Le donne del vino Elena, Silvia, Teresina,Maria
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Le donne del vino Elena, Silvia, Teresina,Maria
Bottiglia Signore la delle di GOFFREDO LOCATELLI Donne e vino, un rapporto nuovo, tutto da esplorare. Si fa strada quella che viene definita “l’altra metà” della cantina. Produttrici, enotecarie, enologhe, sommelier e giornaliste enogastronomiche stanno ritagliandosi uno spazio in un mondo storicamente maschile. La gestione “al femminile” delle aziende dimostra capacità passione competenza. In Campania le produttrici sono già una dozzina. E questo è un bel successo. Ho visitato le più importanti per raccontare le loro storie.... Elena Martusciello, donna Falanghina Due grandi cerchi d’oro ai lobi, un viso tornito, capelli corti biondi, giacca bianca e calzone nero. A dispetto dell’età, lo charme della “signora Falanghina”, come chiamano da anni Elena Martusciello, è ancora vivo. La incontro nella sede delle Cantine Grotte del Sole, a Quarto, Campi flegrei, dove si dedica all’attività vitivinicola insieme con i suoi due figli: Francesco, di 37 anni, e Salvatore di 32. Si vede subito che è una donna volitiva e di carattere. Mi fa la storia dell’azienda dicendomi che è nata per riscoprire e valorizzare, sulle rive del lago d’Averno, alcuni antichi vitigni autoctoni quasi dimenticati: la Falanghina, il Piedirosso, l’Asprinio di Aversa, gli stessi impiantati due millenni prima dai Greci. Giunta alla sua età, Elena confessa di aver avuto due soli grandi amori: quello per il marito Angelo, scomparso, e quello per il vino. “Mi sono sposata a 19 anni, – racconta - lasciai gli studi classici per dedicarmi alla famiglia, e allora ero astemia. Fu mio marito, lui che nel vino ci era nato, a introdurmi in questo mondo nel quale ho speso quarant’anni della mia vita e che ancora oggi mi appassiona”. Le Cantine Grotta del Sole sono nate sulla preesistente Vinicola Flegrea, una piccola cantina per la vendita di vino sfuso sorta a Pozzuoli per volontà del suocero di Elena. Poi i Martusciello, che più di una famiglia sono un vero e proprio clan, capirono che il futuro era nell’imbottigliamento di vino di qualità. La figura femminile in questo clan non è mai stata di secondo piano, anzi ha sempre contato. Perciò Elena, che sa dare al lavoro l’impronta del suo stile, oggi ha un doppio ruolo: è il punto di riferimento nel rapporto finanziario del gruppo, e si occupa delle pubbliche relazioni. “Ho viaggiato in lungo e in largo – dice mostrandomi un giornale finlandese che le ha dedicato un’intera pagina. – A Verona, la prima volta che andai al Vinitaly, mi sentivo quasi sperduta in mezzo all’universo di produttori. Ma in questi anni abbiamo fatto molto cammino partecipando a tante fiere in Italia e all’estero. Oggi vendiamo quasi un milione di bottiglie alla ristorazione e alle enoteche. In più, arriviamo in Giappone, Usa, Finlandia, Francia. Mi piace ricordare che nel 1992 i nostri vini furono scelti dal cerimoniale per l’incontro dei capi di Stato al G7. Un bel ricordo per un avvenimento storico”. Nell’azienda (15 ettari di proprietà) lavora come enologo un altro Martusciello, Gennaro, che è un tecnico di grande esperienza. A Quarto s’imbottigliano 18 vini provenienti da sei aree: 7 bianchi, 7 rossi, 3 spumanti e un passito. Dice Elena: “Per noi è stato un sogno realizzare quest’impresa, che oggi ha un fatturato di 3,5 milioni di euro e dà lavoro a una decina di dipendenti, più quelli stagionali. Purtroppo i nostri competitori qui sono gli abusivi, che hanno portato il valore dei suoli alle stelle”. Prima di salutarla le chiedo la previsione di quest’anno “Sarà un’ottima annata”, risponde Elena con garbo. E il suo bel viso tenero s’accende. Silvia Imparato, dal clic alla bottiglia La vita, si sa, è bella perché è varia. Per una ventina d’anni Silvia Imparato ha fatto la fotografa e ha visto uomini e cose attraverso lenti e obiettivi. Era brava. Lavorava per giornali e riviste ai quali vendeva i suoi servizi. Poi a Roma aprì uno studio di ritrattista e, un bel giorno, ecco il signor X, quello della folgorazione. “Feci un ritratto ad un americano che mi incuriosì parlandomi del vino e del fascino di un mondo a me del tutto sconosciuto – racconta Silvia – Da quel giorno cominciai ad appassionarmi e andai sempre più avanti…”. Risultato. Dopo le corse per il mondo, la fuga più profonda, e la metamorfosi. La fotografa affermata si fa rapire inesorabilmente dal fascino della campagna, dai profumi e dai colori della sua terra salernitana. Il resto è storia recente. Dai pendii sui quali sorge una rocca medievale di origine romana, nasce un vino rosso il cui nome, Montevetrano, identifica l'azienda di Silvia, situata in località Nido, nel comune di San Cipriano Picentino. Quattro ettari di vigneti che godono di una posizione ideale. Racconta ancora Silvia: “Quando, nel 1985, decidemmo di sostituire la barbera, il piedirosso e l'uva di Troia con il cabernet sauvignon, il merlot e l'aglianico di Taurasi, io e l'enologo Riccardo Cotarella non potevamo ancora immaginare quale prezioso gioiello, di lì a pochi anni, sarebbe diventato quell'unico grande vino nato da una forte passione per i rossi bordolesi”. Nel 1993, raggiunto un sufficiente numero di bottiglie, fu messo in commercio il primo Montevetrano. Fu subito un successo e, già dalle prime annate, divenne uno dei più importanti e ricercati vini rossi. Dicono che l'impronta dell'enologo sia stata decisiva. Ma di più, assai di più, si deve alla passione, alla dinamicità e alla professionalità di Silvia, se il Montevetrano gode di una propria, indiscutibile e affascinante personalità. “Produciamo 30mila bottiglie – mi dice – e non vogliamo superare le 50mila. Sì, ci piace rimanere piccoli, per nostra scelta”. Come dire: piccolo è bello, e il successo, quello vero, non si misura col numero delle bottiglie. Teresina Cutillo, addio ai codici per la fattoria Nella provincia campana maggiormente vitata (il Sannio ha 24mila ettari) Teresina Cutillo ha una bella storia da raccontare. Moglie del notaio Franco Pasqualino e madre di tre ragazzi di 15, 13 e 9 anni, da un giorno all’altro è diventata presidente di una spa che ha rilevato l’azienda Torre Gaia a Dugenta. Ma come ha fatto? “Cominciamo dall’inizio mi dice col sorriso sulle labbra – Io sono laureata in giurisprudenza e ho anche insegnato all’università. Nel mese di agosto di alcuni anni fa rientravamo da Londra io e mio marito, quando sapemmo che la Popolare di Novara aveva messo in vendita Torre Gaia, cioè un pezzo di storia del Sannio. Questa era la tenuta di campagna del banchiere Mario Perlingieri. Non poteva andare in mano a sconosciuti. Così con un gruppo di amici decidemmo di fare un’offerta d’acquisto. Ricordo che prendemmo l’aereo e volammo subito a Novara. A farla breve, la nostra proposta fu accettata”. Teresina abita a Solopaca e ogni giorno va in azienda a Dugenta perché spiega che, codici a parte, lei ha sempre avuto una passione per il vino. E a Torre Gaia, che sembra un angolo di Toscana, sta vivendo la sua seconda giovinezza. “Abbiamo più di cento ettari di terreno, di cui 60 a vigneto – continua a raccontare – io mi sono affezionata a questo lavoro e lo faccio a tempo pieno”. Al centro della grande tenuta, vent’anni fa è stato edificato un moderno stabilimento enologico attrezzato con le più avanzate tecniche di vinificazione e imbottigliamento. Per preservare le antiche tradizioni, particolare cura viene riservata alla bottaia che ospita le grandi botti di rovere di Slavonia usate per la manutenzione dei vini rossi. “Ma Torre Gaia è anche un’oasi di pace turistico-ambientale – aggiunge Teresina. – Anche se il core business resta il vino con 400mila bottiglie l’anno, vogliamo farne una vera e propria azienda enoturistica. Già lo scorso anno abbiamo avuto 30mila presenze di enoturisti per la degustazione. La nostra è una country-house che offre ospitalità ai visitatori nella stupenda villa padronale e negli otto casali che la circondano. In più ci stiamo attrezzando per produrre cosmetici che nascono dall’uva e per la vinoterapia”. Daniela Mastroberardino, dai libri al milione di bottiglie Come un grande vigneto nel cuore della Campania, l’Irpinia è patria di vini apprezzati già sulle mense degli antichi imperi. A Montefusco (l'antica Fulsulae ricordata da Tito Livio) l’azienda Terredora Di Paolo è oggi tra i più importanti produttori di vini irpini. La cantina, baricentro delle vigne dislocate a raggiera, è incastonata in un incantevole scenario naturale, a circa 650 s.l.m. Da qui si dominano le zone di produzione a Doc e Docg: la Valle del fiume Sabato per il Fiano di Avellino e il Greco di Tufo, la Valle del fiume Calore per il Taurasi. Dai 120 ettari di vigna di proprietà, Terredora tira fuori un milione di bottiglie. Ma dietro ogni bottiglia c’è sempre un produttore con la sua storia. Una diecina di anni fa i fratelli Mastroberardino, Walter e Antonio, divisero il patrimonio di famiglia, e il primo si mise in proprio decidendo un cammino separato. Walter ha tre figli: Paolo, Lucio e Daniela, tutti impegnati nell’azienda. Daniela è consigliera nazionale dell’associazione “Le donne del vino”. Ha un animo gentile e vive con i suoi genitori in una bella casa con le pareti dipinte di giallo. “Dopo anni di sforzi, d’investimenti e di continui miglioramenti, la nostra azienda ha acquisito una sua precisa identità: produciamo alcuni tra i migliori vini del mondo spiega Daniela – e siamo gli unici a coltivare su sette ettari la falanghina in provincia di Avellino. Il 70 per cento della produzione la distribuiamo in Italia e il rimanente in Usa, Europa e Giappone”. Le chiedo perché è approdata in questo settore, dal momento che già i maschi della famiglia vi sono impegnati. “Quando si vive nel mondo del vino si finisce per innamorarsene – mi dice. - Io da ragazza volevo fare l’architetto, poi mi sono fatta attrarre dal fascino di una nuova cultura, quella della vite e del territorio. Sì, c’è molta cultura e ritualità intorno al vino, ha un’aura tutta propria. Del resto a me piace molto vivere in campagna. Intendiamoci, amo anche viaggiare, andare a teatro o leggere un bel libro, cosa che ho sempre fatto fin da bambina. Mi creda, sono state proprio le letture ad arricchirmi e a farmi vedere il mondo in maniera diversa…”. Marisa Cuomo, nel fiordo della costiera per amore Lei e lui fanno coppia da quando erano ragazzini, si sono sposati e hanno messo al mondo due figli. Con il loro impegno, Marisa Cuomo e suo marito Andrea Ferraioli hanno creato a Furore, in uno dei tratti più belli della costiera amalfitana, un’azienda baciata dal sole. Sui crinali degradanti verso il mare crescono oggi vitigni di gran pregio, come i bianchi coda di volpe, bianca zita, san Nicola, ripoli, ginistrella e i rossi pere e' palummo, serpentaria, tintore, taralluzzo, tutti meritevoli di rappresentare la produzione vinicola locale. La Doc Costa d'Amalfi è stata riconosciuta nel 1995 e prevede come tipologie base un Bianco, un Rosso e un Rosato. All'interno della denominazione sono state poi individuate tre sottozone - Furore, Ravello e Tramonti - alle quali si applica un disciplinare più restrittivo. Luigi Veronelli, uno che se ne intende, ha scritto che il vino delle Cantine Marisa Cuomo “sa di roccia e di mare”. E ne ha cantato le lodi. Ma com’è nata questa piccola grande azienda? “Abbiamo cominciato una ventina di anni fa, subito dopo il nostro matrimonio. – racconta Marisa – Io mi sono sposata a 19 anni, mio marito ne aveva 25. Era animato da una grande passione, sognava un’azienda vinicola tutta sua, che poi, una volta realizzata, ha voluto dedicarmi. La voleva per produrre un vino prestigioso, migliore di quello di suo padre, che era più commerciale. Oggi abbiamo in costiera tre ettari di proprietà che lavoriamo con tanto amore e che abbiamo sistemato con le nostre mani”. Sui fianchi scoscesi della costiera la scarsità del terreno coltivabile, strappato alla roccia con terrazzamenti di grande ingegnosità, ha da sempre imposto uno sfruttamento intensivo del suolo, oltre a una severissima selezione delle colture. In questo scenario, Marisa lavora dividendo la sua giornata tra l’uva, il vino e i figli, Dora e Raffaele. “Mio marito si prende cura della parte commerciale e dei vigneti – continua a raccontare - mentre io della cantina scavata direttamente nella roccia. Sì, io sono la cantiniera: mi occupo del lavaggio del serbatoio, della vendemmia e del resto. Porto anche le cassette d’uva sulle spalle e non me ne vergogno. Perché dovrei? ll lavoro mi dà molta soddisfazione. Produciamo 50mila bottiglie per 6 tipi di vino: Furore bianco e rosso, Ravello bianco e rosso, Furore bianco fiorduva (col quale abbiamo vinto l’oscar dei sommelier come miglior bianco italiano) e Furore rosso riserva. Siamo presenti in tutt’Italia, ma la nostra produzione è limitata e quindi siamo solo nell’alta ristorazione. In più a New York, in Giappone, Svizzera e Austria. L’azienda sta crescendo. E quest’anno la vendemmia si è protratta fino a fine ottobre, con uva bella matura e di buona qualità”. Maria Ida Avallone, una diplomatica a Villa Matilde Di spalle, nel semicerchio del finestrone, il chiarore del crepuscolo profila l’incarnato pallido di una vergine del Botticelli appena uscita dalla Galleria degli Uffizi. Ha occhi senza trucco. I suoi capelli luminosi, tirati, evidenziano nel controluce un volto epidermicamente naturale: dove s’accende e si spegne un accenno di sorriso. Maria Ida Avallone ha una voce inaspettatamente dolce e una mimica scarna. Veste di blu, con un foulard al collo. Dall’altra parte del tavolo, alla ricerca inesausta di una misura d’ironia, ne scandaglio la consistenza con domande sul suo privato. “Ho 41 anni – mi risponde – e una bambina di dieci, Maria Cristina, che accompagno a scuola ogni mattina. Mi sono laureata a 21 anni in giurisprudenza e scienze politiche, volevo fare la carriera diplomatica. Oltre che grande appassionata, sono una gran bevitrice di vino…”. Delle parole Maria Ida brucia le scorie morte, sicché mi trasmette l’ebbrezza di star vicino a una persona intelligente. Ci vorrà poco per intuire un rigore appena venato da qualche traccia di malinconia. Questa signora del vino costruisce periodi eleganti, che contengono storia e giudizio, passione culturale e pragmatismo. Si direbbe che l’antica dolcezza del carattere le sia rimasta come un profumo segreto, vivificante. Maria Ida gestisce Villa Matilde, l’impresa di famiglia che porta il nome di sua madre e ha sede a Cellole, sul litorale domizio. Mi dice che fu il padre, Francesco Paolo, tenace custode di tradizioni rurali, ad impiantarla. Infervorato per il Falerno, esplorò i modi per farlo rinascere, e insieme con la facoltà di Agraria di Portici ci riuscì. “Questa terra negli anni cinquanta era bistrattata – racconta Maria Ida. - Mio padre intuì che nell’antico vino aveva il modo per essere rivalutata, e così nel 1972 la prima produzione del Falerno fu messa in commercio”. L’azienda degli Avallone dispone di 90 ettari, di cui 62 destinati al Falerno. Produce 600mila bottiglie l’anno per l’alta ristorazione e le enoteche. E arriva in 18 paesi, dagli Usa al Giappone. Maria Ida si occupa di marketing e comunicazione. Il fratello Salvatore, sei anni più di lei, della produzione. Scusi, perché ha accantonato il sogno di fare la diplomatica, per dirottare la passione altrove? Maria Ida dice ciò che pensa risoluta: “A un certo punto sono stata costretta a prendere in mano le redini dell’azienda. Dovevo trasformarla, insieme con mio fratello, in una vera impresa. Quando noi abbiamo iniziato, in Campania c’erano poche aziende: Mastroberardino, Mustilli e qualche altro. Oggi invece, con un diverso stile di bere, si assiste alla rinascita dei vini campani. Ma io preferisco procedere a piccoli passi, ho già assistito agli alti e bassi del mercato”. Non ha rimpianti, la mancata diplomatica? “No. – ribatte - Farò l’ambasciatrice del vino nel mondo. Di questo lavoro, a stretto contatto con la natura, ci si innamora: la donna è più passionale dell’uomo”. E come vede il futuro la bella imprenditrice? Maria Ida mi guarda e fa: “Mi ritengo tenace e decisa, perciò voglio essere una brava mamma per trasmettere a mia figlia i miei valori personali e imprenditoriali”. Chiaro? Maria Ida Avallone è donna troppo felicemente occupata a migliorarsi intellettualmente per avere meschini pensieri. (DEN 21.10.2004)