OVIDIO - L`addio a Roma - i nostri tempi supplementari

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OVIDIO - L`addio a Roma - i nostri tempi supplementari
L'addio a Roma
Tristia I, 3
La terza elegia del primo libro dei Tristia è tra le più intense dell'ultimo Ovidio.
Il poeta ricorda la notte della precipitosa partenza da Roma alla volta di
Tomi, nel novembre dell'8 d. C. Il testo si sofferma soprattutto sul triste
commiato da tutte le persone care, che ne deplorano il congedo, quasi
si trattasse di un addio definitivo, di una morte. È ormai l'alba, ma
Ovidio, ancora frastornato e come colto dal fulmine di Giove, non sa
ancora decidersi alla partenza.
È davvero impressionante il ribaltamento di tono che si attua rispetto al
poeta brillante degli Amores o dell'Ars amatoria.
Un decreto dell’imperatore Augusto prescrive la relegazione a un celebre
poeta della sua corte e il decreto ha l’effetto di un fulmine a ciel sereno. E
Ovidio è costretto a sparire verso i confini del mondo di allora. Finirà la sua vita
a Tomi sul Mar Nero: è l’attuale Costanza, in Romania, dove ancora oggi c’è
un monumento al poeta esiliato. Da lì scriverà i Tristia, una cinquantina di
elegie buttate giù con pergamena e lacrime tra l’8 e il 12 d.C., figlie della
disperazione per essere stato costretto a vivere solo, in un paese freddo e
sconosciuto, circondato da barbari dalla lingua incomprensibile. Per i romani di
allora si chiamavano Geti: sinonimo di rozzezza, incultura, figli spuri di un dio
minore, relegato con loro alla fine del mondo conosciuto.
Nei Tristia Ovidio racconta l’ultima sera a Roma, riportando i suoi pensieri e
le parole della moglie da abbandonare per ordine del governo. Ovidio
non può nemmeno organizzare meglio questa partenza, perché non c’è quasi il
tempo di piangere. Ovidio ricorda le parole di Fabia, sua moglie, d’ora in avanti
complice solitaria delle solitudini in esilio. L’ordine è chiaro: relegatio, e non
prevede compagnia. Ovidio morirà in esilio e le sue richieste di rivedere
Roma resteranno lettera morta, benché nei Tristia supplichi più volte il suo
ritorno.
Laggiù, tra i barbari, le notti erano gelide e interminabili. Il buio favoriva il
bagaglio involontario dei ricordi e del dolore. Fabia si ripresenta e,
naturalmente, affiora solamente la nostalgia malinconica del momento bello e
perduto. Ovidio tenta l’autoconsolazione: «Siccome la penso con
ossessione, anche lei mi penserà con la stessa ossessione». Il pensiero di
Fabia non fa prendere sonno a Ovidio. Si gira e si rigira nel letto, non
trova pace e il sonno se ne va definitivamente proprio quando, al buio,
sembra essere arrivato a dar tregua ai tuoi pensieri.
Ma cosa era successo? Perché un uomo di successo come Ovidio chiude la sua
vita da solo ai confini del mondo? La risposta è sempre nei Tristia. Qui allude a
un carmen et error, un carme e un errore all’origine della sua disgrazia. In
realtà, all’origine della sua disgrazia ci sono le donne: Giulia Maggiore e
Giulia Minore, rispettivamente la sorella e la nipote di Augusto.
Costoro si rendono colpevoli di condotta dissoluta, al punto che
l’imperatore nel 2 a.C. manda in esilio la sorella a Ventotene e nell’8
d.C. spedisce Giulia Minore in soggiorno obbligato alle Tremiti.
Specialmente lo scandalo legato a Giulia Minore viene ad assumere
proporzioni gigantesche: Giulia, ventisettenne, è moglie di un celebre
personaggio di allora, Lucio Emilio Paolo, fatto che non le impedisce di
promuovere, organizzare e partecipare in prima persona a feste, orge
e quant’altro producibile dalla fantasia erotica. Ovidio deve essere
stato fra i beneficiati delle grazie imperiali, evidentemente ritenendosi
protetto proprio dal rango di chi si faceva promotore e gran maestro dei
divertimenti. Questo forse è l’error di cui parla nei Tristia, error fatale,
trasformatosi in biglietto di viaggio di sola andata per Tomi.
Un carmen dal titolo eloquente: Ars amandi, arte di amare. È un
manuale scritto da un uomo per avere successo nella seduzione delle
donne. Scritto all’epoca di Augusto. E questo è il problema. Il primo
imperatore di Roma è un innovatore: senza dubbio. Ma senza dubbio è anche
un conservatore largamente segnato dal moralismo. E ad Augusto, non avrà
fatto piacere scoprire un altro piacere proibito ma esibito dai suoi parenti
stretti. Nel 18 a.C. aveva promulgato leggi severe sui costumi. Una in
particolare è fini troppo chiara: de adulteriis et stupro vel de pudicitia, norme
sugli adulteri, sulle violenze sessuali e su comportamento in generale.
Si confermava al marito ogni potere sulla donna adultera, compreso il
potere di vita o di morte. Pudicizia, castità, moralità: questo si respirava
a Roma al tempo di Augusto e in questo clima Ovidio si permette di licenziare il
suo libello.
E se questo concetto era perfettamente in linea con la cultura del momento
costruita da Mecenate per elogiare il regime nascente, Augusto non sembrava
apprezzare sentir parlare della sua capitale come capitale dell’erotismo diffuso.
Per la Roma di Augusto scrivevano Orazio, Virgilio e tanti altri artisti legati al
circolo di Mecenate, sponsor efficace della propaganda culturale per
l’imperatore. Orazio faceva divertire con quel suo carattere sornione, ironico sì,
ma sempre entro i limiti concessi. Virgilio celebrava la stirpe di Augusto
esaltando le sue origini divine, discese direttamente da Enea, da Venere, dalla
grande cultura dell’Oriente. Per Ovidio Venere è tutt’altro. Venere è la
madre del piacere, la dea cui sacrificare quotidianamente e, perché no,
anche più volte al giorno. E ritrae un maschio nuovo in una Roma abituata
all’uomo rude, al combattente quando non fa il contadino, è lindo, pulito,
abbronzato e vestito con una toga elegante e ben tagliata addosso.
Deve piacersi e piacere. Ovidio suggerisce di avere scarpe calzate sul
piede e non troppo larghe ecc. E così scopriamo una cura del corpo al
maschile.
Il successo di Ovidio si misura proprio con il suo disastro personale,
con la sua messa al bando: da sempre si tenta di mettere freni o briglie
varie alla popolarità eccessiva nell’illusione di riuscire a imbrigliare il sentire
comune. Impossibile da sempre. E, nella Roma di Ovidio, i consigli dell’Ars
amandi volavano di bocca in bocca, di casa in casa.
Ovidio scrive per un tipo di uomo abituato a considerare il rimorchio
una attività professionale.
Traduzione
Quando mi torna alla mente l'immagine tristissima di quella notte in cui furono
per me gli ultimi istanti in città, quando ripenso alla notte in cui lasciai tante
cose a me care, anche ora una goccia scende dai miei occhi. Ormai stava per
spuntare il giorno in cui Cesare aveva ordinato che io mi allontanassi dagli
estremi confini dell'Ausonia: non c'erano stati né tempo né animo di preparare
quanto bastava le cose adatte: il mio cuore era rimasto intorpidito per il lungo
indugio. Non mi diedi cura di scegliere i servi, un compagno di viaggio, né la
veste o i mezzi adatti a un esule. Mi stupii, non diversamente da chi, colpito
dalla saetta di Giove, vive ed è all'oscuro della sua stessa vita. Tuttavia appena
lo stesso dolore rimuove questa nube dalla mia mente, e quindi i miei sensi si
riebbero, mi rivolgo per l'ultima volta sul punto di partire agli amici tristi, che
dai molti che erano prima erano uno o due. Mia moglie piena di amore mi
teneva mentre piangevo ella stessa piangendo più abbondantemente, mentre
una pioggia di lacrime cadeva ininterrottamente sulle guance che non lo
meritavano. Mia figlia era molto distante presso le coste libiche e non poteva
essere informata del mio destino. Dovunque guardassi, risuonavano pianti e
gemiti, e all'interno della casa c'era l'aspetto di un funerale rumoroso. Donne,
uomini e persino i servi si lamentano come per il mio funerale, e nella casa
ogni angolo ha lacrime. Se è lecito usare grandi esempi per le piccole cose,
questo era l'aspetto di Troia, quando fu catturata.
27 Ormai andavano spegnendosi le voci degli uomini e dei cani, e la luna alta
conduceva i cavalli nella notte. Io guardandola e scorgendo il Campidoglio al
suo chiarore, che invano fu vicino alla mia casa, dico: O dei che abitate nelle
case vicine, e templi destinati ormai a non essere più rivisti dai miei occhi, e
dei che devo abbandonare, che l'alta città di Quirino possiede, ricevete il mio
saluto per sempre ! E benché imbracci lo scudo troppo tardi dopo le ferite,
tuttavia sgombrate dall'odio quest'esilio; dite all'uomo celeste quale errore mi
trasse in inganno, affinché non pensi che si tratti di un errore volontario al
posto di uno sbaglio, affinché anche l'autore della pena sia persuaso di quello
che voi sapete: se il dio si placa, posso non essere misero.
Con questa preghiera io resi grazie agli dei, con ancora di più mia moglie,
mentre il singhiozzo troncava a metà le parole. Poi ella coi capelli sparsi
davanti ai Lari prostrata toccò con la bocca tremante i focolari estinti e riversò
molte parole verso i Penati insensibili destinate a non avere alcun effetto su un
uomo ormai perduto.
47 E la notte che volgeva al termine negava ogni indugio ormai e l'Orsa
Maggiore si era girata sul suo asse. Cosa avrei dovuto fare ? Ero trattenuto da
un dolce amor di patria: ma era quella l'ultima notte per l'esilio imposto. Ah !
Quante volte dissi a qualcuno che mi metteva fretta: "Perché mi forzi ? guarda
da dove mi affretti a partire, o dove ad andare !".
Ah ! Quante volte ho mentito dicendo di avere un'ora prefissata che fosse
adatta al viaggio che dovevo intraprendere. Tre volte toccai la soglia, tre volte
fui tratto indietro, ed il mio stesso piede era tardivo assecondando l'animo.
Spesso, dopo aver detto addio, di nuovo dissi molte parole e come sul punto di
andare diedi gli ultimi baci. Spesso diedi le medesime raccomandazioni ed
ingannai me stesso, guardando coi miei occhi le persone amate. Infine dico:
"Perché m'affretto ? E' la Scizia dove siamo mandati, devo lasciare Roma:
entrambi gli indugi sono giusti. Mia moglie mentre è in vita mi è negata per
sempre mentre sono vivo, e la casa ed i cari componenti della casa sicura, ed i
compagni che amai come fratelli, oh cuori a me giunti con fede tesea ! Finché è
lecito, che io vi abbracci, mai più forse sarà lecito. E' un guadagno per me ogni
momento che mi è concesso".
E non è più possibile indugiare, lascio le parole del discorso incompiute,
abbracciando tutte le cose più vicine al mio animo. Mentre parlavo e
piangevamo, Lucifero, stella funesta per noi, era sorto nitidissimo nel cielo alto.
Mi stacco non diversamente che se lasciassi le mie membra e mi sembrò che
una parte di me si staccasse dal suo corpo. Così si dolse Mezio, allorché ebbe
come vendicatori del tradimento cavalli girati in sensi opposti. Allora veramente
esplode il clamore ed il pianto dei miei e le mani meste battono i petti nudi.
Allora veramente mia moglie, trattenendomi per le spalle mentre me ne
andavo, mescolò queste tristi parole alle mie lacrime: "Non puoi essermi
strappato: insieme qui, insieme partiremo - disse -: ti seguirò e sarò esule da
moglie di un esule. Ed anche per me è aperta la via dell'esilio, anche me può
accogliere quell'estrema regione: mi aggiungerò come piccolo carico alla nave
profuga. L'ira di Cesare ordina che tu parta dalla patria, a me lo ordina la pietà,
questa pietà sarà per me Cesare".
Tali cose tentava, così come ne aveva tentate prima e a malapena si arrese,
(indotta) dall'utilità. Parto, o piuttosto quello era un essere portato alla
sepoltura senza funerale, trasandato, coi capelli spioventi sul volto ispido. Si
dice che ella, resa folle dal dolore, fosse caduta semisvenuta in mezzo alla casa
e, come si riprese, imbruttiti i capelli con la polvere, sollevò le membra gelide
da terra e invocò ora sé, ora i Penati abbandonati e più volte il nome dell'uomo
strappatole, e non gemette di meno che se avesse visto i roghi innalzati avere
sopra i corpi della figlia e del marito, e avrebbe voluto morire, e nel morire
perdere i sensi e tuttavia non si uccise per rispetto mio. Viva e, perché il
destino volle così, viva e mi sostenga mentre sono assente (lontano) con il suo
aiuto.