110526 Rivali Davenia - Centro Culturale di Milano

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110526 Rivali Davenia - Centro Culturale di Milano
per il ciclo
Riscoperte e nuovi orizzonti
presentazione del libro
“La caduta di Bisanzio”
di Alessandro Rivali (Ed. Jaca Book)
incontro con
Alessandro D’Avenia, professore e scrittore
Alessandro Rivali, poeta e autore del libro
Lettura poetica dell’autore con accompagnamento al
pianoforte di Gianmario Liuni
Sala Verri di via Zebedia 2, Milano
Giovedì 26 maggio 2011
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Via Zebedia, 2 20123 Milano
tel. 0286455162-68 fax 0286455169
www.cmc.milano
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presentazione libro “La caduta di Bisanzio”
CAMILLO FORNASIERI: Quella di oggi è la lettura poetica dedicata al lavoro di Alessandro
Rivali che ci dà l’occasione di riprendere, ad un anno dalla sua uscita, La caduta di Bisanzio, che
continua ancora a mantenere la forza che fin dall’inizio fu ammirata dai primi lettori e critici. È un
titolo grave ma, come ascolteremo dai versi, con una grande forza di immedesimazione, di passione
per la storia dell’uomo.
È tanto tempo che pensiamo e concepiamo questi momenti dedicati alla poesia. Avremo infatti un
altro incontro il primo di giugno con due autori, Nicola Bultrini e Claudio Damiani, e con altre case
editrici (oggi c’è Jaca Book che ha iniziato una collana dedicata alla poesia). Varie case editrici
hanno ricominciato in questi anni a dedicarsi alla poesia, soprattutto agli autori giovani e anche
maturi che continuano a scrivere poesie, perché questa sta riconquistando un posto, un luogo, nella
società. Noi però vogliamo comunque fare in modo che non sia una nicchia dorata o un grande
magazzino dove la poesia ritorna, si rifà, senza giudicare più nulla; per questo, per fare un lavoro di
ascolto, di incontro appassionato con Alessandro Rivali, questa sera siamo contenti di avere altri
due sue amici, altre due persone molto importanti, che sono Alessandro D’Avenia, scrittore e
professore qui a Milano, amico del Centro Culturale, che ci introdurrà alla comprensione, a una
visione iniziale di questo lavoro, e Gianmario Liuni, pianista e compositore, che ha pensato a delle
musiche che accompagneranno la lettura poetica.
Noi abbiamo sempre voluto, o meglio, abbiamo imparato dai poeti che la parte importante è la
lettura poetica, ascoltare non dagli attori, ma dagli autori stessi le parole con cui hanno voluto
entrare nella vita, entrare nel mondo. Quindi cominciamo questo dialogo, grazie.
ALESSANDRO D’AVENIA: A me l’ingrato compito di introdurre il poeta. Io sono un narratore,
quindi ho un rapporto con le parole più semplice, il vero protagonista è lui. Sono qui per ragioni
d’amicizia, faccio da spalla, quindi la prima cosa che vi voglio dire è di comprare il libro, se non
l’avete ancora fatto, e io vi racconterò un po’ il dietro le quinte di questo libro.
Quello che ci unisce è una consuetudine, ormai di vari anni, nata, lo possiamo dire, sui campi di
calcio. È il ritratto di Alessandro che ascriverei non alla categoria dei poeti maturi, ma a quella dei
giovanissimi, nonostante la canizie, che però indicano una saggezza e un’esperienza ormai
acquisita. Alessandro, fin dai primi tempi in cui ci siamo conosciuti, è sempre stato un uomo di
grandi passioni, di passioni assolute come le definisce lui un po’ esagerando, e lo si vedeva già da
come si muoveva sul campo di calcio, su cui doveva essere assolutamente protagonista tanto da
arrabbiarsi se non gli passavo mai la palla.
Cosa c’entra questo con la poesia? Beh oggi si ha un’idea del poeta come essere solitario, piuttosto
silenzioso, magari anche un po’ ingobbito, nascosto nella sua stanza, che insomma scrive versi. E
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invece vi posso assicurare che questa immagine va un po’ rivista. Questo mito viene dal
romanticismo, ma basta conoscere Alessandro per ridimensionarlo un po’, vi basterà sentirlo
parlare. Credo che lo scrittore e il poeta siano persone che stanno in mezzo al mondo e riempiono
la loro vita di relazioni perché, per poter scrivere, bisogna ascoltare molto altrimenti è impossibile
scrivere anche solo una riga; e per poter ascoltare bisogna interagire con il mondo, ascoltare le cose,
le persone, altrimenti i versi non nascono. Per questo motivo potrei definire Alessandro una persona
dalla voracità assoluta, dalla passione verso la realtà sconfinata. Ve lo dico non per piaggeria o
semplicemente perché devo fargli da spalla ma perché è vero. È un uomo capace di appassionarsi di
tutto, dai processi di vetrificazione del vetro, cioè come nasce il vetro, alle Rime di Michelangelo;
dai Misteri dell’Apocalisse di san Giovanni (chi leggerà il libro lo scoprirà), alle tragedie più alte
del calcio italiano. Lui tifa Sampdoria, ho seguito recentemente questo dramma insieme a lui e vi
assicuro che la passione con cui lui vive la caduta di una città storica come Bisanzio, è la stessa con
cui vive la caduta di una squadra di calcio che ha sempre amato da quando era bambino, che adesso
viene accolta amorevolmente tra le braccia dei mediocri della serie B.
L’ho visto anche lavorare a questo libro, perché ci è capitato di scrivere in contemporanea i due
libri, il suo di poesia e il mio di narrativa, e c’è stato un momento in cui avevamo bisogno di una
pausa di silenzio, per far poi precipitare sulle nostre pagine quello che avevamo visto e ascoltato in
giro per il mondo. Perciò c’è stata una simpatica fuga da Milano di tre-quattro giorni che si è
consumata poi nella meravigliosa pineta di Arenzano, in Liguria (Alessandro è ligure come si
capisce molto dai suoi versi). In questi casi è molto bello perché la mamma di Alessandro fornisce
derrate alimentari necessarie alla sopravvivenza e a più della sopravvivenza. Quindi, tra una pasta al
pesto e una mozzarella di bufala, si consumava questo rito creativo per cui lui scriveva i suoi versi,
io scrivevo la mia prosa e in qualche maniera questi due mondi si sono anche mescolati: ad un certo
punto del mio libro si racconta della distruzione di alcune città e anche delle loro biblioteche e, tra
queste, anche di quella di Bisanzio. Siccome mi ossessionava con questa idea di Bisanzio,
inevitabilmente, mentre scrivevo il libro, è precipitato dentro anche questo. Così come, lo svelo, la
sezione dedicata a Magellano e a Pigafetta nel libro un po’ è merito mio perché mi stavo dedicando
anche a questo aspetto, affascinato dalle conquiste dei grandi conquistatori del Cinque-Seicento e
quindi è entrata un po’ tra le righe del romanzo.
Passiamo alle cose serie: dopo avervi dato un ritratto umano di Alessandro, io mi vorrei soffermare
un attimo su che cosa chiediamo noi alla poesia e che cosa ci può dare la lettura del libro di
Alessandro. Recentemente è uscito un libro che mi è piaciuto molto e che s’intitola Un cuore
intelligente, che comincia così: «Il re Salomone implorava l’Altissimo di concedergli un cuore
intelligente. Alla fine di un secolo devastato dai delitti incrociati dei burocrati, ovvero di
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un’intelligenza unicamente strumentale, e degli ossessi, ovvero di un sentimentalismo rozzo,
binario, astratto e sovranamente indifferente ai destini individuali, alla loro singolarità e fragilità, la
preghiera per ottenere la sagacia affettiva conserva, come già osserva Hannah Arendt, tutto il
proprio valore». È questo un libro dedicato appunto a scrittori, contiene alcuni saggi di letteratura in
cui questo critico addita nella letteratura una possibilità di recuperare questa sagacia del cuore,
recuperare una dimensione intelligente dei propri sentimenti: io dico appunto essere cuori pensanti
o teste accorate. Credo che la poesia sia un po’ una scorciatoia, in questi tempi o così sentimentali o
così freddi nei confronti della realtà, tempi di pensiero esclusivamente calcolante, strumentale: i
miei alunni si lamentano del fatto che il latino non serve a niente e quindi andrebbe abolito dal
curriculum dello scientifico, perché è valido solo ciò che produce valore. L’intelligenza
contemplativa, invece, che si sa soffermare sulle cose e guardarle e lasciarle essere quello che sono,
si è un po’ ritirata, la stiamo perdendo. Perdendo l’intelligenza che sa contemplare, l’intelligenza
che sa guardare senza trasformare le cose, perdiamo la nostra umanità. La poesia è forse un po’ una
scorciatoia antropologica per riconciliare il nostro essere in queste sue due dimensioni che si fanno
normalmente la guerra nelle nostre vite, ma in particolare nella cultura di oggi: la divisione fra
questi due aspetti fondamentali del nostro essere sembra che abbia bisogno di una riconciliazione
maggiore. Ho letto qualche tempo fa la storia di un padre ricco – così ci introduciamo ad un tema a
me molto caro – che accompagna il figlio su un colle e gli fa vedere lo sconfinato panorama di una
città e dice: «Un giorno tutto questo sarà tuo». Su quello stesso colle sale un padre povero con suo
figlio, si rivolge al figlio e dice solo: «Guarda». Allora noi forse dovremmo imparare ad essere un
po’ più poveri, a non voler possedere a tutti i costi le cose per poterle guardare e la poesia forse ci
insegna questo rispetto delle cose. Mi viene in mente un'altra storia: ci sono un brigante, un uomo
ricco, un monaco e un saggio che stanno camminando insieme e a un certo punto vedono una
bellissima grotta e il brigante a vederla dice che quello sarebbe il luogo ideale per nascondersi dopo
i furti, il monaco dice che quello sarebbe il luogo ideale per rifugiarsi nei i momenti di preghiera, il
ricco dice che quello sarebbe il luogo ideale per conservare tutte le ricchezze, il saggio si ferma a
contemplare la grotta e dice: «Che bello!». Questo non piegare le cose alle nostre intenzioni credo
che sia un aspetto di crescita di questa cultura contemporanea, perché impariamo a far sì che le cose
siano ciò che sono. Lo vedo tutti i giorni in classe con i miei alunni: la fatica di non voler
determinare a tutti i costi quello che io penso di loro e far diventare loro i miei progetti su di loro;
invece io sono lì per incoraggiare le loro esistenze e mettermi al loro servizio. È faticoso perché
sostanzialmente vogliamo avere potere su questa realtà: l’altro polo dell’amore è il potere, il
controllo, ma siccome poi la realtà non la possiamo controllare ci sfugge. Dopo una bellissima
lezione di poesia su Ungaretti in cui mi ero prodotto in una spiegazione piuttosto interessante, una
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mia alunna ha alzato la mano e ha detto: «Professore lei dovrebbe leggere un po’ meno poesia e
guardare un po’ di più il Grande Fratello». Sono momenti di grande rivelazione per un insegnante
che ti fanno chiedere perché non hai fatto mestieri immediatamente più utili e anche magari più
redditizi, ma nello stesso tempo ti rendi conto che hai portato lì una differenza. La cultura di oggi
dominata dal relativismo rende le persone indifferenti, perché il relativismo è non porre differenze
tra le cose, tutto è uguale e tutto è segnalabile o non segnalabile. Io che sono un insegnante devo
segnalare qualcosa, ma segnalare Dante o segnalare il Grande Fratello non conta, sono ugualmente
validi e non validi. Nel momento in cui una ragazza mi provoca su questo terreno qui mi sta
dicendo: “Lei oggi in classe ha segnalato una differenza; per favore può tornare nel mondo piccolo
e brutto del Grande Fratello e non ricordarmi che nella realtà ci sono cose così grandi e belle come
quelle che ci ha raccontato oggi? Perché da oggi devo cominciare a decidere”. Quando si portano le
differenze costringi le persone a non essere indifferenti. La parola indifferenza è proprio questo:
non cogliere più le differenze tra le cose. La pianto qui e dico solo come ultima cosa quello che la
lettura del testo delle poesie di Alessandro mi ha regalato. È l’ultima parte del libro, che è quella
che amo di più: si parla molto del rapporto di questo io lirico, che è questo sguardo che passa nella
storia; è una poesia ispirata alla storia e per questo anche abbastanza unica, nuova, che privilegia il
filone dantesco più di quello petrarchesco. Dà l’immagine di questo padre, che ogni tanto torna, che
è un padre anelato, desiderato, che si manifesta in questa maniera: «le fiamme sembravano
avvolgerlo / mentre cercava la voce del padre / sotto il mantello della Porale».
Oppure: «l’arrivo del Mosè ulteriore, / e poter dialogare da figlio, / senza più diaframma o roveto, /
sfiorando con le dita la bocca di Dio». Oppure ancora: «Era conclusa / l’alternanza tra sogno e
sangue, / contemplava infine / l’epicentro e la bellezza del fuoco» (ma qui la parola padre non c’era
e non era un passo che dovevo citare, mi sono sbagliato). Leggendo queste poesie, questa ricerca,
questa sete del padre mi ha ricordato quel passaggio del Vangelo che amo molto in cui c’è uno dei
discepoli di Cristo che a un certo punto dice a Cristo: “Mostraci il Padre, ci basta” (Gv, 14,8.).
Credo che quest’ultima parte dell’opera di Alessandro riveli questa grande nostalgia e riponga
questa grande domanda: “C’è la possibilità dietro le quinte delle cose con cui abbiamo a che fare
tutti i giorni di dialogare con un padre? Perché ci basterebbe questo”. Come dice Filippo:
“Mostrarci il Padre e ci basta”. Nelle poesie finali di Alessandro c’è questa sete, questo desiderio di
vedere questo sguardo, di poter parlare con lui faccia a faccia, occhi negli occhi in un momento
della propria vita in cui non è proprio facile farlo perché non si fa vedere, si nasconde; è per questo
che come Filippo ci viene da dire “Mostraci il Padre e ci basta”. Ultimamente, verso la fine
dell’anno – Maggio è il mese più crudele a scuola, benché il poeta dicesse che fosse Aprile, invece
in realtà è Maggio – abbiamo affrontato il penultimo canto dell’Inferno in cui si colloca la storia
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drammatica del conte Ugolino. Ci chiedevamo in classe ancora una volta (e finalmente forse un po’
l’ho scoperto): perché il culmine dell’Inferno è Ugolino? Prima di vedere faccia a faccia il demonio
Dante ha a che fare con un padre rinchiuso nella stessa torre con i suoi figli, e questi figli, tra le
righe dei versi di Dante, probabilmente verranno divorati dal padre, o realmente o metaforicamente.
Comunque quel verso è terribile, del digiuno che supera il dolore, ci parla di questo. Mi chiedevo
ancora una volta con i miei alunni: ma perché questo per Dante è il culmine dell’inferno? Perché
Dante, in questo canto, sceglie non di raccontare il peccato che il dannato ha compiuto (che è il
motivo per cui si torva in quel girone) ma è uno, forse l’unico caso in cui non si racconta che
peccato ha fatto? Dante sceglie di raccontare che invece è chiuso in una torre con i suoi figli e
brancola nel buio con i suoi figli che ben tre volte chiedono con la parola “padre” che li sfami:
“Padre perché non ci aiuti?”. Addirittura a un certo punto chiedono al padre di mangiare le loro
carni perché lui si salvi. Allora finalmente si è illuminata una luce, dialogando con i miei ragazzi,
perché il culmine dell’inferno è questo. Dante costruisce l’inferno come anti-paradiso. È un padre
che divora i figli, anziché un padre che genera la vita, che dà la vita per i propri figli, e per questo
credo che Dante collochi questa vicenda proprio al XXXIII dell’Inferno, perché c’è un padre che
guardando in faccia questi quattro ragazzi, forzosamente trasformati in due bambini e due
adolescenti – mentre nella realtà erano degli adulti –, forza la mano. Ci vuole dire proprio questo,
che il culmine del caos, il culmine del male è un padre che non genera; e fa di più, non solo non
genera, ma costringe i propri figli a chiedere di essere divorati da lui, come il mito già in maniera
terribile ci raccontava.
E allora “La caduta di Bisanzio” si chiude su questa ricerca, che secondo me è l’aspetto più
interessante e che mi ha colpito di più, soprattutto per motivi personali. Tutto cade, le civiltà
cadono, tutto va a finire nella cenere (come Alessandro sa raccontare benissimo) e c’è da chiedersi
se nella caduta di tutte le cose, anche le più potenti, c’è un padre disposto a sostenere questa caduta
continua della nostra vita e anche delle nostre cose più grandi. Chiudo con una poesia di Rilke che
amo molto e che si intitola “Autunno”, che forse dà un po’ una risposta, o per lo meno, a me piace
pensare che sia così. Dice:
Le foglie cadono, cadono come da lungi,
come se giardini lontani
avvizzissero nei cieli. Cadono con gesto di rifiuto.
E nelle notti cade la terra pesante
Da tutte le stelle nella solitudine.
Noi tutti cadiamo. Questa mano, cade.
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E guarda gli altri!... è così in tutti.
Eppure c’è uno che senza fine
Dolcemente tiene questo cadere nelle sue mani”.
ALESSANDRO RIVALI: Dopo un’introduzione così bella, ovviamente qualsiasi cosa possa dire,
smantello l’aura che mi hai appena creato, per cui forse sarebbe meglio chiudere qui la serata, ma
non si può fare. Io abbasso un attimo i toni perché poi vi faccio fare un viaggio nel sangue, nella
caduta di civiltà, nei draghi. Per cui vi racconto un paio di cose divertenti. Tutto bellissimo il
racconto di Alessandro, a parte la frecciata calcistica che mi ha portato un abisso di dolore che
avevo cercato di dimenticare in questi giorni. Prima di tutto voglio ringraziare Camillo per questo
invito, perché lui non lo sa ma questa stanza per me ha avuto un ruolo importantissimo nella storia
della mia poesia per uno di quelli che sono incroci strani della vita, cioè un esame andato male.
Credo corresse il mio secondo anno dell’università, io ho fatto lettere moderne, e c’era un esame
tortura, lo scritto di geografia. Non so se vale ancora adesso, però lo scritto di geografia funzionava
così, era per scremare. C’era un enorme bussolotto in una grande aula di geografia, venivano estratti
degli stati e uno doveva scrivere tutto quello che sapeva su quello stato, puramente a caso. Allora
ogni bravo studente si studiava l’atlante, ogni sorta di cosa, confini, economia. Quando usciva dal
bussolotto si vedevano le teste di alcuni alunni disperati che sbattevano contro il banco: era uscito
uno stato sperduto dell’Africa. Altri facevano gesti di esultanza: gli Stati uniti, qualcosa si sapeva
dire. Quel giorno io tirai fuori dal bussolotto e mi capitò il Veneto. Cosa c’entra il veneto con uno
stato? Mi sono perso qualcosa? Avranno inserito anche le regioni italiane. Ero scioccato dal Veneto.
Mi tentai di salvare con i ricordi di una gita di quinta elementare a Venezia. Io sono genovese, un
po’ c’entrava l’acqua, il mare, ma ovviamente non andò granché bene l’esame scritto. Disperato per
essere stato così fucilato a sangue freddo per un esame così, in modo così stupido, cercai un’acqua
salvifica e quella sera ho letto che qui, al Cmc, c’erano i cosiddetti “vini diversi”, ossia degli
appuntamenti in cui si alternava questa mistica unione tra poesia e vino. Tra i relatori c’era un poeta
che io non conoscevo che si chiamava – era il ’98 – Giampiero Neri, che stava presentando il libro
appena pubblicato per Mondadori “Teatro naturale”. Lesse questa poesia, che è finita poi nella
quarta di copertina del suo libro:
Quella casa isolata
quasi nel centro del paese
era passata indenne
dalla guerra al dopoguerra
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come la salamandra nel fuoco,
adesso sembrava un corpo estraneo
venuto da chissà dove.
Una poesia molto semplice, però nel mio cuore, nella mia anima, scattò una sorta di antenna. Si
parlava di fuoco, tema che mi piaceva molto, si parlava di guerra, si parlava di casa, e io quella sera
– Camillo non lo sapeva – andai a chiedere un autografo al poeta, anzi gli chiesi di regalarmi un
inedito e lui mi disse: “Non posso perché il foglio è l’unico che ho. Passa a prenderlo, a trovarmi a
casa in piazzale Libia”. E io andai, ovviamente con una ventina d’anni e una gran voglia di scrivere
poesia, di imparare, e soprattutto di trovarmi un maestro che mi guidasse. Lui mi accolse, mi regalò
questo che allora era un inedito e mi fece il primo giorno questa raccomandazione: “Se tu vuoi
scrivere poesia ricordati che non ti sarà perdonato mai anche un solo verso sbagliato”.
L’affermazione mi ha un po’ tramortito perché per un ragazzo che vuole incominciare non è proprio
l’incoraggiamento più entusiasmante. Però mi è servito molto, sulla moralità, sull’etica, sul far sul
serio fin dall’inizio. Poi quando presento un pochino la mia scrittura amo ricordare tre episodi, due
episodi divertenti, uno un po’ meno, per capire come è nata in me questa astronave misteriosa che è
chiamata poesia. Forse alcuni di voi questa storia l’hanno già sentita, però è vera e quindi mi piace
ri-raccontarla. Sono arrivato sulla poesia con il forcipe, cioè non avevo mai pensato né di scrive né
tanto meno di scrivere poesia. Però la prepotenza di una madre può tutto. L’occasione concreta fu il
fatto che nel mio liceo la preside, la suora preside, convocò tutte le classi e disse: “C’è un concorso
di poesia. Chi riuscirà a fare una poesia per la suora fondatrice avrà in automatico tutti i voti
innalzati, in particolare in italiano”. Prospettiva interessante! Io nei voti me la cavavo, non ne avevo
bisogno e non mi interessava né il centenario della fondatrice né tantomeno la poesia. Mio fratello
non versava in condizioni analoghe positive, soprattutto in italiano. Allora mia madre mi pose di
fronte alla scelta: o scrivi una poesia adesso per tuo fratello per la suora fondatrice, o tu rinunci al
calcetto al sabato”. Per un ragazzo al liceo è una scelta drammatica, è la libertà tra un bene e un più
grande. L’aspirante poeta era determinato: “No, io voglio essere libero, quindi rinuncio al calcetto”.
Mia madre che aveva una capacità di comprensione molto alta, senza problemi disse: “Bé non c’è
solo il calcetto, c’è anche la pizza il sabato”. Allora il dramma era sempre più vasto: “Allora se
devo scrivere dimmi cosa devo scrivere ”. E ho fatto una poesia terrificante sulla suora fondatrice.
Questo è l’inizio drammatico della poesia.
Il secondo è lo sguardo di una ragazza, inseguita disperatamente per alcuni mesi nei primi anni del
liceo, che una sera, non so bene se per la congiuntura delle stelle, o una birra di troppo, a un certo
punto esclamò la frase leggendaria che ognuno vuole sentire: “Ma perché non mi porti a casa tu
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stasera?”. Son quelle frasi che un ragazzo a quattordici anni cade in ginocchio colpito, e pensa come
mai non gli sia venuto in mente prima! Non c’erano a quei tempi però gli i-phone per auto
fotografarsi, per immortalare il momento: inoltre io non avevo neanche i mezzi per accompagnarla
a casa, solo un motorino scassatissimo che si bloccava sempre sulle salite di Genova. L’unica cosa
che potevo fare per fermare questo cuore impazzito era scrivere. Ci avevo già provato con la suora
fondatrice, ma non mi era venuto benissimo. Però in quel momento lì mi sono detto che quella era
un’emozione troppo forte, che brucia, e volevo che bruciasse anche sulla pagina. Ascoltando una
canzone che mi piaceva moltissimo dei Rem, “Losing my religion”, scrissi la prima poesia vera,
quella del cuore. Ora arriviamo alla parte seria, così mi ricollego alle parti che ha raccontato
Alessandro, la questione del padre. La figura del padre per me è molto forte. Io sono nato fuori
tempo massimo quando mio papà aveva cinquanta anni, ho saltato quasi una generazione, e mio
padre si salvò in modo miracoloso, per questo sono qui stasera, dal grande rastrellamento della
Benedicta, il 7 aprile 1944, uno dei più grandi rastrellamenti della seconda guerra mondiale, del
venerdì santo – ci furono qualcosa come 200 ragazzi fucilati. E lui si salvò per una coincidenza: finì
nella retata, non era un partigiano, aveva 14 anni, ma ne dimostrava molti di più. Quel giorno non si
presentò a scuola, si era dimenticato il suo libretto scolastico, poi fu preso dall’ufficiale tedesco e
portato in caserma e lui sapeva benissimo che il destino era o il muro o Mauthausen, come tutti gli
altri suoi amici. Ma la sua maestra si accorse di un vuoto in aula e alcuni compagni di scuola
vennero a dire che l’avevano preso i tedeschi. Bisognava fare qualcosa; e lei scese, andò al
comando tedesco – era una donna coraggiosa e quello che stupiva è che sapeva benissimo il tedesco
– e dopo una mattinata di trattativa con l’ufficiale tedesco lui disperato disse: “Signora, basta. Porti
via questo ragazzo. Non ne posso più, non si faccia più vedere”. E la maestra si portò via mio padre.
Ogni volta che sono tornato nei luoghi del basso Piemonte, dove la mia famiglia è cresciuta, mi
ricordo di mio padre che ha descritto questa “geografia del dolore”: “Qua è stato fucilato questo mio
amico, qua quest’altro, uno impiccato dopo il 25 aprile”. E tutta questa ondata di memorie, di
ricordi si sono andati consolidando in me. Quando ho deciso di scrivere, mi sono detto: “Io voglio
scrivere di storia, voglio che questo non passi, voglio cercarne la storia dei ponti per il presente, che
dicano una cosa prima di tutto a me stesso e poi aprano delle visioni possibilmente agli altri”. Di qui
vengo a Bisanzio. Cos’è Bisanzio? È un viaggio. Un lungo viaggio nella storia, in cui c’è un viator,
un personaggio che passa per le città che cadono, che collassano. In questo viaggio c’è Pompei che
collassa nel 79 d. C., distrutta dal vulcano, ma ci sono anche città immaginarie, delle città magari
distrutte in una guerra apocalittica del futuro, e il mio personaggio alla fine si interroga su cosa sia
questa storia e soprattutto su cosa sia questo grande drago chiamato Male. Il male nel mio libro
ritorna sotto diversi aspetti: sottoforma di un serpente, un crotalo, un fuoco incendiario.
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Vi vorrei proporre adesso tre parti di questo viaggio. Chiamerei Gianmario alla sua astronave e
possiamo partire.
La prima tappa di questo viaggio è dedicata ad alcuni testi che sono una porta d’ingresso a Bisanzio.
Quando il libro era già concluso e avevo scritto la prima sezione di Pompei, ho fatto un viaggio a
Napoli per vedere questi luoghi pompeiani e sono rimasto colpito dalla bellezza di una sorpresa: la
pietra Farnese, un cameo straordinario, passato per tantissime parti insanguinate della storia,
rimanendo intatta. Mi sono appuntato i viaggi che ha fatto questa pietra meravigliosa: è passata per
l’Egitto, disegnata per Cleopatra, poi Roma, poi Costantinopoli, la corte di Federico II, Samarcanda,
Napoli, ancora Roma, la corte di Lorenzo il Magnifico, la corte di Margherita d’Austria, i Farnese, i
Borbone, lo Stato italiano e tutte le mani insanguinate che hanno conquistato queste città, che hanno
saccheggiato, si sono fermate di fronte alla bellezza di questa pietra. Per me è una metafora molto
potente della poesia: la poesia come argine al drago, argine al male come l’arte in generale, la
bellezza in generale. Quindi la prima poesia che sentirete parla di questo cameo straordinario che ha
vinto in qualche modo l’orrore.
Sentirete parlare poi di fuoco. Il fuoco è uno dei temi dominanti del libro. È un fuoco che prende
volti diversi, perché fuoco della distruzione – Pompei che collassa, Costantinopoli che viene
distrutta dai cannoni – ma anche il fuoco dello scrittore che non ha mai pace e vuole cercare la
perfezione delle pagine, il fuoco del mistico che cerca Dio senza pace, o l’amata che cerca l’amato
senza pace.
Sentirete parlare di Bisanzio, che io ho scelto come città emblema, una città che sembra sempre
cadere e non cade e ha una tradizione senza fine stupenda, ponte fra oriente e occidente.
Sentirete parlare di una fuga dei rivali del ’36, perché mio padre si salvò in modo miracoloso nella
guerra civile del ’36, la notte del 19 luglio del’36.
Nella seconda poesia ci sarà spazio per il vento che è un altro degli elementi che ritorna in modo
insistito, un vento che spazza le generazioni, le ere, la storia. E il riferimento a Plinio, la storia
preferita che mi raccontava mio padre per farmi addormentare, quest’uomo che cercava l’oltre, non
voleva fermarsi, aveva una curiosità senza fine.
Era segno dell’armonia primaria
Come gli occhi di una donna
Siamo alla seconda tappa del nostro viaggio e forse è il momento più buio, siamo a Persepoli e le
visioni che sentirete adesso sono uno scenario in scala di grigi, è una landa spazzata dal vento - uno
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scenario che potrebbe ricordare La strada di McCarthy o l’universo morale sempre di un suo libro
Non è un paese per vecchi – sembra che tutto sia finito, che ci sia soltanto cenere e questo vento che
spazza questa cenere.
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