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Settimana N° 99 (13-19 giugno 2011) RAPPORTO ROMAGNA ECOMAFIA: IL LATO VERDE-NERO DELL'EMILIA Scritto da Laura Simoni Il 2010 è stato l’anno della Biodiversità, del XIX Campionato mondiale di calcio, e del premio Nobel per la pace a Liu Xiaobo. Ma in Italia sono purtroppo altri i motivi per cui ci si dovrebbe ricordare degli scorsi 12 mesi. Il rapporto Ecomafia 2011, presentato da Legambiente lo scorso 9 giugno a Roma, contiene tanti e tali dati da far rabbrividire chiunque. Dati che rappresentano solo la punta di un profondissimo iceberg che sta lentamente facendo sprofondare l’intero Paese nel mare nero dell’illegalità, e sta portando con sé sempre più regioni. Nel corso del 2010 sono stati 30.842 gli illeciti ambientali accertati nel Belpaese, 84 al giorno, più 7,8% dell’anno precedente; due milioni di tonnellate di rifiuti pericolosi sequestrati (dati disponibili su appena 12 delle 29 inchieste per traffico illecito di rifiuti messe a segno dalle forze dell’ordine); 26.500 di nuovi immobili abusivi stimati, per una superficie totale di suolo consumato dalla cementificazione illegale pari a 540 campi da calcio. Un vero e proprio saccheggio del territorio messo in atto da 290 clan malavitosi (20 in più del 2009) che operano ormai lungo tutto lo Stivale e registrano un giro d’affari dal fatturato (sottostimato) di circa 19,3 miliardi di euro. Si calcola che sempre nel 2010 il 10% del PIL italiano sia stato costituito dal riciclaggio di capitali illeciti e l’evasione fiscale abbia raggiunto la cifra di 50 miliardi di euro. I soliti sospetti sono sempre loro: «La Campania – leggiamo nel comunicato – continua a occupare il primo posto nella classifica dell’illegalità ambientale, con 3.849 illeciti, pari al 12,5% del totale nazionale, 4.053 persone denunciate, 60 arresti e 1.216 sequestri, seguita dalle altre regioni a tradizionale presenza mafiosa: nell’ordine Calabria, Sicilia e Puglia, dove si consuma circa il 45% dei reati ambientali denunciati dalle forze dell’ordine nel 2010». Che non sorrida il resto d’Italia, dato che i reati ambientali stanno crescendo dovunque, ed in particolare nel Nordovest, dove il forte incremento di tali illeciti accertati in Lombardia (chi l’avrebbe mai detto?) ha portato le mafie locali ad attestarsi attorno al 12% delle totali italiane. L’Emilia-Romagna non è immune né tanto meno vaccinata: terra di conquista prediletta dai clan calabresi (ma non solo), con la sua forte economia, la continua cementificazione e gli ininterrotti cicli d’appalti pubblici, è il posto ideale per il riciclaggio del denaro sporco in traffici illeciti. «Da diversi anni ormai – ci conferma Alessandra Petilli, dell’ufficio stampa di Legambiente Emilia-Romagna – la nostra regione è una delle mete predilette per gli investimenti delle mafie. Fa parte a pieno titolo delle regioni del Centro Nord che sono state colonizzate dalle cosche “emigrate” di camorra, ‘ndrangheta e mafia. Come in Liguria, Piemonte e Lombardia, dunque, anche in Emilia-Romagna l’economia è ormai infiltrata dai variegati interessi dei boss. Le organizzazioni criminali hanno fatto lievitare la nostra regione all’undicesimo posto nella classifica dell’illegalità nel ciclo del cemento, e al dodicesimo per i reati legati al ciclo dei rifiuti». Il ciclo del cemento, che più che abusivo qui è strettamente legato al riciclaggio del denaro sporco ha registrato ben 219 infrazioni e 53 sequestri, per un totale di 331 persone denunciate. Nello smaltimento illecito dei rifiuti si contano invece 238 infrazioni, 300 persone denunciate e 101 sequestri giudiziari effettuati. Ma il dato più negativo per la nostra regione è quello dell’archeomafia: una vera e propria aggressione criminale al patrimonio artistico e culturale (soprattutto furti di opere d’arte) che vede la regione raggiungere il quinto posto nella classifica italiana, con l’8,7% del totale. «Come un virus, con diverse modalità di trasmissione e una micidiale capacità di contagio. Che avvelena l’ambiente, inquina l’economia, mette in pericolo la salute delle persone, uccide in maniera improvvisa e brutale o, più sottilmente, a distanza di tempo. Un virus con un sistema genetico locale e una straordinaria capacità di connessione su scala globale. Che può nascere in provincia di Caserta o di Reggio Calabria, riprodursi a Milano, entrare in simbiosi con altre cellule a Berlino e Amsterdam, saldare il suo dna con ceppi lontani, fino a Hong Kong». Con queste le parole Antonio Pergolizzi ed Enrico Fontata introducono le pagine del dossier sulle ecomafie italiane. E no, purtroppo non stanno parlando di Escherichia Coli. RAEE, LO STATO DELL'ARTE Scritto da Olga Massari Intanto cosa significa RAEE: rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche. Più banalmente gli elettrodomestici che buttiamo via quando sono danneggiati o di cui ci vogliamo sbarazzare per comprarne altri migliori. Ultimamente abbiamo sentito parlare di RAEE quando la nostra regione è passata al digitale terrestre e sono stati buttati via decine e decine di televisioni. Ma che fine hanno fatto? Molti cittadini emiliani e romagnoli hanno dovuto portato il loro elettrodomestico usato nelle apposite isole ecologiche atte allo smaltimento pulito e legale di queste apparecchiature. A tre anni dall’inizio dell’attività di gestione dei RAEE, qualche giorno fa si sono tirate le somme nel congresso organizzato da Ecodom (Consorzio italiano del recupero e del riciclaggio degli elettrodomestici), e Liberambiente alla Camera dei deputati. Il Centro di Coordinamento RAEE è un organismo costituito, finanziato e gestito dai Sistemi Collettivi istituiti dai Produttori di AEE, con il compito di garantire condizioni uniformi ed omogenee tra i Sistemi Collettivi stessi, che devono obbligatoriamente farne parte. Gli elettrodomestici vengono classificati in R1,frigoriferi condizionatori,congelatori; R2, lavatrici, lavastoviglie, cappe e forni; R3, TV e monitor; R4 piccoli elettrodomestici e R5, sorgenti luminose (lampadine di tutti i tipi). I dati presentati dal presidente del CdC, Danilo Bonato,sembrano incoraggianti: nel corso del 2010 la raccolta ha registrato un incremento del 27% rispetto all’anno precedente raggiungendo l’obbiettivo definito dalla normativa europea di 4kg anche se decisamente indietro rispetto alla Svezia che ne raccoglie 16kg pro capite; i ritiri sono stati oltre 140.000, c’è da dire però che la mancata legislazione in merito ha fatto slittare la raccolta dei RAEE per due anni, dal 2006 al 2008 (con il D.M. del 3 marzo 2010 ). I RAEE prodotti in Europa sono tra i 9 e i 10 milioni di tonnellate mentre la media pro capite è 7 kg. Per anni si sono create discariche abusive, quante ne abbiamo viste nelle campagne, sulle rive dei fiumi, in zone poco frequentate del territorio italiano? Lavatrici, tv-color, computer e chi più ne ha più ne metta, veri e propri paesaggi che i nostri occhi sono stati abituati a vedere nel panorama nostrano. Un’altra situazione poco chiara è l’export illegale: le destinazioni sono in Africa, Ghana e Nigeria, e poi in Cina e India. Paesi in cui c’è fame di materie prime per alimentare crescita e sviluppo senza scendere a compromessi con l’ambiente o con i diritti dei lavoratori. Secondo i dati del report del Centro di Coordinamento il 2010 ha confermato il rilevante trend di crescita nella raccolta dei RAEE in Italia che aveva già caratterizzato gli anni precedenti. Sul territorio italiano, nel corso dell’anno sono stati raccolti complessivamente 245.350.782 kg di RAEE. L’andamento della raccolta nel corso dell’anno non varia di molto rispetto all’anno precedente con picchi nei mesi di agosto e settembre ed una buona raccolta negli ultimi mesi dell’anno mentre essa è leggermente ridotta nella prima parte dell’anno. L’Emilia Romagna rimane anche nel 2010 la seconda regione d’Italia per raccolta di RAEE con 26.722.210 kg gestiti dai Sistemi Collettivi nel corso dell’anno. Abbastanza contenuto l’aumento della raccolta, pari +14%. Il vero primato della regione è però il fatto che il 100% della popolazione residente è servita dalla rete dei Centri di Raccolta che conta 366 strutture, 25 in più dell’anno precedente. Buoni risultati di raccolta per tutte le province con Bologna in testa con un quantitativo pari 5.758,272 kg. Rispetto al resto d’Italia in Emilia Romagna si raccolgono quantitativi ingenti di grandi elettrodomestici appartenenti al Raggruppamento R2 pari al 30% dei RAEE raccolti. Quali sono gli obbiettivi futuri per lo smaltimento dei AEE? Un ulteriore impegno del CdC RAEE è quello di aiutare tutti i soggetti della filiera, inclusi i distributori, installatori e centri di assistenza tecnica, che ad oggi incontrano le maggiori difficoltà a trovare Centri di Raccolta cui conferire i RAEE domestici ritirati dai consumatori. Questo impegno si concretizza nella sensibilizzazione di Comuni o soggetti gestori della raccolta, favorendo un dialogo indispensabile per poter risolvere i problemi, reali o artificiosi, che si presentano in molte aree del paese. Le prospettive per l’anno 2011 sono di ulteriore crescita della raccolta anche se il sistema di gestione dei RAEE continua a attendere gli interventi normativi che possano dare l’impulso vero per una crescita continua verso obiettivi di raccolta e trattamento che il legislatore europeo definirà nella revisione della direttiva. Questi obiettivi saranno per l’Italia estremamente ambiziosi e richiederanno uno sforzo collettivo imponente per poter essere raggiunti. FONDI EMAS, 500 MILA EURO PER RIDURRE L'IMPATTO AMBIENTALE Scritto da Davide Capalbo 500 mila euro. Questa è la cifra che la Commissione territorio, ambiente e mobilità della Regione ha messo a disposizione di aziende ed Enti pubblici locali per favorire la diffusione dei sistemi di gestione Emas. Emas è il sistema di gestione ambientale lanciato dal Parlamento europeo nel 2004 allo scopo di contribuire ‒ leggiamo sul sito del Parlamento europeo ‒ allo sviluppo sostenibile in un'ottica di lungo termine, non solo sul piano politico e nelle procedure legislative, ma anche nell'ambito del proprio funzionamento e delle decisioni che prende quotidianamente. Le linee guida del progetto ‒ ancora dal sito del Parlamento europeo ‒ sono tutte improntate alla sostenibilità e al risparmio energetico: riduzione delle emissioni di biossido di carbonio; promozione dell'efficienza nell'impiego di energia, risorse idriche e carta, riduzione dei rifiuti; integrazione degli orientamenti ambientali nelle procedure d'appalto; garanzia di un corretto comportamento e di impegno mediante la formazione e una maggiore sensibilizzazione; garanzia di un corretto comportamento e di impegno mediante la formazione e una maggiore sensibilizzazione; adozione di misure preventive volte a contrastare l'inquinamento; garanzia del rispetto dei requisiti necessari; messa a disposizione di risorse sufficienti al proprio sistema di gestione ambientale; promozione di comunicazione e dialogo trasparenti. Ed è su queste corde che si pone la Regione con questo bando. L’intenzione – ha spiegato l’Assessore regionale all’ambiente e alla riqualificazione urbana Sabrina Freda – è quella di favorire la diffusione dei sistemi di gestione ambientale sul territorio emiliano-romagnolo, coinvolgendo in primo luogo gli Enti locali nell’impegno a ridurre l’impatto ambientale. L’idea dell’assessore, infatti, è che questo tipo di processi possano funzionare meglio se, anziché imposti dall’alto, partano dal basso, dalle scelte quotidiane dei singoli cittadini e delle istituzioni. Le risorse che la Regione ha messo a disposizione saranno utilizzate per il finanziamento di progetti finalizzati a recuperare aree verdi e spazi pubblici e alla riqualificazione dei beni architettonici già esistenti. Con questo primo bando, che sarà disponibile già da fine mese, saranno assegnati fino a 40 mila euro a coloro che vogliono ottenere o rinnovare la registrazione. Chiunque – enti e aziende – voglia partecipare può trovare il bando sul sito della Regione e ha tempo fino al 31 dicembre 2012 per richiedere il finanziamento - a meno che i fondi stanziati non finiscano prima. VIA LIBERA ALL'AUTOSTRADA DEL BRENNERO Scritto da Filippo Piredda Stefania Prestigiacomo vorrebbe tanto essere un buon Ministro dell'Ambiente, per farlo dovrebbe scaricare il Governo e Berlusconi, in cui ci sono colleghi che la definiscono "matta" e di cui non capisce la linea politica, tanto che si barcamena in un equilibrismo funambolico. Il nucleare un giorno (15 marzo) lo condivide, un altro (17 marzo 2011) è contraria e infine pur di non sbagliare concorda con il Papa (10 giugno). In mezzo a tutte queste discussioni riesce a trovare il tempo per approvare l'ampliamento dell'Autostrada del Brennero. Per chi non fosse pratico l'A22 è quella che parte da Modena e passando per Verona e il Trentino - Alto Adige arriva fino al confine con l'Austria, per poi proseguire in Germania. Un percorso che la rende tra le più importanti e trafficate, sopratutto da mezzi pesanti. Da una veloce lettura su wikipedia scopro che è lunga 313 km, che: L'autostrada A22 sarà la prima "autostrada ad idrogeno" in Europa. Entro il 2010 dovrebbe infatti essere dotata di una rete di impianti di rifornimento di idrogeno, sul modello della California HydrogenNet (CaH2Net), realizzata per volere del governatore della California Arnold Schwarzenegger. L'idrogeno, non presente in natura allo stato libero, deve essere prodotto a partire dal petrolio o da fonti alternative: in linea con la rigida tutela ambientale applicata nella zona di Bolzano, l'idrogeno sarà prodotto da fonti rinnovabili. Sbrigate le premesse veniamo alla notizia della settimana. Il Ministro ha concesso il VIA (Valutazione di impatto ambientale), per la realizzazione della terza corsia nei circa 90km tra Verona Nord e l'intersezione di Modena con l'A1, che sale verso Milano o scende a sud verso Bologna. Nel testo dell'approvazione si legge che il progetto è stato pensato per "migliorare l’interazione con l’ambiente, specialmente riguardo al rischio di inquinamento delle acque e all’impatto acustico, tutelando i siti limitrofi della rete Natura 2000 (Valle delle Bruciate e Tresinaro, Viadana, Portiolo, San Benedetto Po e Ostiglia e Vallazza)". DIOSSINA A FORLÌ, L'INCENERITORE SOTTO ACCUSA Scritto da Lou Del Bello Tre allevamenti chiusi, e proprio nella capitale della zootecnia, la Provincia di Forlì. La causa è inquietante, sebbene il tema non sia nuovo: contaminazione da diossina. Il fatto che nella sola città capoluogo siano presenti ben due inceneritori fa pensare, ai maligni, che ci sia un collegamento tra le emissioni (pulite, a detta di Hera che gestisce uno dei due impianti) e le sostanze nocive rinvenute nel terreno. In ogni caso, c'è una storia da raccontare e una serie di dati opposti provenienti da Arpa e Ausl da un lato e da ISDE dall'altro. La battaglia dell'International Society of Doctors for Environment, sezione di Forlì, contro l'inceneritore comincia nel 2008, all'apertura del secondo impianto targato Hera. Viene presentato un esposto a cui segue un incidente probatorio e poi più nulla per due anni, fino a oggi. Il processo è previsto a breve, ma nel frattempo sono successi fatti importanti sul fronte inquinamento. Per esempio, i medici dell'ISDE, caparbi, hanno deciso di non lasciare tutto in mano agli avvocati ma di finanziare autonomamente una serie di esami tossicologici (in particolare alla ricerca di diossina) su sette campioni di polli e latte materno provenienti dalle vicinanze dell'inceneritore. I risultati sono stati significativi: man mano che ci si avvicinava alla struttura, cresceva la concentrazione della pericolosa molecola, fino a raggiungere anche un livello doppio rispetto a quello permesso dalla legge. Nei polli, il limite consentito è di 4 picogrammi (miliardesimi di milligrammo) per grammo di tessuto, mentre nel campione esaminato, raccolto in un allevamento sito a 800 metri dall'inceneritore, la quantità di diossina accumulata era 8.2 picogrammi al grammo. Così per il latte materno, che in una donna residente a 500 metri, a due mesi e mezzo dal parto, era contaminato da 10.419 picogrammi di diossina a fronte di un limite di legge di sei. Queste segnalazioni sono state rispedite al mittente da Arpa e Ausl, che hanno risposto citando i confortanti risultati dello studio regionale triennale Moniter, avviato proprio nell'intento di “organizzare un sistema di sorveglianza ambientale e valutazione epidemiologica nelle aree circostanti gli impianti di incenerimento in Emilia-Romagna". Nella comunicazione ufficiale, si dichiarava che: “L’attività di controllo sui fumi al camino dell’inceneritore di rifiuti urbani [...] non ha evidenziato, per quanto riguarda diossine e furani, superamenti dei limiti previsti in autorizzazione (più bassi di quelli stabiliti dalle normative vigenti). In particolare i controlli hanno evidenziato valori compresi fra 0,002 e 0,003 nanogrammi al metro cubo (circa quaranta volte sotto il limite di legge)”. Eppure dopo nemmeno due mesi dal botta e risposta l'Ausl mette i sigilli a tre allevamenti. Non è stata comunicata l'ubicazione esatta né il nome dei proprietari, ma la ragione è nota. “Non si può calcolare la concentrazione degli inquinanti al metro cubo di suolo, come ha fatto Arpa – ribatte Patrizia Gentilini, presidente dell'ISDE di Forlì. I nostri conti sono ben diversi, e si fanno incrociando i dati provenienti dal rapporto ufficiale di Hera sulle emissioni nel 2009 con la quantità massima di diossina tollerabile da ogni individuo in un anno. Nel corso del 2009 sono state prodotte 30.000 tonnellate fra ceneri, scorie e residui di trattamento, contenenti in totale un miliardo e cinquecento milioni di nanogrammi di diossine (1,5 grammi): la dose massima tollerabile annua per 29 milioni e 400mila persone adulte, un numero pari a 6,7 volte la popolazione dell’intera nostra regione ed a quasi la metà della popolazione italiana. LUNGO LA VIA DEI PROFUMI DEL MONDO Scritto da Francesca Miglioli Dal 24 al 29 maggio 2011 il Museo Internazionale della Musica ha ospitato SMELL - Festival internazionale dell'Olfatto, dedicato quest'anno al tema del fuoco al fine di esplorare il lato simbolico e rituale del profumo. Culti e miti dell'antico Oriente, dell'America latina e dell'Africa sono stati accostati alle nuove applicazioni del profumo, che dalla persona si propaga al corpo sociale, dando vita ad una sorta di quotidiano cerimoniale olfattivo. In tale occasione Sottobosco ha incontrato per voi Yosh Han, creatrice di fragranze raffinata, che ha dedicato il suo intervento al Giappone e alla fioritura incomparabile dei suoi ciliegi. Nel mondo dei profumi , memoria e desideri si mescolano e i confini sono sottili. Quando pensi al Giappone, tua terra d’origine, quale essenza ti viene in mente? L’umidità dell’estate giapponese è un ricordo fortissimo. Quando visito altri luoghi caratterizzati da clima umido, mi ricordano il Giappone. I suoi odori sono sottili, e nel mio caso rimandano al cibo e alle bevande me. Amo il profumo di un particolare tipo di dessert con il cinnamono che si trova solo a Kyoto. Se un mio amico passa per la città gli chiedo di portarmene. Si chiama Yatsuhash, ed è un triangolo di squisitezze preparato con farina di riso e ripieno di adzuki dolci in chicchi o sesame nero. E’ assolutamente divino, perfetto se accompagnato da tè verde. L’olfatto combinato al gusto è una memoria fortissima . Anche gli incensi dei templi rappresentano un ricordo vivido. Non a caso, quando mi trovavo in un negozio di tè a Zurigo, e il negoziante ha utilizzato un incenso di 300 anni fa sono stata istantaneamente catapultata nei miei ricordi d’infanzia e all’incenso che ardeva sull’altare di famiglia. Inoltre, penso che al momento in cui atterri in Giappone, c’è un finissimo aroma di una fragranza dolce di riso. Forse è solo la mia immaginazione, ma è un profumo particolarmente fine, che non ho ritrovato mai allo stesso modo in nessun altro luogo del mondo. Come un tocco di neve… E quando pensi ad un paese dove ancora non sei stata? Mi ritrovo a fantasticare sulle innumerevoli e complesse fragranze dell’India , con tutti i suoi meravigliosi colori e aromi che si fondono nell’odore del caos urbano. Sogno anche le dense giungle del Brasile, del Madagascar o del Sudest Asiatico. Ognuno con le sue piante locali, alberi e fiori. E poi il profumo della pioggia, così unico in ogni luogo. Natura e profumi ispirati dal nostro mondo… Quali sono i tuoi prossimi progetti? E’ tutto ancora in fase di definizione, ma sto lavorando ad un progetto con un famoso direttore teatrale polacco. Ho anche un nuovo profumo che uscirà a breve sul mercato che si chiama” Sombre Negra”, noir, toccante, fumoso e che odora di pelle. Ho viaggiato molto lungo le coste dell’Europa e mi sento incredibilmente ispirata dagli aromi marini, dal mare del Nord , all’Adriatico sino al Mar Nero o al Lago di Zurigo. Mi sento molto fortunata a poter viaggiare e incontrare persone nuove in questo modo, assorbendo gli odori dei luoghi che visito. E’ sempre divertente andare nelle città ma la vera energia arriva dalla terra e dal mare. In tal senso, forse lavorerò su qualcosa di salato prossimamente. LOTTA BIOLOGICA ALLA VESPA CINESE Scritto da Matteo Mingazzini La vespa cinese ha rotto i maroni anche sui nostri Appennini: per evitare che continui, nei castagneti emiliano romagnoli è stata adottata la strategia della lotta biologica, combattuta in prima persona dal suo antagonista naturale, un altro imenottero che risponde al nome di Torymus Sinensis. Questo insetto, originario anch’esso della Cina, è stato già sperimentato nei castagneti di mezzo mondo (dall’America al Giappone) ed è stato importato in Italia nel 2003, in Piemonte, dove sono avvenuti i primi lanci sperimentali su piante afflitte dalla vespa cinese, al secolo Dryocosmus kuriphilus. Risalgono invece al 2002 le prime segnalazioni della Dryocosmus, mentre da quest’anno l’allarme si è propagato con forza anche sull’Appennino tosco-emiliano, dove i castanicoltori più pessimisti temono, per i prossimi anni, un calo della produzione fino all’80%. La Dryocosmus è arrivata nella nostra Penisola in omaggio insieme ad alcune giovani piante innestate in Cina e destinate a un italianissimo vivaista di Cuneo, ammaliato come tanti altri lungimiranti imprenditori dal made in China. Dal vivaio, poi, si è propagata a macchia d’olio senza incontrare antagonisti naturali, poiché il suo unico vero antagonista (il Torymus, appunto) era rimasto in Cina. La vespa cinese è un insetto fitofago che si riproduce a spese delle gemme dei castagni, dove depone le proprie uova: su queste gemme, al risveglio vegetativo primaverile, si formano galle che inglobano germogli e fiori, e portano quindi al deperimento della pianta (ma non alla morte). Ogni femmina si riproduce una volta all’anno e può deporre fino a circa 150 uova. L’Italia, alla luce delle esperienze già intraprese con successo in altri Paesi e in particolare in Giappone, ha scelto anche lei la lotta biologica via Torymus Sinensis per contrastare la Dryocosmus. Questo insetto, appartenente sempre all'ordine degli imenotteri, è un parassitoide (una via di mezzo tra un parassita e un predatore) che va a insidiare la propria prole esattamente dove si insidia la vespa cinese (che assume il ruolo di «ospite»), contrastandone quindi la riproduzione. Il T. Sinensis è attualmente allevato in Italia solamente dall’Università di Torino: durante la stagione invernale viene raccolto un numero assai elevato di galle di vespa cinese, e da quelle parassitizzate vengono poi estratti gli individui di T. Sinensis da allevare in laboratorio. I rilasci sono effettuati dal Servizio fitosanitario regionale: sulle galle delle piante contagiate vengono aperte provette contenenti 20 esemplari ciascuna, di preferenza femmine gravide. Il rimedio si è dimostrato ovunque efficace, anche se richiede tempi piuttosto lunghi, dato che T. Sinensis ha bisogno di molte più stagioni per diffondersi (il rapporto rispetto alla vespa è di circa 1 a 50). Sul portale Ermes Agricoltura della Regione Emilia Romagna si legge che, secondo le informazioni provenienti dal Giappone, dopo i primi anni in cui la diffusione del parassitoide è più lenta, successivamente è assai veloce e può raggiungere i 60 km all’anno. Nel Paese del Sol Levante, dopo una decina di anni, l’introduzione di T. Sinensis ha riportato la situazione in equilibrio: attualmente, la vespa cinese è presente nell’ambiente, ma a livelli di popolazione che non creano danni sostanziali. E nessuno, per una volta, ha rotto i maroni con pesticidi chimici. I NUOVI COLLI INIZIANO A PARCO CAVAIONI Scritto da Alessandro Kostis Sull’opportunità di ridonare vitalità al polmone verde bolognese, i colli, in città si è aperto un interessante dibattito in questi ultimi anni. Partendo dagli stop imposti dalle ultime amministrazioni ad una ripresa della cementificazione collinare, la linea d’azione è stata quella di cercare di ridare dinamicità ad una zona che è sempre stata un punto di riferimento per gli abitanti della città. Nonostante i limiti strutturali, quali la carenza di trasporti pubblici o la scarsità di eventi in grado di richiamare un pubblico eterogeneo, i colli, in questi anni, sono stati al centro di attenzioni che spesso sono state espresse dal mondo associativo, che ha saputo colmare la carenza progettuale delle istituzioni cittadine. È il caso della Cooperativa Le Ali, che è voluta ripartire da un parco quasi dimenticato, che per anni è stato meta delle gite fuori porta dei bolognesi. Parco Cavaioni, affacciato sulla valle del Reno, offre un bel panorama sulla cintura orientale di Bologna; ha origini antiche e si può far rientrare in quella tradizione pedecollinare della città dei parchi-campagna: un tratto tipico che ha visto, soprattutto nel Dopoguerra, fiorire spazi pubblici verdi in quelli che una volta erano appezzamenti agricoli, abbandonati a causa del declino produttivo delle campagne. Come per il parco di Villa Ghigi, disegnato dai suoi alberi da frutto, Parco Cavaioni alterna cavedagne (termine a cui deve il suo nome) un tempo colitivate, a zone boschive in cui sono presenti vari esemplari arborei: cerri (solitamente presenti solo oltre i 600 metri d’altezza), frassini, carpini, peri selvatici. Ai limitari di questi lembi boschivi spesso si incontrano arbusti di ginepro, biancospino, rosa canina ed erica. Un parco che offre una varietà di ambienti naturali inusitata e che, finalmente, si vede al centro di un progetto di riqualificazione capace di riportarlo tra gli spazi verdi preferiti dei bolognesi. Infatti, da questo mese, si sono alternate numerose iniziative (prima fra tutta la manifestazione “Energia nei colli”, appena conclusasi) che hanno portato un numero crescente di cittadini a riscoprire il parco. Suo fulcro nevralgico, da sempre, Villa Selvetta: già luogo di accoglienza per famiglie di Rom, ora ribattezzata Ca’Shin e completamente ristrutturata seguendo criteri bioarchitettonici, oggi ospita un grazioso ristorante e al suo interno si svolgono attività di educazione ambientale e artistica. Da metà giugno partiranno i campi estivi dedicati ai bambini, che andranno avanti fino ad agosto inoltrato. Un bel modo di passare un paio di settimane estive relativamente lontani dalla calura cittadina e immersi in uno splendido parco-campagna. “Abbiamo anche in programma l’attivazione permanente di un gruppo d’acquisto solidale – ci spiega Cinzia della Cooperativa Le Ali - e, se il Comune ci dà il via libera, anche di un mercatino di prodotti a km zero”. “Ma com’è nata quest’idea?”, chiedo io, curioso. “Noi siamo semplicemente un gruppo di cittadini che si sono dati da fare. Abbiamo creato la cooperativa, senza fini di lucro, e autotassandoci stiamo riuscendo a restituire un luogo importante ad altri cittadini come noi. Per questo abbiamo anche pensato al ristorante e alla bottega, in modo da starci coi costi, anche se in tal senso dobbiamo dire grazie anche ai nostri numerosi sponsor, che hanno creduto nel progetto. Tutto questo non è nostro, ma è un parco di tutti, aperto a tutti, gestito da cittadini per i cittadini”. Per gli interessati, inoltre, segnalo la proiezione del filmato “Parco Cavaioni rinasce per Bologna” che si terrà il 16 giugno dalle 17.30 alle 19.30 all'Urban Center di Bologna, in relazione al ciclo di incontri "L’ agricoltura va in città. Tra orti, mercati e parchi-campagna". GASTROSOFIE: UNA MINESTRA DA COMBATTIMENTO Scritto da Alice Colantonio L'anno delle ricorrenze tonde, quest'anno. Passato, non da tutti inosservato, il due giugno, ricordando le poche cose che ancora ci fanno fieri. Periodo di decisioni, di quelli in cui ti chiedono un voto, un voto pulito, il cui esito, questa volta, rischia persino di farci riflettere. Un pensiero, perciò, anche a Rino Gaetano, che compie 30 anni di assenza. In un momento di flebile ma rinnovata speranza, facciamo un prudente passo indietro, perché «la storia sa ripetere i suoi errori, aggravandoli». Oggi caccia al Conde Rosso. Una giovane francese, Nadine, questo il suo nome da battaglia, decise di festeggiare l'uccisione di due fascisti italiani in Spagna, con una saporita minestra. Erano i primi mesi del 1937. Los dragones de la muerte scorrazzavano abbastanza indisturbati al servizio di Franco e di Arconovaldo Bonaccorsi, il sedicente fascista famoso per i suoi travestimenti e le maniere poco ortodosse con cui obbediva ai desideri del duce di “sistemare le Baleari”. Figura tanto triste, col suo seguito di scorrazzate punitive e stupri, da invogliare lo stesso dittatore spagnolo a rinviarlo al mittente. La cuoca di Bonaventura Durruti, prima di mettersi ai fornelli, ha avuto il tempo di impugnare il fucile e di spogliare i cadaveri dei due asaltos italiani (i documenti, assicura, sono spagnoli, ma il tatuaggio a forma di cuore con la scritta “mamma bella” sulla schiena di uno dei due, lascia spazio a pochi dubbi). Nadine ha militato in Spagna tra il '32 e il '39, gli anni della guerra civile. Ci lascia un diario, che è anche un libro di cucina (La cuoca di Bonaventura Durruti. La cucina spagnola al tempo della guerra civile. Ricette e ricordi, Derive e Approdi, Roma, 2002). Le ricette scandiscono i giorni di battaglia, narrandoci di illusioni, sogni di uguaglianza, fucilate e odore di sterco con la stessa «leggerezza di un pasto consumato tra amici». Quando parlare di libertà equivaleva a viverla in comune. Quando sapere le cose (fosse anche la cottura di una pagnotta), significava avere sulle spalle la responsabilità degli altri. Tornati alla base dopo il combattimento, i rivoluzionari hanno fame. Cosa c'è di meglio di un po' di cocido gallego avanzato del giorno prima (manco a dirlo, riscaldato è molto più gustoso)? La ricetta, per onestà intellettuale della cuoca, è di Rosalia. La sera avanti mettete a bagno 350 grammi di ceci. In una pentola, con qualche verdura e gli odori del caso, allessate 400 grammi di carne bovina da bollito con 600 grammi di punta di maiale tagliata a pezzi grandi, un osso di prosciutto spolpato e una fetta di almeno 100 grammi di lardo candito. Fate cuocere il tutto a fuoco dolce per almeno un'ora. Intanto, in altre due pentole lessate, in una i ceci, con una cipolla steccata, due chiodi di garofano, un bicchiere d'olio d'oliva e una presa di noce moscata, sale quanto basta. Nell'altra, 800 grammi di foglie di cavolo navone o, in mancanza, di verza a foglie arricciate, tagliata grossolanamente, con un bicchiere di olio e sale quanto basta. Dopo un'ora togliete l'osso di prosciutto dalla prima pentola e mettete al suo posto una decina di patate bianche, piccole, sbucciate e tagliate in quattro, sei chorizos ed, eventualmente, qualche altra salsiccia da cuocere. Proseguite la cottura per altri 30 minuti. Adesso, sistemate tutte le carni in una zuppiera, poi in altri tre piatti sistemate le patate, i ceci e le foglie di navone scolate, questi ultimi due bagnateli con un po' di fondo della prima pentola. Regolate il sale e il pepe e servite tenendo i piatti di portata al caldo. (Le immagini che illustrano gli articoli sono prese da Flickr)