Lettera ad un bambino nato dal cuore Mio caro Adolfino

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Lettera ad un bambino nato dal cuore Mio caro Adolfino
Copertina ed illustrazioni di Raymond Peynet, per gentile concessione della figlia M.me Annie
Lettera ad un bambino
nato dal cuore
Mio caro Adolfino,
non so se un giorno, da grande, tu vorrai leggere
queste pagine. Io però lo stesso le scrivo, perché sento un bisogno
urgente, irrefrenabile, di raccontarti tutta la gioia e l'amore che la tua
venuta ci ha dato.
Ti ho sempre detto che papà e mamma erano molto tristi prima che tu
arrivassi, forse questo non é esattamente tutto vero.
Noi ci volevamo (ci vogliamo!!!) tanto, tanto bene e vivevamo, anche se
non lo sapevamo, nella tua attesa. Era peró un'attesa serena e
fiduciosa perché sapevamo che saresti arrivato tu, proprio tu, il
nostro Adolfino, con i suoi enormi occhi neri e la sua intelligenza
saettante.
I primi anni di matrimonio eravamo inebriati di felicità e tutti tesi a
raggiungere altre mete: la laurea di papà, il servizio militare e poi via
via il suo successo professionale. Poi un giorno ci furono tra noi dei
discorsi, delle parole, delle confessioni: "Vorresti un bambino? Ti
piacerebbe avere un figlio"? Ed ecco la decisione. Sono passati nove
mesi da quella decisione, proprio nove mesi esatti. II ginecologo
avrebbe sentenziato: parto eutocico.
Ed ecco che il telefono di casa Salabé suonò, in una mattina come
tante altre.
Mi sono precipitata a rispondere di corsa, perché ti aspettavo, perché
sapevo che eri vicino. Ed ecco una voce femminile: "Signora é nato il
suo bambino, un bel maschietto di quattro chili e mezzo. Può venire
subito a vederlo?!?".
Quello che ho provato in quell'istante é indescrivibile. Una ridda di
pensieri tutti accavallati ed incalzanti.
Prima devo correre ad annunciarlo a Mario.
No! Vado a comprare il corredino.
No! Devo avvisare mamma, che in questi casi riesce ad organizzare
con più chiarezza le cose. No! Corro a vederlo. Non ricordo bene cosa
ho fatto per prima. So soltanto che nonna Carmela, papà ed io
eravamo in clinica appena mezzora dopo.
Lì c'eri tu che dormivi pacifico e sereno.
La suora, con te in braccio, si é avvicinata e mi ti ha porto dicendo:
"Signora questo é suo figlio".
E' stato allora che sono scoppiata a
piangere a dirotto, e ti ho svegliato, e la prima cosa che hai fatto è
stata quella di sorridermi. Ma, nonostante il tuo sorriso, i miei
singhiozzi erano struggenti e incalzanti, credevo che il petto mi
scoppiasse dalla gioia.
Papà era pietrificato contro il muro, anche lui con gli occhi pieni di
lacrime e il cuore gonfio di amore. Sarebbe finita in una tragedia
greca, se nonna Carmela non fosse intervenuta con il suo solito
humor e non avesse spezzato questa catena di singhiozzi con una
frase spiritosa:
"Pari 'nu pitaciu" (sembra un rondinotto).
Infatti questa era la prima sensazione nel vederti, cioè quella di un
uccellino, anzi di un rondinotto implume, con due enormi occhi
sgranati e pieni di punti interrogativi. Per fortuna nonna Carmela
aveva salvato la situazione perché, alla sua battuta, tutti siamo
scoppiati a ridere e tu hai potuto finalmente riprendere il tuo pisolino.
I tuoi pisolini, poi lo saprò! E diventeranno proverbiali, perché sarai
un bimbo impastato di sonno e buonissimo.
Ciao cavaliere
Appena ti abbiamo portato a casa, puoi immaginare l'andirivieni di
amici e parenti, e lo squillo continuo del telefono, del citofono, della
porta. Sembrava il paese dei campanelli.
Primo fra tutti é arrivato il nostro adorato nonno Gigi, il quale certo
non godeva fama di gran fanciullaio. Ma questo nipotino, arrivato in
tarda età, l'aveva completamente conquistato, tanto che non lasciava
passare una sola giornata senza venire a vederti, e ti salutava
chiamandoti affettuosamente:
"Cavaliere, allora come andiamo"? Era una dolce consuetudine quel
suono del campanello verso sera, e il veder comparire la sua bella
sagoma contro luce sulla porta. Un po' curvo, dopo una giornata di
lavoro, con la sua inequivocabile scia di profumo mista a tabacco,
borbottava tra sé:
"Questo nipotino mi fa sentire nonno in una maniera nuova, che
strano, é la prima volta che ci penso, prima non era mai capitato".
E tu, pacifico, continuavi a bere il tuo tubo di latte, che ingordamente
finivi fino all'ultimo goccio. 0 sguazzavi nell'acqua tiepida del
bagnetto, innaffiandomi fino alla punta dei piedi. Oppure schiacciavi
il tuo consueto sonnellino.
Ancora non sapevi che il nonno era il capostipite, che lui ti aveva
desiderato più di noi, anzi no! Prima di noi… prima che tu venissi.
Ancora non sapevi che lui dopo pochi mesi sarebbe volato in cielo,
accanto alla tua mamma. Si, la tua mamma... della pancia.
Perché lì sono tutti insieme!
Tenero pitacino
Mentre ti porgevo il biberon, ti stringevo teneramente approfittando
dei brevi momenti che mi era consentito tenerti in braccio senza
timore di viziarti.
E ti sussurravo la tua storia.
Mio dolce, caro, tenero Pitacino - allora ti chiamavamo cosi - tu sei
nato nel cuore di mamma e papà, perché sei nato dal nostro amore.
Ed é tale la gioia che ci hai dato, che qualsiasi descrizione sarebbe
una piccola cosa incompleta. E ti guardavo, e carezzavo la tua
carnagione vellutata, le tue guance di gommapiuma, le tue gambette
rosee piene di ciambelle, e non credevo che tu fossi vero, reale,
palpitante.
Forse é per questo che la notte mi alzavo in continuazione,
interrompendo i sogni per vedere se eri pure tu un sogno, oppure per
sincerarmi che eri lì con noi, vivo, vero, reale.
E tu, a dispetto di queste mie ansie, dormivi, anzi russavi
tranquillamente, con un'espressione beata. Anche il giorno del tuo
battesimo, giorno nel quale il caos di casa Salabé era arrivato al
diapason, tu hai schiacciato i tuoi metodici pisolini, ed hai mostrato
di gradire pure il sale della sapienza che il sacerdote maldestramente
ti ha infilato in bocca.
Un nome sperimentato
II nome Adolfo é stato deciso da noi, perché ti fosse di buon auspicio.
L'abbinamento Adolfo Salabé era già stato sperimentato, e noi
volevamo un nome sperimentato per te che venivi a far parte di questa
grande famiglia patriarcale. Lo zio Adolfo é stato per il tuo papà
qualcosa di più di un fratello grande, e noi gli siamo legati da tanti
sentimenti di affetto, riconoscenza e, non ultima, ammirazione per la
sua guizzante intelligenza, la ferrea volontà e la singolare capacità di
adattamento al mutare degli eventi. Puoi ben capire come questo
nome, cosi importante per un fagottino di quattro chili e mezzo, ti sia
piombato addosso con tutto l'impegno ed ogni fervido augurio di
buona fortuna.
Regali e quarantena
I regali che hai ricevuto sono un capitolo a parte: telegrammi da tutta
Italia, fiori in abbondanza, pensierini da persone dimenticate, lontane
o comunque non interessate direttamente, telefonate da parenti persi
nella nebbia del tempo. Insomma, hai riscosso subito tanto amore e
tanta simpatia. E tutto questo affetto eri proprio tu che l'attiravi,
perché eri buonissimo, felice di andare con tutti, e sorridevi a
chiunque ti porgesse le braccia. La tua preferenza é stata sempre per
il cuginetto Andreino che, al momento del tuo arrivo, era in
quarantena per un sospetto morbillo. Eravate patetici dietro il vetro
del salotto, cercando di toccarvi le manine per fare la vostra prima
conoscenza, separati da una gelida lastra trasparente che non
riusciva a frenare la vostra prima, istintiva simpatia. Devo riconoscere
che, anche in seguito, non essendoci più tra voi alcun diaframma
vitreo, i vostri incontri hanno continuato ad essere sempre molto
calorosi. Anzi, direi proprio travolgenti.
Intanto l'estate é arrivata alle porte, e dunque abbiamo deciso di
andare dai nonni a Grottaferrata. Lì sei diventato ancor più il
principino di casa. E i cuginetti tedeschi erano molto incuriositi per
l'arrivo di questo nuovo Salabé, e ti giravano intorno facendo a gara
per cullarti e porgerti il biberon.
Settembre è tutto per noi
Dopo la campagna siamo andati sulle Dolomiti, ad Ortisei, con il
cuginetto Nicola, i nonni e gli zii. Ho di quei giorni un ricordo
bellissimo, nitido e presente come se fosse ieri.
Era settembre, stavamo trascorrendo un intero mese insieme, noi due
da soli.
E' difficile, sai, amore mio, spiegarti questa sensazione di gioia perché
sono tantissimi i sentimenti che si intrecciano. Quando eravamo tutti
e tre, il mio primo pensiero era quello di non fare mancare a papà la
mia presenza improvvisamente, come conseguenza del tuo arrivo.
Quindi cercavo di dividermi tra voi due, naturalmente privilegiando te
che eri bisognoso di cure.
C'erano le necessità di un ménage domestico da mandare avanti, e il
problema del sonno. Per quanto tu fossi buonissimo, eri pur sempre
un lattante a sette pasti giornalieri, e la sera non potevo più essere
disponibile per la vita mondana.
Durante
quel
settembre
a
Ortisei,
noi
due
soli,
ho
vissuto
intensamente le tue giornate, senza alcun rimorso di avere come
unica occupazione quella di guardarti a sazietà.
Ci svegliavamo insieme e dormivamo insieme.
In quell'epoca ricordo che c'era il taglio del fieno, e le giornate
cominciavano ad accorciarsi. Io spingevo la carrozzina tra i campi
ingialliti su per salite e discese e, quando finalmente arrivavamo in
albergo, avevamo le guance rubizze di sole e di aria.
Andavamo a dormire alle otto e mezza, e la mattina eravamo i primi a
dare la sveglia a tutti. Eri mio, tutto mio, e dipendevi da me. Quel
mese mi ha dato la certezza che tu eri una parte di me, come una
mano od un occhio. Se, da grande, avrai una tua vita staccata e
indipendente, mi basterà pensare a quel periodo per essere ancora
felice.
Gli amici e i burattini
Tornati a Roma, c'é stata una bella sorpresa per tutti noi, l'arrivo di
due cuginetti: Lucia, detta cuzzupa per le sue ben note rotondità che
la facevano somigliare al famoso dolce pasquale napoletano, e
Giovannino, soprannominato Nanni bello.
Le giornate scorrevano varie e veloci. La mattina al Gianicolo da
Pulcinella citrullo, o ai giardini del laghetto dove mettevi in fila i
pinoli, le ghiande, i tappi (la tua mania delle collezioni), ed un giorno
perfino i lombrichi schierati a mo' di soldatini.
I pomeriggi erano scanditi da ritmi precisi: un lungo sonno, che mi
godevo insieme a te con la scusa di farti addormentare, e poi le visite
di Giorgia, Annalisa, Emanuele, Gianni, Federica e tanti altri
amichetti dei giardini.
Giornate da bere
Bevevo queste giornate come un assetato una bibita fresca. Ogni
giorno c'era una scoperta nuova. II primo dentino. II cucchiaino della
pappa ha fatto din, e tu mi hai mostrato il tuo primo miracolo:
neppure una lacrima, non un lamento.
Poi i primi passi, le prime paroline.
Ed eccoti già con cestino e grembiulino varcare la soglia dell'asilo di
suor Chiara, una giovane suorina catapultata a Roma da Torino con
un'aria sparuta e spaurita. Con lei ti sei ambientato subito.
Andavi volentieri, fiero di andare all'asilo come papà va in ufficio e la
mamma va dai vecchini.
Hai affrontato con serenità il primo, naturale distacco da noi dopo tre
anni di simbiosi assolutamente perfetta. Non c'é mai stato un giorno
in cui ti sei rifiutato di andare a scuola. Figurati, io non aspettavo
altro, ed ogni mattina, senza interferire nella tua decisione di mettere
le ali per cominciare a volare da solo, scrutavo speranzosa semmai
avessi avuto qualche incertezza.
Oppo
Ormai il tuo soprannome non era più Pitacino, come quando eri
appena nato, bensì Oppo. Ti era stato affibbiato da Nicolino, all'epoca
detto Nino, che, non riuscendo a dire Adolfo, un pomeriggio se n'era
uscito, dopo sforzi inenarrabili, con sopracciglia inarcate fino alla
radice dei capelli e cianosi in atto, con il nomignolo di Oppo.
Nell'inverno dei tuoi tre anni, con i tre cuginetti, Nicola, Lucia e
Nanni, abbiamo trascorso delle indimenticabili vacanze invernali,
piene di aneddoti e sottolineate da personaggi fantascientifici. Una di
queste é Lorena, la signorina di Nanni che, a mo' di Trudy la moglie di
Gambadilegno, stazzando sei tonnellate per coscia, si aggirava
ansimando, tipo ninfa di bosco. Per i corridoi del residence di
Pescasseroli intonava gioiosamente la ben nota canzone Heidi la tua
casa e tra i monti, sempre seguita da voi, quattro cuccioli saltellanti.
Intanto un'altra persona entrava nella nostra casa: Militina la tua
nuova tata. Ne uscirà dopo tre anni, da sposa, e tu accompagnerai il
corteo nuziale portando il cuscino con le fedi fino all'altare.
Avevi già quattro anni, quando la nostra famiglia fu scossa da un
avvenimento sconvolgente: la malattia di nonno Nicola, improvvisa,
crudele, lunghissima. Un giorno tu scriverai in un tema: "Mia mamma
é sempre allegra e vivace, solo diventa triste quando pensa al suo
papà che sta male".
Tropea
Ora peró vorrei ricordarti i bellissimi giorni d'estate passati a Tropea
con zia Anna ed Andreino, il cugino che é sempre rimasto la tua
grande passione. Tu attiravi le simpatie di tutti gli ospiti dell'albergo,
al primo posto Tronchetta che apostrofavi ogni cinque minuti
domandandogli le cose più impensate:
"Quanti bagni ti fai?
Perché chiedi sempre il ghiaccio?
Dov'é tuo marito? In quale casetta stai"?
E poi la bellissima Ludovica con gli occhi da gattina, che ti ritrovavi
sempre vicina pronta ad offrirti un'aranca. C'era con noi anche la
cuginetta più piccola, la dolce Mariannina la blonde.
Durante l'inverno, un terribile terremoto aveva sconvolto il già
poverissimo paesino dell'Irpinia, e papà era partito per aiutare quella
gente cosi tanto colpita. Al suo ritorno, aveva portato con sé due
bambine trovate in quel deserto di miseria e di dolore. I familiari si
erano sistemati nella nostra roulotte, e loro erano venute da noi per
due settimane, per evitare lo spettacolo orribile di quei primi giorni.
Anche
in
questa
occasione
hai
mostrato
un
comportamento
esemplare. La tua camera era stata invasa, i tuoi giochi maneggiati e
rotti da quelle manine inesperte, il tuo lettino occupato, ma non avesti
mai dei gesti di ribellione o di impazienza. Solo un giorno saresti
esploso. Loro avevano osato prendere un vecchio portafogli che il tuo
papà ti aveva regalato, e tu, che adori il tuo papà, avevi trasferito
questa adorazione anche agli oggetti che lui ti aveva regalato. Ne era
venuta fuori una scena furibonda, perché tu non volevi cedere per
nessuna ragione, mentre loro non capivano come mai, mentre avevi
lasciato che ti prendessero tutto, solo per quel piccolo oggetto si erano
scatenate le tue ire.
Cuor di pulcino
II pulcino Nicola accende un altro flash sulla tua infanzia. Ti ricordi,
Adolfino, che lui dormiva accanto a te e ti seguiva dappertutto? E, che
dispiacere quella mattina, quando trovasti la sua cuccia vuota e la
porta del giardino socchiusa! Nicola era andato via e i tuoi richiami
accorati, in giardino ed intorno al palazzo, non avevano risposta. Si
era fatto tardi, dovevi andare a scuola da ma mère Teresita, ma tu
non la finivi più di riempirmi di raccomandazioni: "Trovalo, chiedi a
tutti, lo rivoglio, Nicola é mio, deve tornare!”.
Proprio quel giorno ho inventato la tua favola, quella del pulcino
Nicola che aveva la zampetta viola.
Ti avevo spiegato che lui aveva la zampetta viola perché la mamma,
nel metterlo al mondo, aveva provato una tale gioia che le era
scoppiato il cuore cosi che, priva di sensi, si era accasciata sulla sua
zampina procurandogli un piccolo livido. Ed io, girando per la
campagna alla sua ricerca, lo avevo riconosciuto proprio da quella
macchietta sulla zampina. L'avevo ritrovato felice e contento, accanto
ad una gallinella che amorevolmente lo spiumettava. Ma, quando mi
ero avvicinata per prenderlo, ero stata fermata dalle urla disperate di
un contadino: "Oh no! Signora, per carità non porti via Nicola alla
gallinella, ne morirebbe di crepacuore. Sa, era così triste prima del
suo arrivo, perché non aveva pulcini. Non mangiava quasi mai e
piangeva tutto il giorno, ma, da quando é arrivato Nicola, é
irriconoscibile. Lo accarezza, gli prepara delle pappe meravigliose, lo
lava, ed a volte la notte dimentica di andare a dormire per guardarlo.
La prego signora, questa é la sua mamma del cuore, e Nicola é felice
con lei. Lo lasci qui!!”.
Cosi ti sei rassegnato, commentando che anche tu non avresti mai
lasciato la tua mamma del cuore per nessuna ragione al mondo,
neanche per... una montagna di bigbubble. Ci siamo abbracciati forte
forte, il tuo carattere pieno di risorse e di entusiasmo aveva subito
scacciato via la tristezza.
Questa
é
sempre
stata
una
tua
caratteristica
inconfondibile,
l'adattabilità che ti fa sentire felice e vincente in qualsiasi situazione.
Quando desideri una cosa ti batti per averla, ma se non la ottieni
l'obiettivo si sposta in altre direzioni, senza alcun cruccio o
abbattimento.
A scuola
Allo scoccare dei sei anni, hai varcato la soglia dell'Istituto Massimo
insieme a Giovannino.
Avete avuto due maestri molto bravi, ma molto diversi. II tuo é il
maestro Fragapane chiamato anche Fregapizza o Keep-bread, un
padre di famiglia, buono e paziente, che stenta a tenere a bada una
scolaresca molto numerosa.
Tra
i
tuoi
compagni,
Benedetti,
Signorini,
Guerra,
erano
particolarmente irrequieti.
E ricordi la tua passione per Arioli, il tappetto che giocava benissimo
a pallone? E Somma, l'amico dell'ultimo momento, ovvero il semper
paratus. E Maroncelli, che sudava come una fontana giocando a
rincorrersi
per
tutta
la
classe
con
Ciravegna,
che
lui
ha
soprannominato Cirafregna (questo gli é costato una nota sul diario).
E Cristina Cavazza, la più brava, sempre molto compita, con una
deliziosa sorellina che ti faceva dei sorrisini invitanti e ti regalava i
bacetti di cioccolato. E ancora, Tomassini, se é possibile più svitato e
fuso di te. Tu eri diligente e chiacchierone, ti chiamavano impiccione,
oppure la mia suocera.
Il pomeriggio era dedicato ai compiti e ad altre attività. Avevi iniziato a
suonare il pianoforte con la Signorina Drago, poi avresti continuato
con Padre Zaccaria (povero pizzinino!!).
Contemporaneamente eri impegnato anche in tante altre nuove
attività: il nuoto a San Paolo, e poi dalle suore di Nevers insieme a
Giovanni, e l'inglese con la Signorina Bevilacqua.
Intanto, le tue battute facevano il giro dei parenti.
Me ne ricordo qualcuna, come quella su nonno Aldo al quale, poiché
non era molto soddisfatto di essere andato in pensione, tu consigliavi
di cambiare albergo.
Oppure, alla notizia che Papa Luciani era morto, tu chiedevi
preoccupato "Chi l’ha schiacciato?".
E quando zia Doretta é stata operata al ginocchio, tu, incuriosito
domandavi "Nella sala operatoria chi l’ha accompagnata sulla bara ?".
Il cavallo del gradasso
Ma torniamo ai mesi estivi passati con nonna Carmela. Questa nonna
rappresentava per te il paese di Bengodi. Filastrocche, giochetti,
canzoncine si rincorrevano nella tua fantasia! Ricordi? Il cavallo del
gradasso. All’alberi pizzuti. Donna Lombarda. Donna Pipirona.
Fontana fontanella. Miao, la gatta si maritao. II mago Baruffo. La
cicoria. Mazza bubú. Pizza ricotta. Pizzi pizzi tangoli.
C'erano poi i giochi di carte: eri un vero biscazziere!
Festa di compleanno
I tuoi compleanni erano ogni volta delle feste indimenticabili. Ogni
anno si disegnava una torta diversa: il mondo dei Puffi, le api e
l'alveare un enorme campo di fragole, la margherita formata dai petali
di mimose la barca dei pirati.
E, per accogliere gli ospiti si preparava un cartellone che era tutto un
programma.
Tu, mascherato da cuoco, distribuivi i pop-com, e gli invitati erano
intrattenuti a seconda dell'età, da Pulcinella o dal Mago (Padre Milan)
o dai pagliacci, o da uno spettacolino di prosa o dai ragazzi scouts.
I premi che distribuivi alla fine della festa erano sempre qualcosa di
vivo, pesciolini rossi, pulcini.
In seguito, dopo la vivace protesta delle mamme, diventarono delle
piantine.
In crescendo
Le elementari si erano concluse con gli esami di rito. Li hai affrontati
e sostenuti brillantemente distinguendoti per la tua consueta
incoscienza.
Alla fine della scuola sei voluto tornare a Tropea, per ritrovare tutto
quello che già conoscevi.
Fu una settimana magica. Tu eri ormai indipendente, ma non del
tutto privo di qualche dolce residuo infantile. Ed io osservavo la tua
crescita con gioia e stupore, senza nostalgia del passato.
Ero appagata dall'averti goduto tanto, tutto.
Ed ero pronta a continuare. Crescendo con te, avevo l'impaziente
curiosità di sapere:
"E dopo, cosa succede?".
La caratteristica di questo momento erano le lacrime in tasca. Infatti,
quando una cosa ti disturbava ti difendevi piangendo. Eri, sei, tanto,
tanto tenero.
La matassa d’oro
Inizio della malattia
Avevi vent'anni. Quel dolorino alla spalla sinistra, comparso dopo
l'ultimo brevetto di nuoto, sembrava fosse una banalità. Chissà
perché mi ha insospettita fino a farmi insistere per una radiografia.
Ecco la matassa d'oro. Quel filo invisibile, che ha legato tutti gli angeli
che abbiamo incontrato sul nostro cammino, cominciava a svolgersi.
La dottoressa Maria Cantonetti, vero grande medico, che con
professionalità e amorevole tenacia ti ha seguito in tutto il tuo
percorso, combattendo infaticabilmente accanto a te, é stata il primo
angelo in cui ci siamo imbattuti. Anzi no, forse é il secondo. II primo é
stato il radiologo del San Raffaele che, di sua iniziativa, senza
prescrizione del medico, ha scoperto una massa nel torace, per pura
intuizione. La sentenza definitiva di tumore del sangue é arrivata il
ventitre febbraio del 1996.
L'esplosione nella mia testa era mascherata dall'atteggiamento di
coraggio che dovevamo per forza assumere, per affrontare un nemico
tanto feroce quanto subdolo.
Ma il corto circuito lo vivevo da sola, svegliandomi di soprassalto alle
tre di mattina, uscendo di casa e ritornando solo sul fare del giorno.
Giravo nella città vuota cercando luoghi ampi dove gridare a
squarciagola, dove singhiozzare ed inveire. Poi, quando le corde vocali
si erano arroventate e le lacrime esaurite, correvo verso casa, con il
terrore che qualcuno si fosse accorto di queste mie strane e misteriose
assenze.
Iniziarono i cicli di chemioterapia, ognuno suggellato da una torta di
Cristina, da un CD di Federica, e da un pranzo di fine chemio con
tutti gli amici.
Nell'accompagnarti in ospedale, tu cosi bello, cosi giovane e prestante,
venivo colpita dal vedere un esercito di persone tutte uguali: senza
capelli, senza sopracciglia, con il viso gonfio e di uno strano colorito
grigiastro.
Per Oppo non sarà cosi, pensavo in silenzio.
Alla grande
La trasformazione sarebbe avvenuta lentamente ma inesorabilmente,
e tu la dominavi con la tua solita ironia, aiutando papà e me a vivere
questa esperienza grandissima accanto a te.
I dodici cicli di chemioterapia iniziali, somministrati in day hospital,
erano stati alleviati dal regalo della tua amatissima BMW, e dalla
corona di amici e cugini che sempre ti scortavano.
Intanto la radioterapia cominciava.
Quando finalmente si concluse, eravamo alle porte dell'estate e
decidemmo di andare in montagna.
Contavamo che l'aria sottile, la compagnia dei cugini ed una
alimentazione attenta ti avrebbero aiutato nella ripresa.
II tuo umore era sempre alla grande. II tuo fisico, robusto e possente,
pareva che non fosse stato minimamente scalfito dai veleni ingeriti.
Sembrava quasi che fosse stato tutto un brutto sogno, tanto che, per
gratitudine, sentimmo il bisogno (fosti proprio tu a proporlo) di partire
per Lourdes con il treno bianco.
Per te e papà sarebbe stata la prima volta, ed io avrei rivissuto
attraverso il vostro turbamento quello che per me era un dejá-vu.
Infatti avevo spesso prestato la mia assistenza ai malati in
pellegrinaggio.
A Lourdes tu incontrasti una ragazza pulita, fresca, spontanea, con la
quale hai percorso una parte importante dei tuoi ventun anni.
La vita sembrava aver ripreso i suoi ritmi normali. I controlli,
rigorosamente osservati, confermavano la remissione della malattia.
Un anno dopo
Era passato un anno, e tu avevi programmato di partire con gli amici
per un'isola greca. Tutto era pronto: prenotazioni, valigie, provviste,
passaporto.
Stavi provando la gioia per i preparativi di una gioia, quando ti chiesi,
ancora una volta forse per un inconscio presentimento, di fare un
controllo prima di partire.
Con l'equilibrio che ti contraddistingue, avevi voluto sostenere ed
avevi superato due esami importanti all'Università. La visita medica
era prevista per il giorno prima della data di partenza.
Ricordo ancora il tuo viso mentre Maria Cantonetti ti comunicava che
si doveva ricominciare.
Eravamo nel soggiorno, telefonavi per disdire i vari appuntamenti. Poi
sei andato silenziosamente in camera per disfare le valigie.
Papà ed io cercavamo goffamente di trovare argomenti consolatori, e
tu sei venuto in nostro soccorso: con la tua forza ed il tuo coraggio:
"Avanti, quando iniziamo? Prima si comincia, prima si finisce. Gli fa
una sega la chemio all'Uomo Ragno!!".
Hai commentato così quella terribile notizia che ci aveva investito
come una valanga. Ci stavi già insegnando che non avremmo dovuto
arrenderci mai.
Piccoli giganti
Questa volta peró non si trattava di affrontare una normale chemio,
ma il trapianto di midollo che richiedeva un lungo ricovero, prima in
reparto, e dopo in terapia intensiva.
Era il quattro agosto del '97. Tu entravi in ospedale da paziente, io da
crocerossina. Avevo chiesto ed ottenuto la possibilità di starti accanto
con il patto di assistere anche gli altri malati.
Suor Clara ci ha accolto nel suo reparto. Un altro angelo ci veniva
incontro nel nostro percorso.
Non é stato facile, per la mia congenita prevenzione nei confronti delle
suore, capire che sotto quel vestito bianco c'era un piccolo gigante.
Ma lei, come un'ape industriosa, lavorava in silenzio, con la forza
della sua terra, l'Abruzzo.
Era evidente che per suor Clara non esistevano esigenze di primari, di
dottori, di parenti, che potessero interferire con l'assistenza dei
malati, ai quali dava tutta sé stessa con dedizione, competenza e
amore assoluto. II suo lavoro, durissimo, va dalla preparazione di una
camomilla, alla somministrazione delle chemio, alla contrattazione
con il personale e l'amministrazione, al pronto intervento negli
impianti, alla medicazione di piaghe particolarmente difficili.
Suor Clara
Suor Clara si prestava sempre generosamente, provvedendo a tutto di
persona. Anche al taglio dei capelli. Che differenza fra quello del
barbiere, costellato da domande curiose o da frettoloso pietismo, e
quello di Suor Clara, fatto di gesti sensibili, affettuosi, attenti, quasi
sacrali. Lei ha conosciuto tante volte il dramma dell'individuo che in
quel momento perde la sua identità. Sgomenti, l'uomo o la donna si
sono guardati allo specchio dopo aver visto il cuscino cambiare colore.
La vedevo accorrere a quel richiamo accorato, frutto di un'angosciosa
decisione. E si presentava sorridendo, con le forbici, la macchinetta,
ed il lenzuolo immacolato. Sempre sorridendo, con gesti amorevoli
accompagnava le ciocche che cadevano come piumini.
II breve rito si svolgeva dolcemente, in un clima simile a quello di una
cerimonia d'investitura. Alla fine spariva, stringendosi al petto il
lenzuolo come se contenesse un piccolo grande tesoro.
Potrei continuare all'infinito a parlare di Suor Clara.
Dirò soltanto che osservando la mia tensione, il mio smarrimento, la
mia rabbia, mi ha suggerito la preghiera difficile: "Signore ti ringrazio
per questa prova che ci hai dato". Tu, Oppo adorato, mi hai insegnato
come si fa.
Questi quattro mesi, trascorsi chiusi in ospedale, ci sono serviti per
fare un meraviglioso viaggio dentro noi stessi e scoprire la ricchezza
del silenzio.
II tempo... il tempo. I primi giorni sembrava che non passasse mai. In
realtà, in noi c'era ancora l'abitudine alla realtà esterna, ai tempi
contratti della pubblicità televisiva, del clic al computer, dei fax negli
USA. Ma ormai ci stavamo riappropriando del tempo umano, e
stavamo cominciando a vivere pensando, e cercando di capire. Tu
parlavi molto ed io imparavo da te. Anche questo doloroso periodo
d'ospedale serviva, ancora una volta, a capire che eravamo di fronte
ad un gigante di coraggio e di forza.
Perché non rinunciavi mai alla tua sorprendente, incredibile ironia
fatta di battute allegre e di scherzi.
Eravamo entrati in ospedale in agosto, siamo usciti a dicembre. Le
stagioni si avvicendavano, ci stavamo abituando a contare alla
rovescia: meno tre, meno due, meno uno...
La dottoressa Maria
Ho parlato poco della dottoressa Maria Cantonetti, perché non
appariva nella nostra quotidianità. Maria, come un Deus ex machina
dell'antica Grecia, interveniva sempre al momento giusto, con una
professionalità ed una passionalità veramente rare.
Non appena fu constatato il fallimento del trapianto, il suo tempismo
e la sua intuizione furono determinanti nello spingerci ad andare a
Houston.
Eravamo nel febbraio del '98. Maria ti era sempre rimasta accanto, e
nella sala operatoria del St. Luke Hospital aveva rassicurato l'equipe
chirurgica che le dita arricciate dei tuoi piedi non erano un sintomo
preoccupante, ma soltanto una tua curiosa caratteristica.
Tu avevi superato l'intervento al mediastino, a torce spalancato, con
la solita disinvoltura. Appena il giorno dopo, eri già in piedi e
camminavi, e rincuoravi tutti con i tuoi famosi sorrisi. Insomma,
fisicamente
eri
il
solito
toro
e,
ciò
che
più
conta,
anche
psicologicamente. Dunque, ci sentivamo pronti ad affrontare la
chemioterapia che ti aspettava.
Ma ecco un'altra doccia fredda, dopo l'intervento, alla TAC di
controllo, si scoprì un'altra localizzazione al rene sinistro. II tuo
sgomento durò soltanto pochi minuti.
Maria ed il dottor Cabanillas ti assicuravano che i programmi non
sarebbero cambiati, e tu ti consolavi sparandoti una bistecca texana
con patatine.
Si ricominciava con la chemio. Qui a Houston eravamo assistiti
amorosamente da Pieretta e da suo figlio Alessandro.
Pieretta
Si potrebbe sicuramente scrivere una sceneggiatura cinematografica
sull'esistenza di Pieretta. La sua è una vita talmente densa di
avvenimenti forti, che ne basterebbe una metà per esaurire la vena
narrativa di un incallito scrittore.
Moglie di un bravo ed intransigente medico romano, con tre figli ed
una laurea in medicina in tasca, trentotto anni fa decideva di lasciare
l'Italia e partire alla volta degli Stati Uniti. La città designata per
l'approdo di questa famigliola italiana era Houston. Qui erano nati
altri due figli e, tra un biberon ed una gestazione, Pieretta aveva
maturato la specializzazione in radiologia nel prestigioso Baylor
College. Le erano stati affidati due importanti ospedali: il Veteran
Hospital ed il Ben Tob.
Conservando con fierezza, ed una puntina di gusto snob le sue radici
italiane, aveva educato i suoi cinque figli alla cultura ed alla
tradizione
del
bello.
In
casa
si
era
continuato
a
cucinare
rigorosamente italiano, ad ascoltare la musica italiana, e lei non aveva
mai smesso lo stile sobrio ed inconfondibile della signora bene
italiana.
La sua vitalità é a trecentossessanta gradi, spazia da selezionate
attività mondane alle responsabilità professionali dei dipartimenti di
radiologia in due ospedali. Senza trascurare la conduzione personale
di una casa e di un giardino impegnativi. Ma non basta. Pieretta ama
viaggiare, e spesso se ne va in giro per il mondo, sempre con itinerari
inconsueti. Gli ultimi due viaggi che ricordo sono lo Zimbawe e l'Iran
Giaiva sopra l'Australia.
La sua qualità più straordinaria é lo spirito con cui accoglie tutti gli
italiani che, smarriti, arrivano nella città di Houston per curarsi.
Allora si scatena, regalando i sapori dell'Italia con le sue lasagne fatte
a mano. E li guida, e li assiste nel labirinto degli ospedali americani,
sempre mettendo a disposizione la sua casa, la sua macchina e la sua
professionalità.
Tutto questo per noi é andato avanti sei mesi.
Durante tutto questo tempo siamo stati accolti in allegria e senza
formalismi, non soltanto noi tre, ma addirittura tutti gli amici e
parenti che venivano a trovarci. Ne ho contati ventotto, e tutti hanno
avuto la stessa straordinaria accoglienza.
L'aria che aleggiava da Pieretta non era quella della dama benefica,
bensì quella della persona libera, che metteva a disposizione degli
amici tutto quello che aveva, sempre conservando la propria libertà e
rispettando quella degli altri.
Non ci sentivamo trattati da ospiti, ed eravamo a nostro agio come se
fossimo i padroni di casa. Quando, durante il mese di agosto, avevo
visto arrivare contemporaneamente nove persone, e timidamente
avevo azzardato l'ipotesi dell’albergo, Pieretta mi aveva fulminato con
una risposta rapida ed inequivocabile: "Voi italiani siete troppo
complimentosi! E' incredibile, vuoi capire che per me é un sottile
egoismo?”.
Vivendoci insieme, ci siamo accorti che questa amica straordinaria fa
tutto ciò che può per aiutare gli altri, senza dare la sensazione di
aiutarli. Non vuole ringraziamenti. Nella sua vita superimpegnata, lei
dice che si comporta così per sentirsi gratificata, perché cosi facendo
riceve in dono la gioia del donarsi.
Se, ogni tre anni circa a Houston cambia il console italiano, in realtà
tutti noi sappiamo bene che il nostro vero console é lei. Un altro
angelo incontrato lungo il nostro cammino.
II suo contributo per Oppo é stato essenziale.
Grazie Pieretta.
Ospedale a casa
Tornati a Roma, ti rifiutavi fermamente di rientrare in ospedale.
E' stato allora che Maria Cantonetti decise di diventare il tuo ospedale
a casa. Da vero angelo, si sottoponeva a tours-de-forcel’spaventosi.
Ogni notte, per poterti preparare e somministrare la chemioterapia,
restava con te fino alle quattro o alle cinque di mattina, e poi, con un
caffè in flebo, affrontava la sua mattinata di lavoro in ospedale.
Quante volte l'ho svegliata quando, con la televisione accesa, crollava
sul divano in posizione artistica, e quante volte, con gli occhi pieni di
gratitudine, ho visto la tua manona carezzare la sua.
Intanto tu continuavi imperterrito la tua vita di studio all'Università,
di lavoro al centro sportivo, di relazione con gli amici. E la sera non
rinunciavi ad uscire con loro.
Papà ed io ti osservavamo esterrefatti ed orgogliosi della tua forza
fisica e psicologica, che era diventata per tutti un esempio, un grande
esempio per imparare da te la lezione della vita. Sorridendo
commentavamo insieme che la tua storia poteva essere paragonata ad
una partita di Monopoli, o al gioco dell'Oca.
Si tirano i dadi e puoi avanzare di due caselle, o retrocedere di tre,
oppure stare fermo un giro. Alla fine dei cicli di chemio abbiamo
festeggiato alla grande con un soggiorno a Tropea, cugini ed amici al
seguito. Mi riservai una vacanza speciale tutta per noi sulla costiera
amalfitana.
Papà ci raggiunse dopo una settimana per portarci sulla costa
Azzurra.
La preoccupazione di quanto ci aspettava non sciupò la bellezza di
quei giorni. Tu soprattutto ne godevi gioiosamente e ci contagiavi con
il tuo entusiasmo e ci mostravi il solito coraggio. Si stava
approssimando un'altra operazione, questa volta al rene.
Maria Cantonetti con intuizione e tenacia perseguiva il suo scopo,
benché ostacolata da tutti, compreso lo staff americano.
Come sempre, la sua intuizione era giusta, e tu reagivi da quel toro
che eri, diffondendo amorevole allegria tra tutti quanti ti avvicinavano.
Stavano per asportarti il rene sinistro e, alla tua giusta e sacrosanta
domanda
al
chirurgo,
di
quali
avrebbero
potuto
essere
le
conseguenze, avevi sorriso nel sentirti rispondere, con il tuo stesso
umorismo, che da quel momento non avresti potuto più donare un
rene!!!
Superato l'intervento, avevamo meritato ancora una bella vacanza a
Tropea. Bisognava fare scorta di energie per la prossima chemio.
II sette agosto era nato il piccolo Andrea. Ma tu eri agli arresti
domiciliari per i valori bassi, ed io con te.
Aleggiava un po' di tristezza. Passerà.
Per la terza estate non avevi potuto fare programmi.
Ma i tuoi amici erano solidali con te, ed erano tutti restati in zona.
Gioco d’azzardo
Per rifarci, in ottobre ci siamo regalati un indimenticabile viaggio sul
lago di Garda, con tappa a Sirmione. E poi a Venezia.
Al casinò ti sei scatenato giocandoti le date delle operazioni e delle
chemio, e vincendo cifre ragguardevoli.
Papà ci ha raggiunto per concludere a San Marino, tutti e tre insieme,
questa magica vacanza strappata allo scadenzario dei controlli TAC,
degli emocromo, e dei cicli di chemio.
La resistenza dei tuoi ventitre anni continuava lietamente a
sorprenderci, e noi, con il fiato corto, faticavamo a stare dietro al tuo
entusiasmo giovanile.
Ma, inesorabilmente riprendeva il conto alla rovescia: meno sei, meno
cinque, meno...
Stava per arrivare il Natale e tu desideravi partire per Cortina, subito
dopo la tradizionale festa a casa di nonna Piera. Lì avresti ritrovato
Milvia, Federica e Renato e saresti stato avvolto, come in una calda
sciarpa di cashemere, da tutto il loro amore misto a trepidazione.
Come regalo specialissimo hai avuto un appuntamento con foto con il
tuo adorato Mancini, l'idolo della squadra del cuore, la Lazio.
Tra varie chemio e vari controlli siamo arrivati al febbraio '99.
Abbiamo deciso di tornare in montagna con Maria Cantonetti e le
bambine.
Lei era molto provata dalla morte del suo papà e molto stanca per
l'assistenza al suocero.
II soggiorno alle Orsoline fu salutare per tutti ma non per te, che
accusavi un nuovo dolore allo stomaco che non ti permetteva di
ingerire nulla.
Appoggiàti a papà
Eravamo rientrati subito. Era ricominciata la dolorosa trafila degli
esami. Quando di nuovo si accese un altro allarme, io restai
pietrificata. Sentivo il cervello scoppiarmi nella testa, e percepivo tutti
i messaggi esterni ovattati e temporalmente in ritardo.
Mario invece era straordinario.
Immediatamente aveva inviato una e-mail a Cabanillas, aveva
telefonato a raffica a Pieretta, aveva spedito le TAC negli USA, ed
aveva preso appuntamento con il cardiologo. Mi aggrappavo a lui che
sembrava infaticabile. Di notte cercava su internet tutto ciò che era
stato pubblicato sulle nuove terapie in tutto il mondo. Si metteva in
contatto, mandando la tua storia clinica, con tutti i più grossi centri
del mondo, e poi stampava senza tregua la documentazione sulle
nuove ricerche, per sottoporle a Maria.
Grinta con rabbia
Tu, stranamente, dopo il mese di nausea, dolori, grande prostrazione
ed abbattimento, alla notizia della ripresa della chemio eri come
resuscitato, ed avevi ripreso a mostrare la grinta di prima, anche se
adesso parlavi di rabbia.
Grazie all'amico Vincenzo eravamo riusciti ad avere i biglietti per
andare ad Ancona a veder giocare la Nazionale di calcio. Avevamo
raggiunto lo stadio tutti insieme, con te al volante. E lì, dopo quattro
ore di guida, come se non bastasse, dopo la partita eri voluto andare
in discoteca con i cugini.
La mattina dopo eravamo ripartiti per Roma dove stavi continuando il
ciclo di chemioterapia, come se fosse coca-cola. La tua carica era
straordinaria e nel vederti così reattivo, positivo, determinato e
vincente, prendevamo fiato. Ma solo per poco.
Si stavano affacciando alla gamba dei dolori fortissimi, che non erano
tenuti a bada neanche dai più forti analgesici. Vederti soffrire era
straziante. Sentivo di scivolare in un pozzo con le pareti lisce. Non
potevo permettermelo, quindi cercavo disperatamente un sacerdote,
un analista, qualcuno che potesse sostenermi. Lo avrei trovato, in
certi momenti anche impazzire é un lusso, non potevo permettermelo.
Maria di Catanzaro
Fin da bambino eri affettuosamente devoto a Padre Pio, forse perché
ne avevi sentito molto parlare in famiglia. Zio Adolfo raccontava
spesso di averlo sognato durante una sua malattia. Allora si era
recato a San Giovanni Rotondo, dove aveva constatato che la piazza e
la chiesa erano proprio come le aveva sognate. E il santo frate,
incontrandolo, gli aveva detto: "Ti aspettavo, perché hai tardato?". Ed
era miracolosamente guarito.
Tutto questo doveva avere avuto un impatto importante nella tua vita.
Certo é che il tuo Padre Pio ti ha accompagnato in molti episodi
significativi.
All'inizio del '99, si affacciò nella tua vita una signora che diceva di
essere un figlia spirituale di Padre Pio. Ti aveva telefonato da
Catanzaro ed avevate parlato a lungo. Io osservavo, e notavo che
dialogavi volentieri con lei.
Nel giorno della beatificazione del frate di Petralcina, il due maggio,
tu, che desideravi molto assistere alla cerimonia, grazie allo zio Adolfo
avevi ottenuto un posto d'onore per godere in pieno tutta la funzione.
Ma quella stessa notte eri stato malissimo. E la mattina seguente,
dopo una TAC d'urgenza, avevamo scoperto che il linfoma si era
ingrandito, e ti procurava quei dolori insopportabili premendo contro
lo stomaco.
E' stato allora che ti ho investito con una frase rabbiosa: "Ma, come?
II tuo Padre Pio non funziona, mi pare!! Ieri sei stato alla sua
beatificazione, e questa notte si sono scatenati i dolori".
Tu mi fissavi con quei tuoi grandi occhi profondissimi: "Certo mamma
che Padre Pio funziona - rispondesti - ci ha fatto capire che dobbiamo
lasciare l'Italia e andare negli Stati Uniti. Lì qualcosa succederà".
Ancora uno sportellino si era spalancato per farci leggere la tua
grandezza. Disarmata da tanta fede, ed umiliata dal coraggio che avrei
dovuto infonderti io, quasi non mi ero resa conto che papà già stava
progettando la partenza immediata.
Velocemente, tra preparativi convulsi, arrivò la domenica prima della
partenza. La casa era invasa da amici e parenti che desideravano
salutarti. Nel tardo pomeriggio suonò alla nostra porta Maria di
Catanzaro. Era venuta dalla Calabria anche lei per salutarti, e
chiedeva di parlare con te in privato.
II colloquio durò circa un'ora e, quando finì, io mi accorsi che i tuoi
occhi erano velati e la tua mano destra stringeva una piccola croce di
legno. Te l'aveva affidata lei, raccomandandoti di afferrarla nei
momenti di dolore. Poi chiese di parlare con noi.
Gli amici intanto giravano per la casa ed il giardino, alcuni
prendevano commiato, altri erano appena arrivati. II telefono era
bollente. Comunque, ci chiudemmo con Maria nello studio di papà, e
ascoltammo impietriti.
"Voi avete un Cireneo dentro casa - disse - Oppo sta aiutando Gesù a
portare la croce".
"Perché? - la interruppi subito - Non basta ancora?
Perché? Perche? Fino a quando?”.
Mi rispose con voce suadente ed il viso illuminato dalla fede, che non
avremmo dovuto fare domande ma soltanto rimetterci totalmente alla
volontà di Dio.
La mia reazione fu violenta.
Noi desideravamo fare la volontà di Oppo che era giovane e voleva
vivere, e stava lottando per questo. Noi avremmo lottato al suo fianco,
e avremmo chiesto, bussato, pregato, finché il Signore non ci avesse
esaudito.
Lei dolcemente ci ricordò la storia di Abramo che aveva offerto a Dio il
suo unico figlio, ed era stato premiato per la sua grande fede.
Cosi, con uno sguardo trasparente, pose fine al nostro colloquio, ma
da parte nostra sussisteva qualche tensione.
In volo
La
dottoressa
Cantonetti
ci
aveva
informati
che
le
opzioni
terapeutiche in Italia erano terminate, partivamo per tentare di
salvarti la vita. Questa volta peró la nostra premurosa amica non
poteva accompagnarci, e delegava a me la responsabilità della terapia
del dolore durante il viaggio.
Ogni notte, prima della partenza, avevo ripassato la sequenza delle
azioni con meticolosità ossessiva. Per tenere a bada un dolore medio,
potevo far scendere la flebo lentamente, ma, per alleviare una violenta
sofferenza,
avrei
dovuto
spingere
il
farmaco,
appena
diluito,
direttamente in vena.
Temevo l'avventura di questo viaggio, perciò avevo fatto in modo di
arrivare m aeroporto immediatamente dopo la somministrazione, così
che tu potessi affrontare tranquillamente le tante ore di volo.
Ed ecco il primo ostacolo: il mio passaporto era scaduto.
Non restava che tornare indietro di corsa, ed invocare aiuto.
L'insostituibile amico Alessandro, superando qualsiasi Guinness dei
primati, riuscì ad ottenermi un nuovo passaporto in dodici minuti. Ma
ormai bisognava di nuovo somministrarti l'antidolorifico per l'imbarco,
fortunatamente era accorsa Maria Cantonetti ed aveva provveduto lei
stessa. Affannosamente tornammo a Fiumicino, scortati dalle sirene
della polizia, e l'Alitalia ti accolse in classe magnifica, con sensibile
partecipazione e discrezione. Avresti viaggiato con ogni confort.
Ma, durante l'atterraggio, ti lamentavi per il dolore che si stava
risvegliando, ed io penavo, a causa dell'enorme siringa, ad iniettarti
direttamente in vena il farmaco prezioso datomi da Maria.
Malgrado tutto, eravamo arrivati abbastanza riposati.
Ma l'aeroporto John Fitzgerald Kennedy era un inferno.
Avevamo perso e poi ritrovato tutti i documenti e il denaro. La Delta
che ci portava fortunosamente a Houston era scomoda, e le hostess
sgarbate.
Tra tanti affanni, eravamo arrivati a Houston tra le braccia di Pieretta
e Alessandro. Ci sembrò di aver raggiunto l'Eden. Durante il periodo
della tua cura saremmo stati da loro.
M. D. Anderson Hospital
Proverò a descrivere il grande ospedale che ti accolse. I numeri sono
imponenti:
cinquemilaottocento
tra
medici
e
infermieri,
e
duemilacinquecento pazienti ricoverati. Sono arabi, sudamericani,
europei,
orientali,
appartengono
alla
religione
mussulmana,
protestante, buddista, cattolica, indù, e possono approfittare dei
relativi luoghi di preghiera. La struttura dispone di traduttori per
tutte le lingue e di ministri per tutte le religioni.
All'interno, per il paziente, trattato come un vero re, c'é tutto quello
che é umano desiderare: parrucchiere, caffetteria, sala computer, fax
e fotocopie, bazars, centro di ascolto spirituale, sala per intrattenere i
bambini corredata di cento giochi con tanto di educatrice a
disposizione. Ed inoltre, la sala per riposare tra una visita e l'altra,
con servizio continuo di ristoro. E atri enormi (ne ho contati quattro),
con un pianoforte a coda, delle bellissime piante, un banchetto con
bibite calde e fredde, per distrarre ospiti e visitatori. E ancora, la
biblioteca, la cineteca, un centro per suonare od ascoltare musica in
cuffia.
Tutti i servizi sono gratuiti. Un esercito di volontari, quasi tutti ex
ammalati, offrono un prezioso supporto a chi, spaesato ed impaurito,
sta soggiornando all'interno dell'ospedale.
Dunque eravamo veramente seguiti nel migliore dei modi, e tuttavia ci
sentivamo sempre sollecitati a dominare le oscillazioni del nostro
stato d'animo.
Con la mia mentalità europea, trovavo molto singolare l'approccio alla
malattia. Infatti, ogni malato è visto come il protagonista della sua
storia che si incentra sulla lotta combattuta giorno dopo giorno.
Mi colpiva il nome dell'ospedale M. D. Anderson completato dalla
scritta Cancer Center, come se si trattasse di uno Shopping Center. Mi
sembrava stupefacente che le parole Cancer Center fossero stampate
in bella mostra su magliette, felpe, cappelli, borse, e corredate dallo
slogan making cancer history (io sto facendo la storia del cancro). Era
una strategia per esorcizzare la sofferenza, imponendo alla situazione
un tocco di leggerezza, che non sempre mi sentivo di condividere.
Ma apprezzavo che i malati fossero liberi di muoversi per l'ospedale,
portandosi dietro i loro alberelli per le flebo e le sacche delle chemio.
Ci rallegravamo a curiosare tra ambienti vivacizzati da pupazzi,
decorazioni natalizie o pasquali, oppure dalle zucche per la festa di
Halloween, come dai tacchini tradizionali per il pranzo del giorno del
ringraziamento.
Più in fretta di quanto avremmo potuto immaginare, avevamo
imparato a ricambiare il sorriso di medici e infermieri, sempre
sorridenti benché costantemente impegnati a coinvolgere al massimo
il paziente con la spiegazione di ogni particolare della malattia e della
sua gravità. Senza mai fargli mancare l’incoraggiamento di un intero
staff medico e paramedico che sta combattendo il nemico al suo
fianco.
E ancora, mi colpiva favorevolmente il museo dell'ospedale dove, oltre
alle illustrazioni sulla storia dell' M. D. Anderson, nato in una villetta
nel lontano 1950, sono esposte fotografie con nomi e storie di pazienti
che hanno combattuto e vinto il cancro.
Lì mi sorrideva il volto di una ragazza sportiva, che a ventitre anni
aveva vinto una gara di corsa sui duecento metri, dopo aver sconfitto
un linfoma non Hodgkin uguale al tuo. Tu eri il numero 375407.
E ti vivevo accanto coltivando ostinatamente la speranza. Non volevo
accettare che si facesse sempre più sottile, mentre tutti i medici ci
toglievano ogni prospettiva di guarigione.
Tutti meno uno,il direttore del dipartimento, il numero uno nel
mondo, il nostro dott. Cabanillas.
375407
Cambiavi medico ogni mese, sempre peró con la supervisione del
dottor Cabanillas, stimato come la persona più autorevole al mondo
nel campo dei linfomi.
L'avevamo conosciuto un anno prima, in occasione dell'intervento al
mediastino, subito in un altro ospedale specializzato per il cuore, il St.
Luke's. Lì si aggirano, come imbalsamati, Cooley e De Bakey,
quest'ultimo addirittura si era fatto fare una statua, benché ancora
vivente.
II dottor Cabanillas é portoricano, un uomo di bassa statura, con baffi
e pizzetto nero e due occhi che ti attraversano come un laser.
Le prime volte che lo avevamo consultato era stato esauriente, ma
secco: non un sorriso, non una parola di partecipazione, direi
piuttosto distaccato.
Commentavamo tra noi: questa é l'America, vanta la massima
efficienza, professionalità ed organizzazione, ma non altrettanta
umanitàì
Per noi non sarebbe stato cosi. Cabanillas resterà sempre nei nostri
ricordi come un feroce nemico di questa maledetta malattia,
coraggioso, audace e con una rara carica di umanità.
Infatti, la sua difesa al coinvolgimento era serrata, come per
proteggersi da una falla che nella diga comporterebbe lo sfascio. Ma,
con te, Oppo, si era lasciato andare, restandoci accanto fino alla fine,
e offrendoci i mezzi per combattere compatti contro questo invisibile
nemico.
Aveva inventato per te nuove miscele di farmaci, per ottenere la
distruzione del linfoma. La sua intuizione era giusta, ed anche
quando é intervenuta la terribile infezione da pseudomonas, il batterio
mutante, con determinazione e perizia si é adoperato in mille modi
per non lasciarti solo nella lotta.
Gli altri medici ci guardavano con pietà.
Ricordo il greco dottor Sarris che, già sei mesi prima, sadicamente ci
aveva chiuso in una stanza dopo averci annunciato che non c'era più
niente da fare. Ed ancora il mellifluo libanese dottor Yunits, che con
sorrisi inopportuni, alle domande che noi facevamo, rispondeva
evasivamente come uno dei medici di Pinocchio. E la messicana Maria
Rodriguez, che aveva un figlio della tua stessa età e per questo motivo
evitava di incrociare i nostri occhi.
II dottor Cabanillas, non lasciava passare un giorno senza venire a
visitarti. In una mattina di disperazione ero corsa nel suo studio ed
accoratamente gli avevo chiesto di venire a vederti. Lui, trasgredendo
al regolamento dell'ospedale, ci aveva accontentato e non fece
mancare mai più le sue visite giornaliere.
Tu aspettavi il suo arrivo insieme alla Comunione, come tappe
importanti che scandivano la giornata.
Ed anche lui si legava a noi ogni giorno di più.
I paladini a Huston
Nel tempo dilatato delle giornate che si rincorrevano, pensavo
all'amore che ti circondava e che tu ricambiavi raddoppiato.
Nicola era il tuo paladino. Per fortuna, dopo un anno di palestra,
sollevava con disinvoltura la carrozzina per evitarti il gradino della
casa di Pieretta. Ma non basta. Una volta mi sono accorta che, dopo
averti preparato una camomilla, te la raffreddava soffiandoci sopra, e
te la porgeva con uno sguardo irripetibile.
Maroncelli, che non aveva mai giocato a carte, aveva imparato la
briscola e la scopa pur di distrarti dai numeri dell'emocromo, delle
TAC e delle chemio.
Pansa, che si improvvisava ménagere cercando di prepararti piattini
succulenti per stuzzicare il tuo difficile appetito.
Alessandro, che registrava in scomode ore notturne le tue amatissime
partite di calcio.
E zia Anna, zio Adolfo e Andrea che, non appena aperto il loro albergo
di Porto Pyrgos, si precipitavano a venirti accanto. E zio Titta, che
superando il suo innato pudore partecipava fischiettando ai tuoi
lavaggi mattutini. E zio Stefano e zia Antonella, che hanno dormito
nella sala d'attesa della terapia intensiva per tutto il soggiorno a
Houston.
E Piera, che ha lasciato a Roma il bimbo tanto desiderato per dodici
anni.
E Giulio, che ha cercato fino all'ultimo, con le sue squisite ricette, di
conquistare il tuo appetito.
E Militina, la tua tenera tata Militina, la tua confidente mattutina, che
si é imbarcata in un viaggio cosi lungo, lasciando la famiglia, per
venirti a viziare un pochino anche laggiù.
L’albero e i frutti
Militina, appena arrivata, ti mostrò quatto bellissime mele, colte
dall’'albero del nostro giardino.
Già, il tuo albero, il tuo melo.
Ti ricordi Adolfino, ti raccontavo che il giorno della tua nascita papà
aveva voluto piantare in giardino un melo. Tu crescevi e l'albero ti
seguiva.
Quanti nascondini hai fatto dietro al suo tronco che ti copriva tutto!
Quante pallonate hanno fatto cadere le mele giovani! Quante
mattinate
passate
all'ombra
discreta
del
suo
largo
fogliame,
chiacchierando con nonno Nicola!
Arrivarono i tuoi vent'anni. Tu ti ammalasti e, incredibilmente, anche
il melo si ammalò. Noi non avevamo tempo di occuparcene, e tra una
TAC e una chemio, ci eravamo raccomandati a Giulio, il giardiniere, di
curarlo. E lui come un'abile chirurgo, aveva aperto il tronco a metà,
scoprendo un grosso bruco che, all'interno, si nutriva della linfa vitale
dell'albero. Allora aveva applicato un potente veleno, e il melo si era
ripreso.
Quante volte, vedendolo in fiore in questi tre anni, ho creduto che
anche tu saresti rifiorito e finalmente avremmo potuto dimenticare
questa brutta parentesi. Cosi, quel giorno, alla vista delle fantastiche
mele che Militina ti aveva portato da Roma, anche se tu stavi molto
male, avevo avuto la certezza della tua guarigione.
La medaglietta sul cuscino
Ricorderò sempre quel diciotto giugno, data del nostro trentesimo
anniversario di matrimonio. Il dottor Cabanillas ci aveva convocato
per comunicarci che la terapia sperimentale, per la quale eravamo
venuti dall'Italia, non aveva lavorato ed il linfoma si era ingrandito. Tu
infatti eri molto provato dai dolori, dalla mancanza quasi totale di
alimentazione, dall'impossibilità al movimento e da un preoccupante
gonfiore agli arti.
Cabanillas ci proponeva il ritorno in Italia, o una nuova chemioterapia
piena di incognite, ma nei suoi occhi si leggeva la speranza.
Accettammo la seconda soluzione poiché il ritorno in Italia non aveva
per noi senso alcuno.
Quella notte, come tutte la notti precedenti stringevo sotto il cuscino
una medaglietta con l'incisione della Madonna del Miracolo. Un'amica,
in
cura
qui
a
Houston
da
sette
anni,
me
l'aveva
regalata
raccomandandomi di pregarLa intensamente.
La mattina seguente, come tutte la altre mattine, la cercavo sotto il
cuscino per attaccarla alla catena degli occhiali. Ma stranamente la
medaglietta non era al suo solito posto. Sollevai le lenzuola, le
coperte, il materasso... nulla. Eppure ricordavo perfettamente di
averla tenuta stretta nella mano durante tutta la notte.
Intanto stava arrivando la visita del dott. Cabanillas e non potevo
perder tempo. Mi ero lavata e vestita in fretta e, quando mi chinai per
infilare le scarpe, vidi brillare sotto il tuo letto, dunque ben lontano
dal
mio
cuscino,
Sorprendentemente,
la
da
medaglietta
quel
della
momento,
Madonna del Miracolo.
la
situazione
sembrò
schiarirsi.
Tu stavi riprendendo a mangiare, i dolori scomparivano, ricominciavi
a camminare, gli arti si sgonfiavano, la nuova chemio stava
attaccando per la prima volta il linfoma e lo avrebbe distrutto per un
buon cinquanta per cento. Sembrava l'inizio della fine di un incubo.
In piena euforia, facevamo brindisi con la coca-cola.
In questi stessi giorni mangiavamo le mele del tuo albero, l'albero
guarito che ci aveva mandato i suoi frutti per mezzo di Militina.
“Siete confusi”
Tu ormai avevi ripreso alla grande. Era una domenica di luglio, avevi
desiderato fare un bagno in piscina, poi eravamo andati a comprare la
carbonella e le bistecche per fare un barbecue.
Questo sarebbe stato l'ultimo bel ricordo prima di rientrare per
sempre in ospedale.
Infatti, il giorno successivo, dopo una pessima giornata, fummo
costretti al ricovero d'emergenza, subito dopo ti trasferirono in terapia
intensiva. Gli avvenimenti stavano precipitando. Si parlava di
setticemia, di pancreatite e di polmonite da sanguinamento.
Ci proponevano il ventilatore, una macchina che temporaneamente ti
avrebbe aiutato a respirare.
Noi, con finta disinvoltura, divagavamo parlando del tempo, della data
dell'ultimo ricovero. Che giorno é oggi? Ci hai interrotto ridendo:
"Mammina! Papa! Siete i soliti rimbambiti! Oggi é venerdì ventitre
luglio, io con la morfina sono lucido, ma voi senza, siete confusi".
Sono state le tue ultime parole, poi ci hanno allontanato per intubarti.
In seguito i monitors avrebbero parlato per te.
Terapia intensiva
In ospedale stavamo al nono piano, specializzato nei tumori
ematologici. Si avvicendavano nei vari turni circa trenta infermieri e
infermiere.
La terapia intensiva era al settimo piano. Accoglieva i malati gravi che
venivano molto spesso intubati e tenuti in anestesia totale. Poche
persone ne uscivano vive. Per questa ragione i familiari erano accolti
nella contigua waiting room, dove veniva dato loro un cerca-persona
che avrebbe suonato in caso di emergenza, affinché potessero
tempestivamente raggiungere il paziente.
Dal reparto di terapia intensiva, Oppo mio adorato, saresti entrato ed
uscito per ben cinque volte. Ed una sesta. E noi con te.
Per due mesi, abbiamo dormito e vissuto nella waiting room,
approfittando di ogni genere di conforto a disposizione dei parenti. Gli
incontri che facevamo in questa sala erano pervasi di solidarietà,
amore e comunione.
Ognuno aveva imparato a conoscere la vita degli altri.
Berenice, dopo aver perso una figlia, era lì con l'altra, una ragazza che
aveva donato il midollo.
Margaret Manship, scultrice, artista ricca di temperamento, in un'ora
era stata capace di chiamare tre avvocati per esaudire i desideri del
suo compagno.
Una famiglia numerosa della Louisiana aveva una figlia di quattordici
anni in condizioni disperate, ma ci offriva il proprio appartamento ed
ogni cosa di cui avessimo bisogno per non sentirci soli.
Una bella americana, circondata da cognate alte ed eleganti, soffriva
con dignità per la lenta agonia di suo marito, un affascinante
madrileno.
Nella famiglia degli Emirati erano tutti brutti, ma tenerissimi
nell'amore per la mamma molto grave.
Antonio, il messicano, aveva sperato inutilmente per sua moglie
durante tre lunghissimi mesi.
L'argentino José aveva pianto a dirotto davanti a sua sorella uscita
dall'intensive care, ma immobilizzata sulla sedia speciale.
Storie umanamente incredibili, vite invivibili, avvenimenti carichi di
dolore e gesti di amore inimmaginabili. Chi dice che l'uomo é cattivo?
II mondo del dolore é pieno di valori profondi e veri. Di fronte ai
grandi temi dell'esistenza l'uomo dà il meglio di sé e la gara di
solidarietà che abbiamo visto testimoniata in quella sala d'attesa ne é
la prova.
Compassione
Spesso un camice bianco compariva sulla porta.
Infinite volte Mario ed io siamo stati chiamati dai vari medici per il
solito bagno di sangue.
Ripetutamente venivamo informati che la situazione era senza via
d'uscita, che non c'erano speranze, che per la loro etica il ragazzo
doveva essere preparato. Ed alla nostra domanda a quale religione
appartenesse, uno di loro ci rispose che era buddista. Cercavamo di
spiegare che noi non volevamo preparare Oppo per l'altra vita, che lui
stava lottando per questa, e che la nostra religione cattolica ci dava la
sicurezza che tutto si sarebbe risolto.
Ci guardavano con compassione. Ancora una volta tutti meno uno, il
dott. Cabanillas, grande scienziato, grande medico e grande uomo,
che combatterà con gli strumenti giusti insieme a te e al nostro
fianco, fino all'ultimo minuto.
Un miracolo ti conviene
Passavano i giorni e tu miracolosamente eri migliorato ed avevi
interrotto la terapia intensiva.
Sembrava un evento inspiegabile, il tuo desiderio di vita era superiore
alle previsioni dei medici di Pinocchio.
Seguirono due mesi di alti e bassi, mentre venivano attuati tutti i
tentativi per combattere lo pseudomonas, questo terribile batterio.
Però di tornare a casa non se ne parlava.
Durante la nostra permanenza a Houston, Maria di Catanzaro era
sempre riuscita a parlarci. Non era facile sapere i nostri numeri
telefonici, che cambiavano continuamente spostandoci dalla casa di
Pieretta all'ospedale, ma lei era sempre riuscita a raggiungerci
superando anche l'ostacolo della lingua inglese. Ci manifestava il
desiderio che la sentissimo vicina con tutto il suo affetto, e ogni volta
ci raccomandava: "Siate pronti ad accettare la volontà di Dio".
Ma io continuavo ad opporre la mia feroce resistenza. In quei giorni si
concentrava tutta l'insopportabile sofferenza della tua malattia,
mentre tu continuavi a tranquillizzarci, a proteggerci con il tuo
sorriso. Mario ed io eravamo due mosche nel bicchiere, correvamo dai
medici, telefonavamo a Roma, sempre implorando tutti i santi del
paradiso.
"Signore - dicevo, pregavo - se Tu fai un miracolo, Ti conviene. Pensa
a quanti miscredenti, scettici, atei, di fronte ad un prodigio del genere,
sarebbero folgorati. E' un'occasione che non puoi perdere, anche
perché gli ingredienti giusti ci sono tutti.
Oppo che lotta come un leone, carico di fede, Mario che ha
abbandonato da cinque mesi il suo lavoro pur di vedere guarito suo
figlio. Gli amici, i cugini, gli zii, la dottoressa Cantonetti, Militina e
Giulio che hanno lasciato la famiglia per starci accanto.
Pieretta ed Alessandro, i nostri amici di Houston, che hanno visto la
loro casa messa a soqquadro da tutta questa folla, poiché non hanno
permesso a nessuno di andare in albergo.
Sono sicura che ne approfitterai per realizzare un vero miracolo".
A gara di carezze
Tu eri attaccato alla macchina che respirava per te.
Ti vedevamo sdraiato su di un letto da cinque mesi, avevi conservato
il torace possente da nuotatore, la carnagione tesa e luminosa da
ventenne.
II tuo viso da uomo giovane mi faceva pensare ai progetti che facevi
per il futuro.
La gara a cospargerti di crema era una scusa per poter conoscere ed
accarezzare tutto il tuo corpo sofferente.
Cercavo tra i numeri del monitor qualche segno che tu, pur attaccato
a quel tubo che respirava per te, gradivi le carezze ed i baci che papà
ed io ti davamo.
Ma, quando il segnale arrivava, restavamo pietrificati, terrorizzati dal
timore che tu sentissi dolore.
Arrivò l'otto di ottobre. II dottor Cabanillas ci comunicò che neppure
lui avrebbe più potuto fare nulla. Alla domanda, se volevamo
continuare a curarti, o ci arrendevamo accettando di sospendere
tutto, papà chiese due ore di tempo per riflettere.
Alle tre del pomeriggio il dottor Cabanillas ci aspettava nel suo studio.
"Soffre?". Chiedemmo. La risposta fu negativa.
"Che differenza passa, allora, tra curarlo e non curarlo?”.
Decidemmo di andare avanti, dopo un lungo abbraccio carico di…
tutto.
I monitors parlavano per te. Se ti carezzavamo, vedevamo il cuore
battere piú forte. Se ti parlavamo, i tuoi occhi si socchiudevano. Se ti
piegavamo le gambe, la pressione saliva.
Chissà se sognavi?
Chissà se ti stavi lentamente distaccando da noi per trasformarti in
un angelo?
Si accende la tua Stella
Amore e gioia
Due giorni dopo sei diventato una stella.
Sotto lo sguardo paternamente turbato dell’amico cardiologo dottor
Angelini, ho visto Mario singhiozzare.
Non lo aveva mai fatto durante quei tre lunghi anni.
Allora mi sono avvicinata, e gli ho sussurrato all’orecchio: "Aspetta,
vedrai, nulla é impossibile al Signore. Lui può vincere la morte, lo ha
già fatto".
Una luce caldissima é scivolata dentro di noi, improvvisamente tutto
era chiaro, comprensibile, evidente. Tu, Oppo, brillavi nei nostri cuori
per farci capire che il miracolo era avvenuto.
II progetto su di noi era molto più ambizioso.
In fondo se tu fossi guarito, noi avremmo di nuovo concentrato solo
su di te tutta la nostra vita, e sarebbe stata una vita come tante altre.
Ma il messaggio della tua vita era diverso e doveva restare amore e
gioia per sempre, continuando a vivere nello spirito di servizio che
significa aprirsi e mettersi in ascolto del prossimo sofferente, che
significa dare un aiuto concreto per alleviare il dolore. Tutto questo ci
stavi trasmettendo, e noi, in pochi secondi, come inebetiti, storditi da
un amore più grande di noi, lo abbiamo sentito.
Ad Houston erano le sei del pomeriggio, in Italia l'una di notte. Un'ora
dopo suonò il telefono, era Maria di Catanzaro che ti aveva sentito
passare a salutarla:
"Quando sono venuta a casa vostra, in quella domenica prima della
partenza, ho avuto la sensazione che Oppo fosse pronto. Ma voi no,
non ancora. Per questo lui ha chiesto una proroga al Signore. Erano
necessari questi cinque mesi a prepararvi. Ora avete capito".
Ripenso spesso a queste parole e rifletto che, se quelle parole
dicevano il vero, tu sapevi ed avevi voluto soffrire per noi, avevi
sempre sofferto per proteggerci.
Allora scopro l'immenso valore del tuo costante sorriso, delle tue
battute ironiche, del tuo sforzo nello sdrammatizzare ogni martirio.
Questo atto d'amore di un figlio verso i genitori, quasi contro e al di
sopra di ogni legge dell'umana natura, ci fa capire che siamo stati
scelti per una incredibile impresa, e ci incoraggia a non sentirci mai
inadeguati ad assolvere la volontà di Dio. Avevo chiesto un miracolo.
Ero stata esaudita?
Per te stavano accadendo cose speciali, una luce si era accesa in noi
perché potessimo vedere e capire.
Sei diventato una stella
Ho visto la tua luce mentre diventavi una stella.
Perché, per te sono accadute cose speciali, cose che non accadono per
tutti?
Quattro sacerdoti cattolici ti hanno dato l'estrema unzione.
II dottor Cabanillas ci ha abbracciato forte forte. Con gli occhi umidi
ci ha ringraziato per averti conosciuto, dicendo che in venticinque
anni di professione, nel più grande ospedale oncologico del mondo,
nessun paziente poteva esserti paragonato.
II radiologo internista dottor Fisher, che il giorno prima ti aveva
applicato l'ennesimo catetere nel rene, é rimasto in ginocchio per
un'ora e mezza, singhiozzando inconsolabile.
Le guardie giurate, uomini e donne abituati ad un duro lavoro sotto le
intemperie, hanno sfilato davanti a te in punta di piedi, salutandoti in
silenzio. E tutti insieme si sono recati in cappella per dedicarti una
Messa.
Quando tu sei volato in cielo tutte le infermiere del nono piano sono
venute a salutarti, ed hanno intonato per te i loro gospels.
Ed ancora oggi, a distanza di un anno, continuano ad arrivare le
lettere
di
Sally,
l'infermiera
della
terapia
intensiva.
Ti
aveva
soprannominato pillow-boy per i tuoi otto cuscini. Ci racconta di
parlare sempre di te con i medici e tutti gli altri dell'ospedale. In quel
reparto, che chiamavo l'anticamera dell'inferno, tu eri spesso
completamente sedato, eppure le avevi comunicato ugualmente la tua
gioiosa serenità. Ed ora ci confida: "L'impatto della vita di Adolfo sulla
mia é stato fortissimo".
Perché tutto questo specialmente per te? Perché? Che cosa ancora
devo scoprire della tua vita, per capire che sei speciale, e che questa
tua storia é una storia speciale?
In viaggio con te
Nessuno ha mai capito come riuscissi a sopportare l'alternarsi di
tante chemio con le operazioni, sempre rassicurando tutti con un
sorriso, preoccupato per tutti quanti noi e dei nostri problemi, e mai
di te stesso.
Festeggiavamo con un viaggio la conclusione di un ciclo di
chemioterapia. E tu commentavi con ironia: "Per fortuna ci sono le
chemio, altrimenti niente viaggi". Oppure ci spiazzavi costringendoci a
ridere con te per la boccia pelata.
E ci coinvolgevi nell'entusiasmo di vincere ai casinò di Montecarlo,
Sanremo, Cannes, Venezia.
Avevi vinto giocando le date degli interventi chirurgici, delle TAC e dei
pesanti cicli di terapia.
Cosi mi facevi vivere quei giorni di vacanza come un dono prezioso,
perché ti ero indispensabile, e potevo starti accanto senza complessi
di colpa.
Quante mamme possono andare ogni mese in viaggio con il figlio
ventenne? Papà ci raggiungeva trafelato approfittando di ogni minima
possibilità di tralasciare il suo lavoro. Anche lui non voleva perdere
queste splendide occasioni di respirare la tua vita.
Noi tre: una forza esplosiva. Insieme, ognuno con il suo ruolo. Papà
faceva la mamma, apprensivo, ansioso, coccolone. Tu eri lo svitOppo,
con i tuoi scherzi, indefinibili ed irripetibili, le oppate. Ed io giocavo a
fare la monella sotto gli occhi atterriti e critici di papà.
Forse tutto questo non ci spettava, nessun figlio a ventiquattro anni si
diverte a passare le vacanze con i genitori. Ma noi abbiamo rubato al
destino ore, giorni, settimane di gioia, le abbiamo accumulate
avidamente come un tesoro che non riporremo mai nella soffitta della
memoria.
Senza saperlo, abbiamo ricevuto il bene speciale della tua vita che
vivrà con noi per sempre.
Tutto questo é accaduto.
Ma ora sono certa che tu "sapevi".
Le prove
Se torno indietro nel tempo ti ritrovo bambino, sveltissimo, ricettivo,
vivace. Con tenerezza ti guardavo andare incontro all'adolescenza, che
non velava di malizia l'allegria del tuo sguardo, ma lo arricchiva di
dolcezza.
Mi
vergognavo
un
poco
quando
le
altre
mamme
raccontavano le normali trasgressioni dei loro ragazzi. Tu non hai mai
contestato, non hai mai trasgredito. II tuo rapporto con il prossimo,
con gli amici e i parenti, con noi tuoi genitori, é sempre stato
armonioso.
Non hai mai desiderato affermarti con violenza, o comunque
traumaticamente. La tua arma é sempre stata l'ironia, il sorriso,
l'amore verso tutti.
Potrebbero sembrare parole di una mamma per la quale ogni figlio é
superiore agli altri, ma io ne ho le prove.
II cappellano di Houston, dopo averti dato la Comunione che chiedevi
quotidianamente, ci ha chiesto di celebrare a casa sua una messa per
te.
Allora mi ha consegnato una bellissima poesia. Si intitola All parents.
Ma forse é una preghiera.
Cosi ho scoperto che anche nell'ospedale di Houston avevi creato in
poco tempo una famiglia allargata. Era fatta di tutta quella gente che
piangeva nella cappella di Father David, piangeva per uno straniero
venuto lì a curarsi con il numero 375407.
Venticinque giorni dopo, ormai tornati a Roma, abbiamo ricevuto la
visita inaspettata di Father David insieme al fratello. Cosi, il tuo
trigesimo, è stato celebrato nella parrocchia dei SS. Pietro e Paolo,
dallo stesso sacerdote che ti aveva chiuso gli occhi a Houston.
Quante coincidenze!! Quante casualità! Quanti ricordi straordinari
stiamo vivendo insieme ad un'umanità che non fa notizia.
Il colombo è come me
Si avvicinavano i tuoi diciotto anni.
Con finta disinvoltura, ti avevo chiesto se preferivi festeggiarli in
discoteca o al ristorante. Ma tu mi avevi dato carta bianca, ed io,
come al solito, mi ero scatenata. Furono stampati gli inviti, e venne
assoldato un disk jockey molto abile. Avevo ordinato una torta dal
disegno esclusivo, ti avevo comperato lo smoking.
II tuo primo valzer sarebbe stato tutto per me, mi concedevi un altro
ricciolo.
Nella ricerca di una spiegazione al tuo modo di essere speciale, con
semplicità, senza rivelarti, Nonna Carmela mi ricorda il momento
culminante della tua festa.
Di fronte alle candeline della torta, ti avevo consegnato una grande
scatola colorata: "Apri, apri".
Nello scatolone c'era un candido colombo pavoncello, che avrebbe
dovuto volare via. E invece stentava ad uscir fuori, e sembrava che
non ne avesse nessuna voglia.
Un pò infastidita dal contrattempo, lo agguantai maldestramente
lanciandolo in aria. II colombo prese il volo ma virò repentinamente e,
con un perfetto dietro front, se ne tornò indietro rientrando nella
scatola.
Ero veramente irritata e, borbottando, te lo riconsegnai perché lo
lanciassi fuori tu: "Sai mamma - mi hai sussurrato con trasparente
candore - il colombo é come me, non vuole andare fuori di casa, sta
bene qui, con voi".
Eravamo circondati dagli amici festanti, la musica incalzava. Stavano
esplodendo i fuochi d'artificio.
Ma per noi c'eri solo Tu che sorridevi.
All parents
Per tutti i genitori
Egli disse
"Per breve tempo
vi presto un mio bambino,
per amarlo fintanto che vivrà,
e per piangerlo quando morirà.
Forse avrà sei anni, oppure sette.
Chi lo sa?
Forse saranno ventidue o ventitre.
Ma voi, lo curerete per me
fino a quando non lo richiamerò,
e vi fará felici con le sue infantili moine.
Starà con voi per una breve vita,
e per sempre il suo dolcissimo ricordo
consolerà il vostro dolore.
Tutto quanto appartiene alla terra
torna alla terra, ma lo prometto
che il suo amore mai vi lascerà.
Della vita trascorsa in questo mondo
voglio che il tuo bambino apprenda la lezione,
tra la folla ho cercato i maestri migliori,
tra la folla ho scelto per lui soltanto voi.
E gli darete tutto il vostro amore.
Non sarà invano. Non mi odiate
Quando verrò a riprenderlo
con me lo porterò. A voi
lascerò quella fede
che vi fará rispondere: Signore,
sia fatta la Tua volontà".
Per tutta la felicità
che questo bambino ci ha dato,
noi affronteremo la grande sofferenza
del suo ritorno a Te.
Ci siamo presi cura di lui,
con tenerezza lo abbiamo protetto,
lo abbiamo amato.
Ti saremo grati per sempre
per la felicità che lui ci ha fatto conoscere.
Se troppo presto
L’hai chiamato tra gli angeli,
affronteremo con coraggio l'immenso dolore.
E cercheremo di capire.
Associazione
e le sue stanze
Iniziative per le infrastrutture, lo studio, la prevenzione, la cura dei
tumori, e per l’assistenza dei malati e dei loro familiari
Oppo e le sue stanze
Mi trovo all'ospedale S. Eugenio di Roma, davanti al professor
Amadori, il primario del reparto in cui Oppo é stato curato. La sua
faccia la conosco bene, cosi come gli odori, i rumori di questi corridoi.
Ci sono parenti che aspettano responsi, altri che camminano
sottobraccio con pazienti senza capelli, senza ciglia né sopracciglia,
pazienti sottoposti a chemioterapia.
Mi rivedo anch'io lì, insieme a loro, nelle varie fasi della malattia di
Oppo. Per un attimo ho perfino nostalgia. E' la prima volta che vengo
in ospedale senza mio figlio. II suo cuore ha smesso di battere pochi
giorni fa, sono confusa, stordita.
Ho ancora nelle orecchie le parole del funerale, negli occhi le facce
attonite dei compagni di scuola di Oppo, sulla pelle i baci di tante
persone che a stento riconosco. Tutto mi é scivolato addosso.
Troppo forte, é un dolore che mi allontana, mi coglie impreparata. Ho
un ronzio nella testa: l'aereo, il ritorno da Houston, la bara che non si
trova, che non viaggia con noi nel nostro aereo. Le pratiche
burocratiche, la lingua americana che comprendo a fatica. E ancora
quel momento, quell’attimo m cui le macchine, alle quali era
attaccato, indicano che Oppo non c'é più. Quell'attimo in cui ho la
certezza, chiara, nitida, che lui, al contrario, é più che mai accanto a
me, accanto a noi, sua madre e suo padre.
Mi sono persa per un istante. Ora ho di fronte il professor Amadori e
Oppo accanto a me, dentro di me.
Si, può sembrare strano, ma é proprio lui che mi ha spinta a venire
qui. Perché? Ora non ha più bisogno del S. Eugenio. Eppure sento
che qui, nella sofferenza di coloro che lottano con la sua stessa
malattia, c'é lui, c'é ancora lui.
"Ho pensato, insieme a Mario, di donare all'ospedale una sala
d'attesa “, dico determinata ad Amadori.
"Sarebbe bello - conviene con noi il professore - ma c'è qualcosa di più
importante della sala d'attesa. La degenza nelle camere sterili é
obbligatoria per la guarigione. Ma in Italia non sono molti gli ospedali
che dispongono di camere sterili singole, dove é possibile effettuare il
trapianto del midollo con strumentazioni idonee. La situazione può e
deve essere migliorata".
Chiediamo quanti soldi occorrono relativamente al suo reparto. La
risposta é: “Quattro miliardi”.1
Vacillo. Impossibile, penso sulle prime. Mario si illumina. Perché no,
se Oppo lo vuole?
Personalmente sono convinta che é proprio Oppo a suggerirci che ce
la possiamo fare. Come? Non lo so proprio. So che l'impegno lo ha
preso lui e che dunque proprio lui ci guiderà.
E' passato più di un anno da quell'incontro. Ormai l'associazione
Oppo e le sue stanze é una ONLUS, vale a dire un'organizzazione non
lucrativa riconosciuta dalla Regione Lazio.
L'Associazione é nata a febbraio del 2000, in soli dieci mesi hanno
aderito circa seicento soci. Il ventiquattro maggio dello stesso anno,
giorno del compleanno di Oppo, c'é stato un pranzo inaugurale.
1
Siamo nella primavera del 2000
Da allora, si sono moltiplicate le manifestazioni di solidarietà in
memoria di Oppo, molti giornali ne hanno parlato, perfino qualche
telegiornale.
Testimonials - si dice cosi? - prestigiosi, che per la maggior parte non
conoscevo prima, hanno prestato gratuitamente la loro 'immagine' per
seminari di studio, maratone, gare di nuoto, partite di calcio,
mercatini dell'antiquariato, addirittura il derby del cuore degli attori
contro i cantanti.
Incredibile, io non ho fatto nulla. 0 quasi.
Gli incassi? Tutti nel salvadanaio delle camere sterili di Oppo e le sue
stanze.
Non avrei mai immaginato di avere tante amiche, tante mamme di
compagni di scuola che quotidianamente stabiliscono “turni svizzeri”
per darsi il cambio nella segreteria dell'associazione, facendo marciare
un'organizzazione che io stessa stento ancora a credere che esista
davvero.
E invece, grazie a tutti, dopo soltanto pochi mesi dalla sua
fondazione, può già contare su di una cifra significativa. E questo mi
lascia sperare che continueremo a ricevere aiuto fino a realizzare il
nostro progetto.
La Regione é stata chiara: finanzierá il progetto.
E intanto, che fare? Torno a casa con mille pensieri, vedo la stanza di
Oppo. Le sue cose sono sempre lì, intatte. Mi vengono in mente i
ritorni, quando rientravamo a casa dopo le chemioterapie estenuanti.
Ancora mi sento a disagio, come allora. Pensavo: noi possiamo
ritrovare le nostre cose, le abitudini protettive, il bagno, la cena
pronta, il letto… Oppo può dormire nel suo letto.
In ospedale avevamo appena lasciato genitori, pazienti che venivano
dal meridione. E il giorno dopo li incontravamo di nuovo, molti
avevano dormito su una panca, lontani dal loro familiare ammalato,
infreddoliti, stanchi, scoraggiati. Non si lamentavano per non
deprimere il parente che stava male.
Non solo. Ho ascoltato anche racconti di lunghe malattie che avevano
messo sul lastrico intere famiglie, costrette a mantenersi fuori casa.
Ora é chiaro, Oppo mi ha mandato un messaggio: si vuole occupare di
loro, ci dobbiamo occupare di loro.
Oggi, i familiari dei malati ematologici della Seconda Università,
possono avere voli Alitalia, ospitalità con prima colazione in alberghi
convenzionati, buoni-pasto, buoni-benzina. II tutto gratuitamente,
telefonando a Oppo e le sue stanze.
Rispondiamo noi, ma é come se rispondesse direttamente lui.