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RIMMEL narrativa italiana 31 direzione editoriale: Calogero Garlisi utili consigli: Giulio Mozzi realizzazione editoriale: Veronica Bonalumi comunicazione: Antonino Pintacuda copertina: omaggio al Satyricon di Fellini concept di Salvatore Avara rielaborazione di Paolo Ottavian ISBN 978-88-98451-57-9 Laurana Editore è un marchio Novecento media s.r.l. Copyright © 2016 Novecento media s.r.l. via Carlo Tenca, 7 - 20124 Milano www.laurana.it - [email protected] Ad eccezione di istituzioni e personaggi pubblici, i protagonisti della storia sono frutto di invenzione, ogni riferimento a persone e accadimenti reali è puramente casuale. Irene Chias Non cercare l’uomo capra A Maria Chiappisi Parte I Simona e il gambiano Rogo, inquam, mater, numquid scis ubi ego habitem? Petronio, Satyricon Clandestino è reato Fra tutte le persone di talento che conosco, Simona è certamente quella che ne ha sprecato una più larga parte. Un generoso sciupio di doti dai contorni indefiniti di cui beneficiano amici e conoscenti che possono godere delle sue battute, dei suoi racconti, delle sue canzoni, delle sue intuizioni filosofiche senza l’attenzione obbligatoria di chi sa di star assistendo a un prodigio. È il 20 ottobre del 2013, una domenica pomeriggio che lei passa a casa con sua figlia, e decido di andare a trovarla. Mi dirigo a piedi alla fermata dell’82. All’angolo fra via Porro Lambertenghi e via Borsieri mi imbatto in un gazebo della Lega Nord. Il povero Alberto da Giussano, rinchiuso nel logo, punta al cielo grigio, ma in realtà sembra infilzare la frase “Clandestino è reato” dello striscione posto a fregio del tendone. Un tempismo eccezionale quello dell’eroe brianzolo. Un paio di settimane fa sono morti in centinaia al largo di Lampedusa. Era il 3 ottobre e io ero a Trapani proprio con Simona, che da Milano era venuta ad appurare personalmente la beltà della città in cui in questi giorni sogno di trasferirmi. Prima è stata Siviglia, prima ancora Atene ma è durata pochissimo. Prima di Atene ci sono state Montevideo, Kochi, San Francisco, Istanbul. Solo che a Trapani abitava una zia che amavo molto da bambina e che è morta ormai da tanti anni. Andavo a trovarla 11 per lunghi periodi, quindi in un certo senso la città è avvantaggiata su Atene, Istanbul, Montevideo. A Montevideo, dove avevo trascorso quattro giorni nel 2004, cercai pure lavoro via internet. Lo trovai al Museo Torres García come assistente part-time a tempo determinato, ma alla fine lasciai perdere. Il percorso dell’82 in direzione Bovisasca lambisce proprio la strada di Simona. Non la vedo da Trapani, da quando ci separammo al pullman per l’aeroporto sul quale sono salita solo io. Lei rimase altri due giorni, buona parte dei quali trascorsi in una Levanzo autunnale da cui mi spedì una cartolina traboccante gratitudine per averle suggerito di visitare l’isola, mentre guardavamo l’arcipelago da Torre di Ligny. Trovo casa sua stranamente ordinata, il compagno è al lavoro e lei sta rassettando la cucina dopo pranzo. La bambina è prona sul tappeto a guardare un cartone animato sul laptop, non ricordo se SpongeBob o Barbapapà, o forse Peppa Pig. “Come sei strana in versione massaia”, le dico, probabilmente senza pensarlo. “Cara mia, è che tu mi vedi per lo più in gita o in giro. Lavo piatti tutti i giorni”. “Se è per questo anche io, ma tu lo fai con una comprensione nel ruolo che non credo io avrò mai”. “Quello è per… loro”, mi dice inarcando il sopracciglio e scuotendo la testa con rapidissimi scatti. Un linguaggio in codice che non capisco. “Cosa? Loro chi?” “Loro…”, sgrana gli occhi mentre asciuga un bicchiere ed è come se indicasse col naso in direzione del tappeto. “I computer? Le multinazionali di microelettronica? Silicon Valley?” “Luisa, ma sei scema? Loro, the children!” “Quali children? Chi sono i children?” 12 A quel punto la bambina, quattro anni portati gloriosamente, distoglie lo sguardo dal computer e dice: children vuol dire bambini. Poi ritorna incurante a quello che sta guardando (ora che ci ragiono era Barbapapà perché mi sono detta: pensa un po’, esiste almeno da quando io avevo la sua età). Quindi Simona forse intendeva dirmi che è a causa dei bambini che ci si immedesima nel ruolo di cura domestica. O forse parlava semplicemente di sé e intendeva dire che è a causa di sua figlia che si dà tanto da fare. D’altra parte Seedia è a lavoro, e la sua dose di piatti li lava al Grand Hotel Et De Milan. Non ho ancora capito quanto d’accordo vadano i due. Si sono conosciuti a una serata reggae al Leoncavallo. Seedia era arrivato in Italia da poco, forse qualche mese. “Ballava bene”, mi dice sempre Simona parlandomi di quell’incontro. Dopo tre settimane era incinta. Simona è colta e brillante, sebbene le sue qualità non siano messe a fuoco nelle sue attività quotidiane. Quando si trova in presenza di un pianoforte è capace di suonare le Variazioni Goldberg di Bach a memoria. Le esegue veloce con una frenesia da invasata, quasi da patologia neurologica, e dice: questo è Glenn Gould nella registrazione del 1955, aveva più o meno ventitré anni. Poi le fa un po’ più lentamente con gli occhi chiusi e il capo chino leggermente pendente da un lato e dice: questa è la registrazione del 1981, Glenn Gould aveva quarantanove anni e a cinquanta sarebbe morto. La differenza fra le due esecuzioni si apprezza però quasi esclusivamente dalla mimica di Simona. È laureata in Geografia antropica, ha quindi una formazione affine alla mia – io sarei un’antropologa, anche se faccio l’impiegata alle Poste – ma lavora come segretaria nello studio di un suo cugino che fa l’ortopedico. E a casa non ha un pianoforte. 13 “Allora vai a Zanzibar, alla fine?”, mi chiede. “Sì, ho approfittato dei lavori in corso per chiedere una settimana di ferie. Vado con una collega”. “Quindi chiedete ferie in due, e ve le danno?” “Sì, l’ufficio postale resterà mezzo chiuso due settimane per via della ristrutturazione. Hanno invitato il personale a prendere ferie, magari scaglionandosi. Andrà avanti a staff ridotto per un po’. Inoltre lei è già part-time”. “Ma è vero che è crollato un pezzo di intonaco interno ferendo un tizio?” “Non ha ferito nessuno, ma è caduto a mezzo metro da un bambino in passeggino”. Nel frattempo Mafanta ha finito di guardare Barbapapà e inizia a importunarmi tirandomi i capelli. Con me ama fare giochi fisici e talvolta molesti. “Guarda che ti sculaccio”, le dico. La sua risposta è un riso gutturale, mentre la madre le intima di farla finita. Ma lei continua, allora la prendo, la metto sulle ginocchia come nell’iconografia classica della sculacciata, e lei si dimena continuando a ridere. Le do un paio di manate sul culetto. Simona teme che possa restarci male o sentirsi punita oltre misura. Non avendo figli non sono esperta sulle valenze psicologiche dello spanking infantile. Mi ricordo vagamente che quando ero bambina e mia madre, molto di rado, me le dava, mi facevo anch’io matte risate. Mamma riteneva che i bambini non si dovessero mai picchiare, né scuotere, né sgridare. Ma le sculacciate andavano bene, moderatamente punitive e non troppo umilianti, non toccavano zone cruciali come la testa o il torace e consentivano una discreta valvola di sfogo anche per lei quando io e i miei fratelli la facevamo disperare. Ma forse a casa di Simona la sculacciata ha un significato diverso. Quindi, come per bilanciare un rito di umiliazione, dice: adesso compensiamo con 14 un grattino. Pare che Mafanta adori le grattatine sulla schiena, che normalmente le vengono elargite come premio quando si comporta bene. Quindi, mentre è ancora appoggiata sulle mie ginocchia, le alza il maglioncino e le scopre la schiena scura. “Sì, ha la schiena nera nera. La faccia al confronto è sbiaditina”, mi dice Simona, tutta intenerita. 15