Giardini e frutteti a Milano nel `400

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Giardini e frutteti a Milano nel `400
Immaginiamo un piccolo dizionario sui costumi, sulla vita, sulle abitudini della nostra città ai tempi della fondazione dell’Ospedale Maggiore, ricordati negli anni anche dalla nostra rivista: Milano nella cartografia, nella bravura
dei suoi ricamatori, nelle sue famose manifatture lungo i Navigli. E qui la Milano verde e straordinariamente variopinta nei suoi frutteti nel pieno della città.
Giardini e frutteti a Milano nel ‘400
MARIA PAOLA ZANOBONI
Innumerevoli spazi verdi erano compresi all’interno
della cinta muraria della Milano medievale: il suo
primo vero parco fu il vastissimo brolo dell’arcivescovo o brolo di Sant’ Ambrogio che si stendeva dal
palazzo vescovile fino alle chiese di San Nazaro e
Santo Stefano; era recintato ed adibito alla caccia. Il
“Viridarium”, o Verziere che costituiva il giardino
privato dell’arcivescovo occupava invece l’attuale
piazza Fontana.
Con i Visconti in particolare (secc. XIII/XV) i giardini cominciarono ad avere largo sviluppo; ne erano
ornati il palazzo di Azzone, quello di Bernabò presso San Giovanni in Conca (piazza Missori), dotato
di vivai con piante esotiche, e la maggior parte dei
castelli viscontei e sforzeschi (oltre a quello di
Milano i castelli di Abbiategrasso, Trezzo, Cusago,
Pandino, e l’immenso parco del castello di Pavia
voluto da Galeazzo II nel ‘300).
Alla fine del XV secolo, durante il suo soggiorno
nel capoluogo lombardo, persino Leonardo da Vinci
contribuì alla creazione di nuovi giardini progettando, tra San Babila e Porta Venezia, una villa per
ospitare Carlo d’Amboise (governatore del Ducato
per conto del re di Francia Luigi XII): un mulino di
sua invenzione avrebbe irrigato le piante protette in
serre; pomarance e cedri sarebbero stati coltivati
all’aperto e mantenuti in vita sfruttando il sistema
naturale dei fontanili che, come egli stesso ebbe a
dire, “riscaldano le radici di tutte le piante”.
Anche i frutteti veri e propri caratterizzavano ampie
aree all’interno delle mura cittadine, soprattutto nel
‘400. La loro produzione, abbondante e svariata,
comprendeva in gran quantità persino i prodotti più
deperibili (ciliegie, pesche, prugne, nespole, albicocche, uva da tavola), e quelli difficili da ottenere
nell’Italia del Nord (meloni e fichi). La coltivazione
di alberi da frutto veniva incentivata dai contratti di
affitto dell’epoca che prevedevano spesso ingenti
diminuzioni del canone per ogni nuova pianta
messa a dimora.
La necessità di proteggere dai furti una merce pregiata, e l’esigenza di situare la produzione in prossimità dei luoghi di mercato, sia per minimizzare i
costi di trasporto, sia per garantire la freschezza di
un prodotto altamente deperibile motivavano la
netta tendenza a stabilire i frutteti all'interno della
cinta muraria, rilevabile a Milano come a Palermo.
Le dimensioni dei frutteti milanesi variavano dai
5/6000 metri quadrati dei più piccoli ai 130.000
dell’enorme proprietà della famiglia Borromeo
chiamata “Gentilino”, situata ai margini della città
in una zona particolarmente ricca di acqua, e nella
quale crescevano centinaia di peschi, peri, ciliegi,
amareni, pruni, meli e noccioli, oltre ad alcuni noci
e fichi.
La produzione, abbondantissima (i documenti coevi
parlano di oltre tre tonnellate di ciliegie per un solo
imprenditore) e apprezzata da tutti i ceti sociali
(compresa la corte ducale), veniva controllata da
imprenditori specializzati designati come “fruttaroli”, che gestivano tutto il ciclo produttivo, dalla coltivazione degli alberi (concimazione, innesti, potature), alla raccolta dei frutti e al loro smercio sui
banchi situati nelle principali piazze cittadine. La
pratica più diffusa tra questi commercianti era quella di prendere in affitto le sole piante dai monasteri
o dalle famiglie nobiliari proprietarie dei terreni.
Tale tipo di contratto, sebbene comportasse notevoli
limitazioni del diritto di superficie a causa delle servitù di passaggio che inevitabilmente venivano a
crearsi, era senz’altro quello preferito a Milano
tanto dai proprietari dei fondi, quanto dai “fruttaro-
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In alto da sinistra:
La raccolta delle ciliegie
La raccolta dei meloni
(dal Taccuinum sanitatis, sec. XIV)
In basso:
Particolare di un affresco di Lorenzo Lotto nell’Oratorio Suardi
di Trescore Balneario (inizio sec. XVI).
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li”, che trovavano più conveniente prendere in affitto i soli alberi per il periodo di raccolta, o per anni
interi (quando il fondo conteneva parecchi tipi di
piante diverse con maturazione durante tutto il
corso dell’anno), piuttosto che coltivare l’intero terreno. Il proprietario a sua volta, sollevato dalla gravosa incombenza di gestire il frutteto, manteneva il
diritto di entrarvi a piacimento per godere della frescura del luogo e imbandirvi cene e banchetti.
Per i prodotti più deperibili, come le ciliegie,
imprenditori specializzati provvedevano rapidamente alla raccolta e alla vendita, sia sui banchi da loro
gestiti tramite salariati, sia cedendo il sovrappiù ad
altri produttori specializzati in altri tipi di frutta e
proprietari a loro volta di punti di vendita in altre
zone della città.
Spesso i fruttaroli agivano in società per garantirsi
una gamma qualitativa più ampia e un più vasto
mercato: prendevano allora in affitto contemporaneamente le piante di numerosi giardini, in modo da
garantirsi un afflusso di derrate costante e vario, nel
quale erano compresi talvolta sorprendentemente
persino i meloni, non facili da ottenere in un clima
come quello dell’Italia del Nord. Nei secoli
XV/XVI se ne tentò la produzione persino in Francia, con espedienti, documentati dai trattati dell’epoca, come quello di affrettarne la crescita piantando i semi verso il 10 di marzo in fosse piene di letame, e coprendoli con foglie o con stuoie e tavole da
rimuovere o meno a seconda delle avversità climatiche. Interessante a questo proposito il fatto che il
materiale organico necessario alla coltivazione dei
meloni e degli alberi da frutto proveniva dalle taverne cittadine e talvolta persino dalle case private. La
fornitura era effettuata attraverso la cessione a
mediatori dell’intera produzione di letame ottenuta
in una taverna durante un determinato periodo, letame che veniva ammucchiato nel cortile della locanda e poi trasportato con carri trainati da buoi fino al
terreno da coltivare.
Notevole a Milano anche il consumo di agrumi, non
prodotti in loco (fatta eccezione per qualche caso di
coltivazione in vaso destinata all’autoconsumo), ma
importati dalla Liguria da mercanti specializzati che
trattavano contemporaneamente anche altri generi
alimentari provenienti dalla Riviera, come il pesce
salato. Durante il sec.XV si cominciarono ad
impiantare coltivazioni di agrumi sul lago di Garda,
nelle limonaie, costruite sulle rive più soleggiate.
Nel ‘400 il consumo di agrumi era notevole anche a
Roma dove si importavano in un anno fino a
5430,78 quintali di arance atte a sostituire i prodotti
di prima necessità nei periodi di carestia.
La produzione di frutta in ambito cittadino fu dunque una pratica assai diffusa a Milano durante tutto
il ‘400, raggiungendo, nella seconda metà del secolo, livelli di specializzazione notevoli che portarono
talvolta a coltivazioni per così dire “intensive”
soprattutto di frutta altamente deperibile. Esistevano, è vero, piccoli appezzamenti con poche piante
destinati probabilmente all’autoconsumo, ma sembrerebbe prevalere decisamente la produzione su
“scala industriale” delegata per lo più dai proprietari dei fondi a produttori specializzati, in grado di
provvedere alla concimazione, alla potatura, all’impianto di nuovi alberi e allo smercio del prodotto,
direttamente o attraverso la mediazione di altri
commercianti specializzati. I capitali assorbiti da
questo settore dovevano risultare tutt’altro che trascurabili.
Bibliografia
H. Bresc, Les jardins de Palerme (1290-1460), in “Mélange de
l’Ecole Française de Rome. Moyen Age-Temps Modernes”, 84,
1972, I, pp. 55-127
M. P. Zanoboni, Frutta e fruttaroli nella Milano sforzesca, in
“Rinascimento sforzesco. Innovazioni tecniche, arte e società nella
Milano del secondo Quattrocento”, Milano, CUEM, 2005
M. P. Zanoboni, I salariati nel medioevo, Ferrara, Nuove Carte
Editrice, di prossima pubblicazione (Collana “L’altra
storia/Medioevo - manuali” diretta da Maria Serena Mazzi:
www.nuovecarte.net; [email protected]).
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