Sulla legittimazione del discorso neoliberista e i dispositivi materiali

Transcript

Sulla legittimazione del discorso neoliberista e i dispositivi materiali
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA
ROMA - Serie XIII, vol. VIII (2015), pp. 383-391
EDOARDO BORIA
SULLA LEGITTIMAZIONE DEL DISCORSO
NEOLIBERISTA E I DISPOSITIVI
MATERIALI E SIMBOLICI DELLA TERRITORIALITÀ
RIFLESSIONI SULL’ULTIMO DAVID HARVEY
Produzione di spazio. – I meriti del pensiero di David Harvey non stanno solo nell’originalità dei contenuti proposti in modo brillante attraverso una ricca
produzione che ha riscosso riconoscimenti degni di un grande intellettuale dei
nostri tempi. I meriti riguardano infatti anche la lezione di impegno civile che
Harley ha trasmesso, con l’ambizione di rispondere a problemi complessi e con
l’immaginazione di pensare a soluzioni radicali in risposta a crisi di sistema.
Questo scritto, però, non tratterà i meriti di David Harvey quanto piuttosto, con
spirito critico, alcuni punti che emergono da una lettura evolutiva del suo pensiero e che interrogano la geografia sulle grandi questioni sociali dei nostri tempi.
Il primo aspetto, particolarmente problematico, riguarda il concetto di produzione di spazio, tema caro a Harvey che vi perviene su ispirazione di Henri Lefebvre (1974) contribuendo a farlo conoscere al pubblico anglosassone. Nella
formulazione corrente lo spazio geografico è fondamentalmente uno spazio sociale costantemente prodotto e riprodotto dai rapporti e dalle dinamiche di potere. Il dominio sullo spazio costituisce dunque in quest’ottica un’espressione
egemonica, mentre il territorio va trattato come una merce, interamente acquistabile e scambiabile come in un libero mercato.
Nonostante che sia Lefebvre sia Harvey siano attratti dalle realtà urbane, che
rappresentano un caso esemplare di produzione di spazio, i due si distinguono
per l’orizzonte di analisi: il primo lo estende alle molteplici forme di diffusione e
diversificazione di produzione di spazio comprendenti anche le attività dei servizi e quelle orientate al consumo; mentre il secondo, soprattutto nelle sue ultime opere, si concentra sulle forme materiali connesse alle attività produttive.
La prima elaborazione compiuta del concetto di produzione di spazio risale
in Harvey a The Limits to Capital del 1982. Lì venne formulata la nota spiegazione delle modalità attraverso le quali il sistema capitalista utilizza il territorio: se
ne serve durante le sue periodiche crisi di sovra-accumulazione in quanto con-
384 Edoardo Boria
sente di accogliere quegli investimenti in infrastrutture utili a smaltire in modo
redditizio il capitale in eccesso. In breve, si costruiscono ponti, edifici, strade eccetera per assorbire il plusvalore.
Nel suo ultimo libro Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo del
2014 Harvey torna sul tema, soprattutto nel capitolo su Sviluppi geografici disomogenei e produzione dello spazio, nel quale conferma che il capitale sfrutta i
divari geografici e fornisce argomentate considerazioni con dovizia di prove empiriche: ad esempio, relativamente alle grandi imprese che delocalizzano dove il
costo della manodopera è minore o tendono a concentrare le proprie sedi nei
centri del potere economico, finanziario e politico.
Però questi divari geografici sono destinati nel lungo periodo ad attenuarsi
perché il capitale si sposta abbandonando un’area e installandosi in un’altra più
redditizia. Anche a questo proposito Harvey offre molti esempi: la centralizzazione dei decisori oltre un certo limite abbassa la qualità di vita di quel luogo e
ne alza i costi (l’esempio più ricorrente è quello di New York, dove Harvey risiede); un basso costo del lavoro attira inizialmente le imprese, ma nel lungo
periodo tenderà ad alzarsi perché i lavoratori si organizzeranno, i prezzi della
terra e degli immobili saliranno eccetera.
Dunque, nella natura stessa del meccanismo capitalistico sarebbe insita una
duplice spinta contrastante: ad approfondire i divari geografici per sfruttare i differenziali di costo, ma anche a favorire il riequilibrio tra quegli stessi differenziali. Scrive Harvey: «La costruzione di un paesaggio geografico favorevole all’accumulazione di capitale in un’epoca diventa, per farla breve, un ostacolo all’accumulazione nella successiva» (2014, p. 158).
Questo fenomeno è di grande interesse per un geografo perché nei momenti di transizione, quando cioè si riconfigura un nuovo paesaggio, «si verificano
spostamenti di potere nelle forze che producono il paesaggio geografico del capitale» (ibidem, pp. 154-155). Ovviamente l’aspetto interessante non sta nei divari geografici in sé, facilmente osservabili, quanto nelle dinamiche e nei fattori
che li innescano. Su questi fattori Harvey si interroga e spiega, in modo convincente, come agisce il capitale nella produzione degli elementi materiali congeniali a favorire il processo di accumulazione capitalistica e di massimizzazione
del profitto, ma non ritiene altrettanto importante chiedersi se e come il capitale
interviene sugli elementi simbolici della produzione di spazio. Nell’intero capitolo sulla contraddizione geografica (l’undicesimo) non c’è una sola parola dedicata agli elementi simbolici. L’interesse è esclusivamente rivolto ai sistemi di reificazione che operano nella produzione di spazio, mentre ci si disinteressa dei
sistemi di simbolizzazione.
La conseguenza rilevante per la geografia di questo modo di pensare è che
lo spazio simbolico non ha molto valore. Eppure ogni trasformazione sociale
comporta e richiede un’egemonia anche nel dominio simbolico della territorialità. Senza risalire a Durkheim, che pure già considerava lo spazio come categoria sociale soggetta ai mutamenti della storia, tanti autori si sono occupati di
Sulla legittimazione del discorso neoliberista 385
questo argomento (1). Tra questi autori figura lo stesso Harvey, ma pare averlo
dimenticato nella sua ultima opera. Harvey pare cioè aver dimenticato oggi una
cosa di cui lui stesso ha persuaso molti, e cioè che «ogni progetto di trasformazione della società deve affrontare decisamente il complesso problema della trasformazione dei concetti e delle pratiche spaziali e temporali» (Harvey, 1997, p.
268). Quest’obiettivo spinge a ritenere che «il potere nel campo delle rappresentazioni può finire per essere importante quanto il potere sull’aspetto materiale
dell’organizzazione spaziale stessa» (ibidem, p. 286).
Trascurare tali considerazioni non è senza conseguenze di rilievo, soprattutto
se, come intende fare Harvey, ci si muove in una direzione di contestazione serrata e attiva alla logica del capitale. Infatti, le citazioni precedenti ci ricordano
che le rappresentazioni della realtà condizionano fatalmente le pratiche, e allora
ogni reazione alla logica imposta dal modello capitalistico e alle sue conseguenze deve intervenire, prima ancora che sulle pratiche, sulle rappresentazioni. Sarebbe questo il livello decisivo per riterritorializzare il mondo.
Ci sarebbe dunque, nell’ultimo Harvey, un ripensamento forse indotto da
una ristretta e meccanica adozione della prospettiva materialista, che finisce per
fornire spiegazioni tecniche impedendogli di cogliere l’aspetto decisivo dato dall’importanza degli elementi cognitivi, percettivi e simbolici della produzione di
spazio. All’attenzione che Harvey rivolge alle forme materiali attraverso le quali
il dominio del capitale si manifesta, non corrisponde un’analoga attenzione alle
forme simboliche attraverso le quali il dominio del capitale si rappresenta costruendo il proprio discorso e le proprie narrazioni. Detto in altre parole, delle
tre dimensioni – simbolica, materiale e organizzativa – attraverso cui si dispiega
la territorializzazione (Turco, 2010), Harvey si disinteressa della prima. C’è sicuramente la dimensione materiale, c’è in abbondanza quella organizzativa, ma
quella simbolica rimane solo accennata. Perché? Eppure è evidente che il capitalismo ha bisogno di continue legittimazioni per nascondere le proprie contraddizioni, quelle contraddizioni che Harvey evidenzia così bene. Ecco, Harvey
non si interessa all’estetizzazione del discorso capitalistico, che pure si rivela
vincente se riesce a celare così bene tutte le contraddizioni che contiene in sé.
La scelta di Harvey di privilegiare i processi materiali su quelli simbolici si giustifica sulla base della convinzione che siano questi ultimi a dare sostanza alle
concezioni sociali dello spazio (e anche del tempo). Cioè, sarebbe solo a partire
dai processi materiali che le comunità umane sviluppano le loro spazialità, il loro
(1) Ad esempio Carl Schmitt (2006, pp. 58-59): «Ogni grande trasformazione storica comporta
quasi sempre un mutamento dell’immagine di spazio. È questa la vera essenza del grande mutamento politico, economico e culturale che allora si realizza». Con altri obiettivi, ma riconducibile a medesime considerazioni di fondo, è il pensiero di Angelo Turco (2010, p. 111): «La più universale delle
pratiche trasformative attiene al dominio simbolico: l’ordine umano viene impresso al mondo non
solo e non tanto grazie all’alterazione della sua materialità, ma primariamente – e se adottiamo una
prospettiva storica diremmo soprattutto – grazie alla manipolazione intellettuale».
386 Edoardo Boria
senso dello spazio. L’interpretazione dello spazio sociale risulta pertanto guidata
da ciò che succede nello spazio della produzione materiale, o che è direttamente
funzionale alla produzione materiale. In questa prospettiva, i cambiamenti nella
sfera produttiva della società determinano i cambiamenti nella sfera culturale. La
logica del capitale determina la vita culturale. E una prova che Harvey fornisce
viene dalla mercificazione della cultura: l’arte, la qualità di un artista o di un oggetto sono sempre più valutate in termini monetari. Questo costituirebbe una
prova della vittoria della logica del capitale, che misura tutto in termini di valore
di scambio. È dunque la struttura economica che naturalizza tutto, producendo e
riproducendo instancabilmente l’ordine sociale e legittimando sé stessa.
Tuttavia, un’analisi tutta concentrata sulla sfera materiale, da cui si fa discendere in modo automatico e non problematico la sfera emozionale, non tiene
conto del ruolo delle culture visuali, che mediano tra le due sfere. La produzione di senso, che poi innesca percezioni, sensibilità e comportamenti, non è data
solamente dalla sfera materiale, ma da complessi rapporti con l’universo simbolico dei luoghi e con la dimensione simbolica della territorialità.
Nel recupero della capacità di ripensare sé stessi nel luogo sta uno strumento importante di resistenza alle politiche neoliberiste. Lo stesso Harvey lo ammette esplicitamente quando scrive che l’unica speranza di resistere per l’anticapitalismo è recuperare la dimensione locale: «I movimenti anticapitalisti debbono abbandonare ogni idea di uguaglianza regionale e di convergenza verso
qualche teoria di armonia socialista. Queste sono ricette per una monotonia globale inaccettabile e irraggiungibile. I movimenti anticapitalisti devono liberare e
coordinare le loro dinamiche di sviluppo geografico disomogeneo, la produzione di spazi emancipativi di differenza, per reinventare ed esplorare alternative al
capitale regionali e creative» (Harvey, 2014, pp. 165-166).
Ogni forma di resistenza anticapitalistica, ogni azione di contestazione al sistema del capitale deve dunque per Harvey necessariamente adattarsi al contesto locale evitando di cadere nella trappola universalistica. Assumere un punto
di vista locale per combattere una forza a vocazione universale. Questo punto di
attenzione al contesto locale è dunque presente in Harvey in termini di indicazioni generali sulla strategia di lotta, ma non riguarda le pratiche di resistenza, a
causa del disinteresse verso la dimensione simbolica della territorialità.
La circostanza che le politiche neoliberiste lavorino sulla rimozione delle
identità, sull’esclusione di gruppi sociali, sulla marginalizzazione geografica (tutti processi facilmente visibili nelle periferie urbane), dovrebbe invece suggerire
di lavorare sulla simbolizzazione e sulla memoria dei luoghi per contrastare le
politiche neoliberiste su quel terreno strategico che è la territorializzazione. L’aggressività del neoliberismo si vede proprio nell’incessante ridisegno – prima
simbolico e poi materiale – degli spazi delle collettività.
Il primo diritto violato dal neoliberismo, l’atto più violento che commette ai
danni delle collettività, è l’esproprio del diritto di scegliersi la propria territorialità. Le comunità oggi subiscono una territorializzazione che è eterocentrata,
Sulla legittimazione del discorso neoliberista 387
cioè stabilita dall’esterno. Come i cittadini delle colonie vedevano i loro luoghi
riterritorializzati da un attore esterno (il colonialista), così oggi tutto il mondo subisce le violente pratiche della colonizzazione da parte del capitale. Così si
esprime il dominio del capitale. Ma Harvey, inaspettatamente, pare sottovalutare
il tema della territorialità. E lo fa proprio nella fase in cui appare chiaro che, se
non si recupera la capacità degli individui e delle comunità di sentirsi artefici
nella vicenda storica dei luoghi, non è possibile attivare in modo efficace nessuna pratica, né di tipo memoriale né di tipo progettuale.
In assenza di un’efficace contronarrazione, il capitalismo ha gioco facile perché impone una descrizione del mondo conforme ai propri interessi, cioè in
grado di comunicare e trasmettere il territorio in linea con la propria ideologia
universalistica. Anche su questo piano della comunicazione Harvey, pur riconoscendone la rilevanza (2014, p. 107), ritiene di non dover approfondire. Invece
mi pare pericoloso disinteressarsi di questa dimensione discorsiva, perché l’egemonia del capitale si esprime anche attraverso l’egemonia delle rappresentazioni, motivata dall’assunto che esercitare il potere sul territorio significa non solo
controllarlo fisicamente, ma anche poterlo rappresentare nel circuito della comunicazione in modo conforme ai propri interessi.
Invece la prospettiva marxista porta Harvey a concentrarsi sulla produzione
materiale lasciando in secondo piano la produzione discorsiva. Già anni fa Jean
Baudrillard (1987) e prima ancora Guy Debord (1967) allertavano circa la potenza della pubblicità, che non promuove più singoli prodotti, ma ambisce a definire gusti e diffondere valori. Oggi le loro riflessioni sulla valenza strategica della
dimensione discorsiva mi sembrano non solo sempre valide, ma ancora più apprezzabili di prima. L’ultimo Harvey liquida invece ogni ragionamento sui dispositivi normativi della vita sociale al conflitto per i mezzi di produzione. Sparisce
Foucault, sparisce de Certeau. La governamentalità diventa meccanica, esaurita
all’interno di pratiche materiali di potere; la dimensione simbolica e discorsiva
della governamentalità è di fatto esclusa.
Però, se tutto è spiegato in termini meramente materialistici di sfruttamento capitalistico, dubito che si riescano a comprendere, e tantomeno a contrastare, alcuni conflitti dei nostri tempi in cui lo scontro avviene essenzialmente sul terreno
culturale; ad esempio, risulterebbe piuttosto complicato opporsi con l’armamentario teorico di Harvey alla deriva razzista e xenofoba di questi anni, che si alimenta soprattutto di populismo e miseria intellettuale più che di miseria materiale. E
un ragionamento analogo si potrebbe fare per le discriminazioni di genere.
In questa prospettiva perde efficacia anche quella categoria analitica che risulta insostituibile nella costruzione di Harvey, e cioè la classe. Per Harvey la divisione in classi rimane la spiegazione fondamentale dei conflitti sociali. Ma siamo veramente sicuri che le dinamiche e le pratiche di dominio di un gruppo sociale su un altro oggi si dispieghino attraverso le divisioni di classe, che Harvey
interpreta fedelmente in termini di possesso dei mezzi di produzione? In una società fluida dove le identità tendono ininterrottamente a frammentarsi, interse-
388 Edoardo Boria
carsi, incrociarsi e accavallarsi, considerare la classe come la categoria più rappresentativa dei nostri tempi e la più utile all’azione anticapitalista potrebbe rappresentare una forzatura, mentre invece potrebbe risultare più proficuo pensare
ad aggregazioni sociali costruite attorno a criteri alternativi a quelli basati sui
rapporti di produzione.
Harvey e la geografia. – Nella sua ostinata adesione alla prospettiva materialista e nella fiducia verso un grande schema narrativo di tipo storicista, Harvey si
conferma profondamente anti-postmoderno. Vive con evidente fastidio questo
tornante storico delle scienze sociali, perché dalla sua ottica il rifiuto postmoderno delle ideologie impedisce di pensare in modo costruttivo alla realtà dell’economia politica, delle disuguaglianze e delle discriminazioni.
In questo suo atteggiamento c’è un’attitudine anticonformista. Harvey si disinteressa di novità decisive che hanno profondamente segnato gli studi geografici negli ultimi anni: il decostruzionismo, la svolta spaziale, la svolta culturale e
quella post- o neo-fenomenologica hanno mutato il paradigma scientifico disciplinare condizionando i modi di riflettere e di lavorare di tanti geografi, ma Harvey non se ne cura. Fa bene? Fa bene, cioè, a prendere le distanze dai suoi colleghi, che cita sempre più raramente, non riconoscendosi più nell’album di famiglia e anzi ponendosi in netta contrapposizione al mainstream geografico di
questi tempi?
La pertinenza della domanda non sta nella rivendicazione di una specificità
disciplinare sempre meno significativa nel contesto attuale delle scienze sociali,
votato allo scambio di esperienze tra settori diversi (pur nel riconoscimento che
David Harvey ha rappresentato per anni uno spot vivente per la geografia, in
grado di farne conoscere all’esterno le potenzialità ermeneutiche e le sensibilità
per le questioni sociali). Piuttosto, interrogarsi sul rapporto tra Harvey e la geografia è un utile pretesto per riflettere sulla direzione che la geografia ha preso
negli ultimi anni.
Nel primo Harvey c’era molta concettualizzazione del territorio. In quest’ultimo, tale tensione speculativa mi pare decisamente affievolita. Oggi Harvey fa un
uso accessorio della categoria «territorio». In effetti, per sviluppare la propria visione del mondo, ad Harvey non serve il territorio e dunque non serve la geografia, che infatti nell’ultimo libro non c’è. Un giudizio netto non mitigato dalla
circostanza che un intero capitolo di quel libro sia dedicato alla contraddizione
tra capitale e natura, perché in quelle pagine si fa riferimento esclusivamente alla questione ambientale, che è questione di portata enorme in quanto in fondo
rappresenta l’unico vero conflitto sociale rimasto (addirittura più divisivo del
conflitto sul tema del lavoro), ma che non prevede alcuno sforzo concettuale sul
territorio. Dunque, se pure qualche riferimento al territorio c’è in quest’ultimo libro, non si tratta di un dato problematico. Sul territorio si scaricano alcune delle
contraddizioni del capitalismo, ma è solo la scenografia di fondo.
Sulla legittimazione del discorso neoliberista 389
L’ultimo Harvey non è più quello di Social Justice and the City (1973), e
neanche quello del diritto alla città, dove la geografia era insieme prodotta dal
capitalismo, ma anche un’arteria del capitalismo. Lo spazio era prodotto dalle
pratiche del capitale, ma questa stessa realtà spaziale, una volta prodotta, veniva
a esercitare limiti al libero fluire del capitale condizionandone le scelte. Erano
gli effetti sociali della spazialità. Una spazialità attiva. Ora, invece, non c’è una
sola riflessione sul senso culturale, relativo e contingente della spazialità umana.
Oggi Harvey smette di guardare ai processi storici anche in quanto processi spaziali. Esattamente come ha fatto un secolo e mezzo fa il suo mentore Karl Marx.
Harvey smette di fare il geografo marxista per diventare, apparentemente,
marxista e basta.
Perché Harvey parla sempre meno di territorio? Non credo si tratti di un cambiamento di interessi. Se così fosse non ci sarebbe da preoccuparsi. Forse invece, purtroppo, c’è una verità nascosta che sarebbe molto preoccupante per i
geografi: se si vogliono studiare i meccanismi profondi di questa società – come
fa Harvey – il territorio non è più un fattore determinante perché il capitalismo
finanziario ne ha annullato la funzione strumentale al processo di accumulazione capitalistica.
L’economia mondiale basata sul sistema capitalistico connette i luoghi per
esigenze che sono universali e dunque indifferenti alle loro specificità. Forse ad
Harvey non interessa più tanto il territorio perché non vede più alcuna strategia
spaziale nel capitalismo iperfinanziarizzato: non è più l’infrastrutturazione del
territorio alla base della redditività dell’attività economica, e dunque il territorio
perde interesse perché non spiega più la distribuzione di ricchezza e di potere.
La «soluzione spaziale», che ancora pochi anni fa lui intravedeva come sfogo alla
sovraccumulazione e alla crisi del capitalismo (gli investimenti in infrastrutture
di cui si è detto all’inizio), oggi è superata perché la sovraccumulazione trova
sfogo in soluzioni finanziarie nuove, strumenti speculativi inventati dal turbocapitalismo finanziario.
Porre il capitalismo finanziario alle radici della deterritorializzazione porta
Harvey a negare valore al territorio e quindi anche alla geografia, che è capacità
performativa di ripensare il territorio. Escludendo che il territorio abbia ancora
una rilevanza nei processi economici, automaticamente il ragionamento depotenzia la possibilità delle comunità di conservare una propria efficacia nell’iniziativa territoriale. L’indifferenza geografica imposta dal capitale starebbe dunque ridimensionando il territorio, con il conseguente declassamento della geografia. L’analisi di Harvey dovrebbe dunque essere fonte di preoccupazione per
i geografi.
L’Harvey che in passato ha riconosciuto e dimostrato la centralità dei luoghi,
quando ha parlato di crisi della modernità e di città, oggi non la riconosce più
come centrale. Quando parlava di crisi della modernità, individuava le specificità dei luoghi come un fattore di diversificazione del fenomeno: della crisi della modernità di cui parla nel famoso libro omonimo ci dice che ha avuto accen-
390 Edoardo Boria
ti diversi a Parigi o a New York, e ci mostra l’importanza di un’analisi che tenga
conto dei luoghi. In quest’ultimo libro i luoghi sono sostanzialmente neutrali:
non sono un fattore, ma solo una manifestazione inerte, un’espressione puramente passiva del fenomeno.
C’è solo un aspetto in cui i luoghi riguadagnano la loro specificità ed eterogeneità: nella fase della proposta, quando Harvey elabora la sua ricetta. Lì dice
che l’azione anticapitalista può essere efficace solo se si emancipa da una visione di socialismo universale e recupera le potenzialità dei luoghi; se cioè la resistenza è localizzata, declinata in modo diverso da luogo a luogo. Se cioè assume
forme adatte al contesto locale. È da lì, dai luoghi, che un’azione di resistenza
all’egemonia del capitale può lanciare la propria sfida. Nel sottolineare lo sfruttamento dei luoghi da parte del capitale, oltre che delle persone, Harvey rivela,
proprio nell’opera dove c’è meno geografia nel senso canonico, la sua originaria
estrazione geografica. La sua proposta parte infatti dalla reazione del geografo
che si ribella all’annichilimento dei luoghi. Ma poi prevalgono la forza dell’ideale e la passione del militante con la certezza di vedere un giorno il sovvertimento dell’ordine. Non a caso le conclusioni si intitolano La promessa dell’umanesimo rivoluzionario, come a indicare un destino ineluttabile, una visione teleologica della storia oggi fuori dai paradigmi scientifici correnti.
Per chi, come me, non è pienamente convinto né dall’analisi di Harvey né
dalla sua ricetta ultimativa, questo anticonformismo che lo protegge dalle mode
di turno rappresenta il valore più grande: è il valore della libertà di pensiero,
dell’autonomia intellettuale, il valore etico della ricerca che non si limita a trasmettere concetti (o peggio informazioni) ma si mette in gioco misurandosi su
interrogativi forti. Harvey sente la propria responsabilità di intellettuale critico.
La sua è una grande lezione civica che si rivolge, in generale, a ogni cittadino,
ma che, in particolare, richiama gli intellettuali alle loro responsabilità.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
BAUDRILLARD J., Il sogno della merce, Milano, Lupetti, 1987.
CASTREE N., David Harvey, in P. HUBBARD e R. KITCHIN (a cura di), Key Thinkers on
Space and Place, Londra, Sage, 2011, pp. 234-241.
DEBORD G., La société du spectacle, Parigi, Buchet-Chastel, 1967.
HARVEY D., Social Justice and the City, Londra, Arnold, 1973.
HARVEY D., The Limits to Capital, Oxford, Blackwell, 1982.
HARVEY D., La crisi della modernità, Milano, EST, 1997 (ediz. originale: The Condition
of Postmodernity, Londra, Blackwell, 1990).
HARVEY D., Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Milano, Feltrinelli, 2014
(ediz. originale: Seventeen Contradictions and the End of Capitalism, Londra, Profile
Books, 2014).
Sulla legittimazione del discorso neoliberista 391
LEFEBVRE H., La production de l’espace, Parigi, Anthropos, 1974.
SCHIELDS R., Henri Lefebvre, in P. HUBBARD e R. KITCHIN (a cura di), Key Thinkers on
Space and Place, Londra, Sage, 2011, pp. 279-285.
SCHMITT C., Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Milano, Adelphi, 2006
(ediz. originale: Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Lipsia, Reclam,
1942).
TURCO A., Configurazioni della territorialità, Milano, Franco Angeli, 2010.
ON THE LEGITIMACY OF THE NEOLIBERAL DISCOURSE AND THE MATERIAL AND
SYMBOLIC DEVICES OF TERRITORIALITY. REFLECTIONS ON THE RECENT WORK OF
DAVID HARVEY. – The thought of David Harvey has profoundly changed the history of
geography, heralding a time that has seen it actively engaged in debate over the great social issues of our times. To his already rich repertoire the author has added a new work
in 2014, Seventeen Contradictions and the End of Capitalism, in which he updates his
criticism of the system of capital on the basis of events following the crisis, of financial
origin, which exploded in the United States in 2007 with the bursting of the speculative
bubble in the real estate sector and the corresponding collapse in market values. This article, while agreeing with the urgency to lay bare the inconsistencies underlying neoliberal logic and to draw critical attention to the dramatic results to which it leads on a social and ecological level, calls into question some developments that the critical reflections of Harvey have undergone over time. In particular, it focuses on the concept of
production of space and on the latest interpretations of the ideas of Harvey regarding the
question of territoriality. Lastly, the figure of this scholar is framed in the geographic
landscape of today, which relegates him to a marginal position due to a lack of being in
tune with dominant scientific paradigms.
Università di Roma «La Sapienza», Dipartimento di Scienze Politiche
[email protected]