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L’equivoco dell’anello ferroviario
Si è rinunciato perfino a immaginare come potrebbe diventare la rete regionale. Eppure oggi ci
sarebbero le opportunità per sviluppare lo schema Metrebus 3x3 del 1996. La realizzazione
dell’Alta Velocità ha liberato dal traffico nazionale la vecchia linea tirrenica per Napoli. La ferrovia
fino a Gaeta potrebbe essere trasformata in una potente metropolitana regionale, non solo per
portare i pendolari al lavoro nella capitale, ma per sostenere un diverso sviluppo dell’agro pontino,
trasformando ogni stazione in un centro di nuove imprese, di servizi avanzati e di formazione. Può
diventare un asse attrezzato che aiuta la crescita delle filiere innovative della logistica, della green
economy dei beni culturali e dell’agricoltura di qualità. Sarebbe un motore propulsivo del nuovo
sistema economico integrato città-regione.
Gli amministratori regionali avevano una carta preziosa da giocare e invece si sono occupati
solo dell’autostrada pontina. Si illudono così di risolvere l’ingorgo, ma la superstrada finirà per
attrarre ulteriore traffico automobilistico, aggravando il problema. Si fatica a capire che solo
potenziando le ferrovie si ampliano le strade, almeno virtualmente poiché diminuiscono gli
automobilisti. Oltretutto la ristrutturazione della ferrovia risolverebbe un difficile problema di
accessibilità al parco dell’Appia antica. La stazioncina di Torricola, oggi abbandonata al degrado,
potrebbe diventare la porta di accesso che consente ai cittadini e ai turisti di partire da Termini e in
dieci minuti di treno trovarsi nei pressi dellaregina viarum, proseguendo a piedi in una delle più
belle passeggiate al mondo. Inoltre, questa ferrovia è un’occasione per la pianificazione dell’area
vasta. Potrebbe essere connessa, passando per l’arco orientale dell’anello, con l’attuale ferrovia
Roma nord, in quella direttrice Flaminia caratterizzata da una forte espansione residenziale e da
antichi insediamenti industriali (Civita Castellana e la Tiberina). Questa infrastruttura di proprietà
regionale è oggi un moncone interrotto a piazza del Popolo che svolge un servizio tanto necessario
nell’area suburbana quanto di bassa qualità per le frequenze e il comfort. Verrebbe trasformata in un
segmento di una moderna e più lunga ferrovia che costituirebbe il quarto passante, tra il Nord e il
Sud della regione.
I quattro passanti costituiscono il telaio infrastrutturale della Regione capitale[3]. La
realizzazione del progetto compenserebbe il deficit infrastrutturale accumulato in trent’anni di
disseminazione edilizia. La funzione di attraversamento propria del passante è importante a livello
di pianificazione perché attiva nuove relazioni territoriali nell’area vasta. Ma il modello di esercizio
del servizio di trasporto può attuarsi per segmenti dei passanti, secondo la domanda effettiva degli
utenti e della sua evoluzione. In ogni caso cambia la logica del trasporto: non si tratta più di
diramazioni locali delle ferrovie nazionali, ma di una rete regionale integrata che sorregge tutte le
altre modalità di trasporto, dalle metro, ai tram, agli autobus. Oggi è dominante il modello
gravitazionale che attira le funzioni pregiate in città ed esporta le periferie nell’hinterland. Con la
rete dei passanti invece i territori regionali almeno in parte si connettono senza dipendere dalla
capitale. L’economia viterbese si collega a quella per certi versi simile dei Castelli tramite il
passante dei laghi. La Sabina accede direttamente al mare e all’aeroporto di Fiumicino. Dal porto di
Civitavecchia i turisti possono arrivare direttamente alla villa di Adriano e alle bellezze di Tivoli. I
tessuti industriali regionali del Nord e del Sud trovano nell’infrastruttura un aiuto per la
riconversione produttiva. Sono solo alcuni esempi di nuove relazioni territoriali, che certo non
cancellano la gerarchia ormai consolidata tra città e hinterland, ma contribuiscono a superare lo
squilibrio tra eccesso di pieno ed eccesso di vuoto.
Anche su scala urbana i passanti distribuiscono i flussi lungo l’anello ferroviario, dove
scambiano con le metropolitane per potenziare l’effetto rete. La connessione urbanistica tra città e
regione non si scarica sul centro a Termini, come vuole FS per valorizzare gli immobili e le attività
commerciali della stazione, ma poggia su una struttura anulare intorno alla città consolidata.
Nell’immaginario collettivo la forma dell’anello ha oscurato quella dei passanti. Da qui, anche per
mia responsabilità, è sorto un equivoco che non sono mai riuscito a chiarire da assessore e che
ancora oggi alcuni cari amici – da ultimo Vittorio Emiliani – mi chiedono di spiegare. Chiunque
voglia sollecitare il completamento del programma ferroviario è portato a dire spontaneamente che
si deve “chiudere l’anello”. Questa espressione contiene un riferimento concreto e una funzione
narrativa.
Il primo si riferisce all’attuazione di un’opera ferroviaria nell’arco mancante tra Vigna Clara
e l’asse Salario. Essa comporta la realizzazione di due ponti – sul Tevere e sull’Aniene – e un
nuovo tracciato di alcuni chilometri; inoltre richiede la ristrutturazione, già quasi conclusa, del tratto
in galleria sotto Monte Mario e dell’attraversamento del parco del Pineto. Si tratta di un’opera
necessaria, ma di un certo impegno progettuale e finanziario (circa 600-700 milioni di euro).
L’efficacia di trasporto locale è invece molto bassa rispetto ai costi di realizzazione e soprattutto di
gestione del servizio. Si utilizzerebbe la costosa modalità ferroviaria per una domanda di trasporto
pari a quella di un autobus di periferia. Il numero dei cittadini che si muovono nella direzione
tangenziale – da Vigna Clara a Valle Aurelia – è di un ordine di grandezza dieci volte più basso di
quello dei pendolari nella direzione radiale verso la città. A breve termine è meglio spendere i soldi
sui passanti per ottenere un aumento degli utenti. A lungo termine, invece, emergono i vantaggi
funzionali della chiusura dell’anello, poiché i passanti – quando saranno ultimati, in particolare il
terzo e il quarto– avranno bisogno di attraversare la città utilizzando anche l’arco nord e non più
solo quello sud come accade attualmente. La realizzazione dell’opera è giustificata da ragioni
sistemiche di pianificazione della rete a lungo termine, ma non dalla domanda attuale degli utenti.
La funzione narrativa è una metonimia che racconta il programma generale delle ferrovie
romane tramite la singola opera di chiusura dell’anello. Proprio la sua incompletezza è diventata un
modo di rappresentare la difficoltà a portare a compimento la più generale “cura del ferro”. Non
solo, la figura retorica ha esteso l’immagine di perfezione associata al cerchio
sull’intera policy ferroviaria. “Chiudere l’anello” è diventato così lo slogan di facile comprensione
per indicare un’ottimale politica dei trasporti. Conosco bene questa retorica perché prima ho
contribuito a crearla e successivamente ne ho subito i fraintendimenti.
L’immagine dell’anello è entrata nel dibattito pubblico romano alla fine degli anni Ottanta
nella discussione sulle opere per i mondiali di Italia ’90. Il PCI condusse una dura battaglia contro il
progetto del tunnel dell’Appia che la giunta Giubilo propose come completamento del grande anello
stradale tra la via Togliatti, l’Olimpica e la Newton. In realtà l’intenzione era di valorizzare le aree
della grande edificazione di Romanina acquistate da Ligresti pochi mesi prima, ma riuscimmo a
bloccare l’operazione[4]. Per farci capire dal largo pubblico contrapponemmo al simbolo dell’anello
stradale quello dell’anello ferroviario. Nelle nostre intenzioni era solo un modo di comunicare un
complesso di opere ferroviarie che avevamo proposto in dettaglio in un convegno del 1987[5] . La
giunta Giubilo cercò di salvare la sua proposta stradale facendo finta di accettare anche la nostra,
inserendo nel programma un intervento improvvisato sull’anello. Venne ristrutturata la stazione di
Vigna Clara e predisposta una fermata a Farneto per trasportare i tifosi allo stadio, senza risolvere
l’inadeguatezza strutturale della galleria sotto Monte Mario. Le fermate servirono solo per quattro
partite e le strutture abbandonate al degrado divennero presto uno dei tanti esempi di fallimento dei
mondiali ’90[6]. La stazione di Farneto è stata poi occupata da Casa Pound per farne una discotecabar.
Se nel 1993 non avessimo dato priorità alle ferrovie radiali – Fara Sabina-Fiumicino,
Cesano-San Pietro e Lunghezza-Tiburtina – non avremmo ottenuto il raddoppio degli utenti in
pochi anni. E se oggi si tornasse ad attuare il programma bisognerebbe insistere ancora per i
prossimi dieci anni sul potenziamento tecnologico e strutturale dei passanti, almeno fino a
Bracciano, e nelle direzioni di Guidonia, dei Castelli e soprattutto di Gaeta. Nel frattempo si
potrebbe cominciare a progettare la chiusura dell’anello per poterla attuare a conclusione del
programma. Recentemente si è invece invertito l’ordine di priorità, annunciando lo stanziamento di
120 milioni per l’attivazione del servizio fino a Vigna Clara. I progettisti sanno bene che l’effetto
sulla mobilità romana è quasi nullo, ma l’investimento serve a ben altro scopo, quello di deviare la
linea di Alta Velocità che viene da Firenze verso l’aeroporto di Fiumicino, secondo quanto
concordato con Etihad per il salvataggio di Alitalia. Si tratta certamente di un obiettivo positivo per
la politica nazionale del trasporto, anzi si corregge un errore di progettazione della rete di Alta
Velocità, che negli anni Ottanta ignorò la connessione con gli aeroporti[7].
Tuttavia la chiusura dell’anello viene raccontata sulla stampa come un forte impegno di Fs
per il trasporto locale, che invece continua a essere trascurato. Sono disponibili solo i finanziamenti
per gli interventi in corso[8]. Sarebbe necessario ben altro impegno finanziario e progettuale per
trasformare le ferrovie in moderne metropolitane regionali mediante il potenziamento delle
infrastrutture e delle tecnologie, il rifacimento delle stazioni e dei nodi di scambio, l’acquisto di
treni ad alta qualità. Gli amministratori locali hanno creduto o hanno voluto credere che
l’attivazione di Vigna Clara fosse la svolta del trasporto romano. A distanza di trent’anni l’equivoco
dell’anello ferroviario continua a narrare “sorti progressive”.
Le metropolitane che servono
La logica dei passanti è ancora più importante per le metropolitane in città. Soprattutto la linea C,
una linea lunga quanto la somma delle altre due, è stata pensata come grande connettore urbano per
risolvere tre problemi strategici.
Primo, integrare con la città quella periferia orientale che oggi è tanto estesa e frammentata
da sembrare come in fuga verso l’hinterland. È anche l’occasione – purtroppo dimenticata – per
collegare l’università di Tor Vergata rendendone possibile lo sviluppo come polo della ricerca, della
formazione e dello sport.
Secondo, costruire un asse portante nell’area nord che è la più debole di infrastrutture. È
l’unico modo per risolvere l’occlusione della Cassia e della Flaminia causata da decenni di
disordine urbanistico. E per migliorare l’accessibilità del Foro Italico e dell’Olimpico, invece di
andare a costruire il terzo stadio nella campagna. I grandi parcheggi di quella zona consentono un
doppio uso, non solo per gli impianti sportivi, ma anche per drenare il traffico che oggi soffoca
l’area di Prati e di San Pietro.
Terzo, realizzare una rete di metropolitane nell’area centrale. Oggi la A e la B si incontrano
solo in un punto, invece insieme alla C formano una doppia maglia tra San Giovanni, Colosseo,
Termini e Ottaviano. Le prime due metro sono eccentriche rispetto agli antichi rioni, mentre la terza
linea serve il cuore del centro storico creando le condizioni strutturali, insieme ai nuovi tram, per
una vera pedonalizzazione[9].
Rimango francamente sconcertato di fronte a dichiarazioni improvvisate sulla possibilità di
bloccare la linea C a piazza Venezia. Sembra un risparmio e invece sarebbe uno spreco. Si
ridurrebbe di molto l’efficacia dell’investimento già in atto, si spenderebbero comunque miliardi di
euro per una metropolitana poco utile, che fallirebbe tutti i suoi obiettivi. La periferia orientale
verrebbe scaricata in gran parte a San Giovanni sulla linea A, già prossima alla saturazione. La
maglia dell’area centrale sarebbe quasi annullata. L’area nord verrebbe condannata a rimanere nella
penuria infrastrutturale. Sarebbe un regalo alla cattiva gestione di Alemanno, che non solo ha
aumentato i costi e allungato i tempi, ma avrebbe anche l’effetto di sancire per il futuro
l’impossibilità di realizzare metropolitane a Roma. Al contrario, si dovrebbero rimuovere le cause
delle inefficienze, correggere i gravi errori progettuali compiuti dalla giunta precedente con il
silenzio dell’opposizione e rilanciare la credibilità del progetto della linea C. Se il Campidoglio non
crede al suo progetto, certo non convincerà mai nessuno a finanziarlo.
Non bisogna nascondersi dietro le difficoltà archeologiche. Esse, al contrario, possono
diventare opportunità, come prevedeva il progetto originario. Per merito di Adriano La Regina, uno
dei migliori soprintendenti italiani, si decise di seguire nella progettazione il nuovo “metodo Roma”
basato su una forte integrazione tra ingegneri e archeologi[10]. Esso consiste nel collocare i rigidi
volumi delle stazioni molto in basso, a ridosso della galleria, a circa trenta metri di profondità, per
evitare l’impatto archeologico. Lo strato antico soprastante viene attraversato solo con le scale
mobili che possono essere disegnate con più flessibilità e in modo non invasivo anche vicino ai
reperti, i quali non solo vengono tutelati ma diventano visibili per i viaggiatori. Le stazioni si
trasformano in musei sotterranei che aiutano a scoprire un’altra Roma ancora sconosciuta, ad
esempio – sotto il rione Parione – i resti del teatro di Pompeo, un gigantesco monumento antico,
oggi visibile per un frammento all’interno di un ristorante vicino Campo de’ Fiori. La linea C è stata
progettata per attuare il progetto Fori, secondo lo studio che lo stesso La Regina aveva
commissionato negli anni Ottanta a Leonardo Benevolo[11] . La realizzazione dell’infrastruttura di
trasporto toglie ogni alibi a coloro che si nascondono dietro problemi di traffico per impedire il
progetto. La funzione automobilistica può essere cancellata definitivamente, può essere archiviata
come una breve parentesi, non tra le più esaltanti, della lunga storia di quel luogo. Possibile che
l’epoca nostra non abbia altro di meglio di un flusso di traffico da consegnare alle generazioni
successive?
Con la metro C si può realizzare la totale pedonalizzazione dell’area, eliminando lo stradone
del tutto estraneo al paesaggio storico e recuperando invece la geometria e le connessioni delle
piazze imperiali. È possibile tornare a passeggiare ai Fori ascoltando il rumore dei passi sul selciato,
potendo alzare lo sguardo con lo stato d’animo trasognato dei visitatori del grand tour, in un luogo
moderno e antico allo stesso tempo, completamente dedicato all’incontro delle persone tra loro e
con la storia. Roma non sarà mai davvero una città moderna finché non porterà a compimento la
sistemazione dei Fori. Non sarà davvero città internazionale finché non avrà l’ambizione di
proporre al mondo un senso nuovo della “città eterna”. Non sarà autenticamente città storica se non
riuscirà a creare una tensione creativa tra passato e futuro. Come in un percorso psicoanalitico la
persona nuova emerge da una rielaborazione del proprio vissuto, così per una città storica la vera
modernità consiste proprio nel rielaborare il proprio passato, dove per rielaborare non si intende una
ripresa retorica della memoria, ma un’attiva opera di riconoscimento[12] . Nella pedonalizzazione
svolge un ruolo strategico l’area compresa tra il Colosseo e largo Corrado Ricci. È un luogo
paradossale, l’unico in cui si può scavare in tranquillità pur trovandosi nel cuore dell’area
archeologica. Infatti, quello che oggi vediamo come un viale era fino agli anni Trenta il sottosuolo
della collina Velia, che il duce sventrò per poter aprire la visuale del Colosseo dal balcone di piazza
Venezia, ed è quindi privo di reperti.
La versione originaria del progetto della linea C, secondo il “metodo Roma”, utilizzava
questa opportunità disegnando sotto il viale e in connessione con la stazione Colosseo un
grande foyer di ingresso al parco dei Fori, prendendo a esempio l’accesso ipogeo del Louvre sotto la
piramide di Pei inaugurato pochi anni prima. I cittadini che escono dalla metropolitana trovano un
grande ambiente di servizi e di accoglienza – oggi totalmente assenti e difficilmente realizzabili in
superficie – e possono documentarsi sulla storia antica, vedere un filmato, utilizzare strumenti
didattici per i ragazzi ecc., prima di entrare nell’area archeologica all’altezza del Foro della Pace.
Questa versione del progetto è stata abbandonata nel 2010 a favore di una soluzione di basso
profilo che purtroppo verrà realizzata se non ci saranno ripensamenti: la preziosa area ipogea viene
interamente bloccata dagli impianti della metropolitana, rendendo certo più facile la realizzazione
della stazione, ma rinunciando per sempre alla possibilità di dare al parco dei Fori una formidabile
porta sotterranea di accesso[13]. È la conseguenza del ritorno a una progettazione separata tra
ingegneri e archeologi, i primi vedono in modo unilaterale il problema funzionale e i secondi
rinunciano a proporre soluzioni limitandosi a gestire il vincoli. La scissione tra tecnica e storia è
non solo una perdita di qualità, ma è la causa dell’inefficienza e dell’aumento dei costi. In
mancanza di una progettazione integrata i vincoli sono diventati una manna dal cielo per il
costruttore, che li ha strumentalizzati per attivare un enorme contenzioso nei confronti del
committente. Tutti questi problemi derivano dall’inserimento dell’opera nella legge obiettivo che ha
comportato la rinuncia a un forte controllo pubblico e ha favorito l’impresa privata[14].
Il Comune deve riprendere in mano il governo dell’opera dotandosi di strumenti di controllo
di alta professionalità e provata credibilità[15]. Se si fosse continuato ad applicare il “metodo
Roma”, i vincoli sarebbero diventati risorse. E l’amministrazione comunale avrebbe accumulato un
know how da esportare ovunque nel mondo si realizzino metropolitane in contesti archeologici.
Negli anni Novanta emerse, in seguito a studi più approfonditi, la necessità di una quarta
metropolitana, la linea D che corre in direzione parallela a ovest della B, da Salario a Ludovisi,
passando per Campo Marzio e Trastevere, fino a Magliana e all'Eur. È una linea molto ben calibrata
che serve i quartieri a più alta densità abitativa e terziaria e determina un balzo in avanti dell’effetto
rete. In uno schema astratto di priorità sarebbe dovuta venire prima della linea C, ma queste
decisioni non si prendono mai su un foglio bianco. Si decise di partire con la linea C per utilizzare
un vecchio finanziamento statale, ancora non speso nel 1993, che altrimenti avremmo perduto. La
giunta di destra ha utilizzato il pretesto del finanziamento della linea D per giustificare una
gigantesca operazione immobiliare. Ha fatto bene l’amministrazione Marino a cancellare la
speculazione, ma non deve rinunciare al progetto della quarta metropolitana. I soldi non sono un
problema, si trovano se ci sono progetti credibili; a differenza di altri grandi comuni, il Campidoglio
non ottiene da tempo nuovi finanziamenti per le metro perché chiede allo Stato più spesa corrente
che investimenti[16].
Oggi nel dibattito dell’aula Giulio Cesare si è perfino diffusa l’idea che sia eccessiva la
previsione di quattro metropolitane per Roma. Ricevevo la critica opposta quando ero assessore,
quasi tutti mi rimproveravano un’eccessiva prudenza e mi portavano gli esempi di tante città
europee più piccole e dotate di un numero maggiore di linee. Ma i miei critici non tenevano conto
dell’anomalia tutta romana di una conurbazione inadatta ai trasporti di massa perché caratterizzata
da una bassa densità insediativa; infatti, occupa un’area estesa come quella di Parigi con un numero
di abitanti circa tre volte inferiore. Fatico sempre a spiegare questo carattere controintuitivo nelle
assemblee di periferia. I cittadini avvertono un eccesso di pieno perché vivono in insediamenti
intensivi ad alta densità locale e soprattutto privi di connessioni con il contesto, ma a scala più vasta
è evidente il diradamento urbano che rende il trasporto collettivo costoso e inefficace. Si paga il
prezzo strutturale di una periferia costruita appositamente per l’automobile.
A causa del diradamento è necessario anche estendere il bacino di offerta delle metro
esistenti con adeguati prolungamenti per la linea A – oltre il GRA a sud e verso Torrevecchia a nord
– e ampie diramazioni per la linea B. È pronto il progetto di allungamento del ramo Tiburtino oltre
San Basilio e verso la zona industriale. La giunta di destra lo aveva condizionato alla costruzione di
milioni di metri cubi che avrebbero devastato quella periferia. La giunta Marino ha bloccato la
speculazione e ha risolto i problemi che impedivano l’attuazione del progetto. Più complessa è la
scelta nella direzione ovest. Si è deciso di prolungare la metro a Tor di Valle per sostenere la
realizzazione dello stadio, ma è come fare un passo senza sapere dove andare. A questo punto
bisogna definire la pianificazione del quadrante ovest: decidere sulle diverse ipotesi della
diramazione della linea B sulla riva destra del Tevere – all’interno verso Portuense oppure
all’esterno verso Muratella – e sulla sorte della Roma-Lido che può essere trasformata in
metropolitana urbana. Negli studi di simulazione della mobilità alla fine degli anni Novanta si
arrivò alla conclusione che oltre la C e la D non vi erano altre direttrici con livelli di domanda
superiori ai 10.000 passeggeri/ora, ritenuta la soglia di efficienza per una metro in galleria[17]. Le
previste quattro metropolitane non sono né troppe né poche, bisogna solo realizzarle.
Tuttavia, è pur sempre una città popolosa – anche se a bassa densità – che presenta nelle
direzioni radiali sprovviste di metro rilevanti flussi di mobilità di circa 3000-4000 passeggeri/ora.
Sono livelli di domanda troppo alti per essere serviti dagli autobus, proprio questo è il difetto
strutturale dell’attuale rete Atac. Su tali direttrici occorre quindi una modalità di trasporto che a
costi di investimento dieci volte più bassi delle metropolitane realizzi un’offerta di trasporto più
potente degli autobus. Ecco perché a Roma è necessario anche il rilancio del tram.
La città trampedonale
Fu un caro maestro, Italo Insolera, a impostare nei primi anni Novanta una moderna
strategia tranviaria per Roma[18]. Mi consigliò di seguire l’esempio della città di Strasburgo che nel
1994 inaugurò il tram di nuova generazione, poi diffuso in tante altre città europee. L’innovazione
era tecnologica e urbanistica. Fu progettata una nuova macchina che a un forte aumento della
capacità di trasporto univa la leggerezza, la flessibilità, l’eleganza e il comfort, cioè uno standard di
servizio molto diverso dai vecchi tram sferraglianti. Inoltre, l’impianto del tram fu utilizzato come
occasione di riqualificazione della struttura e del paesaggio urbano.
Pensammo di introdurre a Roma la nuova tecnologia non solo come mezzo di trasporto, ma
come leva di rielaborazione della vicenda urbanistica della capitale, sia con immediate realizzazioni
sia nella pianificazione di lungo periodo. Il primo passo fu riportare il tram in centro storico con la
linea 8, che suscitò allora molte polemiche[19] mentre oggi è forse il mezzo di trasporto più
apprezzato dai romani.
Doveva essere solo l’innesco del progetto più ambizioso dell’asse tranviario tra Termini e
San Pietro[20]. Insieme alla rete metropolitana il tram avrebbe consentito di eliminare totalmente le
automobili. Si trattava di ridisegnare lo spazio pubblico sostituendo la coppia bus-auto con quella
tram-pedone. Ciò comportava l’eliminazione delle strade carrabili in asfalto e i relativi marciapiedi,
sostituiti da una pavimentazione allo stesso livello del pianale del tram, in modo che il pedone
potesse proseguire indifferentemente a piedi o con il mezzo di trasporto senza alcuna discontinuità o
barriera, come si vede nelle città francesi ormai da vent’anni. Non si trattava solo di
un’infrastruttura di trasporto, ma di uno strumento per creare il nuovo paesaggio trampedonale del
centro storico. Era l’occasione per “rifare l’Ottocento”, rielaborando in chiave contemporanea
l’incerta hausmannizzazione di via Nazionale e corso Vittorio Emanuele II[21] . L’asse tranviario
centrale dovrebbe essere la struttura aperta in grado di sostenere una rete di passanti che
attraversano l’intera città.
Bisogna “rifare il Novecento”, sanando l’amputazione della rete operata dalla riforma del
1930 che accompagnò la prima frattura tra centro e periferia, dalla quale iniziò la frammentazione
successiva. Come per le altre modalità di trasporto, i passanti tranviari distendono le relazioni tra le
diverse parti di città, superando la dipendenza gerarchica con il centro[22]. Ma con una qualità in
più rispetto alle altre modalità. La metropolitana e la ferrovia hanno un rapporto difficile con la
città, la prima la evita passando sotto e la seconda la elude girando intorno. Il tram, invece, è il
modo più urbano perché accetta di vivere in città e anzi ne costituisce la continuità fisica e
narrativa. È l’unico strumento che può ricucire i fili strappati dell’espansione novecentesca, entrare
nelle pieghe degli errori commessi per capovolgerne gli esiti. Il primo passante tranviario proietta a
scala urbana l’asse ottocentesco del centro storico.
Da una parte verso via Gregorio VII per proseguire lungo l’Aurelia, almeno fino a incontrare
la ferrovia tirrenica, e dall’altra nella direttrice storica della Prenestina. Questo è l’unico ramo
esterno sopravvissuto allo smantellamento, dovrebbe essere prolungato fino a Tor Sapienza e
riqualificato nell’ambito di un più vasto recupero della via consolare. Nello stesso bacino, si
presenta una formidabile occasione in seguito alla realizzazione della linea C, la quale sostituisce il
tratto esterno della vecchia ferrovia Roma-Fiuggi e lascia come residuo il tratto interno da
Centocelle alla stazione Termini, che può essere trasformato in moderno tram. L’attuale impianto
va completamente smantellato: si tratta di una tecnologia obsoleta, a scartamento ridotto e
incompatibile con tutte le altre linee, con un inserimento urbano indecente, delimitato da assurde
trincee sulla via Casilina. Al suo posto si deve realizzare un tram di standard europeo, restituendo
alla via consolare la funzione e l’immagine di una bella strada urbana.
All’altezza del Pigneto, dove incontra la linea C e l’anello ferroviario, il nuovo tram
abbandonerebbe la sede attuale per dirigersi verso la tranvia della Prenestina proseguendo poi per
Termini[23]. In tal modo si aumenterebbe l’offerta di trasporto nel tratto più denso del quartiere
Esquilino e allo stesso tempo si potrebbero eliminare i binari su via Giolitti, salvando quella via dal
degrado e valorizzando i suoi luoghi importanti, dal teatro Ambra Jovinelli, alla chiesa berniniana di
Santa Bibiana al cosiddetto tempio di Minerva Medica, entrambi esempi notevoli di architettura
seicentesca e tardoantica, oggi isolate e ridotte a spartitraffico. Così si eviterebbe anche
l’attraversamento dell’area archeologica di Porta Maggiore, che potrebbe essere sistemata come
“parco della Porta”, secondo il progetto Insolera[24]. Con la nuova tranvia, il parco di Centocelle
diventerebbe la grande isola verde e archeologica della periferia orientale, pienamente accessibile
dal resto della città.
Il secondo passante tranviario dovrebbe percorrere la via Nomentana fino a Montesacro e
oltre, verso il Tufello e la Bufalotta, secondo un tracciato già anticipato dalla linea express 90. Oggi
il tratto storico della Nomentana è l’immagine della fretta di arrivare dalla periferia al centro, lo si
attraversa quasi senza guardarlo. L’attenuazione del traffico automobilistico con il tram
consentirebbe di riscoprire la magia di quell’asse: un tipico viale urbano – con le sue quinte
maestose da boulevard – che però annuncia già nel suo aspetto – con i grandi parchi e l’assenza di
piazze e di negozi – la passeggiata fuori porta[25] . Questa direttrice si potrebbe connettere –
attraverso la stazione Termini e via Nazionale – con la linea dell’attuale 8, alla quale si potrebbe
aggiungere una diramazione verso sud, all’altezza dell’ospedale Forlanini, verso la via Newton,
lungo la Portuense, fino a Corviale, andando a servire un forte bacino di traffico non coperto dalle
metropolitane.
Il terzo passante dovrebbe riesumare la cosiddetta linea Caravaggio, secondo il progetto
elaborato alla fine degli anni Novanta e rimasto nei cassetti dell’amministrazione comunale[26].
Prevedeva un tracciato che andava a servire un grande bacino residenziale e terziario a destra della
via Colombo in direzione centro, con insediamenti di grande peso urbanistico – la sede della
Regione Lazio, piazza dei Navigatori, l’ex Fiera di Roma, le attività terziarie di piazza Caravaggio e
di piazzale dei Caduti della Montagnola ecc. – nonché i grandi quartieri residenziali fino a
Grottaperfetta. Questo bacino di traffico è fuori dalla portata della linea B della metro e può trovare
soluzione solo con una potente linea tranviaria, la quale proseguirebbe verso Ostiense, toccando
l’università Roma Tre e la riqualificazione dei mercati generali, poi il quartiere Testaccio e quindi
sul lungotevere sinistro, secondo l’ipotesi proposta da Insolera[27]. In piazza del Popolo potrebbe
confluire sull’attuale linea 2 e dopo piazza Mancini attraverserebbe il ponte per servire lo stadio e
attestarsi verso Vigna Clara, scambiando con la linea C. Sarebbe una forte direttrice nord-sud, con
un’accessibilità perimetrale al centro storico, complementare a quella di tipo assiale delle altre linee
tranviarie.
I tre passanti coprirebbero tutte le direttrici non servite dalle quattro metropolitane,
scambiando tra loro mediante la circolare esterna lungo viale Regina Margherita e all’interno lungo
l’asse centrale fino a Prati. Non sarebbero solo infrastrutture di trasporto, ma creerebbero
l’occasione per ripensare la funzione e l’immagine delle vecchie consolari – la Nomentana, la
Casilina, la Prenestina, la Portuense, l’Aurelia, tratti della Flaminia e della Cassia e dell’Ardeatina –
facendone i più bei viali di Roma contemporanea.
Dovendo aprire le strade per realizzare gli impianti tranviari si dovrà risistemare il
sottosuolo per fare una buona manutenzione delle vecchie reti urbane – collettori, rete idrica ed
elettrica, gas, spesso in condizioni penose – e allo stesso tempo per posare le nuove reti
tecnologiche digitali. In alcuni casi sarà possibile anche realizzare nel sottosuolo parcheggi lineari
lungo l’asse stradale, per togliere dalla superficie le automobili dei residenti e restituire spazio
pubblico ai pedoni, senza creare offerta di nuovi parcheggi in destinazione che aumenterebbero il
traffico[28]. In superficie si dovrà riqualificare l’architettura delle strade e potenziarne l’uso
pedonale: rifacimento delle pavimentazioni, nuovo design dell’arredo urbano, uso sapiente del
verde e dell’acqua, luoghi di ristoro e di pausa. Una doppia quinta di alberi sui marciapiedi
dovrebbe creare l’immagine di moderni boulevard. Si dovrebbe evitare il degrado delle affissioni
per convogliare le risorse della pubblicità nella qualificazione dell’ambiente stradale: servizi
informativi, installazioni di arte contemporanea, pensiline del trasporto, illuminazione pubblica e
privata coordinate secondo piani organici della luce, sull’esempio di Lione[29]. Anche gli edifici
del fronte strada dovranno contribuire alla riqualificazione degli spazi, con il restauro delle facciate
e la demolizione di costruzioni fatiscenti o inadeguate per realizzare nuove architetture oppure per
creare nuovi spazi pubblici. Per ciascuna strada si dovrà elaborare uno stile architettonico mediante
concorso internazionale.
Questa operazione cambierebbe il volto della città, come non sarebbe possibile in nessun
altro modo. Le vie consolari tornerebbero a essere la trama del tessuto urbano. Il richiamo antico dei
loro nomi risuonerebbe in una coraggiosa interpretazione contemporanea. Tale rinascita si può
stimolare solo col tram, in quanto strumento in grado di agire contestualmente sui processi
strutturali, funzionali e simbolici. Le borgate storiche e abusive, nate per un doppio movimento di
distacco dalla città e di separazione tra di loro, verrebbero riunificate dal tram come le perle di una
collana. Le vie consolari ritroverebbero l’originario carattere di transito che nell’antichità costituiva
l’annuncio della città per chi arrivava e il ricordo per chi partiva. Oggi, invece, l’attraversamento
senza relazione è divenuto la causa principale del degrado di queste strade, appesantite dal doppio
peso di un centro ingolfato e di un’immensa periferia. Le strade tornerebbero quindi a essere un
segno forte di vita urbana, espressione di ciò che unisce e di ciò che differenzia gli stili di vita.
I tre passanti sarebbero perfettamente integrati con le reti delle metropolitane e delle
ferrovie, garantendo anzi a queste la distribuzione capillare dei flussi e l’integrale accessibilità dei
luoghi. Ma nella periferia orientale, proprio perché è quella più diradata verso l’hinterland,
bisognerebbe rafforzare l’effetto rete con un quarto passante da Cinecittà, lungo via Togliatti fino a
Fidene e forse passando il Tevere per connettere il grande centro Rai della Flaminia. Sarebbe
l’unico asse trasversale e avrebbe proprio la funzione di legare tutti gli altri passanti su ferro che
connettono la città con l’area regionale. Anche in questo caso, però, la funzione di trasporto
dovrebbe sorreggere una riqualificazione urbanistica, arrestando l’espansione nell’agro e
completando i vecchi tessuti sbrindellati prodotti dalla folle speculazione degli anni Cinquanta e
Sessanta. Trovandosi proprio al confine tra la periferia storica e quella anulare[30], avrebbe un
effetto di ricucitura a grande scala. Si potrebbe partire dal tratto nord con il recupero del “viadotto
dei presidenti”, indicato recentemente da Renzo Piano come esempio nazionale di ricucitura delle
periferie. È il disegno tranviario più ambizioso che si possa immaginare per il futuro di Roma, ma
non è un’opera impossibile, né dal punto di vista finanziario, né dal punto di vista realizzativo
perché si tratta di viali molto larghi e in alcuni casi già predisposti per tale uso.
Riassumendo, le considerazioni sopra esposte portano a un’evoluzione dello schema
integrato che fu approvato dal Consiglio comunale nel 1996. Si passerebbe da una rete Metrebus
3x3 a una più potente rete Metrebus 4x4x4 costituita da quattro passanti per ciascuna modalità di
trasporto: ferroviaria, metropolitana e tranviaria. Può sembrare una fuga in avanti, un disegno
irrealistico che non tiene conto dei vincoli finanziari e attuativi. Non è così. Che si realizzi poco o
tanto, in ogni caso le singole opere devono essere giustificate da un progetto più ambizioso che ne
garantisca la coerenza spaziale e temporale. Altrimenti si scade nel bricolage e
nell’improvvisazione che spesso caratterizzano i programmi di opere pubbliche in Italia. In tutti gli
insuccessi delle grandi opere c’è sempre a monte la mancanza di una seria pianificazione[31]. Oggi,
pare si voglia compensare l’accorciamento della linea C con uno spezzone di tram sui Fori, ma
sarebbe una tipica soluzione di piccola scala non giustificata da una pianificazione generale, che
servirebbe solo a creare un alibi per non smantellare lo stradone. Si propone anche un moncherino
tranviario fino a piazza Lodi, ma la linea C è connessa con la circolare alla stazione successiva di
San Giovanni. La linea tranviaria proposta su viale Marconi andrebbe in sovrapposizione con la
metro D e lascerebbe scoperto il bacino di Corviale. Le linee tranviarie e metropolitane devono
essere integrate a larga scala, altrimenti non si ottiene l’effetto rete e a parità di costi diminuisce
l’efficacia.
Riguardo alle difficoltà dell’attuazione, solitamente gli amministratori indicano tre cause: la
mancanza di finanziamenti, la burocrazia e le proteste NIMBY. Ma sono alibi inconsistenti.
La prima causa è smentita dalla constatazione che quasi tutti i programmi pubblici sono
frenati da finanziamenti non spesi (ad esempio i fondi strutturali europei o la stessa legge obiettivo).
Più che la carenza di fondi, pesa quindi l’incapacità operativa delle pubbliche amministrazioni. Di
solito si risponde alle difficoltà chiedendo leggi speciali, procedure di emergenza e
commissariamenti. Questi strumenti mirati a soluzioni particolari intaccano la generalità e
l’astrattezza delle procedure, aumentano la discrezionalità degli apparati e finiscono per appesantire
la burocrazia. Infine, le proteste dei cittadini sono motivate nella maggior parte dei casi da una
pessima qualità progettuale delle opere, spesso disegnate con vecchi approcci funzionalisti che
prescindono dai caratteri peculiari dei luoghi. Le relazioni con il contesto territoriale non sono quasi
mai intrinseche al progetto, ma vengono rinviate alle cosiddette “mitigazioni”, un’espressione che
implicitamente già ammette il fallimento dell’opera.
La vera causa del problema è da ricercare nello smarrimento della cultura del progetto. Il
freno alle opere dipende dalla devastazione delle capacità pianificatorie e progettuali delle
pubbliche amministrazioni perseguita negli ultimi trent’anni. Occorre ricostruirla, innanzitutto
svincolando la progettazione dal finanziamento. Oggi, si comincia a disegnare un’opera solo dopo
aver ottenuto i fondi, accumulando già in partenza un ritardo che impedisce di bandire subito
l’appalto, crea l’affanno dei soldi non spesi e devia l’attività di progettazione verso le scorciatoie e
le semplificazioni. Al contrario, le amministrazioni dovrebbero progettare prima di ottenere i
finanziamenti, dotandosi di una raccolta di progetti esecutivi, elaborati senza affanno, e già pronti
per essere appaltati non appena si rendono disponibili i fondi.
L’estenuante cambiamento della legislazione sugli appalti ha creato un mostro burocratico
che soffoca la qualità e l’operatività. Eppure dopo ogni fatto criminoso che occupa le prime pagine
dei giornali vengono annunciati nuovi provvedimenti normativi che complicano ulteriormente il
quadro. Non servono nuove leggi, si devono solo cancellare gran parte delle norme scritte negli
ultimi vent’anni, lasciando quelle che garantiscono la concorrenza e il potere di controllo dei
cittadini. Anche l’approvazione delle opere è oggi segnata dalla logica burocratica, essendo affidata
a commissioni composte dagli uffici amministrativi preposti. La conformità normativa dovrebbe
essere un prerequisito, ma il vero controllo di interesse pubblico dovrebbe riguardare la qualità del
progetto, l’inserimento nel tessuto territoriale, la coerenza pianificatoria, il valore artistico, la
giustificazione economica, il modello gestionale. Il progetto di un tram in città dovrebbe essere
autorizzato non da una commissione di burocrati, ma da collegi scientifici di altissimo profilo
professionale composti da architetti, urbanisti, tecnologi, artisti, economisti e ingegneri gestionali.
Occorre ricostruire un’intelligenza pubblica per guidare la trasformazione. Se l’istituzione
non è in grado di progettare la città non può neppure cambiarla.
[3] La Regione capitale è la nuova forma istituzionale che assorbe le attuali competenze del
Campidoglio, della Città metropolitana e della Regione Lazio, proposta in: W. Tocci, Non si piange
su una città coloniale
[4] Negli anni Novanta sono state proprio le nostre amministrazioni ad approvare il piano
urbanistico di Romanina passato nel frattempo nelle mani del costruttore Scarpellini: F.
Erbani, Roma, il tramonto della città pubblica, Laterza, Roma-Bari 2013.
[5] Federazione romana del PCI, Progetto per la riorganizzazione del sistema dei trasporti nell'area
metropolitana di Roma, Roma, Auditorium della Tecnica, 3-4 aprile, 1987.
[6] “Gli stadi di Italia ’90”, in Amministrare. Rivista quadrimestrale dell’Istituto per la scienza
dell’amministrazione pubblica, n. 1 (1991), aprile.
[7] La scelta non fu ispirata da ragioni tecniche, ma dai rapporti di forza tra i boiardi delle aziende
allora ancora pubbliche: FS non voleva portare clienti ad Alitalia. Quando questa è fallita, i
manager delle ferrovie hanno scoperto le connessioni con gli aeroporti. È un piccolo esempio di
come si prendono le decisioni: le logiche aziendali prevalgono in assenza di un’organica politica
nazionale.
[8] Gli interventi in corso sono utili e attesi da tanti anni: prolungamento a Guidonia, stazione di
Pigneto e nodo di Ciampino. Non ci sono finanziamenti aggiuntivi nell’accordo di programma tra
ministero e FS per i prossimi anni; la trasformazione delle ferrovie dei Castelli e dell’area pontina
non è considerata una scelta strategica. Continua a essere presente nei piani per il futuro una
ridicola ferrovia da Passo Corese a Rieti, per circa 700 milioni di euro, con un bacino di domanda di
trasporto non superiore a quella di un municipio romano.
[9] Chiamammo a elaborare le linee guida della pedonalizzazione il “mago” del traffico Bernhard
Winkler, Spazio urbano e mobilità. La rinascita dello spazio pubblico nelle città storiche italiane,
AvEdition, Stoccarda 1999.
[10] R. Ingrao, “Confronto tra il vicesindaco Walter Tocci e il soprintendente Adriano La Regina.
Salvaguardare e crescere: facciamo un patto”, in Capitolium, n. 2 (1997).
[11] Soprintendenza archeologica di Roma, Progetto Fori, 1984. Recentemente Adriano La Regina
ha ripreso l’argomento nella conferenza “Rilanciamo il progetto Fori” (Palazzo Venezia, 9 marzo
2015)
[12] Non a caso Sigmund Freud sceglie Roma per dare una rappresentazione fisica della psiche
umana. In una pagina di Il disagio della civiltà immagina la città eterna come un ologramma che
consenta di vedere contemporaneamente le diverse epoche: «Facciamo ora l’ipotesi fantastica che
Roma non sia un abitato umano ma l’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità,
dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più
recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti. Nel caso di Roma ciò
significherebbe quindi che sul Palatino i palazzi dei Cesari e il Septizonium di Settimio Severo si
ergerebbero ancora nella loro antica imponenza», S. Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi,
Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 205.
[13] Fa ben sperare la dichiarazione congiunta dell’assessore Giovanni Caudo e del sovrintendente
Francesco Prosperetti sul ritorno al progetto originario: “Rilanciamo le archeostazioni”, Corriere
della Sera del 13-6-2015.
[14] La critica di questa decisione è sviluppata in W. Tocci, Non si piange su una città coloniale.
[15] Oggi sembra riprendere quota l’idea di proseguire la metro fino a Ottaviano, ma saltando
alcune stazioni in centro storico dietro l’alibi dei vincoli archeologici che invece potrebbero essere
risolti con una progettazione più accurata.. Non conosco i dettagli, ma mi rimane il dubbio che non
si sia fatto di tutto per risolvere quei problemi. Sarebbe comunque uno spreco attraversare il centro
storico con il tunnel senza risalire con la stazione almeno a piazza Chiesa Nuova nel cuore dell’ansa
barocca.
[16] Certo, occorre anche una svolta a favore del trasporto su ferro nei programmi nazionali di
investimento, sbilanciati, come sempre, a favore delle autostrade.
[17] Comune di Roma, Programma Integrato Mobilità (PROIMO), 2001.
[18] W. Tocci, I. Insolera, D. Morandi, Avanti c’è posto, Donzelli, Roma 2008.
[19] B. Czarniawska, C. Mazza, T. Pipan, “La storia dello sfortunato tram numero 8”, in Gestire
grandi città. Storie di Roma al passaggio del millennio, Franco Angeli, Milano 2001.
[20] Per completare l’anello interno da Termini a San Pietro, proseguendo poi da piazza
Risorgimento a via Leone IV – per servire i Musei Vaticani – e poi attraversando Prati lungo la
linea che porta alla circolare esterna di via Regina Margherita. Recentemente è stato proposto un
ottimo ampliamento a nord dell’anello tranviario, passando per l’auditorium, via Guido Reni, il
ponte della musica e ritorno verso Prati.
[21] “Rifare l’Ottocento” è il titolo di una strategia di pedonalizzazione del centro storico basata
proprio sulla riqualificazione degli assi ottocenteschi, in W. Tocci, I. Insolera, D. Morandi, Avanti
c’è posto, cit., pp. 60-70.
[22] I passanti, altresì, consentirebbero di evitare l’attestamento delle linee nel centro storico,
liberando aree preziose oggi usate impropriamente come parcheggio di mezzi pesanti e consentendo
ampi margini di ripensamento dello spazio pubblico, ad esempio nel progetto Insolera (ivi, pp. 158164) di piazza dei Cinquecento, che in questo modo potrebbe essere liberata completamente dai
capolinea.
[23] Il tratto dell’anello prospiciente il Pigneto dovrebbe essere tombato per farne una promenade
pedonale e tranviaria. Quel quartiere popolare, tipico della periferia storica, sarebbe servito da uno
dei nodi principali del trasporto pubblico romano con l’integrazione della ferrovia regionale FaraFiumicino, la metro C e il tram.
[24] W. Tocci, I. Insolera, D. Morandi, Avanti c’è posto, cit., pp. 237-241
[25] G. Cuccia, Roma. Via Nomentana. Da passeggiata dei papi a grande arteria urbana,
Gangemi, Roma 2007.
[26] C. Gentile, “Un tram chiamatoCaravaggio”, in La Repubblica del 27-02-1999.
[27] W. Tocci, I. Insolera, D. Morandi, Avanti c’è posto, cit., pp. 164-190.
[28] Per l’importanza dei parcheggi lineari rinvio a W. Tocci, “Le basi teoriche di un nuovo piano
parcheggi”, in AA. VV., Per un Progetto Urbano. Dal governo della sosta ad una strategia per
Roma, Palombi, Roma 1999.
[29] C. Terzi, I piani della luce, Domus, Milano 2001.
[30] La distinzione tra periferia storica e periferia anulare in W. Tocci, Non si piange su una città
coloniale, op. cit.
[31] Come si vede, ad esempio, nella TAV in Val di Susa che solo dopo le proteste è stata
modificata non solo nell’impatto ambientale ma nelle stesse caratteristiche strategiche, che
evidentemente non erano state studiate con lo scrupolo necessario: A. Boitani, M. Ponti, F. Ramella,
“TAV, le ragioni liberali del no”.