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Propaganda bioetica
Il premio Nobel a Edwards
La discussione sul premio Nobel attribuito a Robert Edwards
sembra oramai spenta. Ottima ragione per tornare a ragionarci sopra, con freddezza e distacco. È stato davvero “meritato” questo
premio? Non si può rispondere a questa domanda, se non ci si pone
preliminarmente e seriamente la questione di sapere cosa significhi
“meritare” e soprattutto perché al “merito” debba (o possa) conseguire un “premio” (dai più semplici, come la lode che il maestro rivolge all’alunno, ai più prestigiosi, come il Nobel).
Quando Nobel decise di utilizzare il suo patrimonio per istituire
i premi che sarebbero stati designati con il suo nome, si viveva in
un mondo ben più semplice dell’attuale e non esistevano dubbi sul
concetto di “merito”. Era opinione assolutamente condivisa che
fosse da ritenere “meritevole” un comportamento individuale, in
quanto capace di incidere sul benessere sociale. A Nobel (e non solo
a lui!) appariva del tutto auto-evidente che non si potesse acquisire
un merito per nascita (non c’è merito nell’appartenere a una famiglia nobile) o per l’operato altrui (come ad es., nella tradizione cristiana, in cui attraverso preghiere o suffragi si possono alleviare le
sofferenze delle anime del purgatorio, non certo però perché esse se
lo meritino, ma per la misericordia di nostro Signore). Analogamente non si conquista merito attraverso la buona sorte (il vincitore di una lotteria viene invidiato, ma non lodato), né per predisposizione naturale (la mera bellezza del corpo, una memoria di ferro
o una vista da lince destano sì ammirazione, ma non propriamente
una lode). “Meritevole” poteva, agli occhi di Nobel come a quelli
dei suoi contemporanei, essere ritenuta solo un’attività volontaria,
responsabile, intenzionale, quale quella di uno scienziato, di un letterato o di un operatore di pace; un’azione capace di implementare
il bene umano. Fiducioso nell’oggettività universale del bene, e
nella più assoluta indifferenza per l’identità particolare dei meritevoli (identità etnica, sessuale, religiosa, politica, di censo, ecc.),
Nobel riteneva che non dovesse essere troppo arduo individuare anno dopo anno i benemeriti dell’umanità. Confermare le loro benemerenze con una elargizione di danaro (tuttora rilevante, anche se
non raggiunge le cifre, a volte impressionanti, di alcune lotterie) il
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premio doveva, nella mente di Nobel, veicolare un significato prezioso: doveva manifestare la riconoscenza del genere umano verso i
suoi benefattori e nello stesso tempo attivare nei singoli individui la
preziosa propensione all’imitazione, nell’unico ambito in cui tutti
possono confrontarsi con tutti, l’ambito appunto dell’impegno
orientato fattivamente e pubblicamente al bene sociale. Questo
spiega perché a norma di regolamento il premio Nobel non possa
essere assegnato a chi sia defunto: anche la figura di chi è morto
può avere un valore esemplare, ma è ben più esemplare l’attività di
un vivo rispetto a quella di chi non sia più in vita. E spiega altresì
perché non avrebbe senso ipotizzare un Nobel che premiasse la dimensione preziosa, ma privata, della “bontà” o addirittura della
“santità”: non perché non sarebbe auspicabile che tutti, e soprattutto i giovani, si impegnassero nell’imitazione di uomini buoni e
santi, ma perché bontà e santità non producono necessariamente un
benessere sociale (valutabile con parametri quantitativi), ma solo
un benessere spirituale (percepibile, ma non quantificabile). Il Premio Nobel per la Letteratura non rientra perfettamente in questo
schema (come non ci rientrano, in genere, i premi letterari), così
come non ci rientra quello per la Pace; ma è per questo che tali tipologie di premio sono le più influenzate da equilibrismi linguistici,
politici e nazionali, che col merito hanno non sempre a che vedere,
come dimostra il fatto che il conferimento di questi premi è tradizionalmente il più discusso.
Questo paradigma ha cominciato a scricchiolare da tempo, per
vari ordini di ragioni. In primo luogo perché si è cominciato a revocare in dubbio il paradigma (vagamente utilitaristico) sotteso al
regolamento del premio, l’idea cioè che il merito scientifico andasse riconosciuto a partire dalla sua capacità di essere produttivo di
benessere sociale. È oggi opinione comunemente condivisa che una
conoscenza scientifica, purché acquisita in modo epistemologicamente corretto, sia dotata, ancorché “inutile”, di pari dignità gnoseologica di qualsiasi altra acquisizione di sapere. Di conseguenza,
Alfred Nobel, identificando la figura dello scienziato, come sapiente
e quella dello scienziato, come benefattore del genere umano,
avrebbe dato prova di un comprensibile, ma discutibile pregiudizio
ideologico. L’istituzione degli Ig-Prizes, i premi che dal 1991, anno
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per anno, sono conferiti a ricerche rigorose e corrette, ma anche
assolutamente irrilevanti, è stata senza dubbio motivata da un intento deliziosamente satirico (secondo tipiche modalità anglosassoni) ed ha consentito la creazione di uno dei siti più spassosi dell’intera rete, ma ha avuto anche la funzione (di certo non intenzionale)
di mostrare definitivamente a tutti come lo spirito e il metodo della
ricerca scientifica possano trovare concretizzazioni impeccabili sul
piano puramente conoscitivo, indipendentemente dalle ricadute
operative delle ricerche stesse: non a caso per ottenere un Ig-Prize
è necessario che le ricerche first make people laugh and then make
them think. Il secondo fattore che ha cominciato a far scricchiolare
l’imponente e ammirevole impalcatura costruita da Alfred Nobel è
più sottile del precedente, ma anche più tagliente. Esso va ricondotto all’erosione interna cui è sottoposto, in una cultura relativistica
come quella contemporanea, il concetto stesso di benessere sociale,
come concetto universale ed univoco. La stessa categoria del bene
tende oggi ad essere rigettata, come premoderna e inguaribilmente
metafisica, o viene rimodulata secondo una logica di estremo soggettivismo: è bene ciò che i soggetti, nella loro insindacabile autodeterminazione, qualificano come tale. La scala dei meriti, che Nobel riteneva potesse essere oggettivamente stabilita, viene a trovarsi oggi pericolosamente soggetta a qualsiasi oscillazione possa
conseguire alle determinazioni potestative delle persone.
Il diffondersi dell’individualismo assiologico, e la sua pretesa di
retroagire sul piano dell’epistemologia pura, se è dilagante, non ha
però mancato di suscitare reazioni appropriate, alcune delle quali
non sarebbe esagerato definire epocali. La nascita e il rapido
diffondersi della bioetica ne è la prova migliore. La bioetica non è
nata per sindacare la dimensione epistemologica del sapere scientifico, ma il suo orientamento al bene umano. Purtroppo, quando cade in mani ai relativisti, la bioetica diventa inevitabilmente un potente strumento ideologico di legittimazione di qualsivoglia pratica
scientifica. Quando invece resta fedele alla sua vocazione prima e
originaria, la bioetica assume nei confronti della scienza un doveroso atteggiamento di rispetto, qualificato però da uno sguardo critico nei confronti del nuovo, immenso potere di manipolazione della
vita che caratterizza le moderne scienze biomediche.
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Stiamo così lentamente arrivando al cuore della nostra questione. Le conoscenze che Edwards ha fatto acquisire all’umanità con
le sue ricerche e che tante lucrose ricadute hanno avuto nell’ambito
della medicina della riproduzione non sono eticamente neutrali: esse veicolano l’idea che il processo riproduttivo umano possa legittimamente trovare il suo luogo nel contesto necessariamente freddo e
pubblico di un laboratorio e non in quello, altrettanto necessariamente caldo e privato della casa (o comunque di qualsiasi luogo
una coppia individui e delimiti come un proprio luogo di intimità
relazionale). Sappiamo bene come su questa questione si abbiano, e
non solo tra i bioeticisti, ma più in generale nell’opinione pubblica,
opinioni più diverse, che vanno dal rifiuto più drastico all’accettazione più entusiastica. Quello che non è possibile revocare in dubbio è però proprio la problematicità come questione bioetica della
procreazione medicalmente assistita (non certo della medicina della sterilità!).
È evidente che, dando il Nobel a Edwards, gli svedesi hanno legittimato i meriti scientifici dello scienziato, ma ancor più ne hanno
avvalorato l’orizzonte bioetico. Sono cioè intervenuti in un contesto, come quello inerente ai “valori”, che vive di scontri dialettici,
che non sono però qualificabili o risolubili attraverso meccanismi
premiali.
Si obietterà: ma Edwards è realmente un benefattore, almeno
agli occhi delle innumerevoli coppie che hanno avuto un figlio solo
grazie alla fecondazione in provetta. È innegabile che da queste
coppie egli venga ritenuto davvero tale. Ma è altresì innegabile che
questa metodologia ha un prezzo non irrilevante, che va dallo
“spreco”degli embrioni (espressione brutta, ma insostituibile) alla
costituzione delle banche degli embrioni congelati, fino all’inevitabile dilagare delle diagnosi pre-impiantatorie e delle conseguenti,
altrettanto inevitabili pratiche di selezione eugenetica (e non solo
eugenetica). Di questi problemi e del loro spessore bioetico, sembra
che né Edwards, né coloro che lo esaltano, pur conoscendoli benissimo, vogliano assumere coscienza.
Un obiettore alle tesi che sto argomentando potrebbe continuare
ad insistere, riconoscendo che i problemi ai quali ho fatto cenno
esistono realmente, ma che sono problemi esclusivamente confes-
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sionali, tali cioè da turbare esclusivamente i cattolici: chi fosse
sensibile ad essi dovrebbe semplicemente impegnarsi a non utilizzare mai pratiche di procreazione assistita, ma non proibirle a chi
di questi problemi non avvertisse la rilevanza.
Con tutto il rispetto per chi si riconosce in questo argomento,
penso che esso non sia altro che un sofisma, specioso come tutti i
sofismi e, come tutti i sofismi, inaccettabile. Sul piano fattuale, la
questione della procreazione assistita non ha in sé e per sé carattere confessionale, ma filosofico-antropologico, cioè bioetico.
L’antropologia cristiana possiede naturalmente un’alta legittimazione per valutare queste pratiche in prospettiva teologico-spirituale, ma deve riconoscerne primariamente lo spessore preconfessionale (esattamente come, nel matrimonio, il valore spirituale del
matrimonio-sacramento presuppone, e non sostituisce, il valore
del c.d. “matrimonio naturale”). La ragione ultima del fatto che
con tanta monotonia si cerca di legittimare la procreazione assistita come pratica laica e di respingere come cattolici coloro che
ne avvertono tutta la problematicità non può che essere ricondotta ad un espediente dialettico, nemmeno troppo difficile da smascherare, quello di arruolare nei ranghi di una bioetica libertaria
tutti coloro che non si riconoscano nella tradizione cattolica o comunque cristiana, quasi che l’universo culturale contemporaneo
possa davvero ridursi a uno schema binario che divide gli uomini
in due categorie: moderni/premoderni, liberali e tolleranti/illiberali e intolleranti, dotati di spirito critico e problematico/dotati di
spirito dogmatico e ottuso, rispettosi dei nuovi diritti e in particolare di quelli delle donne, ostili ai diritti e in particolare a quelli
delle donne: non c’è bisogno di sottolineare che i “laici” vengono
naturalmente arruolati nella prima categoria, i cattolici nella seconda. La povertà di questo sofisma è smentita dal fatto stesso
che, se ci decidiamo a chiamare bioetica personalista quella che
mantiene una rigorosa attenzione alla promozione e alla tutela
del bene della vita, come bene oggettivo, vediamo come assieme
ai cattolici per essa si battano bioeticisti non credenti, o credenti
in confessioni non cristiane, tutti però accomunati dalla convinzione che sia inaccettabile dare credito morale al soggettivismo,
quel soggettivismo insaziabile (come è stato efficacemente defini-
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to), che caratterizza tanta parte dell’orizzonte etico contemporaneo.
Ridurre il Premio Nobel per la medicina a strumento di propaganda bioetica non può che colpire coloro che, per ragioni anche
generazionali (come il sottoscritto), hanno sempre visto in questo
premio la prova del carattere cosmopolitico della scienza. E non
può, per converso, che rallegrare coloro che si battono contro la
neutralità e l’universalità della scienza (secondo lo slogan sessantottino: scienza è ciò che è utile al Pentagono!) e che quindi, coerentemente con questa premessa, ritengono più che ragionevole un
uso strumentale della scienza, per implementare visioni e modelli
antropologici di carattere libertario. Se questa è oggi la posta in
gioco, ha poco senso riflettere sui meriti specifici di Edwards come
medico e come scienziato: non a lui è stato dato il premio e ai suoi
meriti, ma all’ideologia di cui lui (consapevolmente o no, non importa) è oggi il massimo testimonial. È doveroso per chi non condivide questa ideologia, ma soprattutto per chi la ritiene scientificamente pericolosa, biasimare la decisione di conferirgli il Nobel.
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