gli artisti documento pdf

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MA MAISON N’EST PAS GRANDE
askosarte
In molte forme di religiosità riveste particolare valore e fondamento la cultura del cuore, considerato nella sua
sostanza, "il luogo" della conoscenza assoluta ed il centro dell'essere umano. Per i sufi il corpo umano è il tempio di
Dio, e nella nicchia del suo cuore, brilla la lampada, cioè la sua luce, cioè il suo ricordo. Per recuperarne memoria
però, colui che cerca Dio, deve aspirare alla purezza del suo cuore, intesa, in primis, come depurazione dagli gli
attributi dell'io e dall'ansia provocata dal peso delle preoccupazioni mondane e dagli insulsi discorsi. Come scrive
Jalàlo'd-Din Rumi (1207-1273), mistico e poeta fondatore dell'ordine dei dervisci danzatori, per contemplare la
propria essenza e trovare tutte le scienze dei profeti, senza libri, senza professori, senza maestri, è sufficiente
guardare un cuore bianco come la neve. Il cuore è la via che unisce l'uomo a Dio anche per chi segue la parola di
Gesù, che nel sermone sulla montagna - secondo il Vangelo di Matteo - afferma, beati i puri di cuore, perché vedranno
Dio. Per vedere Dio dunque, non è necessario essere belli, ricchi o potenti, basta avere un cuore semplice, unico vero
centro dell'uomo a cui Dio si rivolge, che diventa nella sua forma più pura, punto di raccordo tra cielo e terra, tra spirito
e corpo, tra umano e divino. Questo spiegherebbe il perché quest'organo, dotato di memoria, fonte della pienezza,
della coscienza e di tutti i pensieri dell'io, sede dello spirito e del ricordo di Dio, debba essere considerato anche il
nucleo dell'amore. Anzi, proprio perché contiene l'amore, diventa sede naturale dello spirito che non potrebbe
sopravvivere, né tanto meno essere eterno, in un cuore che ne fosse privo. In un simile scenario, dunque, il senso del
nostro vivere diventa un viaggio di ritorno al solo luogo che possiamo chiamare "casa": il cuore spirituale. Anche gli
antichi Egizi sembra fossero convinti che il cuore fosse la casa dell'anima; alla loro morte essi dovevano presentarsi
dinanzi al Dio Anubi, che solo dopo averne pesato il cuore, ne decideva la sorte. Il peso del nostro cuore parrebbe
pertanto determinante per la salvezza spirituale, ma anche qui, vivi sulla terra, il tipo di "carico" appare importante, se
è vero, come afferma Peter Gabriel in in That Voice, che è ciò che portiamo nel nostro cuore a renderci con gli altri, così
intimi, o al contrario così distanti. E un carico d'amore è il solo che possa generare altro amore.
Chiara Schirru
ARTISTI
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Sono qui stasera per raccontarti una storia.
Ci vorrà del tempo prima che i miei occhi
si abituino all'oscurità di queste strade
e alle spietate guerre di mercato.
Le montagne iridescenti
i cristalli di quarzo
in cui avevo trovato riparo
sono un cumulo di sassi sotto un cielo
di cornacchie grigie.
Da lassù osservavo ogni cosa
in silenzio in compagnia di pietre rilucenti
al sole e di asfodeli piantati come lance.
E prugni nani e qualche lentischio.
E tutto intorno un leggero odore
dolciastro come di vaniglia.
Non c'era niente di più sacro
della stele bruna eretta al mondo
e dei frammenti di ossidiana
arrivati dallo spazio nella notte dei tempi.
Quante albe d'argento e porpora e arancio.
Ero protetta da ogni dolore.
Cammino ora tra queste
donne gravide di granito
che odorano di morte antica.
E' come ho sempre temuto
monotonia di giorni senza vita
e uomini immobili nella loro decadenza.
Posso imparare a non provare niente.
Non ho mai avuto una visione
né so niente di Dio.
E cercare una tomba per me.
E' questo che devo fare.
Colui che mi ha fatto doveva dirmelo.
Ma non ci sono risposte a domande sbagliate.
Non piangerò il trapasso
e quello che non è potuto essere.
La morte umana non mi interessa.
chiara schirru
chiara schirru
con
michele mereu
Lui.
Sono approdato su scogli taglienti.
Il mio corpo a brandelli,
trasportato di peso
da bicipiti inumani
su rive deserte,
povere d'anime e di spazi per gioire,
è stato odiato e poi dimenticato.
Le tue braccia umili,
con forza solo di passione,
hanno accolto la mia materia,
forma umana per spirito celeste,
tenendola sospesa tra finito e infinito,
e il mio cuore finalmente ha trovato un
approdo,
dove sostare,
senza tempo,
senza colore,
senza spazio.
Perché l'infinito dimora nel tuo battito,
e il mio Io ha vagato per gli oceani
alla ricerca di una riva,
fino all'ultimo respiro,
fino all'ultimo pensiero,
fino all'ultimo sussulto.
silvia dorascenzi
con
gianfranco mura
Loro.
Giacciono esanimi,
il cuore l'uno nell'altro,
fusi in un unico destino di scomparsa.
Non sanno.
Semplicemente abbandonati
al corso del fiume che scorre,
emanano potenza vitale
che ha sapore di eterno.
Le loro figure inconsce
invitano a saziarsi
dei battiti,
invitano a percorrere distese smisurate,
perché ovunque,
sul suolo terrestre,
sarà casa, fuoco e nutrimento,
se ci sarà amore.
Gli invitati al banchetto
potranno nutrirsi all'infinito.
silvia dorascenzi
Lei.
Guardatemi, sono qui,
misteriosamente a galla,
solo pensiero,
senza materia.
I miei contorni sono fluidi,
non c'è più confine,
tra le mie braccia e il suo corpo.
Guardo l'infinito
che s'infiltra nel mio sangue
e disseta i suoi battiti.
Sono solo una riva che per caso lo
ha accolto.
Andate innanzi,
proseguite il vostro viaggio,
e portate nel cuore il mio sguardo.
Senza fissa dimora
L'odore acre di bruciato bagnato dall'acqua attanaglia la gola e scende
giù nei polmoni. Non va via facilmente. L'aria continua a sapere di
fuoco spento per ore e, addirittura s'impregna sugli abiti.
Ciò che resta è sempre poltiglia informe. Seppure nascosto dal
magma, spesso, è possibile riconoscere spettri di oggetti vivi celati
sotto la parvenza di una loro passata funzionalità: posate da cucina,
nell'ipotesi di una rinascita possibile.
L'olfatto attiva la memoria. Ne sapeva due strisce quel Marcel di un
Proust. La memoria è invisibile, ma conta quanto e più di una
montagna di oggetti. Una cosa invisibile contiene masse di cose
visibili.
Il naso ha la capacità di accumulare più cose di quanto possa
contenerne una stanza, più di una casa: riceve, analizza, seleziona,
classifica. Possiamo attraversare oceani, cambiare status, funzione e
la memoria si stratifica, si accumula. I dati compressi, zippati, sono lì
pronti a saltar fuori, quando serve.
Quanto sottovalutiamo il nostro naso! Altri organi, considerati dal
senso comune più letterari, sono sopravvalutati. Per fortuna uno come
Proust non trascurava il suo olfatto e Gogol, vista l'anatomia del suo,
non poteva che concedergli una parte da protagonista.
Tutto qui?
Puzza, nasi, memoria?
No.
Una particolare qualità contraddistingue chi non ha un ruolo definito,
non ha una precisa sedia su cui sedere, non ha un nome semplice da
ricordare. Non perché sia particolarmente difficile da pronunciare,
oppure inusuale, piuttosto, perché percepito come strano,
insignificante. Analogamente anche avere un ruolo super definito, dato
per scontato, una sedia che è divenuta un trono, un nome scritto e
ripetuto ovunque produce lo stesso effetto. Questa caratteristica è
l'invisibilità.
I monumenti, ad esempio, finché sono sotto i nostri occhi sono
invisibili, ritornano ad essere visibili quando li impacchettiamo,
notiamo uno scarto alla norma. Sulle nostre cecità la coppia Christo e
Jeanne-Claude hanno costruito una carriera.
Bello! Impacchettarsi per essere visibili. I clochard si abbozzolano
nelle scatole di cartone per essere più visibili? Forse hanno solo
freddo.
E ancora memoria. Portarsi dietro sé stessi nella testa.
Non ho un nome strano eppure con facilità mi viene cambiato. Forse è
questione di memoria.
Anna Rita.
Mi chiamo Anna perché mia nonna materna si chiamava Anita: Anita
Ferracciolo. Altre cugine nate prima di me hanno avuto l'onore di quel
nome evocativo per gli "Isulani". Da Anita divenni Anna, con una non
poco importante aggiunta: Rita, la santa delle cause impossibili. Perfetta
per me.
Cause impossibile venite a me!
Sbagliando le associazioni, mi hanno chiamato Anna Maria, Maria Rita,
Annarita tutto attaccato, ultimamente anche Maria Rosa. Maria Rosa è
strepitoso! Non c'è traccia né di nonna né di Santa. Puff! Sparite,
invisibili. Ma forse è solo un copia e incolla.
Mi chiamo Anna Rita Chiocca.
Non Anna Maria Ciocca, Maria Rosa Chicca, Annarita tutto attaccato
Chiocca. Anna Rita Chiocca.
Il mio nome è la mia valigia, c'è dentro chi sono, da dove vengo e forse
anche dove vado. Non è una Luis Vuitton impermeabile da Trans siberiana, da Orient express, una Noe da 5 bottiglie di champagne! E' da
grandi magazzini? Chissà, comunque non è seriale.
Se cercate su google, c'è soltanto un'altra Annarita tutto attaccato
Chiocca, ha una rivendita di prodotti alimentari nel quartiere di
Centocelle a Roma. Non sono io. Io sono Anna (pausa) Rita Chiocca.
Portarsi dietro se stessi, è faticoso, non ci si può mai distrarre, è
necessario avere occhi e orecchi in quantità, tracciare una linea, seguire
la scia. Come le chioccioline. Il mio cognome viene associato alle
chiocciole, ma vuol dire "campana".
Metamorfosi di cose in altre cose, di nomi in altri nomi. Passaggio,
condizione transeunte, con tutte le complicazioni del caso.
Risemantizzare.
Una forchetta può diventare una "rifugiata", portare su di sé casa e
memoria? Sì.
Una Anita può diventare Anna Rita? Sì.
Ma mai, mai e poi mai può diventare Maria Rosa, tranciando di netto
nonna e Santa delle cause impossibili.
Se fossi costretta a cambiare nome mi chiamerei Gioconda.
anna rita chiocca
anna rita chiocca
con
marcello scalas
VERRÀ LA MORTE E AVRÀ I TUOI OCCHI
Mi aggiro guardingo in uno spazio alieno eppure conosciuto, greve,
vuoto, pregno di umori, afrori e silenzi. Nella testa mi risuona, ossessiva,
la voce cantilenante e ferita di Jeanne Moreau, un recitar cantando che mi
ricorda che ogni uomo uccide ciò che ama …
each man kills the thing he loves …
each man kills the thing he loves …
taradà, tadaradà …
Sarà l'atmosfera fassbinderiana del luogo o sarà solo l'immensa fragilità
che mi pervade, osservo il mio look da "cerimonia" riflesso in uno
specchio appannato dal tempo e mi costringo a vedermi come un
improbabile Querelle de Brest, alla ricerca di quell'amore che mi ucciderà.
Jeans strappati al punto giusto, canotta aderente, qualche accessorio
fetish d'ordinanza. Certo, manca le physique du rôle ma, purtroppo, non
sono bello e dannato come Brad Davis e, prima che s'accenda la
fiammella della ragione e prima che un devastante senso di
inadeguatezza o un salutare sentimento del ridicolo mi induca ad
andarmene, distolgo lo sguardo da quello specchio che mi restituisce
un'immagine che vorrei fosse altra da me …
each man kills the thing he loves …
each man kills the thing he loves …
taradà, tadaradà …
Arriva qualcuno. Divisa d'ordinanza che chiarisce, da subito, ruoli e modi
e che, son sicuro, nasconde altre debolezze, simula altre esistenze e,
tuttavia, inizia il rito: preda e cacciatore, vittima e carnefice. Sarò
catturato perché voglio essere catturato e sarò vittima perché cerco un
carnefice. Umori, afrori e rumori. Carne viva per passioni destinate a una
veloce putrefazione.
"Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" …
each man kills the thing he loves …
each man kills the thing he loves …
taradà, tadaradà …
ivo serafino fenu
ivo serafino fenu
con
pietro sedda
La vita di un poeta non è mai uguale a ciò che scrive….
Sono due binari che spesso non si incontreranno mai.
Sono ugualmente belli, ugualmente dissimili, ugualmente falsi.
Poiché la vera vita del poeta, il poeta non la dirà mai.
Ciò che lui vive all'interno e nel corpo della poesia è
inenarrabile.
Son delle specie di Estasi che non si possono raccontare.
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Ciò che si dice dei manicomi è sempre stato parzialmente vero.
Perché il manicomio? - è facile quindi capire come è nata la
Terra Santa, che lascia molto posto all'immaginazione- su
qualche imprecisione voluta o no dell'ambiente dove il malatocostretto
all'immobilità - lavora sul capire il significato di
costrizione e rimane stupito dall'indecoroso animo di certe
metafore.
Se Alda Merini, dopo il manicomio ha potuto scrivere la Terra
Santa, paragonando questo muoversi senza muoversi, questo
sbattere i piedi senza uscire dalle mura, questo esodo che non
porta al paradiso- è stato perché ho visto di persona quelle
serrature semi-dantesche- che nel silenzio ci hanno atterriti tutti,
in una minaccia di morte.
alda merini
alda merini
con
giusy calia
amorfou
Pisciare su una foglia di lattuga.
Poi il tuo gesto.
L'inizio della fuga.
gianni nieddu
gianfranco nieddu
con
roberta filippelli
Narciso era intorpidito. Così Marshall McLuhan chiosa intorno alla condanna del
giovane figlio di Cefiso e Liriope. Essere intorpiditi significa non potersi liberare,
restare sotto scacco di se stessi e dell'immagine di sé ma simultaneamente non
sentirsi al sicuro. Si resta immobili perché nell'incantesimo della ripetizione dello
Stesso non c'è più posto per il movimento. Muscoli e tremori sono tesi tutti all'unico
moto possibile: quello di sapersi unici e irripetibili detentori dell'icona di se stessi.
L'unico spazio desiderabile è quello che ci si arroga: tutto. Quando Narciso incontra
Eco, nella versione che del mito ci offre Ovidio, ecco che qualcosa sembra mostrarsi
più nitidamente alla nostra comprensione. Narciso infatti non solo allontana tutti
quelli che si innamorano perdutamente di lui ma riesce perfino ad ignorare la parola;
la sua stessa parola (visto che Eco può ripetere solo ciò che lui stesso dice). Allora
cosa diventa la condanna di Narciso, questo intorpidimento strutturale che si tramuta
in scissione? Si tratta dello specchio di sé, del tentativo inutile e peregrino di "vedersi
vedersi"; c'è forse un tintinnio in fondo all'acqua, un rumore sordo al quale Narciso
tende l'orecchio. Se anche quel rumore indistinto parlasse egli non sentirebbe nulla,
la parola, dell'altro o la propria, non servono a molto: non vi è comprensione logica,
c'è contrazione invece, una liminare superficie che si vorrebbe bucare, come la
propria stessa pelle. Eppure c'è indugio nel segnarsi, non ci si farebbe mai del male: il
corpo è una cattedrale di specchi circonflessi che ripropongono di continuo la stessa
distorta litania, una suprema esitazione in cui Narciso, finalmente, è ciò che è per
sempre, per tutta la vita uguale. Un amore totale che contempla solo se stesso. La
(de)composizione lascia il posto alla riflessione sulla morte-in-atto, un orlo cieco e di
cui non si distinguono i contorni perché si conoscono solo quelli del riverbero di sé, ai
bordi del mondo la conoscenza di Narciso non può arrivare. In questo senso la
narcosi è matura, si annacqua nel suo stesso tracimare. La parola potrebbe destare,
potrebbe raccontare chi sta dietro quel volto di eterno giovinetto, potrebbe addirittura
servire a sopportare il fardello dell'Altro e dello Stesso ma no, non può accadere
almeno fin qui. L'intrattenimento è ancora infinito ri-volgersi allo Stesso come
all'Altro. La ferita narcisistica altro non è che la narcosi di un martirio petulante tra due
sé distinti: nessuno dei due predomina sull'altro ma entrambi guardano allo Stesso.
alessandra pigliaru
con
antonella spanu
Posizionandoci verso la contemporaneità si può rintracciare la nemesi che il
ripiegamento comporta: Narciso acquista la voce. Nessuno sguardo che implichi un
riconoscimento dell'Altro ma solo di se stesso. Nessun oscillazione per la prossimità,
l'amore resta un trascurabile gingillo in mano sua. Nessuna parola al di sopra della
propria che valga la pena di ascoltare, seppur assordante ronzio indecifrabile. In
questo strepito del fondo dove ognuno blatera qualunque cosa (credendo di avere
superiore dignità di quella altrui) regna sovrana la confusione e ogni direzione
sembra percorribile. E Narciso sta in mezzo, è lui il solista indiscusso di ogni atto che
ri-guardi l'Altro come lo Stesso. È lui che pretende attenzione esclusiva quando
anche non la meriti, che gesticola conscio di vendere merce avariata. Ma non può
farne a meno; desistere significherebbe ammettere di non essere solo al mondo, di
non potersi bastare, significherebbe considerare la propria esistenza come quella di
un sosia che respira e si nutre degli sguardi che tanto fa finta di disprezzare. Ecco,
quel figlio di divini natali, è invecchiato. Tremendamente. Resta appeso all'eternità
solo per la mano immortale di Caravaggio. La narcosi ormai porta il Narciso
contemporaneo, diventato abile stratega, a rinnegare pur sempre Eco ma a sottrarle la
voce quando gli è comodo. Di quel torpore rimane solo la traccia libidica (come una
protesi di sé), una stanchezza quasi puerile (e scialba) del sentirsi doppio,
onnipotente creatore e distruttore del proprio destino.
alessandra pigliaru
Allo scadere del Tempo
Non un grido, non una parola: fu un sospiro e un'accelerata al cuore.
Buio nella strada per chi ancora non ha gli occhi, né mani per cercare
appigli. La paura invece la si riconosce, è simile per tutti quando dalla
piccola morte si entra nella vita.
Buio e poi una nicchia, di muschio salso: lì io - senza averlo chiesto sono. E ascolto battere il Tempo, pompato da un muscolo non mio,
perché è vero, Io sono, ma anche no,
Io sono il Caso o invertendo due lettere di coda, sono Caos.
O Cosa, invertendo a mani piene.
Io il disturbo, io che potrei fuggire dalla nicchia senza neppure essere
visto.
Invece si resta, per accidia o per imposizione: caso, caos, cosa, caso,
caos, cosa, caos caos…passa il Tempo: adesso anche io ho un cuore.
Divento, da pensato, io pensante: garbugli stropicciati da decifrare.
Si impara,
nuotando in acqua tiepida con onde miele e pulviscolo che giunge da
fessure per guardare,
per mangiare,
per defecare,
per udire. Potrei non avere mai paura restassi a vita in questa casa.
Invece scade il Tempo per essere parassita.
S-cade a terra l'acqua madre, s-cado io, un scivolante a questo
mondo. Quando sento sbattere il portone alle mie spalle, ho freddo,
solo freddo nel guardarvi.
Nessuna domanda che possa agitarvi. Non temete, non ho voglia di
sporcarvi l'onnipotenza sulla faccia. C'è tempo.
s.d.m
savina dolores massa
con
tonino mattu