Sulla legittimazione del discorso neoliberista e i dispositivi materiali
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Sulla legittimazione del discorso neoliberista e i dispositivi materiali
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA ROMA - Serie XIII, vol. VIII (2015), pp. 383-391 EDOARDO BORIA SULLA LEGITTIMAZIONE DEL DISCORSO NEOLIBERISTA E I DISPOSITIVI MATERIALI E SIMBOLICI DELLA TERRITORIALITÀ RIFLESSIONI SULL’ULTIMO DAVID HARVEY Produzione di spazio. – I meriti del pensiero di David Harvey non stanno solo nell’originalità dei contenuti proposti in modo brillante attraverso una ricca produzione che ha riscosso riconoscimenti degni di un grande intellettuale dei nostri tempi. I meriti riguardano infatti anche la lezione di impegno civile che Harley ha trasmesso, con l’ambizione di rispondere a problemi complessi e con l’immaginazione di pensare a soluzioni radicali in risposta a crisi di sistema. Questo scritto, però, non tratterà i meriti di David Harvey quanto piuttosto, con spirito critico, alcuni punti che emergono da una lettura evolutiva del suo pensiero e che interrogano la geografia sulle grandi questioni sociali dei nostri tempi. Il primo aspetto, particolarmente problematico, riguarda il concetto di produzione di spazio, tema caro a Harvey che vi perviene su ispirazione di Henri Lefebvre (1974) contribuendo a farlo conoscere al pubblico anglosassone. Nella formulazione corrente lo spazio geografico è fondamentalmente uno spazio sociale costantemente prodotto e riprodotto dai rapporti e dalle dinamiche di potere. Il dominio sullo spazio costituisce dunque in quest’ottica un’espressione egemonica, mentre il territorio va trattato come una merce, interamente acquistabile e scambiabile come in un libero mercato. Nonostante che sia Lefebvre sia Harvey siano attratti dalle realtà urbane, che rappresentano un caso esemplare di produzione di spazio, i due si distinguono per l’orizzonte di analisi: il primo lo estende alle molteplici forme di diffusione e diversificazione di produzione di spazio comprendenti anche le attività dei servizi e quelle orientate al consumo; mentre il secondo, soprattutto nelle sue ultime opere, si concentra sulle forme materiali connesse alle attività produttive. La prima elaborazione compiuta del concetto di produzione di spazio risale in Harvey a The Limits to Capital del 1982. Lì venne formulata la nota spiegazione delle modalità attraverso le quali il sistema capitalista utilizza il territorio: se ne serve durante le sue periodiche crisi di sovra-accumulazione in quanto con- 384 Edoardo Boria sente di accogliere quegli investimenti in infrastrutture utili a smaltire in modo redditizio il capitale in eccesso. In breve, si costruiscono ponti, edifici, strade eccetera per assorbire il plusvalore. Nel suo ultimo libro Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo del 2014 Harvey torna sul tema, soprattutto nel capitolo su Sviluppi geografici disomogenei e produzione dello spazio, nel quale conferma che il capitale sfrutta i divari geografici e fornisce argomentate considerazioni con dovizia di prove empiriche: ad esempio, relativamente alle grandi imprese che delocalizzano dove il costo della manodopera è minore o tendono a concentrare le proprie sedi nei centri del potere economico, finanziario e politico. Però questi divari geografici sono destinati nel lungo periodo ad attenuarsi perché il capitale si sposta abbandonando un’area e installandosi in un’altra più redditizia. Anche a questo proposito Harvey offre molti esempi: la centralizzazione dei decisori oltre un certo limite abbassa la qualità di vita di quel luogo e ne alza i costi (l’esempio più ricorrente è quello di New York, dove Harvey risiede); un basso costo del lavoro attira inizialmente le imprese, ma nel lungo periodo tenderà ad alzarsi perché i lavoratori si organizzeranno, i prezzi della terra e degli immobili saliranno eccetera. Dunque, nella natura stessa del meccanismo capitalistico sarebbe insita una duplice spinta contrastante: ad approfondire i divari geografici per sfruttare i differenziali di costo, ma anche a favorire il riequilibrio tra quegli stessi differenziali. Scrive Harvey: «La costruzione di un paesaggio geografico favorevole all’accumulazione di capitale in un’epoca diventa, per farla breve, un ostacolo all’accumulazione nella successiva» (2014, p. 158). Questo fenomeno è di grande interesse per un geografo perché nei momenti di transizione, quando cioè si riconfigura un nuovo paesaggio, «si verificano spostamenti di potere nelle forze che producono il paesaggio geografico del capitale» (ibidem, pp. 154-155). Ovviamente l’aspetto interessante non sta nei divari geografici in sé, facilmente osservabili, quanto nelle dinamiche e nei fattori che li innescano. Su questi fattori Harvey si interroga e spiega, in modo convincente, come agisce il capitale nella produzione degli elementi materiali congeniali a favorire il processo di accumulazione capitalistica e di massimizzazione del profitto, ma non ritiene altrettanto importante chiedersi se e come il capitale interviene sugli elementi simbolici della produzione di spazio. Nell’intero capitolo sulla contraddizione geografica (l’undicesimo) non c’è una sola parola dedicata agli elementi simbolici. L’interesse è esclusivamente rivolto ai sistemi di reificazione che operano nella produzione di spazio, mentre ci si disinteressa dei sistemi di simbolizzazione. La conseguenza rilevante per la geografia di questo modo di pensare è che lo spazio simbolico non ha molto valore. Eppure ogni trasformazione sociale comporta e richiede un’egemonia anche nel dominio simbolico della territorialità. Senza risalire a Durkheim, che pure già considerava lo spazio come categoria sociale soggetta ai mutamenti della storia, tanti autori si sono occupati di Sulla legittimazione del discorso neoliberista 385 questo argomento (1). Tra questi autori figura lo stesso Harvey, ma pare averlo dimenticato nella sua ultima opera. Harvey pare cioè aver dimenticato oggi una cosa di cui lui stesso ha persuaso molti, e cioè che «ogni progetto di trasformazione della società deve affrontare decisamente il complesso problema della trasformazione dei concetti e delle pratiche spaziali e temporali» (Harvey, 1997, p. 268). Quest’obiettivo spinge a ritenere che «il potere nel campo delle rappresentazioni può finire per essere importante quanto il potere sull’aspetto materiale dell’organizzazione spaziale stessa» (ibidem, p. 286). Trascurare tali considerazioni non è senza conseguenze di rilievo, soprattutto se, come intende fare Harvey, ci si muove in una direzione di contestazione serrata e attiva alla logica del capitale. Infatti, le citazioni precedenti ci ricordano che le rappresentazioni della realtà condizionano fatalmente le pratiche, e allora ogni reazione alla logica imposta dal modello capitalistico e alle sue conseguenze deve intervenire, prima ancora che sulle pratiche, sulle rappresentazioni. Sarebbe questo il livello decisivo per riterritorializzare il mondo. Ci sarebbe dunque, nell’ultimo Harvey, un ripensamento forse indotto da una ristretta e meccanica adozione della prospettiva materialista, che finisce per fornire spiegazioni tecniche impedendogli di cogliere l’aspetto decisivo dato dall’importanza degli elementi cognitivi, percettivi e simbolici della produzione di spazio. All’attenzione che Harvey rivolge alle forme materiali attraverso le quali il dominio del capitale si manifesta, non corrisponde un’analoga attenzione alle forme simboliche attraverso le quali il dominio del capitale si rappresenta costruendo il proprio discorso e le proprie narrazioni. Detto in altre parole, delle tre dimensioni – simbolica, materiale e organizzativa – attraverso cui si dispiega la territorializzazione (Turco, 2010), Harvey si disinteressa della prima. C’è sicuramente la dimensione materiale, c’è in abbondanza quella organizzativa, ma quella simbolica rimane solo accennata. Perché? Eppure è evidente che il capitalismo ha bisogno di continue legittimazioni per nascondere le proprie contraddizioni, quelle contraddizioni che Harvey evidenzia così bene. Ecco, Harvey non si interessa all’estetizzazione del discorso capitalistico, che pure si rivela vincente se riesce a celare così bene tutte le contraddizioni che contiene in sé. La scelta di Harvey di privilegiare i processi materiali su quelli simbolici si giustifica sulla base della convinzione che siano questi ultimi a dare sostanza alle concezioni sociali dello spazio (e anche del tempo). Cioè, sarebbe solo a partire dai processi materiali che le comunità umane sviluppano le loro spazialità, il loro (1) Ad esempio Carl Schmitt (2006, pp. 58-59): «Ogni grande trasformazione storica comporta quasi sempre un mutamento dell’immagine di spazio. È questa la vera essenza del grande mutamento politico, economico e culturale che allora si realizza». Con altri obiettivi, ma riconducibile a medesime considerazioni di fondo, è il pensiero di Angelo Turco (2010, p. 111): «La più universale delle pratiche trasformative attiene al dominio simbolico: l’ordine umano viene impresso al mondo non solo e non tanto grazie all’alterazione della sua materialità, ma primariamente – e se adottiamo una prospettiva storica diremmo soprattutto – grazie alla manipolazione intellettuale». 386 Edoardo Boria senso dello spazio. L’interpretazione dello spazio sociale risulta pertanto guidata da ciò che succede nello spazio della produzione materiale, o che è direttamente funzionale alla produzione materiale. In questa prospettiva, i cambiamenti nella sfera produttiva della società determinano i cambiamenti nella sfera culturale. La logica del capitale determina la vita culturale. E una prova che Harvey fornisce viene dalla mercificazione della cultura: l’arte, la qualità di un artista o di un oggetto sono sempre più valutate in termini monetari. Questo costituirebbe una prova della vittoria della logica del capitale, che misura tutto in termini di valore di scambio. È dunque la struttura economica che naturalizza tutto, producendo e riproducendo instancabilmente l’ordine sociale e legittimando sé stessa. Tuttavia, un’analisi tutta concentrata sulla sfera materiale, da cui si fa discendere in modo automatico e non problematico la sfera emozionale, non tiene conto del ruolo delle culture visuali, che mediano tra le due sfere. La produzione di senso, che poi innesca percezioni, sensibilità e comportamenti, non è data solamente dalla sfera materiale, ma da complessi rapporti con l’universo simbolico dei luoghi e con la dimensione simbolica della territorialità. Nel recupero della capacità di ripensare sé stessi nel luogo sta uno strumento importante di resistenza alle politiche neoliberiste. Lo stesso Harvey lo ammette esplicitamente quando scrive che l’unica speranza di resistere per l’anticapitalismo è recuperare la dimensione locale: «I movimenti anticapitalisti debbono abbandonare ogni idea di uguaglianza regionale e di convergenza verso qualche teoria di armonia socialista. Queste sono ricette per una monotonia globale inaccettabile e irraggiungibile. I movimenti anticapitalisti devono liberare e coordinare le loro dinamiche di sviluppo geografico disomogeneo, la produzione di spazi emancipativi di differenza, per reinventare ed esplorare alternative al capitale regionali e creative» (Harvey, 2014, pp. 165-166). Ogni forma di resistenza anticapitalistica, ogni azione di contestazione al sistema del capitale deve dunque per Harvey necessariamente adattarsi al contesto locale evitando di cadere nella trappola universalistica. Assumere un punto di vista locale per combattere una forza a vocazione universale. Questo punto di attenzione al contesto locale è dunque presente in Harvey in termini di indicazioni generali sulla strategia di lotta, ma non riguarda le pratiche di resistenza, a causa del disinteresse verso la dimensione simbolica della territorialità. La circostanza che le politiche neoliberiste lavorino sulla rimozione delle identità, sull’esclusione di gruppi sociali, sulla marginalizzazione geografica (tutti processi facilmente visibili nelle periferie urbane), dovrebbe invece suggerire di lavorare sulla simbolizzazione e sulla memoria dei luoghi per contrastare le politiche neoliberiste su quel terreno strategico che è la territorializzazione. L’aggressività del neoliberismo si vede proprio nell’incessante ridisegno – prima simbolico e poi materiale – degli spazi delle collettività. Il primo diritto violato dal neoliberismo, l’atto più violento che commette ai danni delle collettività, è l’esproprio del diritto di scegliersi la propria territorialità. Le comunità oggi subiscono una territorializzazione che è eterocentrata, Sulla legittimazione del discorso neoliberista 387 cioè stabilita dall’esterno. Come i cittadini delle colonie vedevano i loro luoghi riterritorializzati da un attore esterno (il colonialista), così oggi tutto il mondo subisce le violente pratiche della colonizzazione da parte del capitale. Così si esprime il dominio del capitale. Ma Harvey, inaspettatamente, pare sottovalutare il tema della territorialità. E lo fa proprio nella fase in cui appare chiaro che, se non si recupera la capacità degli individui e delle comunità di sentirsi artefici nella vicenda storica dei luoghi, non è possibile attivare in modo efficace nessuna pratica, né di tipo memoriale né di tipo progettuale. In assenza di un’efficace contronarrazione, il capitalismo ha gioco facile perché impone una descrizione del mondo conforme ai propri interessi, cioè in grado di comunicare e trasmettere il territorio in linea con la propria ideologia universalistica. Anche su questo piano della comunicazione Harvey, pur riconoscendone la rilevanza (2014, p. 107), ritiene di non dover approfondire. Invece mi pare pericoloso disinteressarsi di questa dimensione discorsiva, perché l’egemonia del capitale si esprime anche attraverso l’egemonia delle rappresentazioni, motivata dall’assunto che esercitare il potere sul territorio significa non solo controllarlo fisicamente, ma anche poterlo rappresentare nel circuito della comunicazione in modo conforme ai propri interessi. Invece la prospettiva marxista porta Harvey a concentrarsi sulla produzione materiale lasciando in secondo piano la produzione discorsiva. Già anni fa Jean Baudrillard (1987) e prima ancora Guy Debord (1967) allertavano circa la potenza della pubblicità, che non promuove più singoli prodotti, ma ambisce a definire gusti e diffondere valori. Oggi le loro riflessioni sulla valenza strategica della dimensione discorsiva mi sembrano non solo sempre valide, ma ancora più apprezzabili di prima. L’ultimo Harvey liquida invece ogni ragionamento sui dispositivi normativi della vita sociale al conflitto per i mezzi di produzione. Sparisce Foucault, sparisce de Certeau. La governamentalità diventa meccanica, esaurita all’interno di pratiche materiali di potere; la dimensione simbolica e discorsiva della governamentalità è di fatto esclusa. Però, se tutto è spiegato in termini meramente materialistici di sfruttamento capitalistico, dubito che si riescano a comprendere, e tantomeno a contrastare, alcuni conflitti dei nostri tempi in cui lo scontro avviene essenzialmente sul terreno culturale; ad esempio, risulterebbe piuttosto complicato opporsi con l’armamentario teorico di Harvey alla deriva razzista e xenofoba di questi anni, che si alimenta soprattutto di populismo e miseria intellettuale più che di miseria materiale. E un ragionamento analogo si potrebbe fare per le discriminazioni di genere. In questa prospettiva perde efficacia anche quella categoria analitica che risulta insostituibile nella costruzione di Harvey, e cioè la classe. Per Harvey la divisione in classi rimane la spiegazione fondamentale dei conflitti sociali. Ma siamo veramente sicuri che le dinamiche e le pratiche di dominio di un gruppo sociale su un altro oggi si dispieghino attraverso le divisioni di classe, che Harvey interpreta fedelmente in termini di possesso dei mezzi di produzione? In una società fluida dove le identità tendono ininterrottamente a frammentarsi, interse- 388 Edoardo Boria carsi, incrociarsi e accavallarsi, considerare la classe come la categoria più rappresentativa dei nostri tempi e la più utile all’azione anticapitalista potrebbe rappresentare una forzatura, mentre invece potrebbe risultare più proficuo pensare ad aggregazioni sociali costruite attorno a criteri alternativi a quelli basati sui rapporti di produzione. Harvey e la geografia. – Nella sua ostinata adesione alla prospettiva materialista e nella fiducia verso un grande schema narrativo di tipo storicista, Harvey si conferma profondamente anti-postmoderno. Vive con evidente fastidio questo tornante storico delle scienze sociali, perché dalla sua ottica il rifiuto postmoderno delle ideologie impedisce di pensare in modo costruttivo alla realtà dell’economia politica, delle disuguaglianze e delle discriminazioni. In questo suo atteggiamento c’è un’attitudine anticonformista. Harvey si disinteressa di novità decisive che hanno profondamente segnato gli studi geografici negli ultimi anni: il decostruzionismo, la svolta spaziale, la svolta culturale e quella post- o neo-fenomenologica hanno mutato il paradigma scientifico disciplinare condizionando i modi di riflettere e di lavorare di tanti geografi, ma Harvey non se ne cura. Fa bene? Fa bene, cioè, a prendere le distanze dai suoi colleghi, che cita sempre più raramente, non riconoscendosi più nell’album di famiglia e anzi ponendosi in netta contrapposizione al mainstream geografico di questi tempi? La pertinenza della domanda non sta nella rivendicazione di una specificità disciplinare sempre meno significativa nel contesto attuale delle scienze sociali, votato allo scambio di esperienze tra settori diversi (pur nel riconoscimento che David Harvey ha rappresentato per anni uno spot vivente per la geografia, in grado di farne conoscere all’esterno le potenzialità ermeneutiche e le sensibilità per le questioni sociali). Piuttosto, interrogarsi sul rapporto tra Harvey e la geografia è un utile pretesto per riflettere sulla direzione che la geografia ha preso negli ultimi anni. Nel primo Harvey c’era molta concettualizzazione del territorio. In quest’ultimo, tale tensione speculativa mi pare decisamente affievolita. Oggi Harvey fa un uso accessorio della categoria «territorio». In effetti, per sviluppare la propria visione del mondo, ad Harvey non serve il territorio e dunque non serve la geografia, che infatti nell’ultimo libro non c’è. Un giudizio netto non mitigato dalla circostanza che un intero capitolo di quel libro sia dedicato alla contraddizione tra capitale e natura, perché in quelle pagine si fa riferimento esclusivamente alla questione ambientale, che è questione di portata enorme in quanto in fondo rappresenta l’unico vero conflitto sociale rimasto (addirittura più divisivo del conflitto sul tema del lavoro), ma che non prevede alcuno sforzo concettuale sul territorio. Dunque, se pure qualche riferimento al territorio c’è in quest’ultimo libro, non si tratta di un dato problematico. Sul territorio si scaricano alcune delle contraddizioni del capitalismo, ma è solo la scenografia di fondo. Sulla legittimazione del discorso neoliberista 389 L’ultimo Harvey non è più quello di Social Justice and the City (1973), e neanche quello del diritto alla città, dove la geografia era insieme prodotta dal capitalismo, ma anche un’arteria del capitalismo. Lo spazio era prodotto dalle pratiche del capitale, ma questa stessa realtà spaziale, una volta prodotta, veniva a esercitare limiti al libero fluire del capitale condizionandone le scelte. Erano gli effetti sociali della spazialità. Una spazialità attiva. Ora, invece, non c’è una sola riflessione sul senso culturale, relativo e contingente della spazialità umana. Oggi Harvey smette di guardare ai processi storici anche in quanto processi spaziali. Esattamente come ha fatto un secolo e mezzo fa il suo mentore Karl Marx. Harvey smette di fare il geografo marxista per diventare, apparentemente, marxista e basta. Perché Harvey parla sempre meno di territorio? Non credo si tratti di un cambiamento di interessi. Se così fosse non ci sarebbe da preoccuparsi. Forse invece, purtroppo, c’è una verità nascosta che sarebbe molto preoccupante per i geografi: se si vogliono studiare i meccanismi profondi di questa società – come fa Harvey – il territorio non è più un fattore determinante perché il capitalismo finanziario ne ha annullato la funzione strumentale al processo di accumulazione capitalistica. L’economia mondiale basata sul sistema capitalistico connette i luoghi per esigenze che sono universali e dunque indifferenti alle loro specificità. Forse ad Harvey non interessa più tanto il territorio perché non vede più alcuna strategia spaziale nel capitalismo iperfinanziarizzato: non è più l’infrastrutturazione del territorio alla base della redditività dell’attività economica, e dunque il territorio perde interesse perché non spiega più la distribuzione di ricchezza e di potere. La «soluzione spaziale», che ancora pochi anni fa lui intravedeva come sfogo alla sovraccumulazione e alla crisi del capitalismo (gli investimenti in infrastrutture di cui si è detto all’inizio), oggi è superata perché la sovraccumulazione trova sfogo in soluzioni finanziarie nuove, strumenti speculativi inventati dal turbocapitalismo finanziario. Porre il capitalismo finanziario alle radici della deterritorializzazione porta Harvey a negare valore al territorio e quindi anche alla geografia, che è capacità performativa di ripensare il territorio. Escludendo che il territorio abbia ancora una rilevanza nei processi economici, automaticamente il ragionamento depotenzia la possibilità delle comunità di conservare una propria efficacia nell’iniziativa territoriale. L’indifferenza geografica imposta dal capitale starebbe dunque ridimensionando il territorio, con il conseguente declassamento della geografia. L’analisi di Harvey dovrebbe dunque essere fonte di preoccupazione per i geografi. L’Harvey che in passato ha riconosciuto e dimostrato la centralità dei luoghi, quando ha parlato di crisi della modernità e di città, oggi non la riconosce più come centrale. Quando parlava di crisi della modernità, individuava le specificità dei luoghi come un fattore di diversificazione del fenomeno: della crisi della modernità di cui parla nel famoso libro omonimo ci dice che ha avuto accen- 390 Edoardo Boria ti diversi a Parigi o a New York, e ci mostra l’importanza di un’analisi che tenga conto dei luoghi. In quest’ultimo libro i luoghi sono sostanzialmente neutrali: non sono un fattore, ma solo una manifestazione inerte, un’espressione puramente passiva del fenomeno. C’è solo un aspetto in cui i luoghi riguadagnano la loro specificità ed eterogeneità: nella fase della proposta, quando Harvey elabora la sua ricetta. Lì dice che l’azione anticapitalista può essere efficace solo se si emancipa da una visione di socialismo universale e recupera le potenzialità dei luoghi; se cioè la resistenza è localizzata, declinata in modo diverso da luogo a luogo. Se cioè assume forme adatte al contesto locale. È da lì, dai luoghi, che un’azione di resistenza all’egemonia del capitale può lanciare la propria sfida. Nel sottolineare lo sfruttamento dei luoghi da parte del capitale, oltre che delle persone, Harvey rivela, proprio nell’opera dove c’è meno geografia nel senso canonico, la sua originaria estrazione geografica. La sua proposta parte infatti dalla reazione del geografo che si ribella all’annichilimento dei luoghi. Ma poi prevalgono la forza dell’ideale e la passione del militante con la certezza di vedere un giorno il sovvertimento dell’ordine. Non a caso le conclusioni si intitolano La promessa dell’umanesimo rivoluzionario, come a indicare un destino ineluttabile, una visione teleologica della storia oggi fuori dai paradigmi scientifici correnti. Per chi, come me, non è pienamente convinto né dall’analisi di Harvey né dalla sua ricetta ultimativa, questo anticonformismo che lo protegge dalle mode di turno rappresenta il valore più grande: è il valore della libertà di pensiero, dell’autonomia intellettuale, il valore etico della ricerca che non si limita a trasmettere concetti (o peggio informazioni) ma si mette in gioco misurandosi su interrogativi forti. Harvey sente la propria responsabilità di intellettuale critico. La sua è una grande lezione civica che si rivolge, in generale, a ogni cittadino, ma che, in particolare, richiama gli intellettuali alle loro responsabilità. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI BAUDRILLARD J., Il sogno della merce, Milano, Lupetti, 1987. CASTREE N., David Harvey, in P. HUBBARD e R. KITCHIN (a cura di), Key Thinkers on Space and Place, Londra, Sage, 2011, pp. 234-241. DEBORD G., La société du spectacle, Parigi, Buchet-Chastel, 1967. HARVEY D., Social Justice and the City, Londra, Arnold, 1973. HARVEY D., The Limits to Capital, Oxford, Blackwell, 1982. HARVEY D., La crisi della modernità, Milano, EST, 1997 (ediz. originale: The Condition of Postmodernity, Londra, Blackwell, 1990). HARVEY D., Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Milano, Feltrinelli, 2014 (ediz. originale: Seventeen Contradictions and the End of Capitalism, Londra, Profile Books, 2014). Sulla legittimazione del discorso neoliberista 391 LEFEBVRE H., La production de l’espace, Parigi, Anthropos, 1974. SCHIELDS R., Henri Lefebvre, in P. HUBBARD e R. KITCHIN (a cura di), Key Thinkers on Space and Place, Londra, Sage, 2011, pp. 279-285. SCHMITT C., Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Milano, Adelphi, 2006 (ediz. originale: Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Lipsia, Reclam, 1942). TURCO A., Configurazioni della territorialità, Milano, Franco Angeli, 2010. ON THE LEGITIMACY OF THE NEOLIBERAL DISCOURSE AND THE MATERIAL AND SYMBOLIC DEVICES OF TERRITORIALITY. REFLECTIONS ON THE RECENT WORK OF DAVID HARVEY. – The thought of David Harvey has profoundly changed the history of geography, heralding a time that has seen it actively engaged in debate over the great social issues of our times. To his already rich repertoire the author has added a new work in 2014, Seventeen Contradictions and the End of Capitalism, in which he updates his criticism of the system of capital on the basis of events following the crisis, of financial origin, which exploded in the United States in 2007 with the bursting of the speculative bubble in the real estate sector and the corresponding collapse in market values. This article, while agreeing with the urgency to lay bare the inconsistencies underlying neoliberal logic and to draw critical attention to the dramatic results to which it leads on a social and ecological level, calls into question some developments that the critical reflections of Harvey have undergone over time. In particular, it focuses on the concept of production of space and on the latest interpretations of the ideas of Harvey regarding the question of territoriality. Lastly, the figure of this scholar is framed in the geographic landscape of today, which relegates him to a marginal position due to a lack of being in tune with dominant scientific paradigms. Università di Roma «La Sapienza», Dipartimento di Scienze Politiche [email protected]