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GIURISPRUDENZA•MATRIMONIO
Danno esistenziale
CORTE D’APPELLO DI MILANO, 12 aprile 2006
Pres. Pesce - Rel. Marini
Matrimonio - Dichiarazione di nullità - Errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge - Danno esistenziale Ammissibilità
(Artt. 122, 143, 2043, 2059 c.c.)
È ammissibile il risarcimento del danno esistenziale, quale conseguenza della dichiarazione di nullità del matrimonio viziato da errore essenziale sulle qualità del coniuge, consistente nello stato di
gravidanza causato da persona diversa dal soggetto caduto in errore.
… Omissis …
Motivi
La sentenza del tribunale di Monza: ha riconosciuto
che il P. «si è determinato a costituire il vincolo (matrimoniale) solo in quanto indotto in errore dalla
convenuta circa la propria responsabilità in ordine alla gravidanza della F., gravidanza invece, pacificamente attribuibile ad un altro uomo, come accertato
nel corso di giudizio di disconoscimento di paternità
conclusosi con sentenza …. che non risulta appellata….».
Ha accertato che la F. non aveva «confidato al P. la sua
infedeltà, e la conseguente probabilità che il nascituro
non fosse suo figlio, già prima della celebrazione del
matrimonio» ha ritenuto che il P. si fosse indotto al matrimonio in quanto “animato dalla certezza di essere il
padre del nascituro e dalla volontà di assumersi le proprie responsabilità….”, avendo solo successivamente al
matrimonio, a seguito della rivelazione di conoscenti,
….appreso la verità»
ha quindi dichiarato la nullità del loro matrimonio «ai
sensi dell’art. 122 comma 3 n. 5 c.c.
Tale capo della sentenza è passato in giudicato non essendo stato oggetto di impugnazione.
A fronte dell’accertato comportamento illecito della F.,
il primo giudice ha però negato il risarcimento del danno non patrimoniale rivendicato dal coniuge e dai genitori dello stesso (in misura rispettivamente di euro
258.228,45 e di euro 103.291,38 ) in quanto “di tale
danno non è stato offerto alcun riscontro”. Né ha ammesso la CTU richiesta dagli attori in quanto “avrebbe
assunto una inammissibile valenza esplorativa .”
Per quanto concerne i “danni materiali” ha accolto la
domanda degli attori di rimborso delle spese sostenute
per le bomboniere (euro 1.125,88), per gli abiti da cerimonia (euro 1.988,36), per il ricevimento di nozze presso il ristorante Villareale di Monza (euro 5.061,28), per
un totale di euro 8.175,52.
Ne ha invece respinto,in quanto sguarnite di prova, le
ulteriori richieste (relative al 50% del saldo del conto
corrente contestato ai coniugi, alla restituzione di
gioielli, al rimborso spese legali e mediche inerenti al
giudizio di disconoscimento di paternità.)
Con il primo motivo di impugnazione gli appellanti lamentano che il tribunale ne ha erroneamente respinto
la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale assumendo:
che il «dolore più profondo … è scaturito dalla circostanza di una vera e propria perdita rispettivamente di
un figlio e di un nipotino; tale situazione può essere paragonata alla perdita fisica di una persona cara … …,
oltre i patimenti dovuti alla perdita di una persona
amata, identificabile come morte della stessa, gli attori
hanno dovuto affrontare …… ulteriori patimenti e sofferenze……. inquadrabili sicuramente nella voce di
danno morale, ulteriormente qualificabili alla stregua
del danno esistenziale … risarcibile per il fatto in sé della lesione (danno evento) indipendentemente dalle
eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare (danno conseguenza)».
Richiamano l’interpretazione data all’art. 2059 c.c. dalla corte di cassazione con le sentenze 8827 e 8828 del
2003 e sottolineano che nella fattispecie è sicuramente
configurabile un danno ingiusto risarcibile in quanto vi
è stata la lesione di diritti fondamentali della persona,
riconosciuti dalla costituzione.
Gli appellanti sembrano in sostanza prospettare due diversi profili di danno non patrimoniale e cioè il danno
da privazione affettiva per la «perdita della qualità rispettiva di padre e di nonni» a seguito dell’accertata
non paternità biologica di P.M. nei confronti del piccolo C. e il danno esistenziale «originato dal comportamento della F. che, venendo meno ai propri doveri di
lealtà nei confronti del futuro coniuge, ha inciso sulla
libertà di scelta e di determinazione di P. M. coinvolgendo di conseguenza anche…P.L. e S.C.”, anche se
poi correlano la entità del risarcimento richiesto solo a
“quella di prassi corrisposta per la perdita di un congiunto».
Si dolgono inoltre che il primo giudice non abbia accolto “la richiesta istruttoria degli stessi diretta allo
svolgimento di una consulenza medica, atta a quantificare il danno patito” evidenziando che “comunque” il
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danno avrebbe potuto essere liquidato in via equitativa.
La F. fa propria la motivazione della sentenza impugnata eccependo la mancanza di qualsivoglia prova del
danno (“mancanza di certificati medici o quant’altro
che possa avere in qualche modo delineato il quadro di
sofferenza patito…”) e sembra eccepire anche il difetto
di legittimazione dei suoceri laddove afferma che «il limitato periodo di convivenza con il piccolo C. non ne
legittima alcuna valida richiesta risarcitoria …».
Tanto premesso, vanno distintamente esaminati i due
profili di danno lamentati dagli appellanti in quanto,
pur entrambi ricompresi nella voce di danno non patrimoniale prevista dall’art. 2059 c.c., (nella interpretazione data dalla corte cassazione nelle richiamate sentenze
8827 e 8828 del 2003) sono sottoposti ad un diverso regime probatorio ed hanno una diversa capacità espansiva per quanto riguarda i soggetti potenzialmente coinvolti .
Il primo profilo di danno addotto, “da privazione affettiva di un congiunto”, è configurabile in via astratta ed
ipotetica in capo sia a M.P. che a P.P. ed a C.S. (già rispettivamente padre e nonni del bambino generato dalla F.) .
Il concetto di “famiglia” deve infatti considerarsi comprensivo non solo dei genitori e dei figli, ma anche dei
nonni. Del processo di valorizzazione della famiglia “allargata” da parte del legislatore costitituisce emblematica espressione anche la recente legge 54/06, laddove al
comma 1 dell’art. 155 c.c. sancisce il diritto del minore
di “conservare rapporti significativi con gli ascendenti e
con i parenti di ciascun ramo genitoriale”.
Correttamente tuttavia il primo giudice ha respinto la
domanda in quanto - in violazione del disposto di cui
all’art. 2697 c.c. - gli attori non hanno dimostrato di
aver subito un pregiudizio dalla condotta illecita della F.
Sulla necessità di soddisfare l’onere probatorio si richiama la sentenza 8828/2003 (citata anche dagli appellanti) laddove sottolinea che il danno non patrimoniale “
da perdita di congiunto non coincide con la lesione
dell’interesse protetto; esso consiste in una perdita, nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito dalla irreversibile perdita del godimento
del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali…volendo far riferimento alla nota distinzione tra danno - evento e dannoconseguenza… si tratta di danno-conseguenza….il danno in questione deve quindi essere allegato e provato.
Trattandosi tuttavia di un pregiudizio che si proietta nel
futuro …sarà consentito il ricorso a valutazioni prognostiche ed a presunzioni sulla base degli elementi obbiettivi che sarà onere del danneggiato fornire.”
Gli appellanti invece non hanno fornito, né offerto di
dimostrare in termini idonei, alcun elemento, neppure
indiziario, che consenta l’accertamento del pregiudizio
subito, limitandosi ad affermare “che la scoperta dell’altrui paternità è equivalsa alla vera e propria perdita fisica di quello che fino a quel momento avevano conside-
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rato rispettivamente un figlio e un nipote …. E che ciò
ha condizionato e continua a profondamente condizionare in senso negativo la vita nonché i rapporti sociali
degli appellanti…. esposti al pubblico ludibrio”.
Le loro difese si sono infatti concentrate sulla risarcibilità in astratto del danno morale nella fattispecie dedotta in giudizio, trascurando invece l’aspetto probatorio, in base al presupposto erroneo che si verta in tema di danno in re ipsa, laddove - facendo espresso riferimento ad alcuni passi della motivazione della sentenza impugnata (Questo è il brano della sentenza impugnata riportato dalle difese degli appellanti:«Si valuta che solo successivamente al matrimonio, a seguito della rivelazione di conoscenti,l’attore abbia appreso la verità. A conforto di tale ricostruzione depongono anche il tenore complessivo della conversazione
telefonica inter partes trascritta agli atti di causa …e la
citata sentenza 103/98 del tribunale di Monza da cui
risulta che - nell’ambito del giudizio di disconoscimento di paternità - il teste M. T. affermò di avere
mantenuto il massimo riserbo con il P., sino a dopo il
matrimonio, circa le confidenze ricevute dalla F. in ordine al comportamento infedele serbato dalla stessa
durante il fidanzamento….. Rileva in questa sede, la
circostanza oggettivamente accertata della tardiva rivelazione all’attore») che hanno ad oggetto non già il
danno subito, ma il fatto generatore dello stesso chiariscono che “la richiesta di consulenza tecnica
d’ufficio era volta a confermare il nocumento subito…
trattandosi in realtà di fatti e circostanze già provati
nel corso del giudizio”.
Correttamente dunque, per tale profilo di danno il primo giudice non ha ammesso la CTU richiesta dagli appellanti, in quanto essendo mezzo di valutazione di prove già acquisite al processo non può sopperire alla inerzia sul punto serbata dalle parti.
Né, come erroneamente sostengono gli appellanti, il
tribunale avrebbe potuto far ricorso alla valutazione
equitativa del danno poiché, attenendo essa al quantum
del risarcimento, presuppone il preventivo e indefettibile accertamento dell’“an”.
Il secondo profilo di danno (“esistenziale”) dedotto
– è ravvisabile in capo al solo P.M. in quanto viene prospettato come sofferenza determinata dal comportamento della F. che, contravvenendo ai doveri di lealtà
nei confronti del futuro coniuge, ne ha inciso sulla libera determinazione al matrimonio, evento quest’ultimo
a cui all’evidenza sono estranei i genitori del P..
– si configura - secondo l’interpretazione della corte di
cassazione - come danno in re ipsa (c.d. danno-evento)
che, prescindendo in quanto tale da qualsivoglia onere
probatorio, può essere concretamente quantificato dal
giudice facendo ricorso al criterio equitativo previsto
dall’art. 1226 c.c.. Tenuto conto pertanto della indubbia gravità della condotta della F., della breve durata
della convivenza matrimoniale (circa due mesi) e del
fatto che il P. non ha addotto alcun elemento ulteriore
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a cui possa correlarsi in concreto il danno subito, esso si
liquida in euro 10.000,00 .
Con il secondo motivo di impugnazione gli appellanti
lamentano che il primo giudice ha riconosciuto loro “
soli euro 8.175,52” a titolo di risarcimento del danno
per le “ spese vive sostenute per il matrimonio, somma
notevolmente inferiore rispetto a quella effettivamente
sostenuta dai signori P. e S.”.
La doglianza è infondata.
Come ha già rilevato il primo giudice, manca in primo
luogo la prova che gli appellanti abbiano “sostenuto le
spese relative al canone di locazione della casa coniugale dei giovani sposi”, essendo all’uopo irrilevante la copia in atti del contratto di locazione nel quale figurano
quali conduttori, e quindi quali destinatari esclusivi dei
relativi diritti ed obblighi, la sola F. e il coniuge (v. doc.
3 del fascicolo di primo grado).
Del pari non vi è prova circa l’asserita donazione alla F.,
in occasione del matrimonio, di gioielli (diversi dall’anello in oro già restituito) e di cui gli appellanti chiedono la restituzione.
Legittimamente la F. ha prelevato dal conto corrente la
metà delle somme depositate, in forza della presunzione
- non vinta da prova contraria - della comproprietà di
esse derivante dalla cointestazione del conto.
Destituita del pari di fondamento è la pretesa degli appellanti che la F. paghi le spese da essi sostenute per le
“analisi del DNA”, in quanto risulta provato che in forza degli accordi intervenuti tali esborsi sarebbero stati
integralmente effettuati da M.P. (v. documento 9 prodotto nel fascicolo di primo grado dalla F. ) .
Del pari pretestuosa è la domanda degli appellanti diretta ad ottenere la condanna della F. a pagare “le spese
riconosciute nella sentenza di disconoscimento di paternità in favore dell’avv. F. F., curatrice speciale del minore C.…”. La sentenza infatti, che non è stata appellata, ha posto a carico della F. e di M. P. in misura paritaria le spese della curatela. La F. ha pagato la parte di
spese posta a suo carico, mentre il P. è rimasto inadempiente costringendo il curatore speciale ad azionare un
precetto (v. documentazione prodotta dalla F. nel fascicolo di primo grado) .
Il limitato accoglimento dell’appello giustifica la condanna della F. al pagamento di 1/4 delle spese di causa,liquidate d’ufficio in dispositivo in mancanza di notula,
disponendosene la compensazione per la restante parte.
CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA, 10 febbraio 2004
Pres. De Robertis - Rel. Campanile
Doveri dei genitori verso i figli - Dovere di mantenimento - Violazione - Risarcimento danni - Danno non patrimoniale.
(Art. 570 c.p.; artt. 147 e 148 c.c.)
A prescindere dalla configurabilità del reato di cui all’art. 570 c.p., sussiste la responsabilità da fatto
illecito di un genitore che consapevolmente abbia violato gli obblighi di cui agli artt. 147 e 148 c.c.
(Nel caso di specie, si è liquidata la somma di cinquemiliardi di lire, comprensiva sia del danno patrimoniale che del danno non patrimoniale).
… Omissis …
Motivi della decisione
Con il primo motivo di gravame l’appellante ha sostenuto che nessuna somma competerebbe al figlio naturale YY, poiché l’attribuzione dell’importo determinato dal
Tribunale di Modena, valutato e determinato in relazione al patrimonio del XX, avrebbe assunto il carattere, in
sostanza, dell’accoglimento di una inammissibile anticipazione di una vera e propria petizione di eredità.
L’argomento, di suggestiva portata, non coglie nel segno, dal momento che nella decisione appellata è stato
ampiamente specificato il carattere risarcitorio della
pretesa fatta valere dall’attore, con enunciazione dei
principi in base ai quali si è affermata la sussistenza di
un danno risarcibile e dei criteri sui quali si è fondata la
valutazione equitativa del pregiudizio complessivo subito dal YY.
La critica generalizzata contenuta nel primo motivo di
gravame, a ben vedere, si risolve nell’affermazione - di
per sé inassecondabile - dell’insussistenza di un danno
risarcibile in base all’asserita invalidità del criterio utilizzato per la determinazione dello stesso.
Esigenze di ordine logico ed espositivo inducono a scindere gli aspetti relativi all’an da quelli inerenti al quantum, anche se, come si vedrà più avanti (con riferimento all’affermazione secondo cui il mantenimento ottenuto dal YY dalla madre e dal presunto padre, fino al
passaggio in giudicato della sentenza di disconoscimento dei paternità) non mancano punti di contatto fra le
due questioni, nel senso che la misura dell’indennizzo o
del risarcimento non può prescindere dal raffronto fra
quanto in realtà il YY ottenne nell’ambito della sua
istruzione e della sua educazione, e i vantaggi di cui
avrebbe dovuto beneficiare in forza del rapporto di filiazione per cui è processo.
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Il secondo e il terzo motivo di gravame, secondo cui
l’attore avrebbe in ogni caso ottenuto dalla madre, o
dal padre legittimo (fino al passaggio in giudicato della
sentenza di disconoscimento) quanto necessario per il
proprio mantenimento, possono essere congiuntamente
esaminati.
Appare doveroso premettere come il riferimento alla
retroattività, sino al momento della nascita, del riconoscimento giudiziale della paternità, contenuto nell’impugnata decisione, costituisca il prius logico della fondatezza della domanda, affermato sulla base di un consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale secondo cui la dichiarazione giudiziale di paternità naturale ha natura dichiarativa, e, con particolare riferimento agli obblighi di istruzione e di mantenimento, ha efficacia retroattiva, fino al momento della nascita del figlio naturale (Cass., 28 giugno 1994, n. 6217; Cass., 14
agosto 1998, n. 8042; Cass. 4 maggio 2000, n. 5586).
Sotto tale profilo, il pieno riconoscimento della validità
della domanda dell’altro genitore di essere rimborsato
in relazione a quegli esborsi effettuati personalmente,
ma sin dall’inizio a carico di entrambi i genitori, assume
carattere indennitario, fondato, in differenti pronunce,
sull’azione di regresso del condebitore solidale ai sensi
dell’art. 1299 c.c., ovvero sulla negotiorum gestio.
Nessun dubbio, pertanto, si pone in relazione alle legittimità di siffatte pretese di rimborso, in quanto, avuto
riguardo alla retroattività della dichiarazione giudiziale
di paternità (e, per quanto qui interessa, della efficacia
ex tunc anche della sentenza che, accogliendo la domanda di disconoscimento, fa venir meno lo status di figlio legittimo), esse non incontrano ostacoli di natura
giuridica e, atteso l’evidenziato carattere indennitario,
prescindono da profili di colpa.
Un esame approfondito merita la questione relativa alle
richieste di risarcimento avanzate da figli naturali e fondate, come nel caso di specie, sull’inosservanza degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione facenti capo a uno dei genitori.
Nessuna preclusione nasce dalla condizione di figlio legittimo dell’attore fino alla sentenza che accoglieva la
domanda di disconoscimento avanzata dal ZZ. Invero,
anche volendo prescindere dalla retroattività di tale
pronuncia (sulla quale v. Cass., 5 novembre 1997, n.
10838, Cuomo c. Bechi), giova evidenziare, con particolare riferimento all’obbligo, facente capo al genitore,
di provvedere al mantenimento, all’istruzione e all’educazione del figlio naturale, che esso sussiste, ai sensi dell’art. 279 c.c., anche quando l’azione giudiziale di paternità non sia proponibile.
Pertanto, lo status (all’epoca sub judice) di figlio legittimo del YY non esimeva il XX dal sopperire alle carenze
inerenti alla situazione in cui versava il giovane figlio,
intervenendo per colmare e per alleviare uno stato di
disagio, e non solo economico, del tutto patente.
A tale proposito, mette conto di precisare come il riferimento alla presenza di una figura paterna, rappresentata
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dal ZZ, se costituisce il formale ossequio a una situazione all’epoca giuridicamente sussistente, non consente
di cogliere gli aspetti reali della vita del YY, il quale,
avendo il presunto genitore intrapreso l’azione di disconoscimento della paternità naturale nell’anno 1970,
cioè quando egli era ancora in fasce, e disinteressandosi
di lui il XX, di fatto si trovò ad essere, e per un periodo
lunghissimo, senza un padre.
Né può ritenersi che l’appellante, il quale non ha impugnato la decisione di primo grado in relazione al riconoscimento di paternità, abbia acquisito la consapevolezza
del rapporto di filiazione solo all’esito delle prove biologiche esperite nel primo grado del giudizio: egli era uno
dei principali protagonisti della vicenda adulterina (protrattasi anche quando la gravidanza della donna era evidente) che condusse alla disintegrazione del matrimonio
dei genitori legittimi dell’attore, e lo scalpore dell’azione
di disconoscimento, proposta dal ZZ proprio in seguito
alla scoperta della sua relazione con la YY, non poteva
non renderlo consapevole della propria paternità. Tale
aspetto, che non può essere disconosciuto, costituisce il
profilo psicologico della colpa del XX, e, quindi, consente la piena configurabilità dell’illecito civile che costituisce la base della pretesa risarcitoria per cui è processo.
A tale riguardo, e sotto tale limitato profilo, la motivazione della decisione di primo grado deve intendersi integrata, non potendo condividersi l’assunto (evidentemente valido per pretese di natura indennitaria che
non interessano il presente giudizio) secondo cui l’inadempimento dell’obbligo in esame determinerebbe automaticamente il diritto al risarcimento, “senza necessità di verifica concreta della colpa dell’onerato”.
Deve ritenersi, invero, che, indipendentemente dalla
configurabilità del reato di cui all’art. 570 c.p. nei confronti del genitore che, prima del riconoscimento della
paternità, si sia sottratto agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà di genitore, sia in ogni caso configurabile un illecito civile, che trova il suo fondamento nella
consapevole violazione dell’obbligo prescritto dalla disposizione contenuta nel citato art. 270 c.c.
Tanto premesso, la deduzione dell’appellante secondo
cui il YY usufruiva in ogni caso dell’assistenza della madre e del contributo erogato dal presunto padre (un assegno mensile determinato nella misura di L. 200.000)
non appare risolutiva, per le ragioni che seguono.
L’obbligo in esame non assume un contenuto fisso e invariabile, come potrebbe dirsi per gli alimenti, in quanto non può essere individuato soltanto in relazione alle
esigenze del suo destinatario, ma va determinato tenendo conto delle condizioni patrimoniali e sociali di ciascuno dei genitori, di talché la prole, come ha correttamente affermato il tribunale (mutuando tale principio
dalla motivazione della sentenza della Suprema Corte
n. 3363 del 22 marzo 1993), “ha diritto a un livello di
vita correlato alle possibilità economiche dei genitori”.
In relazione a quest’ultimo profilo va ricordato che si
tratta di un principio costantemente affermato dalla
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Suprema Corte, con particolare riferimento all’ipotesi,
più frequente, dei rapporti patrimoniali inerenti ai figli
nella separazione o nel divorzio, i quali hanno diritto a
un mantenimento tale da garantire loro un tenore di
vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello goduto in
precedenza (v. Cass., 3 aprile 2002, n. 4765; Cass. 2000
n. 15065).
Applicando, mutatis mutandis, tale principio al mantenimento e all’educazione dei figli naturali, appare evidente come l’obbligo facente capo al genitore deve intendersi soddisfatto soltanto allorché la prole abbia ricevuto, tenuto conto della posizione sociale ed economica dell’onerato, quegli stessi vantaggi che tale posizione gli assicurava.
Vale bene ricordare che la sentenza di accertamento
della filiazione naturale, in quanto ha natura dichiarativa dello stato biologico di procreazione, fa sorgere a carico del genitore tutti i doveri di cui all’art. 147 c.c. propri della procreazione legittima, compreso quello di
mantenimento che, unitamente ai doveri di educare ed
istruire i figli, obbliga i genitori ex art. 148 c.c. a far
fronte ad una molteplicità di esigenze, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all’aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale (Cass., 14
febbraio 2003, n. 2196, Polimeni c. Ferrante).
Prescindendo, per ora, dall’esame dei criteri che, in via
equitativa, sono stati adottati per la determinazione del
pregiudizio subito dall’attore, mette conto di evidenziare come la ricorrenza di un danno risarcibile, avuto riguardo all’accertata modestia delle condizioni di vita
del giovane YY, ove rapportata alle cospicue risorse del
facoltosissimo padre naturale, inserito nei vertici imprenditoriali della propria città, sia innegabile, derivando detto pregiudizio dall’inadempimento dell’obbligo di
consentire a quel figlio un tenore di vita e un grado d’istruzione adeguati.
Avanti di esaminare partitamente le censure avanzate
in relazione ai criteri adoperati in prime cure per la valutazione del pregiudizio riportato dall’attore, mette
conto di evidenziare come la bipartizione effettuata dal
tribunale sia assolutamente condivisibile, in quanto, se
da un lato appare evidente il danno che scaturisce dalla
mancata percezione di quanto l’appellante, tenuto conto della sua elevata posizione sociale ed economica,
avrebbe dovuto corrispondere ai figlio per adempiere
compiutamente ai propri doveri di genitore, non meno
significativa è la proiezione, su un piano probabilistico,
delle possibilità esistenziali dell’attore, in senso lato, ma
estremamente significative (attività professionale, inserimento sociale, livello di vita, capacità economiche),
se avesse potuto giovarsi degli apporti, non solo di natura finanziaria, del proprio genitore.
Il pregiudizio relativo alla frustrazione di tali aspirazioni
appare direttamente correlato all’inadempimento degli
obblighi di cui agli artt. 147 e 148 c.c., di talché, avuto
riguardo anche alla notevole sproporzione fra la condi-
zione esistenziale in cui il YY avrebbe dovuto versare, e
quella reale, di gran lunga deteriore (per il vero nobilitata, come si dirà, da ammirevole costanza e da innegabili capacità), appare senz’altro configurabile un danno,
di notevoli proporzioni, ai fondamentali diritti della
persona, così come garantiti dagli artt. 2 e ss. Cost., cui
va necessariamente posto in relazione, proprio ai fini di
una lettura costituzionalmente orientata, l’art. 2043 c.c.
(v. Cass. I, 7 giugno 2000, n. 7713, Danno e Resp. 2000,
pp. 835 e ss).
Vengono in considerazione, indipendentemente dagli
aspetti morali (dei quali si dirà in seguito), i pregiudizi
relativi alla perdita della prospettiva di un inserimento
sociale e lavorativo adeguato alla classe socio-economica di appartenenza del padre, perdita direttamente ricollegabile a quel deficit non solo di quegli apporti finanziari tali da consentire un livello d’istruzione di alto
livello e l’intrapresa di attività professionali o imprenditoriali consone alla famiglia, ma anche di quei consigli,
di quei suggerimenti, di quel so-stentamento morale tali
da favorire - in assenza di fattori ostativi - la formazione
di una personalità, di una cultura, di una capacità di intrattenere relazioni sociali di alto livello, direttamente
ricollegabili al patrimonio morale e culturale della famiglia paterna.
Con il quarto motivo di gravame sono stati censurati i
criteri di liquidazione del danno così come concretamente adottati dal tribunale di Modena. Tali censure si
sostanziano, a ben vedere, in una critica dei risultati
della consulenza tecnica effettuata dalla dott.ssa Russo,
la quale ha ricostruito, con riferimento a ciascuno degli
anni in considerazione, la posizione patrimoniale e reddituale del XX, attenendosi a una valutazione estremamente prudente (non a caso criticata anche dai consulenti di parte attrice), epperò meritevole di adesione.
Tenuto conto di tali risultati (in base ai quali le voci di
danno appaiono cospicue anche in considerazione di
una significativa rivalutazione, intervenuta, di anno in
anno, a far tempo dalla nascita dell’attore, risalente all’anno 1969), risultati che il Collegio giudica congrui e
correttamente motivati, va precisato che in casi del genere una valutazione dei danni non può essere effettuata che con criteri equitativi (v., oltre alla citata Cass. n.
7713/2000, Cass., 1° ottobre 1999, n. 10861). A tale
proposito va ricordato che occorre in ogni caso dare
conto dei criteri e degli elementi concreti dei quali si è
tenuto conto nel decidere equitativamente (Cass., 9
maggio 2001, n. 6426).
Per quanto attiene alla valutazione del danno relativo
alla mancata percezione delle somme relativa al mantenimento, all’istruzione e all’educazione, il criterio utilizzato dal Tribunale, basato sulla determinazione - tenuto
anche conto dell’esistenza di figli legittimi - di una quota dei redditi e del patrimonio del XX, sulla base delle
risultanze, emerse dalla consulenza contabile, relative a
ciascuna annualità, sembra quello maggiormente aderente all’id quod interest e adeguatamente utilizzabile.
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Vale bene precisare che il dato specifico da utilizzare
per valutare il danno (rappresentato proprio dalla differenza fra realmente percepito ad opera della madre e
quanto virtualmente realizzato in caso di adempimento
dell’obbligo di mantenimento facente parte al convenuto) è proprio la posizione patrimoniale e reddituale
di quest’ultimo.
Non può condividersi, per altro, la critica dell’appellante secondo cui tale voce di danno si sarebbe dovuta determinare esclusivamente in base ai redditi dell’obbligato: ai fini della determinazione dell’ammontare dell’assegno di mantenimento dovuto dai genitori in favore
dei figli minori o comunque non economicamente autosufficienti, la capacità economica di ciascun genitore
va determinata con riferimento al complesso patrimoniale di ciascuno, costituito oltre che dai redditi di lavoro subordinato o autonomo, da ogni altra forma di
reddito o utilità, quali il valore dei beni mobili o immobili posseduti, le quote di partecipazione sociale, i proventi di qualsiasi natura percepiti (Cass., 3 luglio 1999,
n. 6872, Vittozi c. Dembech).
Corretta appare, inoltre, la valutazione del presunto
concorso, in posizione vicaria, della madre nel mantenimento dell’attore, con la precisazione che, trattandosi
di un credito da costei esercitabile autonomamente, doveva essere detratto dalla somma complessivamente determinata per il mantenimento del figlio (pari, secondo
un calcolo presuntivo, all’importo rivalutato di 500 milioni di lire).
Il tribunale ha omesso tuttavia di considerare l’incidenza del contributo effettivamente versato dal presunto
padre ZZ, in base a statuizioni relative al giudizio di separazione, nell’arco di diciassette anni circa. A tale riguardo va considerato che lo stato di figlio legittimo
(nel caso di specie tale da determinare il concorso nel
mantenimento da parte del ZZ fino all’anno 1988) incide nelle richieste avanzate dal figlio naturale ex art.
279 c.c. (v. Cass., 22 gennaio 1992, n. 711; Cass., 24
gennaio 1986, n. 467) e, per i fini che qui interessano,
determina senz’altro un’ulteriore limitazione del danno.
Tenuto conto dei criteri di rivalutazione emergenti dalla consulenza tecnica espletata nel primo grado del giudizio, appare prudente valutare in quattrocento milioni
di lire la somma da detrarre dall’importo determinato
nell’impugnata decisione, che, pertanto, in relazione a
tale voce di danno va ridotto, da complessive lire
1.400.000.000, a un miliardo di lire.
Passando alla verifica dei criteri di valutazione del danno subito dall’attore in relazione al - la perdita della
prospettiva di un inserimento sociale e lavorativo adeguato alla classe socio-economica di appartenenza del
padre, non possono non considerarsi gli aspetti relativi
alla dimensione “esistenziale” di tale pregiudizio (nei
termini delimitati dal richiamo ai diritti della personalità, così come indicati nella citata sentenza n.
7713/2000 della S.C.).
Non coglie nel segno, per altro, la deduzione del vizio
514
FAMIGLIA E DIRITTO N. 5/2006
di ultrapetizione avanzata al riguardo dall’appellante, in
quanto nel giudizio di primo grado le richieste del YY e lo sviluppo del contraddittorio sul punto - hanno pienamente investito, nella loro globalità, gli aspetti risarcitori inerenti al mancato adempimento, da parte del
XX, degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione del figlio naturale.
Con riferimento alla determinazione, necessariamente
equitativa, di tale pregiudizio, gli elementi probatori da
valutare sono la rilevante capacità economica del padre, le sue qualità imprenditoriali, le situazioni patrimoniali dei figli legittimi del convenuto, la capacità dell’attore.
Il primo aspetto, concernente la figura paterna, riguarda
non solo l’alto livello sociale in cui era inserito, ma, soprattutto, il patrimonio complessivo, prudentemente
stimato in circa undici miliardi di lire, secondo i valori
monetari dell’anno 1996. Corrisponde a un criterio di
normalità la circostanza che un genitore, sin dal momento in cui il figlio inizia gli studi, fino a quando sta
per intraprendere un’attività lavorativa, lo guidi e lo
sorregga, anche economicamente, in relazione alle prospettive che la sua posizione socio-economica è in grado di offrire. Ciascuno, invero, prospetta per i propri figli un futuro migliore, e, in ogni caso, adeguato alle
condizioni sociali ed economiche della famiglia, adoperandosi con ogni mezzo, anche finanziario, affinché tali
aspirazioni trovino concreta attuazione.
La situazione patrimoniale della maggioranza dei figli
legittimi del XX, professionisti affermati e, soprattutto,
titolari di situazioni patrimoniali plurimiliardarie, di
gran lunga superiori alle loro, ancorché cospicue, capacità reddituali, da un lato conferma quanto sopra evidenziato circa l’efficacia degli aiuti provenienti dalla famiglia ai fini di un ottimo inserimento nel contesto sociale e nel mondo del lavoro, dall’altro costituiscono,
per i fini che qui interessano, un interessante punto di
riferimento per la valutazione equitativa del danno.
Al fine di porre in evidenza il pregiudizio “esistenziale”
e, al contempo, la personalità dell’attore, la sua capacità
di raggiungere, laddove confortato dagli aiuti paterni,
importanti traguardi, va ricordato che il YY, costretto,
per ragioni economiche, ad abbandonare gli studi, svolse qualsiasi tipo di attività manuale (pizzaiolo, cameriere, facchino, operaio agricolo). Assunto nell’anno 1990
come operaio dalla S.r.l. Cadica di Carpi, di distinse per
le sue capacità, e venne proposto come agente venditore per la zona dell’Emilia Romagna.
Deve ritenersi, pertanto, che anche il YY, se solo avesse
potuto beneficiare degli apporti di varia natura, ma soprattutto finanziari, provenienti dal padre naturale
(della cui esistenza è stato per lungo tempo all’oscuro),
avrebbe potuto conseguire risultati apprezzabili sul piano sociale ed economico, non dissimili da quelli relativi
ai figli legittimi del XX.
Risulta tuttavia provato che anche la moglie del XX
godesse di una posizione patrimoniale di significativo
GIURISPRUDENZA•MATRIMONIO
rilievo, ragion per cui, nel raffronto con le posizioni dei
figli legittimi (le quali, nel complesso della valutazione
complessiva del danno, assumono un valore meramente indicativo), non si può prescindere dai vantaggi derivanti dal presumibile concorso, anche di natura economica, della loro madre.
Tenuto conto, da un lato, di tale aspetto, e, dall’altro,
dei rilevanti pregiudizi arrecati alla personalità dell’attore, che trascendono la sfera meramente economica
(ed in tale misura deve intendersi accolto quanto dedotto dall’appellato in via incidentale in relazione al
danno esistenziale) appare congrua, per il ristoro complessivo delle voci di danno in esame, la somma di
quattro miliardi di lire (pari ad € 2.065.827,60) determinata nell’impugnata decisione.
Cioè a dire che la somma di un miliardo di lire che, considerati gli aspetti inerenti ai benefici che i figli legittimi
del XX hanno ricevuto non dallo stesso, ma dalla madre,
virtualmente detratta dall’importo complessivo determinato in prime cure, va attribuita per il ristoro dei rimarchevoli danni arrecati ai diritti fondamentali della persona, per aver condotto - come si dirà appresso - un’esistenza, dal punto di vista sociale e lavorativo, del tutto diversa, e assolutamente deteriore, rispetto a quella che il rapporto di filiazione in esame avrebbe consentito.
Non possono condividersi i rilievi, avanzati dall’appellato in via incidentale, in merito alla esclusione del danno
morale: essendo pacifico, e non seriamente contestabile,
che nel caso di specie non fosse configurabile il reato di
cui all’art. 570 c.p., va ricordato che la S. C., pur affermando la risarcibilità dei danni non patrimoniali in determinate circostanze di colpevolezza presunta, ha tuttavia ribadito l’ineludibile esigenza che “ricorrendo la colpa”, il fatto sarebbe qualificabile come reato (Cass., 17
maggio 2003, n. 7282, Bastrentaz c. Sassitalia, Giust.
Civ. 2003, p. 2063). Nel caso di specie alla configurabilità, anche in astratto, dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 570 c.p., è ostativa la circostanza che al YY non difettavano (anche in virtù dell’assegno di mantenimento
versato dal padre legittimo) i mezzi di sussistenza, inerendo l’inadempimento del XX, come già evidenziato, a
quelle maggiori prestazioni che la sua rilevante posizione
socio-economica sicuramente consentiva.
Il motivo di gravame inerente alla prescrizione della
pretesa risarcitoria fatta valere dal YY è evidentemente
infondato, non potendo la stessa essere esercitata prima
dell’esercizio dell’imprescrittibile azione inerente al riconoscimento della paternità.
Del pari inassecondabili sono le richieste dell’appellante in merito alla revoca del sequestro autorizzato nel
corso del primo grado del giudizio, dovendosi condividere l’assunto dei giudici di primo grado secondo cui la
disciplina delle misure cautelari, applicabile anche al
presente procedimento, prevede esclusivamente, ai sensi dell’art. 609/nonies, la declaratoria di inefficacia della
misura, per ragioni che non vengono in considerazione
nella fattispecie in esame.
Deve rilevarsi, infine, che la regolazione delle spese
processuali operata dai primi giudici, così come la liquidazione delle stesse, censurata in via estremamente generica, appaiono esenti da censure, essendo state effettuate in considerazione della soccombenza e del valore
effettivo della lite.
Ricorrono giusti motivi, avuto riguardo alla parziale reciproca soccombenza e alla delicatezza delle questioni
affrontate, per compensare integralmente le spese processuali inerenti al presente grado del giudizio.
… Omissis …
L’ILLECITO ENDOFAMILIARE TRA DANNO IN RE IPSA
E RISARCIMENTI ULTRAMILIONARI
di Giovanni Facci
1. Premessa
Nell’ormai ampio panorama giurisprudenziale sull’illecito endofamiliare, la sentenza della Corte d’Appello di Milano si segnala per la particolarità del
caso esaminato, riguardante il risarcimento del
danno esistenziale riconosciuto ad un coniuge determinatosi a contrarre il vincolo matrimoniale, solo
perché indotto in errore circa la propria responsabilità in ordine alla gravidanza della compagna. La
sentenza della Corte d’Appello di Bologna, invece, si
segnala per l’entità del risarcimento (cinque miliardi di lire) accordato ad un figlio, il cui padre naturale si era sempre sottratto agli obblighi di legge.
Le sentenze sopra riportate sono particolarmente
significative del rilievo assunto dal c.d. illecito endofamiliare non solo nell’ambito della responsabilità civile
ma anche del diritto di famiglia, a testimonianza di una
sostanziale privatizzazione delle relazioni familiari e di
un conseguente processo di valorizzazione della sfera individuale dei singoli componenti del nucleo familiare
(1). Tali mutamenti non hanno lasciato insensibile il
Nota:
(1) Al riguardo, Sesta, Diritto di famiglia, Padova, 2005, 30; Id., Diritti inviolabili della persona e rapporti familiari: la privatizzazione arriva in Cassazione, in Fam. Dir., 2005, 370.
FAMIGLIA E DIRITTO N. 5/2006
515
GIURISPRUDENZA•MATRIMONIO
legislatore: il recente intervento in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli (l. 8
febbraio 2006, n. 54) ha attribuito al giudice (art. 709
ter c.p.c.), in caso di gravi inadempienze dei coniugi, la
possibilità di disporre il risarcimento dei danni a carico
del genitore inadempiente, nei confronti del minore
oppure, nei confronti dell’altro genitore.
In questo modo, l’illecito endofamiliare, pochi mesi dopo aver ricevuto il definitivo ed espresso riconoscimento della Suprema Corte (2), ha ottenuto anche il
decisivo avvallo del legislatore, attraverso l’espressa previsione della possibilità per il giudice di condannare il
genitore inadempiente al risarcimento dei danni.
È stata così confermata la correttezza di quei precedenti che già erano giunti ad affermare la responsabilità
del genitore affidatario della prole, venuto meno al fondamentale dovere, morale e giuridico, di non ostacolare, ma anzi di favorire la partecipazione dell’altro genitore alla crescita ed alla vita affettiva del figlio (3), oppure che avevano configurato una responsabilità del genitore non affidatario nel caso di mancato esercizio del
diritto di visita (4); gli stessi comportamenti, inoltre,
erano già stati considerati fonte di possibili danni anche
nei confronti dei figli (5).
In ogni caso, entrambe le sentenze riportate, pur
nella diversità delle fattispecie esaminate, offrono l’occasione per svolgere alcune considerazioni intorno agli
elementi fondamentali intorno ai quali «ruota» il c.d.
illecito endofamiliare: l’ingiustizia del danno ed il danno non patrimoniale.
La sentenza della Corte d’Appello di Bologna, non
più recente ma pressoché inedita (6), si segnala per
l’entità del risarcimento liquidato a favore di un figlio,
il cui padre naturale (molto facoltoso) si era sempre sottratto agli obblighi di cui agli artt. 147 e 148 c.c.: €
2.582.284,00 (cinquemiliardi di lire). In particolare, un
miliardo di lire è attribuito al figlio a titolo di risarcimento del danno esistenziale «per il ristoro dei rimarchevoli danni arrecati ai diritti fondamentali della persona, per aver condotto…un’esistenza, dal punto di vista sociale e lavorativo, del tutto diversa, e assolutamente deteriore, rispetto a quella che il rapporto di filiazione in esame avrebbe consentito». La rimanente
somma è attribuita a titolo di risarcimento del danno
per la perdita della prospettiva di un inserimento sociale e lavorativo adeguato alla classe socio-economica di
appartenenza del padre nonché per la mancata percezione di quanto dovuto dallo stesso a titolo di mantenimento.
La pronuncia della Corte territoriale lombarda, invece, riconosce il risarcimento del danno esistenziale a
favore di un coniuge determinatosi a costituire il vincolo matrimoniale solo perché indotto in errore dalla
convenuta, circa la propria responsabilità in ordine alla
gravidanza della stessa; tale gravidanza, invece, era attribuibile ad un altra persona, come accertato nel corso
di un giudizio di disconoscimento di paternità conclu-
516
FAMIGLIA E DIRITTO N. 5/2006
sosi con sentenza non appellata. I giudici milanesi ravvisano la sussistenza di un danno esistenziale quale conseguenza del comportamento della donna, la quale
«contravvenendo ai doveri di lealtà nei confronti del
futuro coniuge, ne ha inciso sulla libera determinazione
al matrimonio».
Tale pregiudizio viene qualificato «come danno in
re ipsa (c.d. danno evento) che, prescindendo in quanto
tale da qualsivoglia onere probatorio», viene concretamente quantificato dal giudice facendo ricorso al criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c.; al riguardo, la
Corte d’Appello liquida la somma di € 10.000,00 tenuto conto della indubbia gravità della condotta della responsabile, della breve durata della convivenza matrimoniale (circa due mesi) e del fatto che l’ex marito non
ha addotto alcun elemento ulteriore a cui poter correlare in concreto il danno subito.
2. L’illecito endofamiliare
e l’ingiustizia del danno
Uno dei problemi fondamentali in tema di illecito
endofamiliare è rappresentato dallo stabilire quando la
violazione dei doveri nascenti dal matrimonio o dal
rapporto di filiazione può legittimare un’azione di risarcimento dei danni; in altre parole, si deve accertare in
Note:
(2) Cass. 10 maggio 2005, n. 9801, in Fam. Dir., 2005, 365, con note di
Sesta, Diritti inviolabili della persona e rapporti familiari: la privatizzazione arriva in Cassazione, e di Facci, L’illecito endofamiliare al vaglio della Cassazione; in Giust. Civ., 2006, 98, con nota di M. Pinelli, Violazione dei doveri
matrimoniali e responsabilità civile; in Danno e resp., 2006, 37, con nota di
Giazzi, Anche i matrimoni in bianco hanno un costo.
In precedenza, la S.C. si era espressa sull’argomento soltanto attraverso
obiter dicta, riguardanti, spesso, casi non attinenti alla fattispecie in esame: in modo particolare, Cass. 6 aprile 1993, n. 4108, in Mass. Giust.
Civ., 1993, 624; Cass. 22 marzo 1993, n. 3367, in Mass. Giust. Civ.,
1993, 535; Cass. 26 maggio 1995, n. 5866, in Giur. It., 1997, I, 1, 843,
con nota di Amato.
(3) In questo senso Trib. Monza, 5 novembre 2004, in Resp. civ. prev.,
2005, 162, con nota di Facci, L’illecito del genitore affidatario, nel caso di
specie, si è affermata la responsabilità del genitore affidatario per aver
condizionato psicologicamente il minore nel rapporto con la madre, determinando di fatto una sorta di rifiuto del primo nei confronti della
sconda; al riguardo anche Trib. Roma, 13 giugno 2000, in Dir. fam.,
2001, 209 con nota di Dogliotti, La responsabilità civile entra nel diritto di
famiglia, che ha ravvisato la responsabilità di una madre divorziata, affidataria della prole, che impediva costantemente, senza alcun vero adeguato motivo, al genitore non affidatario ogni rapporto con il figlio, nonostante i giudici della separazione e del divorzio, nell’affidare il minore
alla madre, avessero previsto un regime di visita e di permanenza del figlio presso il padre.
(4) Trib. Brindisi, 30 ottobre 2001, in Giur. mer., 2002, 391, riguardante
un caso di mancato esercizio del diritto di visita alla figlia portatrice di
handicap.
(5) Nel caso in cui il genitore affidatario ostacoli i rapporti tra il figlio e
l’altro genitore, si è ammessa astrattamente la possibilità di un risarcimento a favore del figlio, che, nella fattispecie, viene negato, a causa di
una carenza di legittimazione processuale: Trib. Roma, 13 giugno 2000,
cit.
(6) La sentenza è pubblicata, da quello che risulta, solo in La responsabilità civile, 2006, 129, con nota di Greco, La responsabilità da procreazione.
GIURISPRUDENZA•MATRIMONIO
quali casi la condotta di un coniuge o di un genitore
può costituire fonte di responsabilità civile, con conseguente condanna del responsabile al risarcimento.
A tal proposito, si può sottolineare come la S.C.
(7), nel riconoscere l’illecito endofamiliare, ha puntualmente precisato come ai fini del risarcimento vengono
in rilievo non «i comportamenti di minima efficacia lesiva, suscettibili di trovare composizione all’interno della famiglia in forza di quello spirito di comprensione e
tolleranza che è parte del dovere di reciproca assistenza,
ma unicamente quelle condotte che per la loro intrinseca gravità si pongano come fatti di aggressione ai diritti fondamentali della persona».
In questo modo, risulta confermata l’insussistenza
di ogni sorta di automatismo tra violazione dei doveri
nascenti dal matrimonio o dal rapporto di filiazione e
risarcimento del danno (8); si tenga in considerazione
che, sopratutto con riguardo ai doveri coniugali di carattere personale, si assiste ad una tendenziale «degiuridificazione», che determina un progressivo deperimento delle conseguenze giuridiche, in caso di inosservanza
degli stessi (9). L’attenzione, pertanto, deve essere spostata sulla clausola generale del «danno ingiusto», la
quale seleziona gli interessi giuridicamente rilevanti e
determina l’area della risarcibilità; così facendo, non è
possibile stabilire a priori quali siano gli interessi meritevoli di tutela: la caratteristica del fatto illecito di cui
all’art. 2043 è la sua atipicità, con la conseguenza che
spetta al giudice procedere ad una selezione, caso per
caso, degli interessi giuridicamente rilevanti, dal momento che soltanto la lesione di un interesse siffatto
può dare luogo ad un «danno ingiusto».
Come bene evidenziato da C.s.u. n. 500 del 1999
(10), al fine di selezionare gli interessi rilevanti, l’interprete deve effettuare un giudizio di comparazione
tra gli interessi in conflitto, e cioè tra l’interesse effettivo del soggetto che si ritiene danneggiato e l’interesse che il comportamento lesivo del danneggiante è
volto a perseguire. Lo scopo è quello di verificare se il
sacrificio dell’interesse del soggetto danneggiato trovi
o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell’autore della condotta, in ragione
della sua prevalenza. Tale comparazione e valutazione
non è rimessa alla discrezionalità del giudice, ma deve
essere condotta alla luce del diritto positivo, così da
accertare se l’ordinamento assicuri tutela all’interesse
del danneggiato, con disposizioni specifiche, oppure lo
prenda in considerazione sotto altri profili, diversi dalla tutela risarcitoria, manifestando così un’esigenza di
protezione.
Alla luce di queste considerazioni, è facilmente
comprensibile che l’ingiustizia del danno non può essere ravvisata nella «crisi coniugale» in sé e per sé,
nella separazione o nel divorzio, in quanto ciascun coniuge ha diritto di separarsi, di divorziare, di contrarre
un nuovo matrimonio e di formare una nuova famiglia (11): salvo il caso di un’azione fondata sul pregiu-
dizio per l’educazione della prole, che segue un particolare interesse, in ogni altro caso, la domanda di separazione si configura come un’azione diretta a far valere il «diritto a liberarsi da una convivenza», senza
perseguire alcun fine di «tutela dell’ordine della famiglia» (12).
In altre parole, il diritto del coniuge di porre fine al
rapporto coniugale prevale sull’interesse all’«unità» della famiglia; ugualmente la semplice relazione extraconiugale non può configurare gli estremi del danno ingiusto (13): nel giudizio di comparazione che deve essere effettuato al fine di valutare l’esistenza della clausola
generale del danno ingiusto, il dovere di fedeltà viene
inevitabilmente a scontrarsi con il diritto del coniuge
ad autodeterminarsi, ad avere rapporti interpersonali, a
porre fine ad essi, eventualmente, anche in vista della
formazione di un nuovo nucleo familiare.
In questo modo, si può avere un danno ingiusto,
solo nel caso in cui risulti che la condotta trasgressiva di
un coniuge, posta in essere in aperta e grave violazione
di uno o più doveri coniugali, ha determinato la lesione
di interessi meritevoli di tutela dell’altro, come, ad
esempio, la salute fisica e psichica, l’integrità morale, la
Note:
(7) Cass. 10 maggio 2005, n. 9801, cit.
(8) Sul punto sia consentito il rinvio a Facci, I nuovi danni nella famiglia
che cambia, Milano, 2004, 18 ss.
(9) Roppo, Coniugi. I) Rapporti personali e patrimoniali tra coniugi, cit.,
2, il quale sottolinea che il processo di degiuridificazione risulta evidente anche dal testo del progetto unificato di riforma, in cui fedeltà,
assistenza, collaborazione e coabitazione erano definiti non già come
«obblighi», bensì come semplici «impegni» dei coniugi. Si può vedere
anche Jemolo, Sul diritto di famiglia (pensieri di un malpensante), in Studi
in onore di Scaduto, I, Padova, 1970, 561, il quale rileva come l’intervento dello Stato sia necessario nel caso della violazione dei doveri
economici, mentre per la violazione dei doveri di assistenza morale e
di fedeltà deve intervenire l’opinione pubblica oppure la religione per
i credenti.
(10) Cass. Sez. un. 22 luglio 1999, n. 500, in Resp. civ. prev., 1999,
1003, con commenti di Bile, La sentenza n. 500 del 1999 delle Sezioni
unite della Suprema Corte di Cassazione; Alpa, Il revirement della Corte di
Cassazione sulla responsabilità per la lesione di interessi legittimi; Cugurra, Risarcimento dell’interesse legittimo e riparto di giurisdizione; Caranta, Responsabilità per lesione di interessi legittimi; in Contratto e impresa, 1999, 1025,
con nota di Franzoni, La lesione dell’interesse legittimo è, dunque,
risarcibile; in Danno e resp., 1999, 965, con commenti di Palmieri e Pardolesi, Monateri, Roppo, Ponzanelli; in Corr. Giur., 1999, 1367, con
nota di Di Majo, Il risarcimento degli interessi “non più solo legittimi”, e di
Mariconda, “Si fa questione d’un diritto civile….”.
(11) Trib. Milano, 4 giugno 2002, in Giur. it., 2002, 2290; Trib. Civitavecchia, 24 novembre 1982, in Temi romana, 1985, 167; sul punto anche Cass., 6 aprile 1993, n. 4108, cit.; in dottrina, Bona, Violazione dei
doveri genitoriali e coniugali: una nuova frontiera della responsabilità civile?,
cit., 208.
(12) Zatti, I diritti e doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei
coniugi, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, Torino, 1996,
201.
(13) In questo senso anche Trib. Milano 24 settembre 2002, in Resp.
Civ. prev., 2003, 486, con nota di Facci, L’infedeltà coniugale e l’ingiustizia
del danno; in Corr. Giur., 2003, 1205, con nota di De Marzo, La responsabilità risarcitoria dell’amante verso il coniuge tradito.
FAMIGLIA E DIRITTO N. 5/2006
517
GIURISPRUDENZA•MATRIMONIO
dignità, l’onore, la reputazione (14). Allo stesso modo,
potrà aversi un danno ingiusto nell’ipotesi in cui la
condotta di un genitore, in violazione dei doveri che i
genitori hanno nei confronti della prole, abbia leso interessi costituzionalmente rilevanti dei figli, incidendo
negativamente sul corretto sviluppo della personalità
degli stessi (15).
Nel giudizio di bilanciamento tra gli interessi contrapposti, in ogni caso, può avere un ruolo di primo piano la condotta dolosa del responsabile; nell’ambito dell’illecito extracontrattuale, infatti, il dolo non è soltanto un criterio di imputazione della responsabilità ma incide anche sulla stessa qualificazione di ingiustizia del
danno, rendendo risarcibili danni che, altrimenti, non
potrebbero ricevere tale qualifica e che quindi sarebbero irrilevanti se posti in essere con colpa (16).
A tal proposito, si può ricordare come siano numerosi gli illeciti che sono considerati tali soltanto se ricorre il dolo, ovvero la consapevolezza dell’agire in pregiudizio dell’interesse altrui: basti pensare alle denunce
infondate, allo storno di dipendenti, all’induzione all’inadempimento sia di natura concorrenziale che contrattuale (17). In questi illeciti, si viene a creare una interferenza tra colpevolezza ed ingiustizia del danno: attraverso l’elemento soggettivo del dolo, nel giudizio di
bilanciamento degli interessi in conflitto, l’ordinamento
esprime un giudizio di meritevolezza dell’interesse del
danneggiato al risarcimento; così facendo, il dolo attira
nel campo aquiliano e sanziona con l’obbligo del risarcimento comportamenti lesivi altrimenti irrilevanti (18).
Anche nell’illecito endofamiliare l’accertamento
del dolo influenza il giudizio sull’ingiustizia del danno,
come ben si evince dalla già ricordata pronuncia della
S.C. n. 9801\2005, che per la prima volta ha affermato
l’ammissibilità di una responsabilità extracontrattuale
per violazione dei doveri nascenti dal matrimonio; tale
sentenza - nell’affermare la responsabilità di un coniuge
per aver volontariamente omesso di comunicare alla futura sposa, prima del matrimonio, la propria incapacità
coeundi - ha collegato l’ingiustizia del danno alla condotta «fraudolenta» del convenuto, il quale pienamente consapevole prima del matrimonio della sua malformazione, ha volontariamente celato tale fatto; del resto, appare difficile sostenere, nel caso di specie, una responsabilità del coniuge, nell’ipotesi di condotta caratterizzata, in astratto (essendo l’ipotesi improbabile),
non dal dolo ma dalla semplice colpa.
Allo stesso modo, la sentenza della Corte d’Appello di Milano - nel confermare implicitamente che i doveri derivanti dal matrimonio vengono in rilievo anche
nella fase precedente al matrimonio imponendo alle
parti un obbligo di lealtà (19) - attribuisce rilievo alla
condotta dolosa e fraudolenta della convenuta; in particolare, si sottolinea che quest’ultima ha «indotto in errore» l’attore circa la propria responsabilità in ordine alla gravidanza, senza confidare allo stesso la sua infedeltà
e la conseguente probabilità che il nascituro non fosse
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FAMIGLIA E DIRITTO N. 5/2006
suo figlio. In tal modo, la convenuta, venendo meno ai
propri doveri di «lealtà» nei confronti del futuro coniuge, ha indotto al matrimonio quest’ultimo, il quale
«animato dalla certezza di essere il padre del nascituro e
dalla volontà di assumersi le proprie responsabilità», solo dopo il matrimonio, a seguito della rivelazione di conoscenti, ha potuto apprendere la verità.
Note:
(14) Cass., 10 maggio 2005, n. 9801, cit., la quale - nel rilevare che i doveri derivanti dal matrimonio vengono in rilievo anche nella fase precedente al matrimonio - afferma la responsabilità del coniuge per aver volontariamente omesso di comunicare alla futura sposa, prima del matrimonio, la propria incapacità coeundi.
(15) In questo modo, si è affermata la responsabilità di un genitore la
cui condotta, caratterizzata da un prolungato ed ostinato rifiuto, nel corrispondere i mezzi di sussistenza al figlio minore, abbia determinato la lesione di fondamentali diritti della persona, inerenti, in particolare, alla
qualità di figlio e di minore (Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, in Famiglia e
dir., 2001, 159, con nota di Dogliotti, La famiglia e l’altro diritto: responsabilità civile, danno biologico, danno esistenziale; in Corriere giur., 2000, 873,
con nota di De Marzo, La cassazione e il danno esistenziale; in Danno e resp., 2000, 835, con note di Monateri, Alle soglie”: la prima vittoria in cassazione del danno esistenziale, e di Ponzanelli, Attenzione: non è danno esistenziale, ma vera e propria pena privata; in Resp. civ., 2000, 923, con nota
di Ziviz, Continua il cammino del danno esistenziale). Allo stesso modo, si
è ritenuto responsabile un padre che si era, completamente, disinteressato della propria figlia naturale, ignorandone, volutamente, sin dalla
gravidanza dell’allora compagna, la nascita, le sorti, la vita, le esigenze
economiche, maturando, tra l’altro un debito per omessi contributi alimentari, di cospicua entità (Trib. Venezia, 30 giugno 2004, in Fam. Dir.,
2005, 297, con nota di Facci, Il nuovo danno non patrimoniale nelle relazioni familiari).
(16) Cendon e Gaudino, Il dolo, in La responsabilità civile, diretta da Alpa e Bessone, I, Torino, 1987, 82.
(17) Così, ad esempio, con riguardo alle denunce infondate è un principio consolidato, quello secondo il quale il denunciante è responsabile
dei danni causati al denunciato soltanto se il denunciante ha agito con
dolo, cioè se è incorso nel reato di calunnia (Cass. 4 febbraio 1992, n.
1147, in Foro it., 1992, I, 2127, con nota di Simone, in Corr. giur., 1992,
774, con nota di Zeno Zencovich; Cass. 12 gennaio 1991, n. 262, in Foro it., Rep., 1991, v. Responsabilità civile, n. 40; Cass. 13 novembre 1989,
n. 4792, in Foro it., Rep., 1991, v. Responsabilità civile, n. 92; Trib. Roma
21 marzo 1997, in Foro it., 1997, I, 2302; App. Roma 19 febbraio 1985,
in Giur. mer., 1987, 397, con nota Alajmo; Trib. Roma 22 giugno 1982,
in Giust. civ., 1983, I, 636, con nota di Verardi). Il riscontro del presupposto della calunniosità della denuncia deve essere accertato in base al
contenuto sostanziale dei fatti esposti, in quanto rivelatore di una cosciente alterazione della verità, ed a prescindere pertanto, dal mero rilievo di espressioni offensive, o di qualificazioni delittuose adottate dal denunciante medesimo (Cass. 13 febbraio 1982, n. 897, in Arch. civ.,
1982, 605; Cass. 13 novembre 1989, n. 4792, in Foro it., Rep., 1991, v.
Responsabilità civile, n. 92). È così necessario un dolo specifico, ovvero la
conoscenza dell’innocenza della vittima oppure la simulazione delle
tracce di reato.
(18) Franzoni, L’illecito, in Trattato della responsabilità civile, diretto da
Franzoni, Milano, 2004, 887.
(19) Sul punto, invece, espressamente, Cass. 10 maggio 2005, n. 9801,
cit., secondo la quale «l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio,
segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi sui
rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro - pur in mancanza, allo stato di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva della costituzione di tale vincolo - un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà, che si sostanzia anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente le proprie condizioni psicofisiche e di
ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto».
GIURISPRUDENZA•MATRIMONIO
Anche la Corte d’Appello di Bologna si sofferma
sull’elemento soggettivo in capo al convenuto il quale,
ben consapevole della propria paternità, non ha fatto
nulla per sopperire alle carenze in cui versava il giovane
figlio e per alleviare e colmare uno stato di disagio, non
solo economico, molto grave; si sottolinea, così, che,
indipendentemente dalla confiugrabilità del reato di
cui all’art. 570 c.p., sussiste un illecito civile, in quanto
il genitore ha «consapevolmente» violato gli obblighi
imposti dalla legge (20).
Anche in questo caso, pertanto, il dolo viene utilizzato quale citerio per esprimere un giudizio sull’ingiustizia del danno. Gli esempi in questo senso, riguardanti
l’illecito endofamiliare, possono continuare a conferma
di quanto sostenuto: basti pensare alle pronunce che
hanno affermato la responsabilità del genitore affidatario che, volutamente, ha condizionato psicologicamente il minore nel rapporto con l’altro genitore, determinando, di fatto, una sorta di rifiuto del primo nei confronti del secondo (21), o che ha impedito costantemente, al genitore non affidatario ogni rapporto con il
figlio (22); si pensi, più in generale, al c.d. mobbing familiare, ravvisabile allorché un coniuge abbia posto in
essere volontariamente un comportamento teso ad aggredire psicologicamente la personalità dell’altro familiare, per deprimerla o comunque solo ostacolarla, in
modo abituale e continuato (23).
Si deve considerare, infine, che nell’illecito aquiliano, l’accertamento del dolo incide anche sulla determinazione del quantum del risarcimento (24), appesantendo il fardello risarcitorio del responsabile (25): è indubbio che nei casi in cui il giudice deve procedere alla
liquidazione del danno in via equitativa, le modalità
della condotta lesiva assumono un ruolo di primo piano
(26). Non è una coincidenza, pertanto, che nell’illecito
endofamiliare si assista a risarcimenti molto importanti,
se non clamorosi, come nella fattispecie di cui alla sentenza della Corte d’Appello di Bologna, sopra riportata
(27).
3. Il risarcimento del danno
da illecito endofamiliare
La pronuncia della Corte territoriale bolognese si
segnala per l’entità del risarcimento riconosciuto all’attore: ben di rado si assiste a liquidazioni così elevate, riguardanti prevalentemete casi di danni da morte oppure di danni conseguenti a lesioni gravissime di un familiare, specie se si tratta di un nasciutro (28).
Nella fattispecie, una liquidazione così elevata è
stata determinata dal raffronto e dalla conseguente
sproporzione tra la posizione economica di primissimo
piano del padre naturale «inserito nei vertici imprenditoriali della propria città» e l’accertata modestia delle condizioni di vita del figlio naturale. In altri termini,
è stato attribuito fondamentale rilievo, nella quantificazione dei danni, alla circostanza che l’attore ha perso, a causa della condotta del genitore, la possibilità di
un inserimento sociale e lavorativo adeguato alla posizione socio-economia di appartenenza del padre naturale.
A tal proposito si tenga in considerazione che il
Note:
(20) Su una fattispecie analoga si segnala anche Trib. Venezia 30 giugno
2004, cit., che sottolinea più volte la condotta dolosa del convenuto
«pervicace nel disinteresse verso la figlia»; allo stesso modo, Cass., 7 giugno 2000, n. 7713, cit., la quale sottolinea la condotta del padre che si è
concretizzata in un «ostinato rifiuto di corrispondere al figlio i mezzi di
sussistenza».
(21) Trib. Monza, 5 novembre 2004, cit.
(22) Trib. Roma, 13 giugno 2000, cit.
(23) Sul punto, App. Torino, 21 febbraio 2000, in Foro it., 2000, I,
1555, con nota di De Angelis; Facci, I nuovi danni nella famiglia che cambia, Milano, 2004, 34. Al riguardo, Trib. Firenze, 13 giugno 2000, in
Danno e resp., 2001, 741, con nota di De Marzo, Responsabilità civile e
rapporti familiari, riguardante un caso in cui un marito, di fronte alla gravità delle condizioni di salute della moglie, si era volutamente disinteressato della stessa, lasciandola vivere in condizioni di abbandono e di
degrado; nel caso di specie, si è accertato che la donna sofferente sin dai
primi anni di matrimonio di una patologia psichica si era via via isolata
dal mondo esterno e dalla vita coniugale, chiudendosi nel salotto di casa e restandovi per quattro anni in totale stato di degrado fisico ed incuria, nel totale disinteresse del consorte che, solo per motivi di utilità pratica che imponevano il rilascio dell’abitazione, attivò il servizio pubblico
per il trattamento sanitario obbligatorio; il marito, infine, dopo le dimissioni della moglie dall’ospedale, presso il quale era stata ricoverata per
più di quaranta giorni, nel corso dei quali si recò a visitarla solo un paio
di volte, non manifestò la minima disponibilità a riaccoglierla presso la
nuova abitazione, così come era stato indicato, a fini terapeutici, dai sanitari.
(24) Secondo P. Gallo, Pene private e responsabilità civile, Milano, 1996,
61, l’entità dell’obbligazione risarcitoria varia a seconda che la lesione
sia stata perpetrata con semplice colpa o con dolo; nel primo caso scopo
della responsabilità civile sarebbe quello di reintegrare nel modo più alto possibile la situazione patrimoniale della parte lesa antecedentemente la commissione dell’illecito; in caso di dolo, scopo della responsabilità
civile sarebbe quello di disincentivare il comportamento lesivo posto in
essere mediante la comminazione di una somma di denaro a titolo di
penale.
(25) In questo senso Monateri, Manuale di diritto privato, Torino, 2001,
102; Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1996,
310; Alpa, La responsabilità civile, in Trattato di diritto civile, Milano,
1999, 236; Cendon, Il dolo nella responsabilità extracontrattuale, Torino,
1976, 21.
(26) Cendon e Gaudino, Il dolo, in La responsabilità civile, diretta da Alpa e Bessone, I, Torino, 1987, 91.
(27) In un caso analogo, Trib. Venezia 30 giugno 2004, cit., ha liquidato
il danno morale derivante dalla violazione degli obblighi familiari nella
somma di € 80.000,00, mentre il danno esistenziale, qualificato anche
come «danno non patrimoniale non coincidente con il mero danno
morale» è liquidato nella somma di € 50.000,00. Si segnala anche Trib.
Monza 5 novembre 2004, in Resp. civ. prev., 2005, fasc. I, con nota di
Facci, L’illecito del genitore affidatario, il quale condanna il genitore affidatario, che ostacolava il rapporto tra il figlio e l’altro genitore, a risarcire a
quest’ultimo la somma € 50.000,00.
(28) Al riguardo rimane significativa la liquidazione effettuata da Trib.
Bologna 16 gennaio 2004, in La responsabilità civile, 2004, 134, con nota
di Facci, Danni gravissimi al nascituro e risarcimento ultramilionario; nel caso di specie, riguardante la responsabilità dell’azienda ospedaliera per i
danni riportati dal nascituro a causa di una gravissima ipossia, diagnosticata in ritardo, dai sanitari intervenuti sulla partoriente, è stata liquidata
la somma complessiva di € 4327601 (quattromilionitrecentoventisette
milaseicentouno euro).
FAMIGLIA E DIRITTO N. 5/2006
519
GIURISPRUDENZA•MATRIMONIO
Tribunale di Modena (29), in primo grado, aveva liquidato la somma complessiva di Lire 5.400.000.000 (cinquemiliardi e quattrocento milioni); in particolare L.
1.400.000.000 è stato riconosciuto a titolo di mancato
mantenimento mentre la restante somma è stata determinata facendo riferimento alla perdita di chances di
«efficace inserimento in settori lavorativi e consessi sociali privilegiati alla stregua dei figli legittimi» del convenuto, i quali seppur giovani di età risultavano già titolari di patrimoni plurimiliardari. Al riguardo, si sottolinea l’effetto «volano» che un simile inserimento
avrebbe determinato sulla «situazione patrimoniale e
reddittuale» dell’attore, con la conseguenza che la somma di L. 4.000.000.000 pare, proprio, essere stata liquidata a titolo di danno patrimoniale da lucro cessante,
mentre viene negato il risarcimento del danno morale,
non ravvisandosi alcun elemento di colpa penalmente
rilevante in capo al convenuto.
I giudici di appello, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, detraggono dal risarcimento liquidato a titolo di mancata percezione delle somme relative al mantenimento l’importo di L. 400.000.000, tenuto conto dell’incidenza del contributo effettivamente
versato dal presunto padre dell’attore. È, invece, confermata la restante liquidazione riguardante il danno relativo alla «perdita della prospettiva di un inserimento
sociale e lavorativo adeguato alla classe socio-economica di appartenenza del padre».
I giudici di appello, tuttavia, risentendo inevitabilmente del nuovo corso del danno non patrimoniale nel
frattempo intervenuto dopo le pronunce della S.C. del
maggio del 2003 (30) attribuiscono rilievo non solo all’aspetto patrimoniale di tale pregiudizio ma anche alla
dimensione «esistenziale» dello stesso; in altre parole, si
riconosce che la condotta illecita del genitore ha prodotto conseguenze negative non solo nella sfera economica ma anche in quella non patrimoniale dell’attore.
In tal modo viene confermata la liquidazione di
quattro miliardi di lire determinati in primo grado; con
riguardo a tale liquidazione, tuttavia, si specifica che la
somma di un miliardo è riconosciuta per il pregiudizio
«esistenziale» derivante dalla lesione dei diritti fondamentali della persona dell’attore (31).
Si sostiene, infatti, che la personalità dell’attore ha
subito un grave pregiudizio per aver condotto un’esistenza, dal punto di vista sociale e lavorativo, del tutto
diversa ed assolutamente deteriore rispetto a quella che
il rapporto di filiazione avrebbe consentito. In particolare, viene ricordato come l’attore costretto per ragioni
economiche ad abbandonare gli studi ha svolto qualsiasi attività di tipo manuale (pizzaiolo, cameriere, facchino, operaio agricolo), mentre se avesse potuto beneficiare degli apporti non solo economici del padre naturale avrebbe potuto conseguire risultati anche «sociali»
non dissimili da quelli dei figli legittimi del convenuto.
A tal proposito, si tenga in considerazione che il
pregiudizio derivante dal dover svolgere mansioni lavo-
520
FAMIGLIA E DIRITTO N. 5/2006
rative poco gratificanti può ripercuotersi non solo nell’ambito patrimoniale (in termini di minor reddito), ma
anche sotto il profilo personale e morale del danneggiato, venendo in rilievo, ad esempio, l’appagamento personale, le abitudini di vita, gli assetti relazionali e le occasioni per l’espressione e la realizzazione della personalità del danneggiato nel modo esterno (32).
In questo modo, sulla base del raffronto tra la vita
sino ad allora condotta dall’attore ed i vantaggi di cui
avrebbe potuto beneficiare in forza del rapporto di filiazione viene adeguatamente evidenziata l’incidenza negativa che la condotta illecita del padre ha provocato
sulle attività realizzatrici del figlio (sia dal punto di vista
sociale che lavorativo), con una conseguente lesione
dei diritti fondamentali dello stesso, sia sotto il profilo
personale che relazionale.
Desta, invece, non poche perplessità la motivazione della pronuncia della Corte d’Appello di Milano,
chiamata a pronunciarsi sulla domanda di risarcimento
del danno non patrimoniale proposta nell’atto di impugnazione sia dall’ex coniuge sia dai genitori dello stesso.
In particolare, la difesa degli appellanti lamenta che il
Tribunale ha erroneamente respinto la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale per il dolore
conseguente alla «perdita della qualità rispettiva di padre e di nonni», a seguito dell’accertata non paternità
biologica dell’ex marito nei confronti del figlio della
convenuta.
È, altresì, richiesto il risarcimento del danno, qualificato dai giudici di secondo grado come esistenziale,
originato dal comportamento della donna che, venendo meno ai propri doveri di lealtà nei confronti del futuro coniuge, ha inciso sulla libertà di scelta e di deterNote:
(29) Trib. Modena 25 luglio 2001 - 14 settembre 2001, Pres. Stanzani,
Rel. Cifarelli, inedita.
(30) Cass., 31 maggio 2003, n. 8827, e Cass., 31 maggio 2003, n. 8828,
in Danno e resp., 2003, 816, con note di Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La
corte di cassazione e il danno alla persona; di Ponzanelli, Ricomposizione dell’universo non patrimoniale: le scelte della corte di cassazione; di P. M. di
Lauro, L’art. 2059 va in paradiso.
(31) In particolare, si sottolinea che dalla somma liquidata in primo grado di quattro miliardi si deve detrarre un miliardo tenuto conto dei benefici che i figli legittimi del convenuto hanno ricevuto non dallo stesso
ma dalla madre, la quale godeva di una posizione patrimoniale di significativo rilievo; tuttavia, tale somma, virtualmente detratta dall’importo
complessivo, viene poi attribuita per il ristoro dei rimarchevoli danni arrecati ai diritti fondamentali della persona dell’attore.
(32) Al riguardo è significativa la recente pronuncia di Trib. Genova 10
gennaio 2006, in Foro it., 2006, 894, riguardante un caso di intervento
chirurgico eseguito correttamente ma senza una corretta informazione
della paziente sulle conseguenze derivanti dall’operazione. Nella fattispecie, si è accertato che la mancata informazione ha condotto ad una
scelta terapeutica, non che sarebbe stata rifiutata, ma semplicemente
che sarebbe stata effettuata in un tempo diverso, al fine di non compromettere nell’immediato l’attività lavorativa. Si è accertato, infatti, che
la paziente, a causa dell’intervento, pur non subendo una contrazione di
reddito, ha dovuto modificare le mansioni lavorative, passando da visagista a dimostratrice di campionari; per questo motivo è stato riconosciuto un danno non patrimoniale di € 3.000.
GIURISPRUDENZA•MATRIMONIO
minazione di quest’ultimo, coinvolgendo di conseguenza anche i genitori dello stesso.
Con riguardo al primo profilo di danno adotto, «da
privazione affettiva di un congiunto», l’organo giudicante sottolinea come tale pregiudizio sia configurabile
solo in via astratta ed ipotetica sia in capo all’ex marito
che ai di lui genitori; il concetto di famiglia, infatti, deve considerarsi comprensivo non solo dei genitori e dei
figli, ma anche dei nonni: lo stesso legislatore, con la
recente l. 54/2006, al comma 1 dell’art. 155 c.c. sancisce il diritto del minore di «conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale». Si rileva, tuttavia, che il giudice di primo grado ha respinto correttamente la domanda, in
quanto, in violazione dell’art. 2697 c.c., gli attori non
hanno dimostrato di aver subito alcun pregiudizio dalla
condotta illecita della donna. In particolare, non è stato fornito alcun elemento, neppure indiziario, diretto
ad accertare il pregiudizio subito, sul presupposto erroneo che si verta in tema di danno in re ipsa.
I giudici d’appello, invece, ravvisano la sussistenza
di un danno «esistenziale» in capo all’ex coniuge, il quale viene configurato «come sofferenza determinata dal
comportamento» della donna, che «contravvenendo ai
doveri di lealtà nei confronti del futuro coniuge, ne ha
inciso sulla libera determinazione al matrimonio, evento
quest’ultimo a cui all’evidenza sono estranei» i genitori
dell’uomo. Tale pregiudizio viene qualificato «come
danno in re ipsa (c.d. danno evento) che, prescindendo
in quanto tale da qualsivoglia onere probatorio, può essere concretamente quantificato dal giudice facendo ricorso al criterio equitativo previsto dall’art. 1226 c.c.».
Al riguardo, la Corte d’Appello liquida la somma di €
10.000,00 tenuto conto della indubbia gravità della
condotta della convenuta, della breve durata della convivenza matrimoniale (circa due mesi) e del fatto che
l’ex marito non ha addotto alcun elemento ulteriore a
cui poter correlare in concreto il danno subito (33).
Siffatta ricostruzione, tuttavia, appare censurabile
in Cassazione; infatti - a prescindere dalla circostanza
che i giudici di secondo grado paiono attribuire al c.d.
danno esistenziale aspetti meramente emotivi ed interiori propri del danno morale (34), amplificando così i
problemi di distinzione tra queste due voci di danno desta non poche perplessità configurare il danno esistenziale come danno in re ipsa. A tal proposito, si può
evidenziare che l’orientamento che ritiene che la lesione di diritti fondamentali della persona - come quelli
che vengono in rilievo nel caso di danno esistenziale generi sempre un danno civile risarcibile di per sé, a
prescindere da qualsiasi prova circa l’esistenza di una
perdita, è stato definitivamente superato dalle pronunce della S.C. del maggio 2003 (35), che, nel ridisegnare
l’assetto della riparazione del danno non patrimoniale,
hanno respinto la tesi del danno in re ipsa (36), che ripropone la formula carneluttiana del danno come «lesione di interesse» (37).
Secondo lo schema risarcitorio delineato dalle sentenze della S.C. del maggio 2003, infatti, ai fini del risarcimento, dalla lesione dell’interesse tutelato deve
scaturire una perdita, una privazione di un valore non
Note:
(33) Si tenga in considerazione che non è stata proposta alcuna domanda volta ad ottenere la tutela di cui all’art. 129 bis, disciplinante l’ipotesi
della responsabilità del coniuge in mala fede, al quale sia imputabile la
nullità del matrimonio. Al riguardo, Cass. 10 maggio 2005, n. 9801, cit.,
sottolinea che l’indennità prevista dall’art. 129 bis costituisce una misura specifica, conseguente alla pronuncia di nullità del vincolo, che per la
sua precisa funzione ed il suo limitato ambito di applicazione, non può
certo escludere l’applicabilità della norma generale dell’art. 2043 c.c.,
sopratutto se viene in rilievo la lesione di un interesse di rango costituzionale.
(34) Si afferma, infatti, che «Il secondo profilo di danno (“esistenziale”)
dedotto è ravvisabile in capo al solo P.M. in quanto viene prospettato
come sofferenza determinata dal comportamento della F. che, contravvenendo ai doveri di lealtà nei confronti del futuro coniuge, ne ha inciso sulla libera determinazione al matrimonio, evento quest’ultimo a cui
all’evidenza sono estranei i genitori del P.».
Sulla distinzione tra danno morale e danno esistenziale, di recente anche Cass. sez. Un. 24 marzo 2006, n. 6572, in Foro it., 2006, 1344, secondo la quale «il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma
oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte
di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso».
(35) Cass., 31 maggio 2003, n. 8827 e Cass., 31 maggio 2003, n. 8828,
cit.
(36) La tesi del danno in re ipsa, la quale richiama il procedimento seguito per ammettere il risarcimento del danno alla salute, è stata adottata anche dalla sentenza della Suprema Corte che per la prima volta ha
riconosciuto il danno esistenziale (Cass. 7 giugno 2000, n. 7713, in
Corr. giur., 2000, 873, con nota di De Marzo. Proprio per la “contaminazione” tra danno evento e danno esistenziale, è stata sottoposta a critica anche dagli stessi “inventori” del danno esistenziale, Ziviz, Danno
biologico e danno esistenziale: parallelismi e sovrapposizioni, in Resp. civ.
prev., 2001, 420, nota 11; Id., Continua il cammino del danno esistenziale,
in Resp. civ. 2000, 933). Uno schema risarcitorio di tal genere è stato
adottato anche da alcune pronunce della Suprema Corte in materia di
lesione della reputazione (Cass. 10 maggio 2001, n. 6507, in Diritto e
giustizia, 2001, 22, 12, con nota di Rossetti), e di protesti illegittimi
(Cass. 3 aprile 2001, n. 4881, in Guida al diritto, 2001, fasc. 19; Cass. 5
novembre 1998, n. 11103, in Mass. Foro it., 1998; Cass. 23 dicembre
1997, n. 13002, in Mass. Foro it., 1997; Cass. 23 marzo 1996, n. 2576,
in Danno e resp., 1996, 320).
(37) Al riguardo, Carnelutti, Il danno e il reato, Padova, 1926, 17; tale
formula rifletteva una concezione tipizzante e sanzionatoria dei fatti illeciti (sottolinea tale aspetto, Busnelli, La parabola della responsabilità civile,
in Riv. crit. dir. priv., 1988, 653). L’aspetto sanzionatorio sembra ancora
presente nelle pronunce che adottano la tesi del danno in re ipsa, in
quanto si tende a commisurare il risarcimento del danno, non all’entità
del pregiudizio concreto subito dalla vittima ma alla condotta dell’agente ed alla lesione dell’interesse in sé e per sé considerato (tale aspetto, ad
esempio, risulta evidente dalla motivazione di Cass. 7 giugno 2000, n.
7713, cit., la quale nel condannare al risarcimento del danno un padre,
il quale, a causa di un prolungato ed ostinato rifiuto, aveva corrisposto
con molto ritardo i mezzi di sussistenza al figlio minore, espressamente
afferma che ciò che si è voluto risarcire è la lesione in sé, di diritti fondamentali della persona, derivanti dal comportamento del convenuto, a
prescindere dal danno patrimoniale: “è poi del pari innegabile che la lesione di diritti siffatti, collocati al vertice della gerarchia dei valori costituzionalmente garantiti, vada incontro alla sanzione risarcitoria per il
fatto in sé della lesione - danno evento - indipendentemente dalle
eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare - danno
conseguenza”).
FAMIGLIA E DIRITTO N. 5/2006
521
GIURISPRUDENZA•MATRIMONIO
economico, che in relazione alle varie fattispecie, potranno avere diversa ampiezza e consistenza, in termini
di intensità e di protrazione nel tempo. Tali principi sono stati ribaditi di recente anche dalla Cassazione a Sezioni Unite (38), la quale - nel negare l’ammissibilità di
un danno non patrimonale in re ipsa nel caso di demansionamento del lavoratore - ha sottolineato, più in generale, come «la forma rimediale del risarcimento del
danno opera solo in funzione di neutralizzare la perdita
sofferta, concretamente, dalla vittima, mentre l’attribuzione ad essa di una somma di denaro in considerazione
del mero accertamento della lesione, finirebbe con il
configurarsi come somma-castigo, come una sanzione
civile punitiva, inflitta sulla base del solo inadempimento, ma questo istituto non ha vigenza nel nostro ordinamento».
In questo modo, anche nel caso di illecito endofamiliare, il danneggiato è tenuto, secondo le regole ordinarie, a fornire la prova del danno nei suoi caratteri naturalistici, dovendo dimostrare l’incidenza di tale pregiudizio sulle attività realizzatrici, con conseguente alterazione della personalità, sia sotto il profilo personale
che relazionale. Nel caso di specie esaminato dalla Corte d’Appello, è indubbio che venga in rilievo la lesione
di interessi di rango costituzionale della persona umana,
come la libertà - intesa come autonoma determinazione
al matrimonio -, la dignità, l’aspettativa di poter esplicare le proprie potenzialità nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui
tutela risiede negli artt. 2, 3, 29 e 30 Cost.; tuttavia,
non è corretto far riferimento ad un danno in re ipsa, in
quanto se si collega il risarcimento alla lesione dell’interesse in sé e per sé considerato e non all’entità del pregiudizio concreto subito dalla vittima, si finisce per attribuire alla responsabilità civile una funzione prevalentemente sanzionatoria, in netto contrasto con la funzione riparatoria della stessa. Si tenga in considerazione
che l’unico caso in cui si ammette l’esistenza di un risarcimento del danno non patrimoniale in re ipsa è rappresentato dalla fattispecie di cui all’art. 2, comma I, l. n.
89 del 24 marzo 2001 (39), la quale, tuttavia, ha natura
indennitaria e non risarcitoria (40).
In ogni caso, nonostante l’erronea qualificazione
del danno esistenziale come danno in re ipsa, può essere
accaduto che i giudici milanesi abbiano fatto riferimento al danno in re ipsa non nel senso che esso sarebbe
coincidente con la lesione dell’interesse tutelato, ma
nel significato che l’aver contratto un matrimonio che
altrimenti non sarebbe stato effettuato sarebbe già il
pregiudizio subito dal danneggiato, inteso come scelta
di vita diversa da quella che si sarebbe adottata se non
si fosse verificato l’evento dannoso. Tale interpretazione potrebbe risultare in parte confermata dalla circostanza che, al fine di quantificare il danno, viene fatto
espresso riferimento alla breve durata della convivenza
ed all’assenza di elementi ulteriori a cui correlare in
concreto il pregiudizio subito. Proprio con quest’ultimo
522
FAMIGLIA E DIRITTO N. 5/2006
riferimento, viene anche evidenziata l’inerzia della difesa degli appellanti che non ha fornito alcuna prova,
nemmeno presuntiva, idonea a dimostrare «i concreti
cambiamenti che l’illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato» (41).
Note:
(38) Cass. sez. Un. 24 marzo 2006, n. 6572, cit.; in particolare la C.s.u. è
stata chiamata a pronunciarsi sulla seguente questione: «se in caso di
demansionamento o di dequlificazione, il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, sopratutto di quello cosidetto esistenziale, suscettibile di liquidazione equitativa, consegua in re ipsa al demansionamento,
oppure sia subordinato all’assolvimento, da parte del lavoratore, all’onere di provare l’esistenza del pregiudizio».
(39) L’art. 2 della l. n. 89 del 24 marzo 2001, in tema di equa riparazione
in caso di violazione del termine ragionevole del processo, prevede che
“Chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di
violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e
delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della l. 4 agosto 1955, n.
848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui
all’art. 6, par. 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione”.
È orientamento costante ritenere, anche alla stregua della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che siffatto pregiudizio sia
una conseguenza normale e necessaria della violazione del diritto alla
ragionevole durata del processo, a causa dei disagi e dei turbamenti di
ordine psicologico che la lesione di tale diritto solitamente provoca a
chi ne è titolare (Cass. sez. Un. 26 gennaio 2004, n. 1338, in Danno e
resp., 2004, 499; Cass. sez. Un. 26 gennaio 2004, n. 1339, in Giust. Civ.,
2004, I, 907, con nota di Morozzo Della Rocca).
(40) In ogni caso, a prescindere dalla natura indennitaria e non risarcitoria dell’equa riparazione, di cui all’art. 2 l. 89 del 2001, (Cass. 21 gennaio 2005, n. 1343; Cass. 14 maggio 2003, n. 7388, in Giust. civ. Mass.,
2003, f. 7-8; Cass. 8 agosto 2002, n. 11987, in Dir. e giust., 2002, fasc.
32, 20), la giurisprudenza precisa come nella fattispecie non si configuri
un danno non patrimoniale in re ipsa - ossia di un danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione - una
volta accertata quest’ultima deve, invece, considerarsi di regola in re ipsa
la prova del relativo pregiudizio, che il giudice deve ritenere quindi esistente, sempre che non constino, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che il danno in questione sia
stato subito dal ricorrente. Tale ipotesi si verifica quando, ad esempio, il
protrarsi del giudizio appare rispondente ad uno specifico interesse della
parte o sia comunque destinato a produrre conseguenze che la parte
stessa percepisce come a sé favorevoli (Cass. 13 aprile 2006, n. 8716;
Cass. 21857/05; 21094/05; 19288/05; 19029/05). Di recente, sono stati
considerati elementi idonei ad escludere la configurabilità di un danno
non patrimoniale: il comportamento processuale delle parti, che per
l’intero arco del giudizio si erano limitate a formulare richieste di rinvio;
l’oggetto del giudizio, consistente nella divisione di una parte di un fabbricato, cui il ricorrente, proprietario per un quarto, non si era opposto;
la circostanza, infine, che il giudizio si fosse concluso con l’estinzione
per inattività delle parti, a seguito di una transazione stragiudiziale
(Cass. 13 aprile 2006, n. 8716).
(41) Sull’assolvimento di un siffatto onere probatorio da parte del danneggiato, al fine di ottenere la liquidazione del danno esistenziale: Cass.
sez. Un. 24 marzo 2006, n. 6572, cit.