Statua di Ovidio a Costanza
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Statua di Ovidio a Costanza
(Statua di Ovidio a Costanza) Il poeta latino Publio Ovidio Nasone, nato il 20 marzo del 43°a.C. a Sulmona, in Abruzzo, nell’8 dopo Cristo, a poco più di cinquant’anni, approda a Tomi, odierna Costanza, una guarnigione romana nel Ponte Eusino, sulle rive del Mar Nero. Egli vi è stato relegato per ordine dell’imperatore Augusto e lì morirà dieci anni dopo, senza aver ottenuto la grazia che aveva insistentemente implorato. Dopo la partenza per il Mar Nero, Ovidio scrive Tristia (Tristezze) un’opera composta da cinque libri di elegie in forma prevalentemente epistolare. Le elegie sono centrate sul contrasto Roma – Tomi: lo splendore culturale e mondano di Roma viene messo a confronto con lo squallore di una provincia ai limiti del mondo, barbarica e priva di attrattive. Questo contrasto può essere interpretato come un’opposizione tra un passato felice ma perduto e un presente opaco e ostile in un paesaggio aspro e inospitale in quella che Ovidio definisce “finis terrae”. Egli è allontanato da Roma, come egli stesso rivela nell’opera, a causa di un “carmen”, l’ Ars Amatoria, e di un “error”, un imbarazzante pettegolezzo ai danni della casa imperiale. Nella lontananza da Roma, separato ormai da quella società e da quel pubblico cui l’aveva legato un rapporto simbiotico di gioia e vitalità , trova conforto nella poesia che diventa medicina dell’anino ( “curae requies”), guida e compagna dei giorni di dolore. Per disposizione di Augusto, i libri di Ovidio vengono banditi da tutte le biblioteche ma , nonostante ciò, essi continuano a circolare e ad essere letti anche nei secoli successivi. Lo stesso Ovidio ribadisce, rivolgendosi direttamente alla Musa, la fiducia nel proprio valore poetico: “Tu mi hai dato da vivo- e questo è raro un nome eccelso, che la fama suole dare dopo le esequie. E l’invidia, che denigra le opere dei viventi, non ha morso con il suo dente malevolo nessuna delle mie opere” (Tristia, IV libro vv. 121-124) Quasi tutti i maggiori poeti latini di età imperiale si ispirano alla poesia ovidiana. La diffusione nel circuito scolastico è stata scarsa a causa della licenziosità dei testi erotici e non sono mancate le critiche rivolte ad una eccessiva esuberanza formale e alla sostanziale indifferenza ai valori etici. Dopo un declino coincidente con l’età romanobarbarica, la fortuna di Ovidio risale progressivamente e dall’XI secolo, con l’affermarsi di una civiltà urbana economicamente più prospera, la poesia ovidiana entra anche nelle scuole : Le Metamorfosi sono apprezzate per la loro qualità di summa enciclopedia del sapere mitologico classico. Il periodo dal XII al XIV secolo fu detto aetas ovidiana perché Ovidio è il poeta latino più letto in ogni parte d’Europa e il principale ispiratore della cultura cortese che trova espressione nella lirica e nella trattatistica di argomento amoroso. Molte sono le imitazioni, le riprese e le rielaborazioni delle opere di Ovidio: egli ha ispirato i soggetti di un gran numero di quadri e sculture ed ha fondato “il mitologico” come stato d’animo e come spazio accessibile all’occhio dell’artista, un luogo fatto di luci, ombre, colori, venti, fiori, caverne, grotte, montagne, vallate. Il tema dell’esilio, caro a Ovidio, sollecita l’interesse di scrittori e artisti come Shelley, Byron e Puškin. Delacroix dipinge due grandi temi raffiguranti Ovidio sul Mar Nero e Ovidio presso i barbari. (Delacroix: Ovidio tra gli Scizi) Charles Baudelaire gli dedicherà un breve sonetto de «Les Fleurs du mal» Orrore simpatico Da questo cielo bizzarro e livido, tormentato come il tuo destino, che pensieri nella tua vuota anima discendono? Rispondi, libertino. Insaziabilmente avido dell’oscuro e dell’incerto, non gemerò come Ovidio esiliato dal suo paradiso latino. Cieli strappati come greti, in voi il mio orgoglio si specchia: sono, le vostre vaste nuvole a lutto, i funebri carri dei miei sogni; sono i vostri lucori il riflesso dell’inferno, dove il mio cuore si bea. (Charles Baudelaire) Horreur sympathique Reflected Horror De ce ciel bizarre et livide, Tourmenté comme ton destin, Quelles pensées dans ton âme vide Descendent? réponds, libertin. From that sky, bizarre and livid, Distorted as your destiny, What thoughts into your empty soul Descend? Answer me, libertine. Insatiablement avide De l'obscur et de l'incertain, Je ne geindrai pas comme Ovide Chassé du paradis latin. Insatiably avid For the dark and the uncertain, I shall not whimper like Ovid Chased from his Latin paradise. Cieux déchirés comme des grèves En vous se mire mon orgueil; Vos vastes nuages en deuil Skies torn like the shores of the sea, You are the mirror of my pride; Your vast clouds in mourning Sont les corbillards de mes rêves, Et vos lueurs sont le reflet De l'Enfer où mon cœur se plaît. Are the black hearses of my dreams, And your gleams are the reflection Of the Hell which delights my hear. (Charles Baudelaire) (Charles Baudelaire) Per Baudelaire quei cieli lividi e oscuri che Ovidio rifiuta diventano il simbolo di un tormentato desiderio dell’ignoto, dell’impossibile. Secondo Baudelaire, per il quale l’esilio appare un luogo simbolico e necessario all’ispirazione, Ovidio avrebbe dovuto amare la propria sventura e non rimpiangere continuamente il giardino dei suoi piaceri perduti. Anche D’Annunzio con il suo Alcyone , fa riferimento al retroterra dell’immaginario ovidiano. (Rodin: Le Metamorfosi) (Bernini: Apollo e Dafne.) (Nella musica: Dafne di Richard Strauss.) (Dalì: Narciso) A questa produzione vanno aggiunti i romanzi ispirati al tema dell’esilio di Ovidio e tra essi merita un posto a parte lo scrittore romeno Vintilă Horia che con le sua opera (Dumnezeu s-a nascut in exil) “Dio è nato in esilio” (diario dell’esilio di Ovidio nella città di Tomi) ha fatto approdare alla modernità Ovidio con tutto il suo carico di straziante umanità. Attraverso la sofferenza di Ovidio, Horia descrive l’esilio come un inferno esistenziale, dove la nostalgia è resa ancora più pungente dal senso doloroso e atroce di un distacco definitivo. Questo tormento, tuttavia, in Horia non è fine a se stesso. Egli fa dire a Ovidio: “Augusto non saprà mai quale servigio mi ha reso facendomi soffrire: solo ora sto scoprendo il vero volto di me stesso”. Horia nasce a Segarcela nel 1915 in quella stessa Romania che quasi duemila anni prima aveva ospitato l’esilio di Ovidio. Figlio di un ingegnere agronomo, si laurea a Bucarest in giurisprudenza e a soli 24 anni inizia un brillante ciclo diplomatico come “addetto stampa” per la Romania a Roma e a Vienna. Affianca l’attività diplomatica frequentando i corsi di Lettere e Filosofia all’Università, prima a Perugia e poi a Vienna. Quando , nel 1941, un colpo di stato rovescia, in Romania, il regime del maresciallo Ion Antonescu per sostituirlo con un governo filosovietico, Ventila (che si trova a Vienna con la giovane moglie) viene rinchiuso in un campo di concentramento prima a Kummhübel e poi a Maria Pfarr in Austria. Nel maggio 1945 viene liberato dagli inglesi e trasportato in Italia, a Bologna… Qui prende la decisione di non ritornare in Romania e inizia il suo calvario di esiliato: in Romania era già stato condannato, in contumacia, ai lavori forzati a vita. Riferendosi a questo periodo Vintila scriverà: “Incominciò allora il mio vero esilio come un processo di anacoretismo, cioè come un processo di separazione da tutto quello che io ero stato”. Il tema centrale del libro “Dio è nato in esilio” è proprio l’esilio; nel 1960 l’autore ottiene, dietro indicazione di Jean Paul Sartre, il premio Goncourt ma egli non va ritirarlo a causa di una indegna campagna di denigrazione scatenata contro di lui dall’intellettualità gauchista in Francia. Iniziano le peregrinazioni dell’esiliato alla ricerca di un rifugio sicuro, separato da genitori, familiari, lontano dalla patria d’origine, dai propri beni materiale e spirituali. Il duro soggiorno in Italia, dal 1945 al 1948, è alleviato dalla frequentazione con Giovanni Papini e con il gruppo di giovani della rivista “ L’Ultima” di Firenze. Collabora alla rivista “Il Perseo” di Magda Gaggioli dove firma con un nome italianizzato di Vincenzo Horia. Scrive anche un libro su Giovanni Papini in cui traccia un emotivo ritratto dello scrittore fiorentino. Ricordando il freddo 11 gennaio 1947, giorno in cui Papini lo accoglie nella sua casa fiorentina, egli scrive: “Papini era lo scrittore che rappresentava per me nel fondo più chiaro e più appassionato l’Italia che Dante e Michelangelo mi avevano insegnato ad amare, l’uomo coraggioso e puro, l’autore di tanti libri che popolavano la mia biblioteca di studente e che, più dell’Università, mi aiutavano a formarmi, a vedere chiaro nel mondo”. Continuando la sua peregrinazione, Horia parte per Buenos Aires con una lettera di presentazione che Papini gli consegna per certi suoi amici i quali aiuteranno Horia a trovare un’occupazione in un’Università. Horia vive in Argentina con la moglie dal 1949 al 1953, si trasferisce come borsista dell’Istituto Ispanico a Madrid dove esercita la sua attività di scrittore, vive con la moglie e le due figlie, svolge memorabili cicli di Letteratura Universale nell’Università Complutense e in quella antica di Alcalà de Henares, vicino Madrid. Muore nella capitale spagnola il 4 aprile 1992, viene sepolto nel cimitero dell’ Almudena nella parte riservata ai romeni cristiani-ortodossi. Nella sua perenne peregrinazione verso una patria ideale si sente accomunato ai grandi esuli , come Dante, vittima anch’egli dell’odio e dell’ intolleranza, cui avrebbe voluto dedicare un libro che non riuscì, però, a portare a termine. Il tema dominante dell’esilio, a lui caro, si associa alla critica verso il proprio tempo, considerato “un’epoca di inganni che non garantisce nulla e non soddisfa nessuno”. Svolge numerosi corsi di letteratura nelle Università di Buenos Aires, Madrid, Parigi;,Santiago del Chile, e tiene suggestive conferenze in Europa e in Sudamerica in varie lingue: egli conosceva alla perfezione il romeno, sua lingua materna, l’italiano, il francese, il tedesco, lo spagnolo . Durante un dibattito tenutosi a Venezia nell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica: “L’esilio non è in fondo nient’altro se non una battaglia più dura delle altre, più attraente e più diretta, dal cui esito dipende tutto ciò che è più umano nell’uomo”.