tempo. Nel caso che l’articolo Le paresse degno di pubblicazione, La pregherei di suggerirmi Ella stesso le eventuali soppressioni di note, che si potrebbero rendere necessarie per sveltire l’articolo stesso al fine di risparmiare spazio alla Rivista e 93 n.14 / 2006 … pazienza ai lettori. L’altro [exceptum?] abbisogna ancora di ritocchi, soprattutto perché andrebbe adattato assai più del primo capitolo, nel caso di una pubblicazione separata. Ma spero tra breve di dargliene notizia. Le sono molto grato per la premura che Ella mi dimostra, chiedendomi se intendo pubblicare anche altrove, dato l’imminente scadere dei termini. In realtà l’ottimo professor Solari, che mi segue con affetto veramente fraterno, mi ha offerto di far pubblicare il mio nuovo lavoro come memoria nella serie dell’Istituto giuridico a Torino, e poiché ho già preso gli accordi necessari colla tipografia, non dispero di ultimare la pubblicazione del lavoro, o almeno di p arte di esso, entro il 31 luglio prossimo (termine ultimo per i concorrenti militari). La Riv. Int. Di Filosofia del Diritto non è la più adatta – credo – per pubblicare sollecitamente, perché – se debbo almeno giudicare dalla mia modesta esperienza – gli articoli proposti impiegano molto tempo prima di uscire. E pertanto, nonostante che il Prof. Capograssi e il prof. Battaglia mi onorino della loro benevolenza, non ho creduto di interpellarli in proposito. D’altra parte, mi considero soprattutto in debito con Lei e col Suo Bollettino, ed è per questo che mi son permesso di proporle la pubblicazione di quel primo capitolo. Sto attivamente lavorando, ed ho già quasi ultimato la stesura definitiva del secondo, in cui riprendo e sviluppo alcuni risultati del lavoro precedente. Il terzo è dedicato, grosso modo, alla soluzione del problema della scienza, proposta dalla suola italiana di cui Ella si può considerare il fondatore; il quarto risale all’origine di quella soluzione, ed esamina criticamente la dottrina crociana dello pseudo concetto, di sui si abbozza, nel quinto, una confutazione. Il sesto e settimo capitolo sono dedicati ad un tentativo di una teoria della “scelta”, o dell’irrazionale nel diritto; e vi si sostiene che la materia giuridica non è propriamente razionabile nel senso scientifico (meyersoniano), perché non può essere ricondotta all’identità in cui consistono le leggi della scienza. Le identità della sc. giuridica sono infatti dovute non soltanto alla convenzione (che domina in quelle della scienza), ma dell’arbitrio, in quanto dipendono da una scelta sia in più ampio senso razionale, non si nega; ma che lo sia in senso scientifico, si nega recisamente. Infine, se mi basteranno il tempo e la forza, presenterò forse la “finzione giuridica” come espressione dell’atteggiamento pseudo-scientifico del giurista. Che il lavoro appaia entro i termini, è questione di fatica da parte mia, ed anche di fortuna, perché non posso disporre come credo del mio tempo, e potrei da un giorno all’altro venire impedito di lavorare. La ringrazio ancora moltissimo del Suo interessamento per la mia modesta attività e La prego di credere alla mia vivissima gratitudine, ed alla mia profonda stima. Suo aff.mo Bruno Leoni Lettera VIII 354a Batteria Follonica (Grosseto) 9-6-1942 Illustre e gentilissimo Professore, mi è pervenuto stamane il dattiloscritto del 1° capitolo, che Le ho rispedito per 94 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza espresso dopo averlo ritoccato e corretto. Ho eliminato le note 8, 11, 16, 36, in base ad un criterio di alleggerimento; può darsi che Ella ritenga necessario l’eliminazione di altre note: in tal caso La prego di dirmelo senza riguardi. Nella correzione del dattiloscritto mi è sfuggito qualche errore: a pag. 34 (nota 48 riga 7), anziché: “quasi tutta la metà del secolo…” va letto “quasi tutta la seconda metà ecc.”. A pag. 37 nota 5 riga 6 (dall’inizio della pagina), anziché “assai più larga, complessa e più di tutto…” va letto “assai più larga e complessa, di tutto ecc.”. A pag. 27 nota 34, è stata erroneamente inserita, a penna, nella 3a riga, l’espressione “dai primordi”, che va cancellata. Forse, nel complesso, l’articolo è deforme, perché le note superano di molto l’estensione del testo. Ma volevo dare al testo una linea quanto più possibile semplice, per poter facilitare la visione panoramica degli argomenti trattati e del periodo storico cui mi riferisco. D’altra parte, la materia era così vasta, da imporre una serie di note, per le informazioni di dettaglio e per la trattazione di questioni particolari che non potevano prendere posto nel testo. In questo senso, molte note sono, mi pare, più un’integrazione che una decorazione, e perciò non ho temuto di diffondermi. Nello stendere queste pagine, sentivo di chiarire a me stesso alcune idee (sulle quali peraltro vado ritornando insistentemente nel seguito del lavoro) e può darsi quindi che l’articolo risulti, se non altro, chiaro, o almeno non oscuro. Sono veramente ansioso di conoscere il Suo autorevole parere (che è non soltanto quello di un Maestro in questi studii, ma anche di uno scrittore nel senso pieno del termine) e La pregherei di non risparmiarmi le critiche. Intanto voglia, Gentilissimo Maestro, credere alla mia viva e profonda gratitudine per le non poche premure e cortesie colle quali Ella ha voluto, nello stesso tempo, dare un premio ambitissimo ed un prezioso incitamento ai miei modesti sforzi scientifici. Il servizio in cui mi trovo, mi rende purtroppo simile, ora al “puer” graziano, che “multa tulit” e “sudavit et alsit”... Ma non mi mancano, ancora, né la passione né l’energia per lavorare, poiché non dispero di andare, in questo modo, “à la recherche du temps perdu”, dopo due anni di lontananza dagli studii…. Con quale frutto, non spetta a me di giudicare, ma a Lei e ad altre persone, alla cui benevolenza mi rimetto di buon grado. Coi migliori ossequi, mi abbia, La prego, sempre Suo aff.mo e dev.mo Bruno Leoni Lettera IX 354a Batt. Follonica (Grosseto) 26-6-42 Illustre e gentilissimo Professore, dopo la Sua graditissima cartolina del giorno 9, nella quale Ella si faceva premura di informarmi che Le era pervenuto il mio modesto saggio e che sperava di scrivermi “entrando nel merito” entro la settimana, non ho più ricevuto alcuna Sua comunicazione. Temo quindi che si sia persa qualche lettera o cartolina, ed Ella mi saprà scusare se mi permetto di comunicarLe ora questo mio dubbio, nell’intenzione di evitare che Ella creda invece ad un mio silenzio, come avverreb- 95 n.14 / 2006 be se mi avesse già scritto, e la lettera fosse andata smarrita: cosa, in questi tempi, tutt’altro che improbabile! Desideravo abolire la nota 7 del saggio, e fare qualche lieve variazione in alcune note. Ma prima di proporLe queste mie modeste modifiche, attenderei le Sue fondatissime istruzioni, se il saggio non Le pare da buttar via. Sto attivamente lavorando, sebbene la mancanza quasi totale di mezzi di illuminazione nel luogo in cui mi trovo, mi costringe ora a lasciare inutilizzate 4 ore serali. Risultano già pronte, stampate e impaginate, circa 1 pagine, ed altre 4 sono state licenziate ora. E il lavoro, a quanto pare, non è che a metà. Ho già ultimato il capitolo (il III) sulla “scuola italiana” in ordine al problema della scienza, e di cui considererei rappresentanti tipici Lei e il prof. Cammarata. Il capitolo credo sia abbastanza meditato, anche se steso in tempo relativamente breve. Appena dispongo del dattiloscritto, mi farò premura di inviarglielo, perché Ella – che è direttamente interessata – possa prenderne visione. Mi sono astenuto deliberatamente (o mi sono limitato in proposito al massimo) dall’esprimere, anche là dove vivamente la sentivo, la mia profonda stima per il Suo pensiero, perché ciò avrebbe potuto suonare, specie in queste circostanze, adulatorio. Ma l’aver dedicato molta cura alla Sua dottrina, è il migliore omaggio, e mi pare la migliore dimostrazione di stima, sul piano filosofico. E confido che questo mio atteggiamento stia per incontrare la Sua approvazione benevola. Ancora ringraziandoLa di tutto cuore per la Sua cortesia, e coi migliori ossequi, la prego di credermi il Suo aff.mo Bruno Leoni Lettera X Follonica 3-7-42 Illustre e gentilissimo Professore, permetta anzitutto che La ringrazi di vero cuore per la Sua cortese e amichevolissima lettera, e per l’attenzione che Ella ha la bontà di rivolgere, ai miei modesti pensieri, come dimostrano le Sue domande, le Sue obiezioni ed i Suoi apprezzamenti. La ringrazio poi di aver giudicato il mio capitolo degno di pubblicazione, e convegno pienamente col suo proposito di farlo uscire senza le pesanti note forse poco adatte ad un saggio di Rivista, e certo tali da ritardare il lavoro. Una sola correzione vorrei apportare nel testo, a pag. 3 del dattiloscritto, riga 13 (dal fondo) inserendo, tra i “Presupposti” e il “Concetto della natura” di Del Vecchio anche Il “Concetto del Diritto”, e poco dopo, a riga 11, inserendo tra “mossigli” e “dei fautori” la parola “soprattutto”. La Sua lettera è molto importante e mi coglie, se così posso dire, in pieno lavoro, tanto da studiare ancor più, se fosse possibile, il mio pensiero a definirsi e chiarirsi, tra consensi e dissensi, di fronte all’odierna concezione idealistica della scienza giur. Sarà mia cura di farLe avere le bozze del II e III capitolo, specie del III, in cui spero di avere chiarito il mio atteggiamento (almeno in senso negativo) nei confronti della Dottrina italiana, di cui Ella è certamente l’iniziatore, in ordine al problema della scienza giuridica. Ella delinea ora con molta precisione e con perfetta chiarezza il Suo punto di vista, la cui premessa è, se non erro, la concezione crociana della scienza. Nel cap. III, di cui sopra, ho esaminato, spero 96 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza accuratamente, in primo luogo la Sua dottrina, cercando di dimostrare come essa implichi, in realtà, non soltanto, o non tanto, l’accettazione delle premesse crociane, quanto un superamento di quella, e l’aspirazione a conferire alla scienza un valore teorico (non pratico soltanto, dunque): aspirazione che si manifesta sia col concepire la scienza giur. come autonoma (in quanto riceve la sua legge, per così dire, ab intra, dal suo concetto fondamentale, e non semplicemente, ab extra, dai suoi scopi pratici) sia col tentativo di integrare le dogmatiche (le quali, stando al crocianesimo, non avrebbero bisogno di essere integrate, perché scienze esse stesse a tutti gli effetti, in quanto pongono concettualizzazioni e classificazioni a scopi pratici), sia col richiamo (di sapore sociologico) ai fatti da osservare e da verificare, oltre e al di là delle “ipotesi” espresse nelle norme (richiamo che sarebbe superfluo se la scienza avesse un puro valore pratico, come cerco di mostrare nel capitolo). Più tardi, l’aspirazione alla teoreticità si trasforma, nel Suo pensiero, in aspirazione alla concretezza e il problema delle scienze si trasforma nel problema di stabilire in che consista il momento concreto del diritto (atto normativo) e come si ponga il rapporto di questo momento con quello astratto (proposizione normativa), donde la teoria della proposizione normativa come espressione, o meglio come strumento espressivo della norma. Ma io vedrei in questa trasformazione ancora presenti le caratteristiche del Suo primo atteggiamento, poiché al di là del diritto astratto si tende a vedere il diritto concreto: concreto (teoreticamente inteso, dunque), ma diritto (cioè, ancora una volta, prodotto, o, se più piace, oggetto di scienza): donde il farsi della scienza giur., in certo modo, teoretica, o aspirante alla riduzione e al superamento di sé vede teoreticità del pensiero concreto (Non so se mi sono espresso bene, perché scrivo currenti calamo!). Un altro indizio del Suo abbandono della tesi crociana (che nega il valore filosofico delle classificazioni) è il Suo ritorno ad una valutazione del problema classificatorio in Il problema della scienza; se quello è problema (cioè problema filosofico), la premessa crociana (classificazione = scienza = prassi) è abbandonata. Anche le Sue critiche al formalismo del prof. Cammarata hanno per me la stessa origine: nel Suo desiderio di superare l’epistemologia idealistica (in cui la scienza è forma empirica, pseudo-sintesi indifferente al contenuto storico, e null’altro) per rifarsi ad un quid, che pure è diritto (dunque oggetto di scienza) ma che sta al di là delle forme empiriche, o se più piace, delle contraddizioni pratiche della scienza. Mio intento è appunto di mostrare (il che tento di farlo, analogamente, per lo stesso pensiero del Cammarata, in un modo che sarebbe qui troppo lungo descrivere) come le premesse epistemologiche del crocianesimo siano insostenibili quando si prenda per davvero (come hanno fatto Lei e, con alcune differenze, il Cammarata) a costruire su quelle premesse la teoria di una scienza, considerata come autonoma, cioè rispondente, in primo luogo, a leggi proprie. Ciò mi dà modo di entrare nel vivo dell’epistemologia idealistica, e specie di quella crociana (più originale, credo, di quella del Gentile, che, a differenza del Croce, ha riecheggiato fedelmente la gerarchia hegeliana (scienza–astratto filosofia-concreto, senza preoccuparsi, come fa invece il Croce, della difficoltà che derivano alle scienze – le balordaggini della filosofia della Natura di Hegel insegnano! – e più ancora alla filosofia – costretto a valersi dei concetti empirici delle scienze nell’atto stesso in cui vorrebbe superarli! – del porre tra la scienza e la filosofia una 97 n.14 / 2006 semplice differenza di grado). Il Croce è giunto alla concezione pratica della scienza, non tanto – io credo per influsso della revisione epistemologica (più o meno pragmaticamente orientata, dell’empiriocriticismo tedesco o dell’intuizionismo francese) dello scorcio de secolo XIX, quanto per la preoccupazione (confessata) di garantire l’autonomia del sapere filosofico (storico), mediante un’actio [?] tra sfera pratica (cui appartiene anche la scienza, assieme a tante altre cose) e sfera teoretica (storia-filosofia, nonché, in un primo stadio, l’arte). Ma io cerco di mostrare che questa soluzione è troppo scomoda per essere sostenibile, e che la scienza non può assolutamente separarsi dalla storia, nemmeno idealmente, senza perdere il suo significato e la sua autonomia, in quanto le sue classificazioni non sono classificaz[ioni]. qualunque, da sovrapporsi per un fine pratico alla realtà storica, ma hanno valore proprio in riferimento a questa realtà (classificaz[ioni] che riescono, direbbe il Poincaré: è il riuscire, è l’adeguarsi alla storia dalla quale non possono essere superate senza che la scienza perda la sua ragione d’essere e rimanga come la “maschera” di Fedro che “cerebrum non habet”. Perciò non credo si possa dire, in questo senso, che scienza e storia “vanno ognuna per conto proprio”. La frase newtoniana che Ella mi cita (e che io cito e di cui parlo nel II capo) vale proprio a dimostrare questa aspirazione e questa intima ragion d’essere della scienza: hypotheses non fingo, d’accordo, ma quali “ipotesi” non volesse fingere Newton, le si ricava dall’intero contesto di quella espressione, che è per me fra le più significative per intendere l’operato della scienza, concepita nel senso in cui la intendeva Newton, e, sulle sue orme, Kant. L’“ipotesi” newtoniana non è una “costante ipotetica” ma il substrato non verificabile (e quindi fittizio) della costante verificata (in particolare della costante di gravità) la quale ultima non è affatto considerata un’ipotesi fittizia, ma una realtà: rationem vero harum gravitatis proprietatum ex phaenomenis nondum potui deducete, et hypothesis non fingo. Quicquid est phaenomenis non deducitur, hypotesis locanda est: et hypoteses seu metaphisicae (“concetti problematici”, entia rationis, dirà migliorando la terminologia newtoniana, Kant) seu phisicae, seu qualitatum occultarum, seu mechanicae, in philosophia esperimentali locum non habet[?]. Et satis est quod gravites severa existat (ecco la “costante” tutt’altro che fittizia, per Newton) et agat secundum leges a nobis expositas, et ad corporum celestium et maris nostri motu omnes sufficiat (Principia, Amsterdam 1713, p. 468). In quel severa existat sta tutta la vocazione della scienza, anche se si voglia spogliarla della via (?) realistica e mitica. Toglierla dal dominio [?] che esiste severa, e pretendere che essa concettualizzi comunque e a vuoto, senza innestarsi, anche senza concrescere sul corpo vivo della storia, significa, a mio modesto avviso, concepire intellettualisticamente proprio quell’attività che per il (?) intellettualistici procedere si vorrebbe (??) la sfera teoretica. Tutto allora sarebbe scienza, e non si avrebbe alcuna possibilità vera di distinguere scienza da nonscienza (lo scopo noumenico è in verità troppo, o troppo poco, per garantire autonomia alla scienza nella sfera pratica, come cercherò di mostrare al capo IX. La riprova di questa indissolubilità si ha nella storia, che non esiste (e sfido il Croce a darmi esempi del contrario!) come tale senza le classificazioni e le tipizzazioni che si vorrebbero considerare esclusive della scienza. In ciò che concordo perfettamente con Lei, quando Ella dice che la storia diventa scienza ove si 98 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza parta “non da un fatto nella sua immediatezza, ma da un’ipotesi, ossia da una certa interpretazione o concettualizzazione di un fatto: ora, la storia comincia proprio coll’interpretazione dei documenti (e nell’intervento attivo dello storico in questa interpretazione il Croce vede la garanzia di verità della storia: modo come un altro di ÛÒ˙ÂÈ˘ Ù· Ê·ÈÓÔÌÓ·!): ma in quanto interprete, come Ella acutamente rileva, tipizza, cioè si trasforma in scienza. Ora, io dico, una storia che non interpreta, esiste? E se non esiste, esiste una storia che non sia scienza? Se non esiste, allora resta a vedere se le tipizzazioni delle scienze sono severa esistenti, se cioè riescono, e il problema della storia (vivo anche nelle più moderne teorie storiografiche, se non lo è nel Croce) come conoscenza “vera”, ridiventa scottantissima nonostante … la scodella di acqua fresca che, col suo ricorso alla storia come storia “nostra” e “contemporanea”, e quindi svincolato in certo modo dal “documento”, aveva cercato di versarsi addosso il Croce (già in Teoria e storia della storiografia, ed ora in La storia come pensiero e come azione, e in Il carattere della filosofia contemporanea). Ciò porta al problema della scienza giuridica. Se essa è storica, si tratta di vedere non già se essa opera delle tipizzazioni (ché dovrà per forza operarle, ciò non basterà più a consacrarcela come scienza) in se punta severa existunt, ossia volgono nella realtà, ossia se riescono. Posto così il problema, la risposta non mi sembra dubbia: la scienza giuridica non è scienza, col che non si vuol dire che non sia, come storia, una attività importante ma e [è] indispensabile dello spirito. Ella mi chiede in che senso io veda l’irrazionale nel diritto: e mi propone due significati, entrambi crociani, dell’inizio (irrazionale artistico, inteso come prelogico) lo stesso Croce non ebbe difficoltà, polemizza ad es. con lo Stace, ad accettare il termine; - o l’irrazionale logico, che pure non è – direbbe sempre il Croce – “illogicamente irrazionale” ma è “razionale praticamente” -). È chiaro che io intendo più assai un irrazionale quest’ultimo che non il primo, riferendomi alla sc. giur., la quale è a suo modo razionale, ma non sul piano scientifico, per l’impossibilità di riuscire nelle sue identità (un vero e proprio irrationnel in senso meyersoniano). Si dirà: e sul piano filosofico? La questione interessa soprattutto i giusnaturalisti, per i quali la razionalità del diritto non può essere semplicemente quella scientifica (dell’idealismo affermato, e da me, modestamente negata, per la diversa concezione della scienza) ma è quella filosofica (giustizia). Qui riesce difficile proseguire la ricerca, perché la visione storica ci impedisce di prendere sul serio il giusnaturalismo, ma d’altra parte, come io ho cercato di mostrare già nel primo capo, col giusnaturalismo si devono sempre fare i conti quando si parla di diritto. E mi fa davvero piacere che Ella abbia subito colto il cuore di quel capitolo, dicendo (bontà Sua, davvero) che io impostavo la questione “benissimo”, ma che nello stesso tempo la “esasperavo”. Certo, io l’ho esasperata, ma non era forse questo il mio dovere? Si trattava di tirare le somme, e io l’ho tentato, anche se il panorama del “diritto” ne riusciva sconsolante. Non credo tuttavia di svalutare il problema, com’Ella dice. Perché se lo svalutassi, avrei cominciato col nascondermi le difficoltà, mentre ho cercato di metterle bene a nudo, e senza falsi pudori, proprio da bel principio. Il risultato sarà dunque la negazione della razionalità scientifica della giurisprudenza basata su una revisione del concetto idealista di scienza, ed una sospensione del 99 n.14 / 2006 giudizio sulla “razionalità” filosofica. Contemporaneamente, sarà un’affermazione della razionalità pratica (la storia come azione) della scienza giuridica (il momento “politico”, come Ella dice così bene). Per stabilire se esiste una “razionalità” filosofica, mi occorrerà vedere bene quali rapporti intercorrono tra scienza e filosofia, o che avrò negato i rapporti come li concepisce l’idealismo. Ma intanto il volume ha già 15 pagine ed è appena a metà dei progetti! Quando sarà pervenuto al punto di cui sopra, probabilmente sarà raddoppiato, e dovrò pure far punto e rinviare i restanti gravi problemi ad altra specifica, e forse assai lunga, ricerca. Termino esprimendo l’ipotesi (questa volta… neanch’io hypotheses non fingo!) di aver detto in queste mie pagine… un cumulo di sciocchezze: posso chiederLe di confermarmi se tale è la Sua impressione? E se gradisce l’invio delle bozze? Ho sentito che hanno rinviato i termini del concorso: ma non so se sia uscito il decreto relativo: forse Ella, come Commissario, ne è edotto ufficialmente? Son troppo indiscreto, se mi permetto di chiederglielo? Accolgo con entusiasmo l’augurio che Ella mi fa di discutere a voce delle questioni di cui in questa lettera, “senza limiti di spazio” – E in questa speranza, La prego di credermi, con la più alta della stima e con profonda gratitudine, il Suo dev.mo Bruno Leoni Lettera XI 354a Batt. Follonica (Grosseto) 23-7-42 Illustre e gentilissimo Professore, spero Le sia giunta a suo tempo una mia lettera, in risposta alla Sua ultima, graditissima, nella quale mi prendevo la libertà di esporre con qualche larghezza, forse eccessiva per una lettera, taluni miei modesti punti di vista sulla scienza e sulla scienza del diritto. Ora però, che ho ottenuto una breve licenza, della quale profitterò per fare un breve viaggio anche a Roma, mi si presenterebbe la gradita occasione, da Lei stesso così gentilmente auspicata, di rifare a voce qualche modesta considerazione sull’argomento, se Ella avrà modo e tempo di ricevermi. Ne profitterei anche per portarLe di persona i primi tre capi del lavoro e forse anche il IV (almeno dattilografato) riguardante il Croce. Non vorrei però né abusare della Sua cortesia, della quale ho forse già abusato anche troppo, né - d’altra parte - rischiare di non trovarla costì, dove mi reco per ragioni di altro genere, ma dove mi augurerei proprio vivamente di poterLa visitare. Sono troppo indiscreto, quindi, se mi permetto di chiederLe se per la fine del mese Ella sarà a Roma? La ringrazio molto, in anticipo, della cortesia che vorrà usarmi informandomene, e La prego di credermi, con molta stima, e con devozione, il Suo aff.mo Bruno Leoni Lettera XII Follonica 25-8-42 Illustre e gentilissimo Professore, La prego si scusarmi se rispondo solo ora al Suo cortese e gradito scritto. 100 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza Attendevo di poterle dare qualche indicazione su taluni errori di stampa occorsi al capo IV, e in particolare: a p. 174 § 5, 1a e 2a riga: dove occorrerebbe inserire dopo la 1a riga le parole seguenti: [afferm] “mando che essa deriva da un «pregiudizio d’origine [scolastica] (cfr. Logica p. 33). Le sono molto grato (?) per il breve giudizio che Ella ha avuto la bontà di darmi circa l’interesse dei primi tre capi. Mi augurerei che il IV (che io stimerei, se potessi esprimere la mia opinione sull’…autore del volume, il meno peggio dei 4 usciti) non Le appaia noioso. Mi pare di averLe scritto che tra poco usciamo il 5° (Legge naturale e legge giuridica) – che verrebbe tropo lungo come excerptum per il Bollettino, ma del quale potrei forse fare una più breve esposizione per quello scopo, se Ella lo crederà opportuno – e il 6° (L’irrazionale nel diritto). Ella potrà vedere come nella stesura di questi ultimi capi mi sia riuscita preziosa qualche suggestione che io ho raccolto dai suoi ultimi scritti sull’argomento (in particolare dal “Problema della scienza”) circa l’applicazione del concetto di previsione e di probabilità alla scienza del diritto: concetti basilari – ormai – nelle scienze fisiche e nelle più moderne teorie epistemologiche (Reichenbach, Scuola di Vienna, ecc.) ma non ancora bene studiati, mi sembra, in ordine alle cosiddette scienze spirituali, alle quali non è stata ancora rivolta la dovuta attenzione dalla nuova scuola empiristica. E, contemporaneamente, mi si è venuto chiarendo il concetto di “irrazionale” giuridico come contraddizione più o meno latente tra la previsione stabilita nelle norme primarie sulla base di una tipizzazione naturalistica, e la contraria previsione stabilita nelle sanzionatorie (non ancora sulla base dell’individuazione storica ma tuttavia già in antitesi alla tipizzazione scientifica-naturalistica delle primarie). Le scienze storiche non possono realmente tipizzare, e quindi prevedere, per la contraddizione che non lo consente: perché esse si sforzano di porre come tipi quelli che (per la loro stessa natura di discipline storiche, e quindi direi: per definitionem) esse sono poi costrette ad assumere come individui: smentendo nel secondo caso la previsione stabilita nel primo. Quella previsione, infatti, non può essere che basata sul postulato delle sostanze (cioè del tipo) mentre la visione individuale, che presto o tardi si reintroduce nella scienza storica, distrugge quel postulato, e con esso tutto il metodo – quindi – naturalistico che vi si fonda. Ciò mi porta ad abbozzare una teoria abbastanza nuova della coazione (o meglio della sanzione): che rimarrebbe riconsacrata come “nota” [il che in una visione empiristica della scienza è lecitissimo] delle leggi giuridiche, ma per una ragione - credo - finora non sostenuta: e cioè che la coazione (intesa semplicemente anch’essa come tipo, e non come fatto concreto, e quindi intesa come elemento dell’elaborazione scientifica) non è che l’antiprevisione del diritto come legge scienza “storica”, e quindi la remora alla sua pseudo-previsione naturalistica. Quest’ultima poi svela – congiuntamente alla sanzione – tutto il carattere dogmatico del sistema giuridico: là dove la scienza naturale lascerebbe la legge allo stato di ipotesi più o meno interamente verificabile in futuro [in quel “più o meno” è tutta la differenza tra l’epistemologia classica e quella indeterministica], il diritto formula regole rigorose, che, come tali, non possono essere corrette o modificate [in ciò sta il valore del Ù ‰ Ô˘ o del Sollen] ma cerca di salvare poi la regola dalla sua irrealtà, con le antiprevisioni sanzionatorie. 101 n.14 / 2006 Il che è confermato dall’abbondanza e dal rigore di queste, quando si presume che la previsione (anzi pseudoprevisione) della norma primaria sia alquanto irreale (grida manzoniane, leggi marziali ecc.). Il diritto ha natura pratica (prevalentemente): esso cioè vuol vigore, e in quella esatta misura in cui vuol vigore, deve rinunciare a valere sul piano della previsione scientifica. Lo scienziato aspetterebbe sempre nuove conferme [ipotesi]: l’”homo juridicus” non ha tempo di aspettare! Quindi tronca l’ipotesi a mezzo e la irrigidisce. Ma poiché non potrebbe agire senza tener calcolo della realtà, ricorre all’antiprevisione sanzionatoria, svelando con essa la natura dogmatica e scientificamente arbitraria del suo procedimento. Ho scritto, ancora una volta, assai in fretta, ed Ella mi vorrà scusare se non sarò stato chiaro, chiedendomi - se lo vorrà – altre spiegazioni. Ma non ho saputo resistere al desiderio di darle fin d’ora qualche ragguaglio sui due prossimi capitoli, sperando che la cosa non Le riesca sgradita. Col V e VI capitolo finirà il volume. Forse vi sarà un’appendice . La ringrazio ancora vivissimamente, gentilissimo Professore, per tutta la bontà e la cortesia che Ella mi ha dimostrato e La prego di credermi, coi migliori ossequi, Suo aff.mo Bruno Leoni P.S. Ricevo ora il Bollettino. La ringrazio ancora, gentilissimo professore, della cortesia e dell’onore che Ella mi ha fatto accettando la mia modesta collaborazione. Desidererei inviare qualche esemplare dell’articolo a conoscenti ed amici. Credo che ve ne sia qualcuno ??(?) e in tal caso li acquisterei volentieri presso l’amministrazione. Lettera XIII 354a Batt. Follonica (Grosseto) 23-7-42 Illustre e gentilissimo Professore, di ritorno a Follonica, debbo anzitutto ringraziarLa per il lusinghiero giudizio che Ella, con gli altri membri della Commissione giudicatrice, ha voluto evidentemente esprimere sulla mia modesta attività scientifica, classificandomi con molto onore nella terna dei vincitori. So bene di dover ciò, più che al mio merito (se qualche merito posso avere) alla bontà dei miei giudici, e in primo luogo di Lei, che in altre occasioni ha voluto onorarmi della Sua approvazione e del Suo autorevole consiglio. Dal canto mio, ho fatto quel che potevo, data anche la difficile situazione in cui venivo a ritrovarmi, a causa del mio richiamo militare, e alla lontananza da ogni centro di studi e di cultura. La passione di lavorare non mi manca, e non credo sia da temere (come fu detto da qualcuno) che io mi addormenti ora… sugli allori. Appena terminata la stampa del volume, mi affretterò ad inviargliene copia. Intanto ho alla vista altri lavori, tra i quali uno, di modesta mole, per le onoranze a Segré (di cui Le accennai) e un altro, di più ampio respiro, ma per il quale non posso tuttavia prevedere termini di pubblicazione, sulla “finzione giuridica”. Ora ho stabilito le basi per una teoria della finzione giuridica, e, bene o male, la costruirò, realizzando – se mi sarà possibile – una mia vecchia aspirazione, che risale ai tempi della laurea, cioè 102 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza a sette anni fa. Ella ha giustamente osservato che il mio volume (specie presentato, come fu, senza il completamento degli ultimi due capi) aveva un aspetto o un tono rapsodico. Spero tuttavia che quando apparirà (cioè fra breve) completo, questa impressione si modifichi nel senso di riconoscere una maggiore omogeneità a tutto il lavoro, che fu concepito unitariamente, anche se poi, essendo stato scritto di getto, mi lasciò tenere sempre il dovuto conto dell’economia esteriore del lavoro stesso, abbondante in certi punti e forse sorvolante in altri. A volgermi indietro, crederei tuttavia che qualcosa di buono, in quelle 35 pagine, ci sia, non fosse che perché ho cercato di aprirmi, con esse, un sentiero (buono o cattivo non so, ma comunque mio) nella selva oscura della filosofia del diritto, tralasciando il facile compito di ripetere le opinioni più accreditate o di compilare e ricucire le cose vecchie. Ho ricevuto il Suo estratto su Responsabilità e Reclusione, che avevo già letto con vivissimo interesse sul “Bollettino”, e dal quale traggo, come sempre dai Suoi scritti, un grande incitamento a pensare. Non so se un mio eventuale saggio su Legge naturale e legge giuridica del quale ebbi a farLe cenno in una mia, anteriore al concorso, può ancora interessarLa per il Suo preziosissimo “Bollettino”. Ora Ella conosce, almeno per sommi capi, quale sarebbe il contenuto del saggio. Nel frattempo, mi si impone il problema (assai spinoso e sgradito) della sede. Vorrei evitare con tutte le mie forze Cagliari e il meridione, e punterei su Milano, Ferrara, e (extrema ratio) Urbino (in corso – mi dicono – di riedificazione): ma non conosco nessuno! Purtroppo ho assai poca esperienza e pochissime conoscenze nel mondo universitario, dal quale sono stato sempre forzatamente lontano! Mi creda, illustre Professore, con rinnovati profondi ringraziamenti, e con l’espressione della più alta stima il Suo Bruno Leoni Lettera XIV Follonica 31-1 -42 Illustre e gentilissimo Professore, La ringrazio molto della Sua cortese e lusinghiera lettera, dell’interessamento che Ella dimostra per la mia pratica sistemazione, e della possibilità, in cui Ella mi lascia sperare, di una Sua recensione del mio recente lavoro. Ella non poteva darmi una dimostrazione più gradita della Sua stima, che occupandosi, pubblicamente, delle mie modeste fatiche. Sarà un grande onore, per me, essere fatto oggetto di considerazione da un Maestro dei nostri studii: aggiungo che sarà anche motivo di grande interesse, poiché Ella ha in me, per taluni importanti rispetti, un vero e proprio discepolo. La Sua concezione della norma come previsione, analoga alla previsione in che consiste la costante di tipo fisico, per quanto da me non condivisa, ha avuto un’importanza grandissima per lo sviluppo dei miei modesti pensieri, e adesso (come alle corrispondenti teoriche della scuola sociologica, da Lei ora così autorevolmente innovate e rinnovate) debbo gran parte di quel lavoro di critica e di assestamento del concetti 103 n.14 / 2006 filosofico-giuridici, che appare nel sesto capitolo del mio recente volume. Ora non mi resta che continuare, ed Ella benissimo mi addita la strada, esortandomi ad applicarmi al metodo sintetico, e raffigurandomi la soddisfazione, veramente grandissima, che potrò provare nel lavoro non affrettato, né sottoposto a termini perentori. Sto riguardando ora gli scritti di Leibniz, sullo scarto delle indicazioni bibliografiche (fondamentali) del Conturat. È veramente notevole l’interesse che Leibniz portò al concetto di probabilità in ordine al diritto, e il valore che egli dava alle speculazioni dei giuristi in proposito. Credo che uno studio – sia pur breve – dell’argomento abbia un interesse non soltanto storico, e non dispero di cavarne qualcosa per il volume commemorativo del prof. Segré . Contemporaneamente potrò rendere più schematici e più netti, in un articolo per il “Bollettino” (ch’Ella ancora una volta ha la bontà di mettere a mia disposizione), i risultati cui ho creduto di pervenire nel 5° e nel 6° capitolo del recente volume. Il Prof. Cammarata ha la bontà di comunicarmi la Sua intenzione di rispondere, con una nota di replica e di chiarimento, alle critiche che ho avuto occasione di formulare, modestamente, nel capitolo 3° del volume stesso. Non so dove egli intenda pubblicare queste note: ma – come gli scrivevo – sono veramente orgoglioso che i miei rilievi lo abbiano indotto a riprendere la penna, e sia pure … contro di me. La ringrazio molto per la fiducia che Ella mi mostra, e mi dichiara, nella mia “tempra di lavoratore”: ho effettivamente lavorato, e la passione mi impedirà di sonnecchiare, sulla cattedra, così come mi ha impedito di scordare gli studi sotto la tenda. Spero di venire a Roma in novembre. Mi farò un dovere di venirLa a trovare, gratissimo se Ella potrà e vorrà intrattenersi con me sugli argomenti che hanno suscitato, ormai da tempo, il Suo e (modestamente) il mio interesse. Gratissimo Le sono infine della Sua benevola attenzione per il mio prossimo “collocamento”. Naturalmente, ero già d’accordo con Lopez , che, a quanto pare, aspira a Macerata e, in subordine, a Perugia e Siena. A mia volta, io punterei su Modena (la sede vacante, più vicina a Torino, dove mi è stato ora offerto l’incarico), Ferrara, e, nel caso che Lopez le lasci libere (come credo), Perugia e Siena. Purtroppo, nuovo come sono al mondo universitario, poiché l’insegnamento nelle scuole medie prima e la vita militare poi, me ne hanno sempre tenuto lontano, non conosco nessuno, e m’accorgo che questo è un handicap fortissimo, nella circostanza … imprevista, o per lo meno non prevista così presto, in cui ora mi trovo. Di tutto ciò che Ella potrà fare per me, quindi, col Suo certo autorevolissimo interessamento, Le sarò veramente e profondamente grato. Il volume vedrà ora la luce, e appena mi sia possibile, gliene farò avere copia. RinnovandoLe i miei vivissimi ringraziamenti, La prego, gentilissimo Professore, di credere a tutta la mia riconoscenza, e a gradire i miei ossequi più cordiali Suo Bruno Leoni Lettera XV Bologna 8-12-42 Illustre e gentilissimo Professore, permetta che La ringrazi di vivo cuore per la generosa, gentilissima offerta di pub- 104 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza blicarmi il volume sull’Irrazionale, nel caso che i fondi necessari siano disponibili. Quanto più grave è stato il mio rammarico nel vedere distrutta l’opera già stampata, tanto più viva e consolante è la speranza di veder risorgere il libro, e Le sono veramente grato, per essermi Ella venuto incontro in un momento così difficile. Ora sto per presentarmi, a Modena, dove sarò oggi pomeriggio, al Preside Montessori. La sua lettera è veramente lusinghiera, e non dubito che sia per essermi assai preziosa, per il calore con cui è scritta e per l’autorità di cui Ella gode come giudice nella nostra disciplina. Farò anche una puntata a Pavia, che con Modena, è fra le sedi rimaste vacanti. Conto di tornare a Roma il giorno 13. Non dubito che, se Ella avrà nel frattempo compiuto, come si riprometteva, presso il Direttore generale, qualche passo inteso a mettere nella giusta luce la mia posizione nei riguardi degli uffici ministeriali, ciò mi sarà di grandissimo giovamento, e contribuirà molto a indurre il Ministero a prendere per me qualche iniziativa, come ormai si rende necessario, dato lo scadere dei termini utili per le “chiamate”. Non saprei quindi esserLe abbastanza grato per tutto quello che Ella ha fatto e si ripromette di fare nell’interesse della mia modesta persona, e La prego di credere, gentilissimo Professore, alla mia profonda, immutabile riconoscenza, e alla mia intera devozione. Suo aff.mo e obblig.mo Bruno Leoni Lettera XVI Follonica 24-12-42 Illustre e gentilissimo Professore, al mio ritorno a Follonica il giorno 22, ho trovato la comunicazione ufficiale della mia nomina, inviatami dal ministero. L’impressione che ne provo è difficilmente definibile, essendo passato quasi di colpo, dalla delusione e dalla sfiducia di una ventina di giorni fa (quando pareva ch’io fossi inviato a Cagliari, o che perdessi addirittura un anno di carriera) all’attesa un po’ scettica che provai durante il mio viaggio a Modena e a Pavia, e, infine, alle più rosee speranze, e alla certezza – ch’era follia sperar - datami dal Suo veramente affettuoso e premurosissimo telegramma a Torino. Non potrò mai dimenticare quanto Ella ha fatto per me in questa occasione, scomodandosi fino a recarsi personalmente al Ministero, per avere informazioni sul mio conto, e per caldeggiare la mia assegnazione a una sede desiderata. Ella ha voluto dimostrami, così, una stima ed una simpatia che sono per me veramente lusinghiere e che - lo dico senza retorica - mi commuovono profondamente. Io non dispero di rendermi degno del favore che Ella mi concede, e mi auguro di poter tornare presto all’insegnamento e agli studii, non più distratto o impedito da obblighi o da compiti estranei; vorrò dedicarmi con ogni energia al grave compito di rendere meno invisa - per quanto sarà possibile nel mio modesto ambito - la nostra disciplina ai giuristi puri, e di farne apprezzare tutto il valore ai giovani, che oggi sono spesso disorientati, e non sanno che idea farsi della “filosofia del diritto”. Ho scritto al prof. Solari (che non era a Torino, ma del quale ho saputo l’indiriz- 105 n.14 / 2006 zo: via Gerusalemme 2 - Savigliano, prov. Torino) accennando alla Sua intenzione di raccogliere in un volume unico anche gli scritti di lui che avrebbero dovuto essere ripubblicati a Torino. Io stesso ho ardito caldeggiare la Sua iniziativa: non so tuttavia se il prof. Solari aderirà facilmente, essendo egli assai schivo di tutto ciò che si presenti come una celebrazione della Sua opera di studioso e di Maestro! Ho anche accennato, col Prof. Solari, alla Sua lusinghiera speranza di pubblicarmi a Roma il libro andato distrutto a Torino, e non dubito che questo sia per lui - che mi ha sempre seguito e incoraggiato con paterno affetto - un motivo di grande soddisfazione. Sto intanto lavorando al saggio cui Le avevo accennato, Previsione e ‘speranza’ dell’homo juridicus, ove riprendo taluni risultati del recente volume, e tento una estensione, al dominio delle norme, del concetto di “speranza matematica”, e di “speranza morale”, elaborati dai teorici dei giudizi di probabilità sin dagli inizii del secolo XVIII. Appena scritta l’ultima parola di questo saggio, mi applicherò a quello su Legge naturale e legge giuridica, da gran tempo promesso al Suo “Bollettino”. In progetto ho parecchi altri lavori… Mi auguro di avere tempo e modo di portarli a termine: non vorrei dare, infatti,l’impressione di riposarmi, e di aver scritto finora sugli scopi contingenti della “carriera”! Voglia credere, gentilissimo Professore, alla mia vivissima, affettuosa riconoscenza per tutto quanto Ella ha voluto fare per me, e mi abbia, coi migliori, più fervidi auguri per il nuovo anno, il Suo devotissimo e affezionatissimo Bruno Leoni Lettera XVII Follonica 6-IV-43 Illustre e gentilissimo Professore, La ringrazio molto della Sua cartolina, e dell’interessamento che Ella ha, come sempre, la bontà di dimostrarmi, chiedendomi notizia del mio lavoro. Purtroppo, la mia attività letteraria ha dovuto subire un rallentamento, dovuto all’intensificarsi - in questi ultimi tempi - delle esercitazioni, e dell’accrescersi delle incombenze nel mio attuale mestiere. Ho deliberato d’apportare qualche lieve ritocco, di carattere prevalentemente formale, ai due ultimi capitoli del volume, rinviando in nota talune parti del testo, ed ampliando invece la trattazione di qualche punto che mi pare sacrificato nella stesura primitiva. Per consiglio del prof. Cammarata raddolcirò anche, in qualche passo, il tono polemico del capitolo dedicato al Croce. Attendevo, per darLe qualche notizia di ciò, il momento in cui avessi potuto ultimare queste correzioni, e scrivere la parola fine al più volte promesso articolo per il Bollettino. D’altra parte speravo mi giungesse da Torino una risposta definitiva circa il benestare dell’Istituto giuridico alla ristampa del lavoro, da Lei gentilissimamente proposta. Ma ancora non ho potuto sapere nulla, e ho dovuto riscrivere per avere lumi in proposito. Esiste sempre la possibilità che Ella mi aveva prospettata? I 106 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza tempi si fanno sempre più difficili, anche per chi pubblica - o vuol pubblicare dei libri! Sarò a Torino fra breve, e mi informerò di persona delle intenzioni dell’Istituto di là. A proposito del “Bollettino”, non so se La interesserebbe una recensione da me fatta al volume di un alto magistrato, Alfonso Aroca, che fu Procuratore generale della Libia, e scrisse un’interessante documentario sulla “rieducazione” dei condannati libici nell’oasi di Uan el Chatir (Uan el Chatir, l’oasi della redenzione, 1942, a cura del Min. A.I.). Il libro dà lo spunto a molte meditazioni sul valore “redentivo” della pena, considerato che i condannati di cui parla l’A., appartengono spiritualmente ad una società assai diversa da quella dei condannatori. Il contenuto del libro ha dunque un interesse filosofico, anche se l’A. non si è proposto, né ci ha dato, una trattazione filosofica. In questo senso credo potrebbe interessare i lettori del Bollettino. Le sarò molto grato se Ella vorrà esprimermi un Suo parere in proposito: ad un Suo cortese cenno, Le invierò la recensione. Da ultimo debbo accennarLe, poiché ho qualche fondata ragione di ritenere che anche Ella ne sia al corrente, alle voci incautamente fatte circolare da qualche mio ex-amico ed ex-concorrente, sull’atteggiamento che io avrei tenuto nei Suoi confronti in una circostanza attinente al concorso, sebbene a concorso finito. Spero che le circostanze mi permettano. se Ella lo riterrà opportuno – di rimettere le cose a posto, in occasione di un mio viaggio a Roma (che mi augurerei non lontano). Nel frattempo, non dubito che, per quella conoscenza che Ella può avere della mia persona, Ella voglia sospendere ogni giudizio sulla correttezza del mio operato, che io ritengo assolutamente incensurabile, nella circostanza sopra accennata. Assai poco incline ad occuparmi dei fatti altrui, mi vedo oggetto della – non del tutto benevola – censura di chi fa del pettegolezzo e, non di rado, della maldicenza, un’occupazione quotidiana. Ma forse anche Lei disprezzerà queste cose, ed allora non sarà più il caso di parlarne. La prego di avermi sempre, coi migliori ossequi e con immutata vivissima riconoscenza, Suo Bruno Leoni Lettera XVIII Follonica 5-7-43 Illustre e caro Professore, ho ricevuto con grande piacere la notizia che Ella spera di pubblicare il mio volume secondo il Suo generoso progetto. Ancora non ho avuto risposta dal prof. Solari (del quale mi pare di averLe comunicato l’indirizzo a Savigliano – Via Gerusalemme 2, prov. Torino), né ho potuto entrare in contatto col prof. Allara, direttore dell’Istituto giuridico che, come Ella sa, era proprietario del mio lavoro. Ma non dubito che il prof. Solari veda con grandissimo piacere questa possibilità di risurrezione del mio volume, e che il prof. Allara non abbia nulla in contrario al trasferimento della proprietà del mio lavoro. Ho ripreso ora a leggere qua e là, specie l’ultima parte del lavoro stesso, ed ho la sensazione che questo abbia risentito dell’estrema rapidità con cui fu composto, 107 n.14 / 2006 almeno per quanto riguarda l’economia degli argomenti, taluni dei quali andrebbero forse ampliati, ed altri, per esempio il lungo excursus sulla teoria dei giudizi di probabilità, potrebbero, senza danno, essere in parte rinviati in nota. D’altronde desidererei, come credo di averLe già detto, alterare il meno possibile il testo originale, per documentare al pubblico lo stato dei miei studii al momento del concorso, e non essere accusato (le male lingue sono tante) di aver presentato ai commissari una raffazzonatura provvisoria, indegna di una vera stampa. Sarò veramente lietissimo di veder risorgere la stampa di questo lavoro, che già in origine, come Le dissi a Frascati, io avevo l’ambizione di pubblicare nella Sua collana. L’onore che Ella mi fa è veramente grande, e non so dirLe quanto io glie ne sia grato, specie in un momento come questo, in cui l’Istituto giuridico Torinese si trova in evidenti difficoltà per ripubblicare le opere distrutte. Cos’ Ella vuole darmi il Suo aiuto prezioso, dopo avermi già tanto beneficiato alla libero-docenza e al concorso: dal canto mio non potrò mai dimenticare quanto Le debbo, e mi auguro vivissimamente che mi sia data qualche occasione di dimostrarLe in modo tangibile la mia riconoscenza, e la mia affettuosa devozione. Voglia credermi, gentilissimo Professore, con rinnovati ringraziamenti, il Suo Bruno Leoni P.S. Farò tutto il possibile per inviarLe presto l’articolo più volte promesso Lettera XIX Follonica 21-5-43 Illustre e gentilissimo Professore, La prego di scusarmi se, trovata la Sua cortese lettera al mio rientro dalla Liguria, Le rispondo soltanto ora: abbiamo avuto in questo periodo diversi allarmi e molte cose da fare. Ciò mi ha privato del tempo e della tranquillità necessaria per scrivere. Pensavo anch’io, in effetti, che l’argomento della mia recensione, così come era trattato, esulasse dalle competenze di una rivista di filosofia del diritto: mi ero tuttavia permesso di proporlo, per il suo interesse generale. Comunque, la recensione apparirà su una rivista di psicologia, cioè - forse - in sede più adatta. La ringrazio ancora vivamente della Sua offerta di pubblicarmi gli altri lavori in cantiere: e se non ne avessi già troppo parlato, e non avessi fatto ormai troppe promesse in proposito, mi arrischierei a prevedere come relativamente prossima la fine di un articolo, che Le invierò appena dattilografato. Mi sto rileggendo intanto i più noti lavori di dottrina dello stato (Bluntichli, Jellinek, Kelsen), per mettermi in condizioni di tenere il corso, quando verrà l’ora… Non escludo la possibilità di venire a Roma per servizio: in tal caso mi farò un dovere di venirLa a riverire. La prego di credermi, gentilissimo Professore, colla rinnovata espressione della mia riconoscenza, il Suo Bruno Leoni 108 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza Lettera XX Follonica 3-8-43 Gentilissimo e caro Professore, La prego vivamente di scusarmi se non Le ho rivolto prima d’ora uno scritto per chiederLe, come avrei voluto, notizie di Lei e dei Suoi dopo il bombardamento di Roma. In quei giorni ero purtroppo occupato io stesso a provvedere allo sfollamento d’urgenza dei miei, dopo l’ultimo fortissimo bombardamento di Torino, in seguito al quale anche la mia casa venne resa disabitabile dallo scoppio di una bomba dirompente, caduta ad un centinaio di metri. Fortunatamente i miei rimasero illesi. Dalle notizie sui giornali, credo di esser nel vero pensando che il quartiere dove Ella abita non sia stato colpito. Le sarò molto grato se Ella avrà tempo e modo di darmi Sue notizie, che mi auguro buone. In quest’ora grave, in cui majora premunt, c’è da augurarsi che il senso della realtà prevalga nei nostri attuali governanti, e che sia posta fine al più presto alla tragica follia scaturita dai dittatori ora scomparsi o morituri! Mi creda, con immensa devozione e riconoscenza, Suo aff.mo Bruno Leoni Lettera XXI Torino 3-2-46 Caro Professore, ricevo la Sua gentilissima cartolina. Mi sembra ispirata a un sia pur cauto ottimismo. Questo mi fa molto piacere. Se potessi far qualcosa per influire favorevolmente sulla soluzione della vicenda che Le sta a cuore, ne sarei felicissimo . Purtroppo, non ho alcuna idea del modo in cui potrei esserLe utile. Qui a Torino comuni amici mi hanno chiesto di Lei e si sono premurosamente interessati del Suo caso. Mi sono permesso di dare loro il Suo indirizzo: così credo che a quest’ora sia il prof. Solari, sia il prof. Grosso Le abbiano scritto. Grosso, in particolare, mi ricordava alcuni fatti che tornano a Suo grande onore e che potrebbero essere utilmente ricordati ai Consiglieri: ad esempio il Suo fermo atteggiamento a Pisa (e di cui Grosso può testimoniare) in occasione del alcune soperchierie tentate da ministri fascisti e passivamente subite dal Rettore di quella Università e dalla maggior parte del Corpo accademico. Lo stesso Grosso mi rammentava un giudizio dato su di Lei da un uomo come Piero Godetti: anche questo potrebbe essere non inutilmente ricordato ai Consiglieri. Credo inoltre che lo stesso Solari abbia intenzione di intervenire personalmente in senso a Lei favorevole. Quanto a me, non mi resta che sperare, non soltanto per Lei, ma per la sorte dei nostri studii, in una favorevole e possibilmente rapida risoluzione di questa incresciosa avventura. La prego vivamente di darmi ancora Sue notizie appena Le sarà possibile, e La ringrazio molto di quello che ora mi ha dato. Le sono anche molto grato per il lusinghiero accenno che Ella ha la bontà di fare al mio lavoro, apparso in “Temi 109 n.14 / 2006 Emiliano”, ed a suo tempo Le sarò gratissimo di un eventuale più ampio (ed assolutamente franco!) giudizio. Sto lavorando attorno ai libri … ed è una cosa abbastanza curiosa dopo tanto tempo di vita così diversa. Ho “in pectore” un lavoretto sull’uso promiscuo del verbo “dovere” nelle principali lingue europee per indicare sia l’obbligo morale o la necessità fisica, sia la probabilità o congettura circa un evento. Un tale uso mi sembra confermare il concetto della norma come previsione dell’evento più probabile in un dato ambito storico, ed è comune alle lingue italiana, francese, spagnola, tedesca, inglese e, a quanto mi informa mio padre, rumena e russa. Un altro lavoro, che appartiene però ancora alla categoria dei progetti puri e semplici, forse sarà dedicato al tema dei rapporti fra il concetto di medietà (mes’otis) molto usato in antico e quello più moderno di probabilità, applicato allo studio del mondo umano (come è noto, e come rilevava già il Cournot criticando il pensiero di Quétélet l’uomo “medio” non è senz’altro l’uomo “più probabile”, anzi può essere addirittura un uomo improbabile). Per ora tuttavia, sto ancora cercando - anzi cercando di nuovo - la mia strada, e l’antico interesse per i problemi speculativi mi si sta solo lentamente risvegliando. Ma faccio punto, anche perché tutto questo parlare di me l’avrà già annoiata. La prego di credere, Professore, a tutta la mia devozione e alla mia riverente affettuosa amicizia. Suo Bruno Leoni Lettera XXII Torino 18-4-46 Gentilissimo Professore, ho ricevuto al Sua gradita cartolina e La ringrazio. Non mancherò di avvisarLa appena il mio lavoro sul verbo Dovere sia pronto: ho esteso le ricerche all’antichità classica ed ora sto attendendo la risposta ad alcuni quesiti che ho rivolto a specialisti di filologia. Intanto Le sono gratissimo della cortese e lusinghiera ospitalità che Ella mi offre nel Bollettino e delle parole molto benevole che Ella usa nei confronti delle mie modeste ricerche. Purtroppo non posso dedicarmi all’argomento - per ora - coll’intensità che vorrei. Il Rettore dell’Università di Pavia mi ha infatti pregato di tenere la prolusione al mio corso di Dottrina del Diritto, che avrà inizio dopo le vacanze pasquali ed ho pensato di trattare un tema che destasse l’interesse di una cerchia di persone più larga di quella degli specialisti. Ho perciò deciso di trattare “Il concetto di pubblica opinione”, argomento su cui manca – io credo – un apporto fondamentale nella produzione italiana. Purtroppo anche le opere straniere sono rare e difficilmente accessibili: così, ad es., il Tönnies (Ferd.) Kritik der öftenthichen Meinung edito a Berlino nel 1922 non sembra esistere in alcuna biblioteca governativa italiana, e temo che anche Walter Lippmann, The public opinion, New York 1927, sebbene famoso in America, qui da noi non ci sia. Se anzi non temessi di apparire indiscreto, vorrei pregarLa di confermarmi se realmente le mie supposizioni sono esatte, almeno per quanto riguarda le biblioteche romane. La cosa mi sta infatti molto a cuore. 110 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza Intenderei trasformare la mia prolusione in un lavoro (pubblicabile) di maggior mole, tanto più che la Commissione per il mio straordinariato è stata nominata (Ravà, Donati e Bobbio) e probabilmente esigerà di vedere prodotto da parte mia qualcosa che attenga alla Dottrina dello Stato. Spero che la Commissione stessa si aggiorni almeno fino a Ottobre-Novembre ed entro quel periodo di tempo spero di aver provato a pubblicare il lavoro. (Naturalmente uno dei problemi da superare è anche quello della stampa, oggi carissima). La prego di gradire, gentilissimo e caro Professore, i miei più cordiali e rispettosi saluti. Suo Bruno Leoni Lettera XXIII Torino 28-6-46 Illustre e caro Professore, ho ricevuto il suo volume e La ringrazio vivamente. Esso giunge a proposito, sia perché sto riprendendo gli studii di filosofia del diritto, sia perché intendo chiedere l’incarico per l’insegnamento di tale materia nella Facoltà di Legge pavese per l’anno venturo, e ritengo che il volume stesso rappresenti un’utilissima guida per gli studenti, ai quali lo consiglierei. Le ho inviato nel frattempo una copia di una mia pubblicazione recente, derivata dalla mia prolusione a Pavia, colla quale sono rientrato per così dire ufficialmente nel mondo degli studii. Intanto sto lavorando al lavoro sulla “norma e i significati del verbo ‘dovere’” e La avvertirò appena la abbia ultimata, nel caso che Ella, come gentilmente mi proponeva, la possa far stampare nel Suo Bollettino. Tempo fa Le scrissi una lettera, chiedendoLe il favore di una ricerca di libri (qui introvabili) presso biblioteche di Roma, ma non ebbi risposta, e poi stessa sorte subirono altre mie lettere spedite a diversi destinatari nella stessa occasione, temo che la persona alla quale diedi la lettera ad impostare, non abbia eseguito l’incarico (è la mia persona di servizio, e non so se me ne posso fidare!!). Ormai la ricerca no avrebbe più senso, perché sono riuscito ugualmente a procurarmi i volumi che desideravo, ma Le sarei grato – per la ragione che Le ho accennato – se Ella volesse confermarmi se ha ricevuto o meno quella lettera. Ciò mi servirebbe di regola … per impostare io stesso in futuro! Il giorno 25 luglio si discute a Roma (Ambrosini, Bobbio, Ravà) il mio ordinariato. A malgrado della scarsezza della mia produzione abbastanza indicativa di quel di più e di quel meglio che avrei sperato di fare se la situazione fosse stata normale, sia perché il passaggio a ordinario mi darebbe forse un maggior titolo per passare alla filosofia del diritto nella Facoltà di Legge, ove se ne presentasse l’occasione. La prego di gradire i miei migliori saluti, e i miei rinnovati ringraziamenti, e di credermi Devotamente Suo Bruno Leoni 111 n.14 / 2006 Lettera XXIV Torino 24 Aprile 1947 Illustre e caro Professore, sono da gran tempo privo di Sue notizie e avrei molto piacere di sapere se Ella sta bene e se continua a lavorare. Non so se Ella abbia potuto leggere il mio lavoro “Norma previsione e speranza nel mondo storico”: gradirei molto conoscere il Suo eventuale giudizio in proposito. Le invierò un’altra mia pubblicazione, recentissima, che sta per venir fuori sulla Rivista di Filosofia, in un numero dedicato a Leibnitz. Si intitola “Probabilità e diritto nel pensiero di Leibniz” e mantiene – o vuol mantenere – una promessa di lavoro da me accennata in una nota del mio saggio su “Previsione, norma e speranza”. Ella avrà probabilmente saputo che Alfredo Pozzi ha fatto ricorso contro il mio concorso. Non conosco né il Pozzi né le sue pubblicazioni, ma credo che si tratti di elemento anziano, poiché le sue pubblicazioni risalgono almeno al 1925, e le ultime di cui ho notizia, sono del 1933. Era egli attivo come scrittore e come studioso all’epoca del mio concorso? (1942). È quello che non credo, ma vorrei esserne certo. Se Ella potesse darmi qualche informazione in proposito, Le sarei grato, perché debbo presentare le mie osservazioni in merito al suo ricorso. Inoltre non so se sia vero che egli non poté partecipare al detto concorso per ragioni politiche. Il ministro attende le mie osservazioni entro i primi di maggio. Lei che ne pensa? Ancora … epurazioni??! Non conosco nessuno del Consiglio Superiore, e quindi non so che aria vi tira. Non so neppure se il detto Consiglio ha approvato o no la revisione richiesta. Forse Lei che è a Roma ne ha saputo qualcosa? La prego di scrivermi, se non Le dà troppa noia e non Le procura troppa perdita di tempo, e di credere alla mia c ostante devozione. Mi creda sempre Suo affezionatissimo Bruno Leoni Corso Casale 28 Torino P.S. Dimenticavo di dirLe che ho fatto adottare dai miei studenti la Sua Guida, che mi sembra molto chiara e molto adatta allo scopo, anche se – purtroppo – la cultura dei nostri studenti universitari è oggi assai scarsa, troppo scarsa per un qualunque testo universitario! Lettera XXV Torino, 21-5-47 Caro e gentilissimo Professore, La ringrazio della Sua graditissima e delle informazioni che Ella mi dà. La ringrazio inoltre di cuore per l’invio del Suo testo: a occhio e croce, più ancora che un’edizione abbreviata, mi sembra un’edizione modificata della Guida. O mi inganno? Le spedisco il mio lavoro su Leibniz. Con esso ho concretato il proposito espres- 112 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza so in una mia nota nel lavoro “Norma previsione e speranza” apparso nel ’43 nella raccolta di studii in onore di Segré. Ella non mi dice, a proposito, se ha avuto tempo e modo di leggere quel mio lavoro e se Le è piaciuto. Gradirei molto di sapere come l’ha trovato. Intanto gradisco in modo particolare il Suo lusinghiero giudizio sui miei modesti lavori. Non so se essi battano vie nuove, ma è certo che io mi sforzo di batterle, convinto, come sono, che ci sia ancora moltissimo da dire, e che solo una piccola parte di ciò che si poteva dire è stato detto, poiché si sono impiegati studii ed energie soprattutto a ripetere quel che avevano detto gli altri: il che è poi ciò che rende stucchevole la nostra materia. Sto lavorando alle dispense del mio corso di quest’anno. Spero di potergliene mandare copia in un futuro non troppo lontano. Intanto La prego di credermi, con molta devota amicizia e riconoscenza Suo Bruno Leoni Lettera XXVI Torino Babuino 12, ROMA 8 luglio I95 Carissimo Cesarini, grazie della Tua cartolina, dalla quale apprendo che non hai ritirato la copia del \"Politico\" a te destinata. Ne ho fatta mandare fin dall’inizio una copia. a tutti i professori di facoltà di giurisprudenza in Italia,e quindi ritengo che una copia sia giacente per te all’Università di Roma. Poiché, non ho curato personalmente né la compilazione degli elenchi dei destinatarii né la spedizione, non escludo che qualche omissione o errore sia stato commesso: ti prego quindi di rassicurarmi circa il destino della copia che avresti dovuto ricevere, e scusami se ancora non ti è pervenuta. Quanto alla rivista romana rientratami dispiace per gli amici che si proponevano di sostenerla, ma, dopo tutto,il male non vien per nuocere, perché i suoi collaboratori potranno rappresentare un gagliardo apporto alla rivista pavese. A cominciare da te che mi hai promesso un articolo, del quale attendo particolari. Meglio ancora se mi arriva addirittura l’articolo. \"Il politico\" si sta diffondendo e sembra che piaccia. Ora sto preparando le spedizioni anche all’estero, e sto prendendo accordi per cambii ecc. con riviste estere. Attendo tue cortesi sollecite notizie e ti prego di credermi con viva cordialità Tuo Bruno Leoni Lettera XXVII Pavia 19-11-5 Carissimo Cesarini, grazie della tua amichevole cartolina. Anche gli amici di qui sono dello stesso tuo parere, circa la conferenza di Carnelutti, alla quale replicherò forse brevemente nel “Politico” di dicembre . 113 n.14 / 2006 A proposito del quale “Politico”, ti ricordo la tua promessa di collaborare a mi permetto di raccomandartelo per un abbonamento da parte del tuo istituto. Siamo costretti a utilizzare ogni opportunità e ci raccomandiamo molto agli amici perché con nulla non si fa nulla! Credo che anche i tuoi valorosi assistenti potrebbero contribuire con qualche abbonamento (1 lire annue sono una miseria). Che ne dici? E ti prego, ricordati del tuo aff.mo Bruno Leoni P.S. Hai ricevuto i miei estratti? Su 1) “Hayek (Individualism and economic order)” e 2) “A proposito di scienze nuove”? Ti manderò inoltre altri due estratti in corso di spedizione Lettera XXVIII Prof. WIDAR CESARINI SFORZA Via del Babuino, 12 ROMA Torino, 1 ottobre 1952 Ad iniziativa di questo Centro di Studi Metodologici si terrà nei giorni 17, 18, 19, 2 dicembre 1952 in Torino a Palazzo Carignano un Congresso di Studi Metodologici, con partecipazione di studiosi italiani e stranieri. I temi proposti sono i seguenti e 1) metodologia delle scienze matematiche e naturali; 2) metodologia delle scienze sociali e giuridiche; 3) metodologia dell’organizzazione del lavoro e delle relazioni umane. A nome del Centro ho l’onore di invitarLa a partecipare ai lavori del Congresso presentando, se possibile, una relazione su qualunque argomento di Sua scelta che si connetta ai temi proposti. Il Centro avrà cura di farLe avere al più presto possibile un elenco di quistioni che, indipendentemente dalle relazioni, potranno servire come base delle discussioni. È prevista la pubblicazione delle relazioni e dei riassunti delle discussioni negli Atti del Congresso. Nella viva speranza che Ella voglia onorarci della Sua partecipazione al Congresso, La prego di far pervenire la Sua adesione all’indirizzo sottoindicato entro il corrente mese di ottobre, dopodiché sarà nostra cura farLe avere il calendario dei lavori nonché un elenco di alberghi perché all’occorrenza Ella possa tempestivamente prenotare l’alloggio alle condizioni di favore che il Centro si ripromette di ottenere. Mi pregio inoltre di informarLa che, qualora Ella partecipi ai lavori del Congresso, il Centro terrà a Sua disposizione la somma di Lire ventimila per le spese della Sua permanenza a Torino dal giorno 17 al giorno 2 dicembre c.a. Distinti saluti. Il Presidente Bruno Leoni 114 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza Lettera XXIX Eg. Sig. Prof. Widar Cesarini Sforza Via del Babuino 12 Roma Torino, 11 Novembre 1952 Faccio seguito all’invito, rivoltoLe il 1 ottobre corrente anno, di partecipare ai lavori del ns. Congresso trasmettendoLe, come promesso, un elenco di questioni che, indipendentemente dalle numerose relazioni già pervenute o preannunciate e nei limiti di tempo imposti dalla necessità di discuterle, potranno servire come base dei lavori. Mi riservo di farLe pervenire in tempo utile insieme con l’elenco dei partecipanti e delle relazioni proposte, il calendario dei lavori e delle altre attività del Congresso: posso peraltro informarLa fin d’ora che, per la notevole quantità di adesioni pervenute e di relazioni preannunciate, dopo la seduta inaugurale i lavori relativi alle tre serie di temi proposti nel nostro invito del 1 ottobre si svolgeranno contemporaneamente in tre separate sezioni per tutta la durata del Congresso. Sarà particolarmente opportuno che ogni relazione venga contenuta entro ristretti limiti di spazio (possibilmente non più di 6-8 cartelle dattiloscritte a spaziatura normale) e che il testo di esse venga presentato alla Segreteria del Congresso non più tardi del 17 dicembre mattina. Mi pregio di farLe trasmettere dall’Ente Provinciale del Turismo, contemporaneamente a questa mia, un elenco degli alberghi di Torino presso i quali i partecipanti al Congresso, che non risiedano in questa città, potranno trovare conveniente sistemazione. Tengo infine a confermarLe che la Sua partecipazione al Congresso ci è particolarmente gradita per il valido apporto che da essa potrà venire ai nostri studi. Distinti saluti. Bruno Leoni Lettera XXX Torino, Via Po, 9 Maggio, 11, 1955. Illustre Prof. Widar Cesarini Sforza Via del Babuino, 12 ROMA Carissimo, sto leggendo il Tuo libro,a malgrado del molto e urgente lavoro avuto in questo torno di tempo. Speravo di poterlo recensire per il primo numero del Politico del 1955. Purtroppo non mi è stato possibile (tra l’altro ho dovuto lavorare forte per una relazione che presenterò, in unione col prof. Eugenio Frole, al Congressino che terrà a Pavia, sabato prossimo, il Centro di Studii Metodologici). 115 n.14 / 2006 Quod differtur non aufertur, comunque. Anzi, ti dirò che il rinvio non mi dispiace, perchè avrò maggior tempo da dedicare alla questione. Intanto non dimentico quanto detto a Roma circa un mio saggio sulla certezza del diritto. Molti cordialissimi devoti saluti dal Tuo Bruno Leoni Lettera XXXI Torino Via Po 9, 11-7-55 Carissimo Cesarini, ti ringrazio molto della Tua cortese comunicazione che mi rallegra per molti motivi. E ti sono naturalmente molto grato per la mia riuscita, che è certo in gran parte dovuta a te. Ho anche piacere che i concorrenti siciliani alla Commissione non ce l’abbiano fatta: ciò dovrebbe semplificare il problema. Credo che un buon accordo tra me Battaglia e Bagolini sarebbe utile. Ti che ne dici? Abbiti molto affettuosi saluti Tuo dev.mo Bruno Leoni Lettera XXXII Pavia 22 dicembre 1955 Caro Cesarini, ti ringrazio dell’interessante articolo che ho letto con vivo interesse. Colgo l’occasione per chiederti la collaborazione al \"Politico\" con un saggio in tema di diritto del lavoro o di politica sociale o di altro argomento valido per “Il Politico”; naturalmente a te la scelta dell’argomento e mi permetto di ricordarti che la nostra rivista non chiede regali, ma corrisponde un assegno (L.1 a pagina di stampa) per le pubblicazioni. Non molto, ma sempre qualcosa per evitarti di lavorare in perdita! Abbiti molti affettuosi saluti ed auguri per le prossime feste. Tuo aff.mo Bruno Leoni Lettera XXXIII Marzo 28,1958 Illustre Professore Widar Cesarini Sforza Via Babuino I2 ROMA Carissimo Cesarini, colgo anzitutto l’occasione di ringraziarti per l’invio della terza edizione della Tua \"Filosofia del Diritto\": sulla nostra Rivista “Il Politico” abbiamo segnalato la seconda edizione, promettendo uno più ampia recensione critica, che quanto prima speriamo di pubblicare, tenendo ormai presente la terza edizione. Mi congratulo vivamente con Te per il rapido susseguirsi delle edizioni che dimostrano 116 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza la fortuna del libro. Come Tuo antico allievo (allievo nel senso vero del termine) non posso che rallegrarmi dei successi del Maestro. Lo scopo di questa mia lettera è tuttavia più delicato.Desidero metterti al corrente degli ultimi sviluppi di una situazione molto penosa, che si è andata determinando presso di me, e che riguarda il dottor Giuliani. So che egli si presenta (da me sconsigliato) agli esami di libera docenza in filosofia del diritto. Non posso dire peraltro né che titoli presenti, né quale sia il valore effettivo di essi. Ormai da molto tempo, e sebbene il Giuliani sia noto come un \"mio allievo\" e ricopra inoltre il posto di assistente ordinario presso la mia cattedra, il Giuliani non può più dirsi né mio allievo né mio assistente.Egli infatti si è dimostrato assai diverso da quello che io avevo-creduto e sperato.Vittima di un orgoglio e di un’ambizione evidentemente superiori alle sue reali possibilità, egli si riteneva in diritto di conseguire all’ultimo concorso di filosofia del diritto non solo una maturità, ma la cattedra. Non avendo ottenuto quest’ultima, egli si è sentito leso nel suo diritto, e, cosa veramente paradossale, mi ha considerato...responsabile di questo suo insuccesso. Da allora egli cerca di evitarmi, e tenta persino di ignorare la mia presenza fisica. Ho cercato più volte di richiamarlo all’ordine, e di fargli notare che, dal momento che molti docenti nella materia aveva manifestato riserve sul suo valore di studioso, era suo interesse tenersi a stretto contatto con me, specie nella preparazione di nuovi saggi, per avere il mio consiglio. Non ho ottenuto nulla. Al punto che ho dovuto farlo riflettere sull’incongruenza del suo atteggiamento con la sua posizione di assistente alla mia cattedra e con la sua notorietà quale \"mio allievo\". Il risultato è stato un allontanamento anche più deciso da me. Il Giuliani non svolge attualmente alcuna attività nell’interesse del mio insegnamento, e non se ne preoccupa, perché si sente evidentemente protetto dalla legge, che oggi concede agli assistenti ordinarli uno status giuridico che li rende praticamente indipendenti dal titolare della cattedra, all’incirca come gli affittuarii o i mezzadri lo sono nei confronti del proprietario del terreno. In queste condizioni, non mi rimarrà che iniziare una procedura per ottenere l’allontanamento del Giuliani, e me ne dispiace sinceramente, perché attribuisco il suo attuale contegno ad una profonda e forse insanabile crisi psicologica. È possibile che il Giuliani preveda questa mia intenzione e tenti di assicurarsi la docenza per rendere ancora più inattaccabile il suo stato giuridico, specie in base alla nuova legge in corso di promulgazione. Nel frattempo, molti giovani si stanno affollando intorno a noi e non mi è possibile dar loro alcun impiego retribuito(dato che l’unico posto di assistente ordinario alla mia cattedra è coperto ostinatamente dal Giuliani). Cosi emergono i gravi difetti di una legge che tende a cristallizzare la situazione degli assistenti \"al possesso\", a tutto danno degli altri. Ti ho voluto esporre quanto sopra, perché tu non ti senta, nel giudizio che dovrai pronunciare sul Giuliani, legato da considerazioni che non vi è più ragione di fare: ad esempio quella che si tratti di un mio allievo, che i lavori recenti del Giuliani siano stati da me approvati o almeno conosciuti, e simili. Oggi il Giuliani è un ramo morto nella nostra facoltà, e temo che sia ormai un ramo morto anche nel campo dei nostri studi. Ti prego comunque di tenere per te queste mie confidenze, e di mantenere segreta, per ovvie ragioni di delicatezza, questa mia lettera. So che Bobbio non è affatto entusiasta del Giuliani. Ignoro l’opinione del 117 n.14 / 2006 Piovani, al quale non scrivo, anche perché non lo conosco. Abbimi,con viva cordialità, e con immutata devozione Tuo aff.mo Bruno Leoni Lettera XXXIV Novembre 11, I96 Illustre Professor Widar Cesarini Sforza Istituto di Filosofia del Diritto Città degli Studi, ROMA Illustre e caro Maestro: eccoTi il promesso articolo, nei termini utili. Spero che ne sarai soddisfatto. Purtroppo, data la fretta, ho dovuto apportare qualche tardiva correzione a mano al testo dattiloscritto e spero che questo non costituisca motivo di errori tipografici per il testo definitivo a stampa. Sarei veramente lieto se io potessi contribuire alla correzione delle bozze. Nel caso che le prime bozze siano disponibili subito e che tu sia d’ accordo, ti pregherei dì inviarle, prima del 9 dicembre, al seguente indirizzo: Prof.Bruno Leoni, Jefferson Centre, University of Virginia, CHARLOTTESVILLE, Virginia, USA. Mi troverò infatti colà in qualità di \"distinguished visiting professor” per un breve ciclo di lezioni. Ricordo che un tempo tu mi proponesti un’eventuale chiamata a Roma, qualora io avessi piacere di passare costi all’insegnamento. Ignoro quale sia la situazione attuale, e inoltre non vorrei mancare di rispetto a colleghi più anziani che aspirassero alla stessa destinazione. Ma se vi fosse qualche possibilità, sia per la filosofia del diritto che per la dottrina dello stato ti pregherei di avvertirmene. A Pavia mi trovo benissimo per gli studenti, per il rettore, per i colleghi di a[ltre] facoltà e per l’ambiente in generale. Comincio però a sentirmi a disagio in una facoltà in cui i colleghi più mediocri stanno prendendo il sopravvento e si agitano per chiamarne di più mediocri!! Ti sarò grato di un cortese cenno di risposta, e ti prego di credermi, con l’amicizia e la devozione di sempre Tuo, aff.mo Bruno Leoni Lettera XXXV 1 giugno 1961 Ill. Prof. Widar CESARINI SFORZA Facoltà di Giurisprudenza Università degli Studi, ROMA Illustre e caro Professore Cesarini, di ritorno da Roma mi è grato esprimerTi la mia viva riconoscenza per l’onore fat- 118 Girolamo de Liguori Lettere di Bruno Leoni a Widar Cesarini Sforza tomi di invitarmi a partecipare ai lavori del congresso con una relazione generale. Mi è inoltre graditissima l’occasione per esprimerTi la più viva ammirazione per la Tua relazione generale e per il fervore di interessi e di studi che ho constatato fra i Tuoi allievi e del quale naturalmente risale a Te il merito. Mi ha colpito in modo particolare l’assiduità dei partecipanti al congresso a tutte le sedute (anche nei giorni festivi e a malgrado delle molte tentazioni offerte ai congressisti dalla splendida città sede del congresso. Consentimi inoltre di ringraziarTi di vero cuore per il lusinghiero invito che hai voluto rivolgermi, di tenere a Roma un piccolo seminario nel prossimo autunno. E questo per me è un grande onore e non dubito che sarà una magnifica occasione per rinsaldare i miei legami di amicizia e di devozione con Te, col Prof. Perticone e con gli altri colleghi della Vostra brillante Facoltà. I Tuoi assistenti mi hanno promesso di farmi sapere quando la mia venuta a Roma sarebbe più opportuna per Voi. Ti pregherei anche di suggerirmi il tema che Tu gradiresti fosse trattato nel seminario: farò del mio meglio per prepararmi adeguatamente a svolgerlo in modo degno di Te e degli altri autorevoli ascoltatori. Con rinnovati vivissimi ringraziamenti e cordiali saluti anche da parte di mia moglie, Ti prego di credermi Tuo Bruno Leoni Lettera XXXVI Dicembre 17, 1961 Illustre Prof. Widar Cesarini Sforza Facoltà di Giurisprudenza Università di Roma Carissimo Professor Cesarini: di ritorno al Nord, sono a ringraziarti molto vivamente e di cuore per la lusinghiera accoglienza riservatami come studioso e per la cordialissima e veramente simpatica cena dell’ultima sera. Sono certo che questo incontro ha rinsaldato o promosso legami sul piano umano non meno che su quello scientifico,ed anche di questo ti ringrazio di cuore. Ho mandato a Baratta il testo della mia relazione perché egli possa pubblicarla, come mi aveva suggerito, tra gli Studi in onore di Betti, o altrove, se del caso . Ti prego di porgere alla Tua gentile Signora, anche a nome di mi moglie, i migliori saluti.Tu abbimi con alta stima e con viva devozione Tuo Bruno Leoni Vivissimi auguri di Natale e di Buon Capodanno 119 n.14 / 2006 Mario Quaranta Università di Padova e professori nella storia passata e recente Segno Veneto La funzione dei collegi dal medioevo a oggi Strana la vicenda dei collegi per studenti dell'università di Padova, dimenticati da una storiografia che all'Ateneo ha dedicato, nel corso dei decenni, una continuità di ricerche e di studi. Ora sette studiosi hanno disegnato la storia dei collegi, utilizzando sapientemente i materiali esistenti e formulando via via ipotesi interpretative sulle loro alterne vicende. I collegi per studenti sono stati numerosi, e hanno svolto un ruolo essenziale, ad esempio, per assicurare assistenza agli studenti più poveri. Le ragioni di un lungo oblio storiografico sono indicate dal curatore, Piero Del Negro, nel fatto che questi collegi “non diventarono mai il perno della didattica universitaria”, mentre la storia dei centri universitari di Parigi, Oxford, Salamanca, “si traduce in larga misura in una storia dei loro collegi”. Inoltre, Padova ebbe sì numerosi collegi, ma di dimensioni piccole, e pertanto non furono considerati essenziali in una storia dell'Ateneo, incentrata sulle grandi personalità e sulle cattedre di maggiore importanza, come quelle di medicina e di diritto. Ora che la storiografia più recente ha attribuito un rilievo a questa istituzione, ai rapporti che si sono stabiliti fra l'università e la società e con le altre istituzioni presenti nel territorio, anche i collegi universitari sono considerati parte integrante della vita culturale e sociale di una città, come Padova, che dal Duecento in poi ha avuto e mantenuto nel corso dei secoli un Ateneo di “eccellenza”. I collegi sono sorti numerosi tra la fine del Medioevo e l'età moderna, e dopo un declino verso la fine dell'Ottocento, hanno assunto un 120 ruolo importante negli ultimi cinquant'anni, quando l'università di massa ha richiesto, molto più di prima, assistenza e borse di studio per gli studenti più poveri. In questi studi è emerso un altro aspetto perlopiù ignorato, ossia che l'università di Padova, per mantenere un ruolo di riferimento internazionale, ha istituito collegi a favore di studenti ciprioti, greci, albanesi, istriani, dalmati, ossia per giovani che vivevano alla periferia dell'impero veneziano. Non solo: anche studenti di Belluno, Feltre, Monselice, Brescia, Bergamo, e naturalmente di Venezia (quattro erano i collegi dei patrizi veneziani) e di altre zone potevano usufruire di borse di studio. Gian Paolo Brezzi ci fornisce un quadro esauriente di otto secoli di storia dei collegi universitari, la cui immagine che è stata veicolata oscilla fra quella di “prigioni per giovani” o luoghi per la formazione dell'aristocrazia europea. Due immagini, afferma Brezzi, che “vanno considerate entrambe per comprendere lo sviluppo del collegio dalle sue origini, alla fine del XII secolo, fino ad oggi”. Sull'età medievale si sofferma Paola Benussi, un periodo in cui i collegi erano destinati essenzialmente “al solo sostentamento degli ospiti”. Utilizzando tutto il materiale disponibile, la studiosa traccia la storia dei diversi collegi, sottolineando che dalla fine del secolo XIV anche dottori, specie in arti e medicina, e docenti dello Studio presero l'iniziativa di istituire borse di studio per gli studenti più poveri. Del Negro traccia un quadro dei collegi sorti in età moderna indicando la complessa dinamica che si istituì fra interventi di laici e presenza delle istituzioni religiose, i criteri di selezione degli studenti, le forme di aiuto e le caratteristiche di queste Mario Quaranta Università di Padova e professori nella storia passata e recente comunità di studenti regolate da statuti. Maria Grazia Bevilacqua si sofferma sui collegi nell'Ottocento e nel primo Novecento, un periodo in cui c'è l'eclissi del modello medievale e moderno di collegio, e si afferma quello “in grado di ospitare un cospicuo numero di studenti”, esercitando su di loro un certo controllo. Infine, sono forniti i “materiali per la storia dei collegi attuali”. Siamo di fronte a un complesso di ricerche, che restituiscono ai collegi per studenti la loro importante funzione assolta nel corso dei secoli, funzione che ora si può comprendere pienamente, dal momento che siamo in presenza di una loro rivalutazione, specie nella “formazione per eccellenza”, un motivo, questo, che è alla base della scelta dell'università che s'intende frequentare. PIERO DEL NEGRO (a cura di), I collegi per studenti dell'Università di Padova. Una storia plurisecolare, Padova, Signum, 2 3, ill. 137, pp. 289. Un cancelliere storico dell'università di Padova Quest’opera incompiuta di Matteo Giro, iniziata da cancelliere dell’Università degli artisti prima del 1769 e proseguita fino al 1776, è stata ritrovata da Piero Del Negro e oggi ristampata: sono quattro manoscritti conservati nell’Archivio storico dell’Università di Padova, vergati da tre diverse mani. Giro è stato considerato per giudizio unanime, “uomo commendevole per le doti dell’animo e dell’ingegno” (Giuseppe Vedova); ha scritto delle favole elogiate da Gasparo Gozzi, pubblicate postume nel 1821 da Andrea Coi, seguite da edizioni di altre novelle. Ciò gli diede una certa notorietà, ma la valutazione conclusiva espressa da Carlo Filosa nel 1954, in un lavoro sulla tradizione della favola nella cultura italiana, è fortemente critica. La scoperta di questo testo consente, afferma Del Negro, “di assegnargli anche un ruolo culturale di un certo interesse”. Lo storico padovano traccia un’accurata biografia di Giro, soffermandosi sulla nomina a cancelliere da parte dei Riformatori, con il compito di redigere relazioni su aspetti e problemi della vita universitaria padovana. Lorenzo Morosini, esponente dell’ala riformista (sua è la riforma dell’Università del 1768), chiese a Giro un rapporto riservato sulla condizione dello Studio, condizione che il cancelliere presentò a tinte fosche: le lezioni si tengono solo per pochi mesi e sono pochissimo frequentate. Fra i due s’instaura un rapporto fiduciario; rinfrancato, Giro tende a ritagliarsi uno spazio come storico dello Studio (aveva già aiutato Facciolati in tale impresa), iniziando a scrivere i Saggi con il beneplacito dei Riformatori. Il cancelliere-archivista realizza così il progetto che fu, prima, dei cancellieri Torta e Sellari, ossia avviare, per la prima volta, “una storia dell’Università a cura di un archivista, a partire da un ordinamento archivistico, la raccolta Minato”. Dei 1 7 “capitoli” previsti, Giro ne redasse 53, ossia due terzi dell’opera complessiva, che doveva contenere “in via istorica quelle notizie che, appoggiate a statuti, a leggi, terminazioni e decreti”, potevano “essere di lume alle giornaliere occorrenze dei Riformatori e del loro segretario”. Perché Giro non portò a termine il lavoro (morì nel 1791)? Del Negro avanza l’ipotesi che, dopo la riforma del 1711, la quale preludeva ad altri cambiamenti, egli comprese che “la sua sarebbe stata una fatica di Sisifo”, costringendolo ad aggiungere via via altri “capitoli”. Da ciò la scelta di interrompere il lavoro, e dedicarsi così alla stesura e “ad un’incessante revisione delle novelle”. MATTEO GIRO, Saggi intorno le cose sistematiche dello Studio di Padova, a cura di Piero Del Negro e Francesco Piova, Treviso, Antilia, 2 3, pp. XXXVI,-229 , 48 ill. Marsilio Santasofia, “monarcha medicinae” L’autrice traccia la prima, completa, biografia intellettuale di Marsilio Santasofia (1338-14 4) nella Padova del Trecento, i suoi rapporti culturali e politici con i Visconti, la sua attività come docente e archiatra, e le ragioni di una fama che fu sanzionata dal riconoscimento di “monarcha medicinae”, attribuito a un solo maestro per ogni generazione. Il suo insegnamento, nelle diverse Università in cui fu chiamato, si esplicò esclusivamente nel com- 121 n.14 / 2006 mento dei testi fondamentali di medicina. Ad esempio, a Padova, commentò l’Articella (comprendente le quattro opere di Ippocrate e Galeno) e il Canone di Avicenna; inoltre dedicò vari commenti alla Tegni di Galeno e agli Aphorismi di Ippocrate. L’autrice analizza con grande rigore, ricorrendo a una vasta conoscenza di testi e autori del TreQuattrocento, i testi di Marsilio, le trascrizioni, fornendoci un quadro completo della sua carriera. Ma per delineare, per la prima volta tale quadro, data la sproporzione esistente tra la fama che Marsilio si guadagnò in vita, e la povertà della bibliografia, l’autrice ha dovuto rivedere (e spesso rettificare e integrare) i dati biografici, insieme alla costruzione del catalogo delle opere e della loro tradizione. Parenti inizia sfatando una “leggenda” sulla famiglia Santasofia; i documenti ci dicono che era padovana, e il nome deriva dalla contrada S. Sofia. Un secondo, e più rilevante risultato della ricerca, riguarda il rilievo accademico che l’insegnamento della medicina ebbe a Padova tra la fine del Duecento e i primi decenni del Trecento, alla pari di altre Università (Bologna, Parigi, Montpellier), cui è stato finora riconosciuta una primazia. “Possiamo a buon diritto porre anche Padova, afferma, tra i centri in cui nel cinquantennio tra il 127 e il 132 si stabilizzò l’insegnamento universitario della medicina”. L’autrice assegna il dovuto rilievo a Niccolò Santasofia, l’iniziatore di una dinastia di medici che durerà fino al Seicento; egli fu noto e famoso per il suo ricettario, frutto di decenni d’attività medica. I figli Giovanni e Marsilio hanno svolto un’intensa attività accademica; entrambi sono stati membri del Sacro collegio dei dottori d’arte e di medicina, e il registro delle riunioni dal 1382 al 1414 ci consente di seguire il ruolo svolto e quello dei successivi Santasofia. Gran parte del lavoro della Pesenti consiste nel seguire le peregrinazioni di Marsilio nelle diverse Università in cui insegnò (Firenze, Siena, Bologna, Pavia, Piacenza) e le ragioni di tali spostamenti. Comunque, fu la continuità del suo insegnamento a Padova e l’uso dei suoi commenti che lo resero celebre. Per tutto il Quattrocento studenti e docenti “si studiarono di possedere i suoi com- 122 menti al primo libro del Canone”; ma dalla seconda metà del secolo i suoi manoscritti non circolano più, rivivendo egli, come un “classico”, in alcuni testi stampati successivamente. L’autrice analizza i commenti di Marsilio, la loro fortuna e tradizione, inseguendone la presenza a Vienna, Praga ed Erfurt, e fornendoci il testo latino di alcuni di essi. Ne esce un’immagine del tutto nuova di Marsilio, dei suoi rapporti con il potere politico a Padova e in altre città, come Pavia, ove fu archiatra di Galeazzo Visconti, e delle autentiche ragioni di una grande fama che gli consentì di passare, richiesto e pagatissimo, in diversi centri universitari, al riparo da condizionamenti o compromissioni politiche. TIZIANA PESENTI, Marsilio Santasofia tra corti e Università. La carriera di un “monarcha medicinae” del Trecento, Treviso, Antilia, 2 3, pp. XXIV. La medicina statica di Santorio Santorio Lo storico della medicina padovano ha curato, con una nuova traduzione, l’opera fondamentale di Santorio Santorio (1561- 1536), La medicina statica. Santorio iniziò nel 1575 gli studi di filosofia e medicina nello Studio di Padova, ove si laureò nel 1562, dedicandosi poi all’esercizio della professione medica. Dopo alcuni soggiorni all’estero, nel 1599 si stabilì a Venezia, e nel 16 2 pubblicò il suo primo libro sul metodo per evitare gli errori in medicina. Il curatore ci fornisce un esauriente profilo biografico-intellettuale di questo seguace di Galeno che cercò di riformarne il modello con l’introduzione di criteri misurativi, esclusi dal medico antico. Santorio è chiamato alla cattedra di medicina teorica dello Studio di Padova nel 1611, la più importante e ben remunerata: ottocento fiorini all’anno. Vi rimase per tredici anni “con grande fama e con uno straordinario concorso di studenti, per la sua capacità espositiva, l’originalità delle sue idee e le sue dimostrazioni di nuovi metodi di esame clinico”. Fra le opere che pubblicò, spicca La medicina statica del 1614 “sulle variazioni di peso a cui va incontro il corpo umano in seguito all’ingestione e alle escrezioni, studiate nelle condizioni più varie”. Mario Quaranta Università di Padova e professori nella storia passata e recente L’introduzione dell’analisi quantitativa dei fenomeni vitali è resa possibile dalla creazione di strumenti tecnici adeguati, e Santorio ha utilizzato, nei suoi numerosissimi esperimenti, il pulsilogio (per misurare la frequenza del polso), il termometro, l’igrometro e la bilancia (ma egli ha creato altri strumenti). “Il fatto ‘nuovo e inaudito’, afferma il curatore, fu quello di servirsi della bilancia come strumento di misurazione”; esso ricorda, per novità dirompente, l’uso del cannocchiale da parte di Galileo, uno strumento meccanico ritenuto di nessunna affidabilità scientifica. Il testo è composto di cinquecentodue aforismi, divisi in sette sezioni, “la prima delle quali tratta della traspirazione insensibile e del metodo della pesatura, ed è la più importante”. L’opera ha avuto una vasta eco e circolazione, e ha provocato anche aspre polemiche come quella di Ippolito Obizzi; oggi è considerata uno dei tentativi più validi per “spiegare le funzioni del corpo animale su basi esclusivamente meccaniche”. In altri termini, essa segna l’avvio della iatromeccanica, che troverà in Giovanni Alfonso Borelli il suo maggiore sistematore con l’opera De motu animalium del 168 -81, in cui si trova sia un aperto riconoscimento dell’importanza del contributo di Santorio, sia l’utilizzo del suo termometro. SANTORIO SANTORIO, La medicina statica, introduzione e cura di Giuseppe Ongaro, Firenze, Giunti, 2 1, pp. 187. L'aristotelismo nelle università europee Questo libro raccoglie gli atti di un Colloquio internazionale in memoria di Charles B. Schmitt, tenuto a Padova nel settembre 2 integrato da alcuni ulteriori studi. Schmitt è stato uno dei più validi studiosi delle vicende dell’aristotelismo padovano; ha contribuito a svellerlo da un’immagine tradizionale, secondo cui era un fenomeno “privo di ogni vitalità e incidenza sul pensiero moderno” (G. Piaia). I diciassette saggi qui raccolti, affrontano essenzialmente il problema dell’influenza che l’aristotelismo padovano ha esercitato in Europa, dove il pensiero aristotelico orientò gli studi in tutte le università. Il risultato più interessante, e per certi aspetti sorprendente, è che l’influsso maggiore si è avuto nelle università dell’Europa centro-settentrionale, ossia in Germania e Scandinavia (saggi di Ian Maclean, Heikki Mihheli, David Lines, Heinrich Kuhn). Sull’aristotelismo “eclettico” di Francesco Piccolomini, che ha insegnato a Padova per quarant’anni (dal 1561 al 16 1), interviene Jill Kraye, mentre Merio Scattola si sofferma sul metodo della filosofia pratica, che sarebbe “alle origini della disciplina politica moderna”, accanto al decisivo contributo di Machiavelli e al filone della ragion di stato, con una serie di indicazioni metodologiche di notevole rilievo. Francesco Bottin sostiene che Giacomo Zabarella compie una revisione dell’edificio logico di Aristotele “in maniera tale da fornire all’uomo moderno gli strumenti concettuali di cui ha bisogno per la nuova scienza e la nuova filosofia”. Raggiunge tale risultato attraverso una revisione di Aristotele che gli consente di delineare una metodologia “capace di rispondere alle esigenze dell’invenzione e della scoperta”. In questo modo la sua logica diventa “uno strumento duttile per i diversi scopi”. David Lines esamina, in un saggio ben documentato, il metodo in etica (ossia le posizioni di Piccolomini e Zabarella) e la sua ricezione in Germania; in particolare analizza il pensiero di due filosofi, Piccart e Keckermann, che si richiamano all’insegnamento di Piccolomini. La conclusione è che il pensiero di Piccolomini non ha trovato consensi nella Germania protestante, proprio per motivi teologici, dal momento che il metodo del senese era orientato verso la metafisica e la teologia. L’aristotelismo padovano, la sua presenza come vera e propria “scuola”, la sua incidenza nella cultura fino all’alba della modernità, ossia alla nascita della scienza moderna con Galileo, i rapporti con la razionalità scientifica (continuità o rottura), l’interna, ricca articolazione di posizioni e contributi: sono temi che si ripresentano periodicamente alla ricerca storiografica e alla riflessione degli studiosi. Questi studi si collocano nella prospettiva aperta da John Randall (continuata da Schmitt) che per 123 n.14 / 2006 primo, nel 194 , parlò di una vera e proprio Scuola di Padova sufficientemente omogenea da poterne raccontare la storia. Questi studiosi ne hanno approfondito l’analisi, e soprattutto hanno esplorato la presenza e incidenza dell’aristotelismo padovano in aree culturali fino a oggi non studiate, con risultati di indubbio rilievo storiografico. GREGORIO PIAIA (a cura di), La presenza dell’aristotelismo padovano nella filosofia della prima modernità, Roma-Padova, Editrice Antenore, 2 2, pp. X-488. L'insegnamento delle scienze nel 7 a Padova Il Settecento è un secolo cruciale nel rinnovamento della cultura europea, ove si registra, sia pure tra lentezze e conflitti, un cambiamento nei programmi e negli insegnamenti dell’università. Il presentatore ricorda, a tale proposito, che fino al Settecento la struttura dei corsi universitari di carattere scientifico era rimasta quella dei secoli precedenti (XIV-XV), estranei alla rivoluzione scientifica, che proprio a Padova fu avviata da Galileo. Da ciò la credenza, consolidata da una lunga tradizione storiografica, di un’estraneità dell’università padovana a quel grande evento con cui si apre la modernità. Ora, l’accoglimento di nuovi paradigmi scientifici fu lenta e contrastata, soprattutto per ragioni culturali; una gran parte dei docenti riteneva, infatti, che l’università dovesse far conoscere il sapere tradizionale, che aveva dietro di sé una lunga e illustre tradizione. Ciò creò una discrasia tra il sapere universitario e quello che emergeva nei punti alti della ricerca scientifica. Ci sono stati, sì, tentativi di integrare le novità scientifiche entro i vecchi programmi, ma con scarsi risultati. È nel Settecento che avviene il salto di qualità, nel senso che l’impresa scientifica si afferma in modo irreversibile, e pertanto avviene un progressivo adeguamento degli insegnamenti scientifici differenziato nei singoli insegnamenti, per cui “vecchio e nuovo coesistettero”. Sullo sfondo di una tale complessa situazione, i curatori hanno scelto i criteri in base a cui selezionare “professori e scienzia- 124 ti” da biografare. Sono stati sostanzialmente due: scegliere docenti e ricercatori il cui insegnamento era scientifico nel senso attuale, o lo è diventato, e che hanno prodotto scritti che rientrano nell’ambito delle scienze naturali, matematiche e mediche. In questo modo sono stati inseriti validi docenti che hanno insegnato in altre istituzioni, come il Seminario vescovile e i soci dell’Accademia patavina, i cui corsi sono collocati accanto (e, spesso, in forma propedeutica) a quelli universitari. Da ciò la decisione di inserire i docenti in larghi settori disciplinari, da cui peraltro emergono i loro contributi specifici. Trentotto sono gli studiosi presenti nel voluminoso libro; molte “schede” sono vere e proprie micro-monografie che non riguardano solo i “grandi”, come Vallisneri, Morgagni, Poleni, Stratico, Caldari, ma anche Colombo, Cerato, Giovanni Rossi, Viero, e altri ancora. Tutte le “voci” sono corredate dell’elenco delle opere e delle fonti biografiche e archivistiche. Insomma, siamo di fronte a un’opera che è la conclusione di un gran lavoro di studiosi, e che costituisce uno strumento imprescindibile per chi vorrà riprendere lo studio della cultura scientifica del Settecento. Infine, ne esce confermata l’immagine di un Ateneo che è riuscito a mantenere un alto livello scientifico nel corso dei secoli, accogliendo via via ciò che di nuovo avveniva nelle scienze per rinnovare l’insegnamento e la cultura. SANDRA CASELLA e LUCIANA SITRAN REA (a cura di), Professori e scienziati a Padova nel Settecento, presentazione di Ugo Baldini, Treviso, Antilia, pp. XXI-779. Carlo Diano filologo e filosofo Carlo Diano (19 2-1974), ha insegnato per alcuni decenni all’Università di Padova; egli è stato, per unanimità di studiosi, uno dei maggiori interpreti della cultura greca; ha tradotto tutte le tragedie greche, alcuni testi filosofici (Platone, Aristotele, Eraclito, Cicerone, e soprattutto Epicuro), e ha pubblicato due opere filosofiche, Forma ed evento e Linee per una fenomenologia dell’arte. Mario Quaranta Università di Padova e professori nella storia passata e recente Nel convegno a lui dedicato, Armando Rigobello ricostruisce, insieme al clima filosofico dell’università di Padova degli anni Cinquanta, la trama dell’opera filosofica maggiore di Diano, Forma ed evento, pubblicata per la prima volta nel 1952, cogliendone sia la dimensione schiettamente filosofica sia quella storiografica. Diano emblematizza la sua visione del mondo greco nei due eroi omerici Achille e Ulisse, che sono, afferma Diano, le due anime della Grecia. “Diano, nota Rigobello, vede nel primo il prevalere della forma come valore ideale, nel secondo la mobile duttilità dell’evento”. Egli situa quest’opera nel contesto della filosofia contemporanea, indicando nella fenomenologia “intesa come sguardo nel mondo senza pregiudizi”, l’orientamento più vicino al pensiero di Diano. Franco Bernabei istituisce un persuasivo confronto fra Carlo Diano e Sergio Bettini, indicando come l’esistenzialismo, in cui si riconobbe Bettini, “venisse a coprire la dimensione dell’evento, e la fenomenologia quello della forma”. Achille Olivieri propone connessioni nuove tra Forma ed evento e i “dibattiti storiografici del Novecento imperniati per un lungo tratto su tre concetti che fra loro si intersecano, fatto storico, evento/avvenimento, fenomeno storico”. Ora, l’opera di Diano appare nell’anno in cui Bloch, Braudel, Febvre iniziano la discussione sulla storia della società e della cultura, ove un ruolo centrale assume la tyche, la fortuna, che “per Braudel [è] la congiuntura, per Paul Veyne il mondo subliminale degli avvenimenti”; categorie che richiamano direttamente quella di evento. In conclusione, Diano ha offerto “uno spazio originale all’evento e alla sua utilizzazione nella ricerca storica”. Giorgio Pasqualotto sostiene che “la presenza del pensiero orientale negli scritti di Carlo Diano si condensano ed emergono in rari ma significativi passi”. Siamo di fronte a frammenti da cui Pasqualotto, profondo conoscitore del pensiero orientale, trae una convincente lettura. Giuseppe Serra disegna l’interpretazione dei tragici data da Diano, che costituisce uno dei suoi contributi più originali, ancor oggi fondamentali per comprendere il mondo culturale dei Greci. Lino Rossi delinea una “introduzione teorica alla prospettiva estetica dianea”, collegando il pensiero di Diano con i mol- teplici fili che lo legarono alla filosofia italiana, ma anche a Platone fino a Heidegger, con un distacco da Gentile con cui intrattenne un lungo rapporto epistolare. Rossi sottolinea, per la prima volta, un rapporto diretto con il relazionismo di Enzo Paci, chiarendo la peculiarità del suo utilizzo della fenomenologia. Diano, afferma Rossi, “ha concepito la filosofia come fenomenologia cui è demandato il compito di analisi e ricostruzione storica e logica della vita”; una posizione che consente di comprendere la sua “nozione di arte come sintesi di forma ed evento”. Infine va ricordata la “testimonianza” della figlia Francesca Emilia, “Carlo Diano mio padre”, sobria e precisa nell’individuare la personalità controversa e di difficile lettura del padre, anche per gli allievi. In termini sobri e asciutti, indica il “rovello” di Diano, che tale rimase per tutta la vita, in un doloroso distacco giovanile dalla sua terra calabrese, il successivo vagare per l’Italia e l’Europa: ma “nessun legame lo strapperà alla sua solitudine assoluta”. Questa condizione di “esiliato” sarebbe, dunque, la cifra della sua vita, della sua attività di interprete della cultura greca, anche se, o proprio perché, “la vera patria da cui si sentiva in esilio era la Grecia”. ODDONE LONGO (a cura di), L’esilio del sapiente. Carlo Diano a cent’anni dalla nascita, Padova, Esedra, 2 3, pp. 138, € 15.5 ; LINO ROSSI, Carlo Diano: la prospettiva estetica (una sinossi), Bologna, Preprint, 2 2, pp.24. Le istituzioni culturali e scientifiche del Veneto tra storia e attualità Nell'ambito di una ricognizione sulla storia culturale del Veneto, i contributi di questo convegno segnano un punto fermo: ne trascegliamo alcuni su accademie e biblioteche, istituzioni che hanno inciso nel tessuto culturale della regione, assicurando la continuità di un'attiva e feconda presenza sul territorio, sia pure contrastata nel periodo delle dominazioni straniere (francese e austriaca). Maria C. Ghetti interviene sui rapporti tra i poteri politici e l'Università di Padova, contestando l'immagine tradizionale di un Ateneo che nel 7 125 n.14 / 2006 conoscerebbe una inarrestabile decadenza. C'è sì un ridimensionamento di tale istituzione, legata fra l'altro alle nuove realtà nazionali ove si formano sedi universitarie, ma sono compiute anche coraggiose innovazioni didattiche e culturali. Così l'Università si dota di nuove strutture (laboratori, biblioteche) che forniscono un insegnamento in grado di dare risposte adeguate a un mercato delle professioni che conosce un incremento diversificato. Luigi Pepe si sofferma sull'Istituto Reale veneto nel periodo napoleonico, di cui traccia in modo circostanziato le vicende; un periodo in cui è attuata una profonda riforma con una marcata accentuazione assegnata alla classe delle scienze, in un rapporto di tre a due rispetto alla classe di lettere. Antonio Lepschy tratteggia la storia dell'Accademia dei XL (numero massimo dei suoi membri), nata nel 1781 dall'attivismo di Anton Maria Lorgna, in cui sono presenti scienziati di tutti gli Stati della penisola. Egli punta soprattutto a pubblicare lavori scientifici dei suoi membri, assicurando all'Accademia un'autonomia dal governo. Il suo scopo principale è quello di “favorire il progresso delle scienze e di onorarne i cultori più eminenti”; un obiettivo che è riuscito a raggiungere brillantemente. Dopo la morte del suo fondatore avvenuta nel 1796, l'Accademia fu diretta dall'astronomo Antonio Cagnoli che ne assicurò una dignitosa continuità, finchè dopo il regno d'Italia fu trasferita da Verona a Roma dove ha tuttora la sede ufficiale. Piero Del Negro dipana le complesse vicende dell'Accademia di belle arti di Venezia, la cui finalità principale è stata, secondo il suo statuto iniziale, “quella di rendere più riputata la Professione e più rispettabile la Scienza tramite un'accurata selezione di maestri e un'appropriata formazione degli aspiranti artisti”. Luisa Pigatto esibisce una ricca documentazione sull'insegnamento dell'astronomia e sulla realizzazione della Specola padovana i cui lavori, iniziati nel 1767, si sono conclusi nel 1777. E mentre Marino Zorzi delinea la storia della Biblioteca Marciana, che fin dall'inizio (nel 5 ) si è specializzata in manoscritti, aldine, edizioni rare, diventando uno dei “quattro luoghi”, insieme all'Arsenale, all'armeria del Consiglio dei Dieci e al 126 Tesoro di San Marco, “da mostrare agli illustri forestieri come pubblica gloria”, Lavinia Prosdocimi ci parla della Biblioteca dell'Università di Padova, nata nel 1629, che fu la prima tra le biblioteche universitarie italiane. Vanno infine segnalati altri pregevoli contributi più specifici: Giormani sui laboratori di chimica, Callegari sulla tipografia del Seminario di Padova, Veggetti sulla scuola di veterinaria. Questi venti contributi tracciano in termini esaurienti la storia di alcune fra le più importanti istituzioni culturali durante un sessantennio di vita del Veneto (ma tuttora attive): dall'età delle riforme a quella della restaurazione; un periodo in cui questo territorio ha conosciuto le dominazioni francesi e austriache, che hanno sconvolto l'assetto, la consistenza e l'uso di tali istituzioni, le quali però hanno mantenuto e via via rafforzato la loro presenza e accresciuto la loro funzione culturale nel Veneto. L. SITRAN REA (a cura di), Istituzioni culturali, scienza, insegnamento nel Veneto dall'età delle riforme alla restaurazione (1751-1818) (Atti del Convegno di Studi, Padova 28-29 maggio 1998), Trieste, Lint, 2 , pp. 392. L'Università di fronte alle leggi razziali L'Università di Padova, medaglia d'oro della Resistenza, con l'adesione della Conferenza permanente delle Università italiane, ha organizzato un convegno su uno dei momenti più tragici della nostra recente storia, vale a dire gli otto anni che vanno dalla promulgazione delle leggi razziali alla fine del regime fascista (1938-1945). Si tratta di una iniziativa “senza precedente in Italia”, ha precisato Tullia Zevi, presidente dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane; “un atto riparatorio nei confronti dei docenti ebrei che dagli atenei italiani furono allontanati in applicazione delle leggi razziali fasciste”. La giornata è stata caratterizzata da due ampie relazioni: una di Roberto Finzi su Le leggi 'razziali' e l'Università italiana, e una di Angelo Ventura su Le leggi razziali all'Università di Padova. Vanno poi segnalati gli interventi di Enrico Opocher su Mario Quaranta Università di Padova e professori nella storia passata e recente L'Università dalle leggi razziali alla Resistenza, e le alcune testimonianze di Milla Baldo Ceolin su Bruno Rossi, di Rita Levi Montalcini su Giuseppe Levi, di Silvio Lanaro su Marco Fanno e di Giorgio Salvini su La Scuola di fisica di via Panisperna. Finora le ricerche storiche si sono soffermate esclusivamente sui professori ebrei di ruolo espulsi dall'Università nel 1938, per sottolineare le conseguenze più vistose di tali leggi: un indubbio depauperamento di personalità di alto livello scientifico, con le ovvie conseguenze negative in vari settori della ricerca. Finzi interviene soprattutto nel “campo inesplorato, e assai vasto, di forze universitarie colpite dall'antisemitismo di Stato”: sia quello degli assistenti volontari e incaricati, sia di quei neolaureati che avevano appena iniziato la carriera universitaria. In questo modo si ha un quadro completo degli effetti devastanti provocati dalle leggi razziali. Finzi fa proprio il giudizio espresso da Karl Lövith, secondo il quale le norme antisemite italiane, “malgrado certe formulazioni più blande, erano in fondo più infami di quelle tedesche, poiché l'Italia aveva già garantito un asilo agli emigrati prima di scacciarli nuovamente dal paese”. A ciò si aggiunga il fatto che gli ebrei italiani avevano un forte “senso di appartenenza al loro paese senza minimamante sentirsi fuori legge”, senso che il fascismo “tradì senza riuscire a spezzarlo”. L'autore ripercorre con precisa documentazione molti casi personali, e “per molti, afferma, il colpo ebbe diretti riflessi sulla salute fisica”. Dopo un'ampia informazione storica sugli effetti delle leggi razziali, l'autore affronta un capitolo nuovo della ricerca storica su quel periodo, partendo da un inconfutabile dato di fatto: molti (troppi) scienziati ebrei cacciati nel 1938 non sono più tornati in Italia dopo la caduta del fascismo, per cui il punto d'osservazione va spostato dal 1938 al 1945”, sottolinea l'autore. Varie le ipotesi avanzate per spiegare questo fenomeno; la prima riguarda il modo in cui è stata affrontata l'epurazione. A tale proposito vengono citati due casi emblematici di professori ebrei, Tullio Terni, anatomo a Padova, e Giorgio Del Vecchio, espulsi dall'Università nel 1938 e poi, dopo il 1945, il primo fu radiato dall'Accademia dei Lincei (e ciò ne provocò il suicidio); il secondo fu sospeso dall'insegnamento perchè deferito alla commissione per l'epurazione. Questo episodio, con altri elementi aggiuntivi, solleva un inquietante problema: “Quale fu la reale valutazione, il reale peso dato alla persecuzione antisemita dai dirigenti antifascisti?”. La risposta dello storico è che ci fu una insensibilità, per così dire, dell'ambiente accademico italiano, rimasto intatto nelle sue strutture e nei suoi uomini, ad accogliere e integrare chi era stato cacciato a quel livello scientifico che intanto molti di loro avevano raggiunto all'estero. In conclusione, “la perdita secca per la ricerca italiana originata dai provvedimenti ‘a difesa della razza’ del 1938 diviene danno definitivo per come si operò nel 1945” . Angelo Ventura, in sintonia con l'impostazione metodologica di Finzi, ci dà la prima, completa informazione sugli effetti delle leggi razziali nell'Università di Padova, dagli studenti ebrei stranieri, di cui era stata vietata l'ammisssione ai corsi universitari a partire dall'anno accademico 19381939, agli assistenti, incaricati e professori. Veniamo a conoscere, per la prima volta, gli effetti che si sono avuti facoltà per facoltà; di tutti i docenti sono forniti i dati biografici e culturali, oltre che un'informazione sulla loro “operosità scientifica” (come si diceva allora), e sulla reazione che queste leggi provocarono all'interno del “corpo accademico”. Alla fine l'autore formula questa valutazione che non richiede alcun commento: “Le leggi razziali gettarono lo sconcerto nella comunità universitaria, e certo furono accolte con un diffuso quanto tacito sentimento di disapprovazione. Ma nulla lascia intendere che scavassero un solco morale irriducibile nei confronti del fascismo. Da nessuna parte si leva la protesta di una coscienza offesa. Tace anche chi aveva autorità e rango sociale per poter esprimere senza troppo rischio una sia pur cauta voce di dissenso”. Con questo ampio lavoro, Ventura ha fornito un modello storiografico di ricerca per le altre Università italiane, per compiere quel lavoro che ancora manca sugli effetti che le leggi razziali hanno avuto su tutte le Università italiane; un lavoro che è merito di questo convegno avere avviato nel miglior modo. 127 n.14 / 2006 ANGELO VENTURA (a cura di), L'Università dalle leggi razziali alla Resistenza, Atti della Giornata dell'Università italiana nel 5 anniversario della Liberazione (Padova, 29 maggio 1995), Cleup, Padova 1996. Dall'Università a Mauthausen Franco Busetto è stato segretario provinciale del Pci negli anni cinquanta e poi parlamentare. Figlio di un professore di letteratura italiana all'Università di Padova, ha mantenuto buoni rapporti con la sua città; amico dell'architetto Luigi Piccinato, ha contribuito all'attività del Circolo culturale “Il Pozzetto”, e come parlamentare sono noti i suoi interventi per lo sviluppo del Veneto. Ora pubblica una serie di interventi, legati dal filo della memoria: una specie di autobiografia in cui il dato personale si intreccia con le vicende politiche che hanno caratterizzato, e più spesso marcato, “la generazione degli anni difficili”. Quello di Busetto è il percorso tipico di una generazione di intellettuali italiani: all'Università fanno le prime esperienze con la partecipazione ai Littoriali, utilizzando gli spazi di discussione esistenti, nella persuasione di contribuire a creare un'Italia nuova rispetto a quella precedente, che era finita nel fango della prima guerra mondiale. E poi c'è l'esperienza, terribile e traumatica, della guerra, e, per Busetto, il campo di concentramento. Come sottolinea Giuliano Lenci nella sobria presentazione, il tono dei testi è “tale da delineare, abolite l'enfasi, le millanterie e l'accento vendicativo”. Proprio così: senza esibizionismi postumi, 128 codepaglismi o pentitismi fuori luogo, ma che hanno segnato una stagione memorialistico-letteraria di questo dopoguerra, l'autore ci dice come è passato dal fascismo all'impegno antifascista. Sì, c'è stato l'incontro fortunoso con un “Maestro”, Concetto Marchesi, il cui appello del novembre 1943 ha permesso a Busetto “un primo rapporto con il movimento comunista”; ma è soprattutto l'esperienza della guerra e del lager di Mauthausen che accelera la scelta sua e di tanti altri. “Con la guerra, afferma, pagammo il prezzo delle nostre speranze ‘negative’, ma quell'esperienza tragica per il nostro popolo e per il paese ci consentì di cogliere quanto non avevamo ancora definitivamente capito: l'essenza del fascismo”. C'è, infine, l'esperienza del lager austriaco di Mauthausen, di cui ci viene descritto in termini rigorosi il clima umano, le regole che via via si scoprono alla base dei comportamenti degli aguzzini: “Le SS tedesche facevano una scelta di particolari forme di sevizie e di persecuzioni che usavano nei confronti degli ebrei, dei sovietici e dei deportati ammalati”. Nell'intento di testimoniare una vicenda personale ma emblematica di un regime, viene riportato il regolamento del lager: “Entrando nel lager ci si doveva dimenticare di essere un individuo con la propria personalità, bisognava annullarsi in un numero ed essere solo al servizio del Reich” (Busetto era il numero 113922 KLM). Per rivendicare la propria personalità, Busetto porta a conoscenza di noi tutti questa esperienza vissuta nel periodo più tragico di questo “secolo breve”. FRANCO BUSETTO, Dall'Università a Mauthausen, presentazione di Giuliano Lenci, Padova, Il Poligrafo, 1997, pp. 81.