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«Frank, intelligente e onesto, è uno dei pochi
scrittori nobili che meritano sempre di esser letti:
egli comprende le diverse condizioni in cui vive e
resta sempre fedele a sé.»
Ladislao Mittner,
Storia della letteratura tedesca
«La novella L’origine del male combatte la pena di
morte e la raccolta L’uomo è buono è un manifesto
rivoluzionario di fede nell’umanità.»
Enciclopedia Treccani
«Le novelle di Frank sono esempi perfetti
dell’arte compositiva.»
Marcel Reich–Ranicki
«Il libro più appassionato mai scritto
contro la guerra.»
Kurt Pinthus
«In Europa ci sono due uomini, Barbusse e Frank,
che provocano questo fenomeno, meraviglioso e
terribile, di simpatia umana. Fanno sì che uomini
e donne che vivono in luoghi molto differenti
possano comprendersi nella distanza, perché si
riconoscono uguali nello scrittore: uguali nei loro
impulsi, nelle speranze, negli ideali.»
Roberto Arlt
hanno scritto
formebrevi
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Leonhard Frank, L’uomo è buono
Titoli originali: Die Ursache, Der Mensch ist gut
The translation of this work was supported by a grant from the
Goethe–Institut which is funded by the German Ministry of Foreign
Affairs World
Copyright © Aufbau Verlag GmbH & Co. KG, Berlin 1990 und 2008
Die Ursache. Eine Erzhälung, was first published by Georg Müller, Munich
in 1915; Der Mensch ist gut. Novellen was first published by Rascher & Cie,
Leipzig & Zurich in 1917
Copyright © Del Vecchio Editore, 2014
Editing: Michele Piroli, Vittoria Rosati Tarulli
Redazione: Vittoria Rosati Tarulli
Design. Illustrazioni. Logo: Maurizio Ceccato | IFIX
www.delvecchioeditore.it
www.twitter.com/DelVecchioEd
www.senzazuccheroblog.it
ISBN: 9788861101067
ISBN: 9788861101203 (ebook)
«Le trattazioni filosofiche non appartengono
al romanzo. Chi vuole leggere trattazioni
filosofiche, legga i filosofi. La filosofia
di un romanzo dev’essere contenuta
nel tutto a cui si dà forma.»
— LEONHARD
FRANK
traduzione e cura
PAOLA DEL ZOPPO
LA MADRE
Suo figlio non era partito volontario, per il fronte.
Quando la madre alle sei del mattino scendeva dal letto,
vedeva suo figlio. Lo vedeva nella cucina ancora fredda, lo
vedeva nel corridoio, nella legnaia, in cantina, sulla strada.
Il figlio si fa strada nel suo sonno; marcia, rimpicciolisce, viene avvolto dalla nebbia, scompare e intanto continua a marciare ininterrottamente. A ogni sonno. In ogni
notte e in ogni sogno.
Il figlio siede su una sedia, alla periferia sbiadita del grave incubo che ha portato il padrone di casa a sedere sul
letto: – Adesso basta, i soldi dell’affitto!
Minaccioso, il padrone di casa, tutta quell’ansia per i
centesimi, tutto l’affanno, le miserie della vita di ogni giorno si fanno cose da nulla ed evaporano. Perché la sedia con
il figlio scivola al centro del sogno, le si spinge sul petto.
Spolvera i mobili laccati, gli intagli a conchiglia. Il figlio
le sta vicino e la accompagna dall’armadio al comò, dal letto alla tavola.
Vede lui e se stessa uscire per andare alla caserma, tra molti giovani ancora in abiti civili con scatole di cartone e
valigette povere. Ci sono molte persone di fronte al muro
del cortile della caserma: donne, figli, spose, madri. Impotenti.
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Quella sconvolgente, fredda, spietata costruzione di ferro che è la stazione! Madri e mogli mute che piangono.
Bocche aride. Sorrisi lacerati dei giovani soldati, simili a
cadaveri ornati di fiori. Impotenza ornata di fiori!
Il treno parte. Parte e scompare.
Un ritorno a casa solitario, terribile.
Tra la mano della madre e il coperchio della pentola si
insinua la grigia figura del figlio. Il dubbio se nella verdura
ci sia bisogno di un altro po’ di sale, frantumato dal figlio
che salta in trincea, e che continua a saltare rapido nelle
trincee nemiche, da cui si alzano le baionette nel tentativo
di colpirlo.
Ogni pensiero veniva frantumato dal pensiero del figlio.
Mentre il fornaio incartava il pane lei scopriva in una
monotona pianura animata da malvagie e biancastre nuvolette di fumo di spari il figlio, che, con quel suo caratteristico gesto, si passava la mano sull’occhio destro.
E nell’istante in cui dice: – Avrei preferito del pane fresco, – il figlio sporge la testa dalla trincea.
Sconvolta, lascia cadere il pane sul banco, si preme i pugni sulle guance quando vede come il soldato nemico mira alla testa di suo figlio.
– Gesù! Figliolo, come puoi farmi…
Il figlio si china verso il commilitone.
– … questo.
Il soldato nemico abbassa il fucile.
– Domani ci sarà di nuovo il pane fresco.
La madre esce dal fornaio con lo sguardo sul campo di
battaglia. Il soldato nemico, l’arma di nuovo alla guancia,
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pronta a sparare, mira di nuovo al figlio chino.
– Se adesso si alza! Dio onnipotente, fa’ che il commilitone racconti una storia così che mio figlio stia a sentire e
non si alzi. Fa’ che il commilitone chieda un favore, così
che il mio buon figlio acconsenta e non si alzi.
Il fucile nemico si abbassa.
A quel punto appare la testa del figlio, il fucile nemico
si solleva in terribile posizione orizzontale.
Urlo della madre.
Gli occhi sbarrati su due cani a pelo lungo che a poca distanza da lì si stavano attaccando. I denti che stridevano.
Musi rabbiosamente contratti.
(Grigie figure abbandonano la trincea, guizzano incolori sulla pianura incolore. Mischia selvaggia e muta, sconvolgente.)
La madre si precipita tra i due cani in lotta che sono il figlio e il soldato nemico. Con le sue mani vecchie, indurite
dalla fatica della vita, separa i cani, che ringhiando corrono via in direzioni opposte. (Le figure incolori guizzano di
nuovo nelle trincee). Nei tre anni di guerra ha imparato a
gemere senza emettere suono. Milioni di madri hanno imparato a gemere col cuore. Al verme vivo attaccato all’amo
non è consentito lamento. E al fronte sussultano i cannoni
dell’artiglieria, scivolano avanti, sussultano, poi indietro,
si fanno bollenti: un cerchio di tuono, cerchio di sangue,
corpi umani dilaniati, gambe e braccia strappate. La madre di Europa è in ginocchio e non riesce a respirare. Sente
lo sparo, vede la pallottola in volo, verso il figlio, vede miliardi di pallottole in volo. Perché continua a vedere una
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pallottola che vola verso il figlio. Il cuore le fa male, giorno e notte, già da tre anni, tre eternità.
La madre, un cuore errante che aveva ormai viso, cervello e occhi, la madre senza testa che pensava e vedeva
ormai solo con il cuore, il cui animo sopportava il peso, la
paura, le sofferenze e il dolore di tutta l’Europa, la madre
europea affrettò il passo verso casa, il pane stretto alle avvizzite sacche di pelle del seno, per attendere la posta dal
campo, la lettera dal campo che, forse no o forse sì, è riuscita a partire dal sanguinoso tumulto del macello d’uomini, e arriverà con il prossimo postale nell’appartamento
in periferia.
Si affrettò. I suoi pensieri tutti pensati dal cuore, la precedono e vedono il postino che agita la mano. – Ho qualcosa per lei. – Cerca, le porge una lettera. – Aspetti, ancora qualcosa! – e gliene porge altre due. Altre cinque.
Un mucchio di lettere. Tutte del figlio. E lei corre con le
lettere su per le scale.
Piega nella stradina vuota. Controlla. – Niente postino.
Mentre sale le scale vede il figlio in piedi davanti al luogotenente.
Sta dicendo: – Se ancora una volta noto che non spara
intenzionalmente, faccio rapporto. E così la fucileranno.
In preda alla paura più selvaggia, la madre rimane sul pianerottolo e implora: – Spara!
Il figlio alza il fucile e mira al francese.
La madre vede la madre francese a Parigi, seduta alla finestra, che pensa al figlio che in quell’istante sta puntando
il fucile contro il figlio.
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La madre urla: – Non sparare!
Il luogotenente: – Spari! O la fucileranno.
La madre implora: – Spara, oddio, spara! – Vede la madre francese. – Non sparare! No!
Il figlio abbassa il fucile: – Non sparo, signor luogotenente.
– Portatelo via, – ordina il luogotenente.
E la madre urla: – Per amor di Dio, spara! Spara!
E allora il figlio alza il fucile alla guancia e spara. Il francese alza le mani in alto, si piega e crolla a faccia in giù.
La madre si preme la mano sul cuore, con la destra indica inorridita oltre la finestra, verso Parigi, dove la madre
francese sta seduta, e proprio in quell’istante apre la lettera
ufficiale e legge: “È caduto”. La madre tedesca vede la madre francese emettere un urlo.
Lentamente come sotto il peso di un orrendo assassinio,
la madre tedesca sale la seconda rampa di scale e il suo cuore veggente insegue il corso mortale della pallottola che
attraversa il francese e continua la traiettoria verso Parigi,
al cuore della madre francese.
Ma il figlio è vivo, non viene fucilato, perché il suo fucile ha sparato ascoltando le implorazioni della madre.
E sempre il cuore della madre vede la pallottola del figlio che attraversa il francese e come continua la traiettoria verso Parigi: al cuore della madre francese.
Passi nella viuzza. Veloce come il lampo sporge il busto
dalla finestra. Non è il portalettere.
Istintivamente, inavvertitamente, cupa, dal fondo del
suo animo sale la legge fatale: “delitto e castigo”, e presen-
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ta alla madre la mortale consapevolezza: il figlio, diventato
assassino, verrà assassinato.
Il busto si sporge dalla finestra. Lo sguardo percorre la
via in su e in giù. Niente portalettere! E mentre ritrae lo
sguardo, vede un paesaggio con delle lievi colline, ripari,
argini, siepi e viottoli pesti e fangosi.
«Trasciniamo le ceste piene di munizioni in prima linea.
Su di noi le granate tracciano archi minacciosi nel cielo.
Esplosioni bianche, a sinistra e destra, davanti e dietro di
noi. Nubi di terriccio, cadaveri, parti di corpi umani. È
orribile oltre ogni misura», aveva scritto il figlio.
La madre vede come, sullo sfondo, al sicuro dalle granate
che cadono, il figlio e il commilitone alzano il cesto delle
munizioni e lo trascinano nella nube di fumo rossastro.
Non può fermare il figlio, non può strattonarlo indietro. È impotente.
“Hanno suonato?”, apre la porta, guarda fisso il pianerottolo vuoto.
Quando il campanello dell’appartamento, più tardi, suonò veramente, e l’apertura della porta mostrò il portalettere, la mano della madre afferrò una cartolina postale su cui
stava scritto: «Si porta a conoscenza degli egregi soci che la
società di canto Gioia dell’Animo è costretta a sospendere
le prove di canto sino a nuovo avviso perché un numero
sempre maggiore di soci ha seguito il richiamo della patria
e dunque non sussiste più alcuna utilità. Il segretario».
Posò la cartolina sul tavolo, accanto al piatto del padre.
“Per la prossima posta… adesso prima di altre quattro ore
non arriveranno più lettere”, dal figlio, che in quello stes-
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so istante in cui la madre così pensava, in preda al senso
di impotenza e allo strazio, era in trincea seduto su una
cassa di munizioni.
La sua mano, gialla di argilla, stringeva una lettera che
aveva scritto più di un anno prima in una trincea russa,
indirizzata a una persona immaginaria, che aveva spedito
e che ora, mentre era murato, impotente, in una trincea
al fronte, gli era stata restituita con la scritta: destinatario
sconosciuto.
Mentre stava per iniziare a leggerla il frastuono di mille
cannoni gli rintronò intorno, non aveva bisogno di leggerla, poteva leggere la realtà, il fronte orientale assomigliava
orrendamente al fronte occidentale.
Alzò lo sguardo: una pianura estesa, giallastra, vuota, coperta a tratti da fitti mucchi di cadaveri freschi o vecchi,
feriti che si muovevano lentamente, che non potevano essere raccolti e lentamente morivano.
«Tutto accade in prossimità del terreno. Basso, maligno,
pericoloso, pianeggiante, incolore, grigio… Vivaci attacchi di cavalleria che non avremmo desiderato neanche prima della guerra, non ce n’è più», leggeva. E guardò: la lettera di terriccio giallo era spalancata davanti a lui.
Giacevano tra la trincea nemica e quella del figlio: a terra, già mezzo affondati. Morti! In realtà solo brandelli di
uniformi. I visi e le mani erano già uguali al terreno. Un
secondo strato di terreno fatto di morti. Molto vicino al
figlio stava un morto con gli occhi cerulei sbarrati. Neanche lui potevano andare a prendere, sebbene giacesse appena due metri lontano. Perché bastava che si drizzasse
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una sola testa, e si alzavano dieci fucili nemici. Il morto
stava davanti alla trincea già da sei settimane, con gli occhi
sbarrati, e puzzava. Il lamento del ferito che giaceva accanto al morto non si interrompeva mai, non si era interrotto
per tre notti e tre giorni.
«La nostra aria puzza di bruciato e cadavere da tre anni»,
leggeva il figlio.
Osservava il commilitone, accucciato alla sua sinistra,
le guance rosse, grosse e sode, che fissava davanti a sé con
lo sguardo completamente indifferente a tutto ciò che di
sconvolgente lo circondava, apatico, inanimato, spento.
“Non sono ancora a questo punto. Scrivo ancora lettere. Alla mamma. Scrivo tutta la miseria, tutto l’orrore, la
vergogna, li espello per poter respirare. Alla mamma… E
allora la mamma non riuscirà a respirare”.
Uno straziante sorriso di disprezzo per se stesso gli fece inclinare in giù l’angolo della bocca al ricordo che lui,
affinché i suoi sentimenti, da tre anni immersi nei segni
di sangue, assassinio, incendio, non restassero del tutto
incontrollati, affinché la sua anima non restasse indurita
per la vita, aveva scritto lettere su lettere. Molte lettere!
Alla madre. Confessioni, accuse, autoaccuse. A destinatari
fittizi, non più alla madre, per risparmiarla. Lettere. Lettere. Per potersi sfogare, per non dimenticare, per non dimenticare nulla, per rimanere consapevole dell’orrore, per
non accettarlo come cosa necessaria e scontata. Per non diventare anche lui una macchina assassina completamente abbandonata al fatalismo, completamente indifferente,
completamente insensibile, come il commilitone accuccia-
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to accanto a lui, che si era strappato l’anima dal corpo uccidendo, che aveva sparato a comando e continuava a sparare, sparare, sparare, come una mitraglietta automatica.
«Dietro di noi, collocata con micidiale precisione, tuona la catena dei cannoni, lancia granate che passano sopra
le nostre teste verso le posizioni nemiche, senza interruzione. Assassinio ininterrotto! Giorno e notte. Innumerevoli granate, che vanno incontro alle granate che arrivano
dall’altra parte, lungo tutta la linea del fronte. Fuoco di
mitragliatrici che belano forte. Persone che cadono restando immobili. Persone, uomini cadono: gemono, si lamentano, urlano, latrano. Fuoco di mitragliatrici in lontananza. Fuoco di mitragliatrici nemiche. Bombe e mine che
esplodono. Nuvolette di spari, innumerevoli nuvolette di
spari, fin dove arriva il mio sguardo… tutto è piatto, incolore, insidioso».
Il figlio alzò la testa e vide tutto ciò che aveva letto. E il
suo sguardo malato di terrore incontrò per la millesima volta il soldato che, da due giorni e due lunghe notti, pendeva
dal filo spinato e muoveva le membra con raccapricciante
lentezza. A volte urlava. Sempre lo stesso suono per cui ancora nessuna lingua del mondo aveva trovato parole.
“Un uomo grida”, sentiva il figlio con tutto il suo essere.
“Un uomo grida”.
«Uomini, milioni di uomini sparano gli uni contro gli altri, assassinano, ammazzano, strangolano, si dilaniano a vicenda, da tre anni. Perché?». Il figlio si commosse di poter
ancora provare interesse per un pensiero, quando lesse: «Ma
non contro ciò che avviene qui sul campo bisogna lottare.
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Perché questo paradossale assassinio che avviene tra le prime file è solo l’effetto superficiale dello spirito criminale
che anima lo sfondo. Quando sarà superato questo spirito brigantesco, che ora viene predicato e celebrato con il
menzognero ideale di “nazionalismo”, i cannoni arrugginiranno da soli.
Vogliamo sacrificarci
Vogliamo amare
Scegliere il sentire pensando
Ché il presidente della terra
Sia presidente dell’amore.»
Il luogotenente, con il revolver nel pugno da ragazzo,
attraversò chino la trincea, passò accanto al figlio, accanto
al commilitone, il quale mirava e sparava.
Senza suono, senza sosta e spasmodicamente lento il soldato appeso al filo spinato muoveva le membra.
Il figlio cercò le frasi che aveva scritto un anno prima.
«Ieri un commilitone, al mio fianco, è diventato un uomo,
una persona. Ha deposto il fucile, ci ha guardato, ha sorriso beato. E quando il superiore ha ordinato: “Non ridete! Sparate!”, lui lo ha guardato sorridendo e ha scosso il
capo. Con quale amore infinito e infantile sorrideva! Aveva superato lo spirito del militarismo, del servilismo, attraverso una mistica curva di energia, era di nuovo umano:
era diventato folle. Fu portato al manicomio. Quindi sarebbe tornato sano, si diceva, avrebbe potuto ancora sparare. Forse adesso sta sparando sui Balcani».
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Il fuoco dei cannoni era sempre più intenso, più mortale, si era moltiplicato, aumentava con furia violenta. Le
granate esplodevano squarciando rifugi, travi di legno e
uomini. Ciononostante lunghe file serrate di figure argillose spinte dagli ordini abbandonavano le trincee nemiche
e venivano falciate dal fuoco di mitragliatrice.
«Urla, grida, gemiti. Corpi convulsi. Occhi smorti, sbarrati. Innumerevoli cadaveri freschi giacevano sui cadaveri
vecchi».
E dopo la mortale lotta di trincea il figlio lesse: «Centomila superano il militarismo con la follia. Dieci milioni
marciscono. Dieci milioni vengono mutilati. E dei restanti
molti tornano a casa sotto forma di precise macchine assassine. Come ai bambini l’ABC, così in essi è stato trapiantato
lo spirito della violenza. Quello spirito si è ben radicato. Deve continuare ad agire. Questo semplice commilitone assassino, accucciato accanto a me, questo rappresentante puro dei milioni di suoi compagni assassini, questo portatore
di violenza, che gli avvenimenti che si sono ripetuti sempre identici per tre anni hanno reso insensibile, non sarà
più commosso neanche dal più selvaggio grido di dolore.
Così come voi, in patria, non siete più colpiti dal dolore
degli uomini, perché potete leggere il giornale senza perdere il senno: trentamila uomini sono caduti».
E allora il figlio ebbe una sensazione a cui non poté sottrarsi: sentiva che la parte destra del suo corpo si rifiutava di
spedire quella vecchia lettera alla madre, e nello stesso tempo
sentiva che la parte sinistra, la parte del cuore, lo costringeva
a spedire la lettera alla madre, all’unico essere in Europa che
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non avrebbe mai potuto farsi indifferente o insensibile al
dolore delle persone, che tutte erano nate da una madre.
Inutilmente cercava di non sentire il fuoco di artiglieria che, di minuto in minuto, cresceva rabbioso. La terra
rimbombava. Le sue orecchie rimbombavano. Il cervello
rimbombava. Vide come rimbombava anche il martelletto del telefono appeso vicino a lui, lesse sulle labbra del
luogotenente la parola “Sissignore”, urlata sulla membrana e capì che era giunta l’ultima ora per il distaccamento
in trincea, che veniva mandato avanti, all’assalto.
Pugni afferrarono i fucili. Le baionette guizzarono. Figure grigie, strette una all’altra nella trincea. Non erano
più volti umani. Volti di vetro. Occhi di vetro. Ogni pensiero, ogni riflessione si era staccata dall’essere dei soldati.
Anche il figlio inseriva la baionetta sulla canna, e ancora
pensava: “E poi, quando riceve la lettera, la mamma non
riuscirà a respirare”. Pensava: “Cadrò?”. E veniva spinto in
avanti dal comando, mentre la madre impotente era a tavola e stava riempiendo la scodella di zuppa per il padre.
Lo sguardo assente della madre incontrava la fotografia
colorata del generale più amato, che il padre aveva acquistato e appeso alla parete. Il lungo pendolo dell’orologio
della Foresta Nera appeso in alto oscillava sul volto del generale, avanti e indietro.
Sotto il volto del generale, continuamente attraversato dal
pendolo, stava seduto il padre, e mangiando la zuppa leggeva il giornale: – «L’impresa ardita di una pattuglia…».
La madre non sapeva se immaginarsi il figlio dietro la linea
del fronte o tra le prime file, mentre in quell’istante il figlio,
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tra calci di fucili che roteavano e occhi umani che lo fissavano selvaggi, scivolava in ginocchio nella trincea nemica.
– «… e in quattro e quattr’otto è stato ucciso», – finì di
leggere il padre. – … Che c’è ancora?
– Di nuovo niente lettere.
– No, intendo, che c’è da mangiare ancora?… La lettera
arriverà. Arriva sempre.
Poi lesse l’articolo di fondo, in cui si diceva che il popolo, nella sua irremovibile fiducia nel suo affidabile governo, avrebbe resistito, e grazie alla sua unità sarebbe uscito
rinvigorito da quella lotta sanguinosa. A partire dalle élite
intellettuali e attraverso tutti gli strati sociali, ciascun soldato, ciascun combattente in patria, ciascuno scolaro sapeva che quella guerra era una guerra necessaria, perché la
madrepatria era in pericolo.
Leggeva queste cose alla Madre, a voce alta, e disse: – Ecco ancora una volta tutto spiegato con chiarezza… Questi
maledetti farabutti stranieri!
La madre non avrebbe saputo dire perché si avvicinò
all’orologio e fermò il pendolo, in modo da lasciare il volto del generale tagliato a metà. Disse stancamente: – Come fa un bambino a sapere se la guerra è stata necessaria?
E anche noi, gente comune, noi che ne sappiamo?
– Ma lo sa chiunque. E i bambini… Che ci stanno a fare i maestri? E noi, noi possiamo leggere tutti i giorni il giornale… Allora, che c’è da mangiare?
– È arrivata solo questa cartolina… Mangia ancora un
piatto di zuppa. Dal macellaio c’erano due poliziotti e centinaia di donne. A me non è rimasto nulla.
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– E infatti dovevi andarci prima… Se questa guerra infame finisse una volta per tutte… Quei farabutti maledetti degli stranieri!
La debolezza per la fame e l’angoscia per il figlio, che
aveva visto improvvisamente crollare a faccia in giù, oscurarono lo sguardo della madre. E quando poté vedere di
nuovo e osservò il vecchio padre, che era molto dimagrito, perché doveva lavorare molto e spesso lei non poteva
presentargli che una zuppa d’acqua, spinse verso di lui il
proprio piatto.
– La patria era in pericolo? Bene, e ora? Un pericolo più
grande per la patria non era possibile. Ora tutto il popolo
è in pericolo. Io non lo so, è vero, ma mi basta leggerlo
nelle sue lettere, quanti sono già caduti, quanti mutilati,
quanti nel Paese si ammalano e muoiono, perché hanno
così poco da mangiare. E i bambini, a crescere così! Basta
uno sguardo. E che sentano parlare per anni solo di uccisioni. Ma che persone potranno diventare? Di noi vecchi
non voglio neanche parlare. E dei soldati là fuori così tanti
sono malati. Tu lo sai, di cosa.
– Ma che ti scrive!
– Che il popolo ora sia nel momento di massimo pericolo, è facile da sapere. Lo sa chiunque. Per quello non c’è
bisogno di essere tanto intelligenti. Certamente la guerra
non sarebbe scoppiata, se avessero saputo quel che ne sarebbe conseguito. Hanno semplicemente sbagliato i conti.
Non come un commerciante si sbaglia con i soldi, ma con
il sangue di milioni. Con il sangue dei nostri figli. Adesso
non la rifarebbero… Nell’ultima lettera, scrive: «La pal-
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lottola che ha colpito un soldato ha colpito tutto il popolo
in pieno petto». Ed è proprio così.
– In pieno petto! Ma se stiamo vincendo.
– «Che c’è da vincere se l’energia vitale, la più “pura
energia vitale del popolo”» scrive lui, «è spenta dalla morte
di milioni di giovani; se il popolo è composto ormai solo
di uomini abbrutiti e mutilati, malati, folli, di bambini e
donne che muoiono di fame, e di vecchi!».
– Ma che dici! – lui afferrò il giornale, lesse l’ultima notizia di vittoria data dal corrispondente di guerra: sul suo
cervello, immediatamente di nuovo calmo, si distese uno
strato di terreno coperto di cadaveri… «Per un’estensione
laterale di almeno cinquecento metri, a una profondità di
ben ottanta metri… le nostre truppe di avanguardia, pronte all’assalto, hanno preso, con perdite eccezionalmente piccole, con un coraggio, le…», leggi, così ti fai subito idee
diverse.
– Non voglio più leggere i giornali. – Nella madre, che
non era avvezza alla riflessione, si sprigionò un sentimento che ricadde nelle parole come piombo: – Se nessuno
volesse più pensare a quello che si legge sul giornale, se finalmente tutti volessero pensare agli uomini che ora stanno lì a morire…
– Sono sciocchezze! – Il padre strinse più forte il giornale, guardò il piatto vuoto della minestra, vide la cartolina
posata lì accanto. – E questa cos’è?
– È arrivata solo questa cartolina.
– «… che la società di canto Gioia dell’Animo è costretta
a sospendere le prove di canto sino a nuovo avviso perché
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un numero sempre maggiore di soci ha seguito il richiamo
della patria e dunque non sussiste più alcuna utilità».
Una voragine nera, che nulla più avrebbe potuto colmare, si aprì nella sua vita. Cercò nel giornale qualche notizia
stampata in grassetto.
– Non c’è più alcuna utilità. Sciocchezze!
Improvvisamente gridò furioso alla madre che lo guardò
turbata: – Perché fermi l’orologio?
E cominciò a leggere di nuovo: – «L’impresa ardita di
una pattuglia»… Finirà ogni affiatamento, se le prove cessano del tutto… Cantare avremmo potuto comunque, –
stava dicendo il padre, mentre il figlio, sporco di sangue
umano e con gli occhi vitrei sbarrati per lo stravolgimento,
barcollava in trincea passando sopra i commilitoni caduti,
coi pochi commilitoni sudici, sporchi di sangue umano,
ancora rimasti in vita.
L’artiglieria continuava a sparare. I colpi cadevano con
foga vertiginosa. Il figlio si addormentò subito.
La madre si avvicinò all’orologio. Il pendolo oscillava
di nuovo di qua e di là sul volto del generale più amato.
Nella stanza scura che dava sul cortile quell’immagine dava l’impressione che al posto del cervello il generale avesse
un meccanismo che avrebbe continuato invariabilmente a
muoversi se non si fosse fatto avanti qualcuno.
Se non si fosse fatto avanti un uomo.
Una musica così indescrivibilmente bella, soave, che vibrava così deliziosamente nell’universo, il figlio non l’aveva mai sentita. Chi la percepiva, diventava buono. Il boia
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gettava via la scure, cadeva in ginocchio accanto all’assassino inginocchiato al ceppo ed entrambi non comprendevano più la loro vita passata.
Il figlio chiese al buon signore che l’aveva condotto in
quella sala senza soffitto, coperta dal firmamento azzurro, chi avesse scritto quella musica. Il buon signore dagli
occhi tristi sussurrò: – Questa musica l’avrebbe scritta un
soldato caduto.
– Ah! – mormorò il figlio, ma nello stesso tempo sentì
tutto il suo essere pervaso da una felicità suprema. Perché
a un tratto vide la Città Semplice: edifici di un’architettura così indescrivibilmente ispirata che, al cospetto di quella
divina purezza, tutti i sentimenti gravi e oscuri svanivano
e si perdevano nel nulla. Il figlio era talmente rapito dalla
felicità che osò appena domandare: – Chi ha costruito questa città?
Le labbra del buon signore ebbero un tremito.
– No, taci, – sussurrò il figlio, sconvolto come mai era
stato in vita sua.
In verità, quella città sarebbe stata edificata da un soldato caduto.
Allora la città svanì. Il figlio teneva in mano “il libro
del futuro dell’umanità”. E in un secondo lesse il libro
da cima a fondo. Perché bastava aprirlo affinché tutte le
sue immagini, tutti i suoi pensieri si fondessero in un’unica parola. E colui al quale quella parola sfiorava l’anima
veniva redento ed era buono. Sul suo volto risplendeva
l’amore. – Quindi basta che portiamo davanti agli occhi
degli uomini questo sublime, onnipotente “libro del futu-
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ro dell’umanità” e il mondo verrà redento da tutto il male
e sarà sotto il governo dell’amore. O, sublime fraternità! –
mormorava il figlio. – Chi ha scritto questo libro?
– Lo avrebbe scritto un giovane poeta, caduto.
Un tuono rimbombò da lontano.
Il figlio chiese: – Di che nazione erano questi morti?
Il volto del buon signore si tramutò in due occhi disperati e piangenti, che pronunciavano chiaramente le parole: – Non si sa.
Improvvisamente il sognatore distinse tutti i terribili particolari di quello che mezz’ora prima aveva davvero vissuto
e visto, e anche il volto sbiancato come il lino del giovane
francese che correndo si era infilzato sulla sua baionetta.
– Sveglia! Ancora un assalto! – urlava il sottufficiale che
stava scuotendo il figlio per svegliarlo.
Tutto il cielo tuonava. Soldati ancora intrisi di sangue
umano stretti gli uni agli altri nella fossa della trincea. Volti di vetro. Occhi di vetro.
L’onda di uomini senz’anima fu spinta avanti da un comando. Il rimbombo dei cannoni che sparavano con furiosa rapidità si fuse in un unico mostruoso rimbombo
che scuoteva la terra, ma fu superato con dolcezza dal sussurro dell’anima del figlio che gli impose di espiare morendo, per poter vivere.
Stava immobile in mezzo al frastuono di quelli che si dibattevano nella lotta gli uni contro gli altri. Si assassinava
con sapienza artigiana.
Una seconda ingenuità infantile lo animò con la domanda: – Perché gli uomini lo fanno? Nessun essere uma-
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no può comandare una cosa così. Nessun essere umano deve eseguire un comando così.
Il momento fece nascere in lui un’ultima immagine terrena: vide tutto il globo terrestre mutarsi in un tamburo,
su cui il militarismo batteva i colpi con le granate.
– Persone che non si sono mai incontrate, che non si son
fatte niente di male, si uccidono a vicenda, – sentiva ancora, ormai già sfiorato dall’aldilà. E gli fece visita ciò a cui
ormai non pensava più, che ormai non sentiva più, presagi che aveva guardato come immagini antiche che scorrevano: «L’anima che assiste a tutta l’immensità di questo
orrore, dovrebbe morire; l’anima chiude gli occhi». Gli
occhi del figlio, diritto in piedi in mezzo agli uomini che
cadevano e assassinavano, erano spalancati.
La baionetta gli passò sotto il mento, nel collo, attraversò la testa. Il suo corpo descrisse, come quello di un acrobata, un arco all’indietro, in modo che le piante dei piedi
e le palme delle mani toccarono il suolo e lui rimase così,
morto, sorretto da cadaveri, in quella posizione che somigliava all’arco di un ponte.
La madre, che stava sul portone in attesa del portalettere, si costruiva nella mente la felicità che il figlio fosse
uscito dall’impensabile lievemente ferito. Eccolo già sulla
via del ritorno. Arriva col treno prima di quanto la madre
si aspettasse. “Bene che sia arrivata prima”, pensava lei. E
nell’atrio della stazione, appoggiata all’inferriata, guarda le
rotaie su cui, proprio in quel momento, sta scivolando un
treno. “Scampato”, sente lei, “scampato!”, e vede il figlio
saltare giù dal treno e alzare da lontano il braccio ferito.
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“Una ferita lieve, del tutto innocua, altrimenti non potrebbe sollevare il braccio. Scampato alla morte, fortunatamente”, sentiva ancora la madre, e nello stesso istante sente
lo spettro nero, che tutto è solo un suo desiderio e salta,
muta e giubilante, incontro alla felicità: al petto del figlio.
Il portalettere svoltò lentamente l’angolo, lo sguardo rivolto alle lettere che stava vagliando. E la madre tornò a
precipizio alla realtà, andò incontro al portalettere, che le
consegnò la lettera attesa da quattordici giorni e quattordici notti, nelle quali il figlio, tormentato da sensi di colpa, e in angoscia per la madre, cercava di rendere innocue
le sue lettere piene di confessioni e orrori.
«Veramente, a pensarci, sai, sto una meraviglia. Non sono mai stato fisicamente tanto sano come adesso. Pensa,
mai tanto sano fisicamente come adesso», scriveva il figlio
morto. «E quando ritorno, andiamo io e te alcune settimane in campagna. Una volta tanto facciamo i signori anche noi e andiamo in campagna. Ho risparmiato tanto denaro. Andremo a vivere nei pressi di un fiume. Proprio sul
fiume! Tu in una stanza piena di sole, io lì vicino. Ci sarà
una porta di comunicazione. Le nostre finestre daranno sul
fiume. Dall’altra parte del fiume ci sono le colline, il bosco. Sarà giusto primavera quando ritorno. Dovresti vedermi. Così sano come ora non lo sono mai stato», ripeteva
il figlio, che, sorretto da cadaveri, stava come l’arco di un
ponte morto, a marcire tra le trincee.
La felicità scorreva energica nella madre.
Come sempre, quando riceveva una sua lettera, il figlio
le era così vicino che aveva l’impressione della sua presen-
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za fisica. Gli parlava, gli dava consigli, accettava i suoi e
lo rimproverava. – Adesso siediti un po’ lì, nell’angolo sul
canapè.
– Ecco, adesso sono seduto.
– Hai visto, lo sai, a tuo padre non interessa altro se non
il giornale e la società di canto corale.
– Ma non può essere altrimenti, mamma. Ha sessantacinque anni e sono cinquant’anni che tutti i giorni dalla
mattina alle sei alla sera alle sei sta al tornio. È cresciuto
così, è invecchiato così. Ecco perché ha solo il giornale e
la società di canto corale.
– Ma dovrebbe pensare…
– Ha dovuto dimenticare da un pezzo che è una persona, mamma. Sono cinquant’anni che la sera si sente stanco morto e sfinito. Non gli è dato pensare, altrimenti magari si ricorderebbe di essere stato un essere umano.
– Non volevo parlare di questo con te. Volevo solo…
Il figlio non stava più seduto nell’angolo del canapè. Era
in prima linea, minacciato dalla morte.
“Volevo solo recitare il salmo 91”, pensò la madre, che nel
corso della grigia, immutata miseria della vita, e nella assoluta
mancanza di speranza in un possibile miglioramento aveva
perduto la fede e dimenticato come si pregava; aveva respirato sessantacinque anni sotto una lastra di ferro, sotto cui i
facchini della miseria europea restano e muoiono disperatamente separati dallo spirito, dalla luce, dalla vita, dall’umanità. Solo quando il figlio, sulla desolata via che attraversando
quella lastra conduce in alto verso lo spirito, era incorso in
un pericolo, la madre pregò recitando il salmo 91.
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in uscita
«Un uomo sincero è così forte
da poter ridere e soffrire per tutto.»
— ROBERTO
ARLT
formebrevi
A CQUEFORTI DI
BUENOS A IRES
di Roberto Arlt
traduzione di
Marino Magliani e Alberto Prunetti
nella stessa collana
1. Il peso del tempo di Lutz Seiler
2. Prigioni e paradisi di Colette
3. Svanire di Deborah Willis
4. L’esteta radicale di Fouad Laroui
5. Le ore lunghe. 1914–1917 di Colette
6. La ragazza del cinema di Marguerite Duras
NOVELLE DI LEONHARD FRANK (NOVEDILF)
®
Istruzioni per l’uso
DESCRIZIONE: Le Novelle di Leonhard Frank (NovediLF) sono una categoria di farmaci che agiscono sull’apparato gastrico e contemporaneamente sulle connessioni neuronali, in supporto a terapie di cura per disturbi o
malattie dell’apparato di ricezione sociale particolarmente se connessi a
mitologemi di origine genetica o autoimmune.
AZIONE : Le Novelle di Leonhard Frank agiscono sulla muscolatura liscia e
più precisamente sui plessi nervosi, interessando gli enzimi e facendo aumentare il numero e il dolore delle contrazioni, allo scopo di riconoscere la causa
reale della sofferenza. In sostanza le Novelle hanno un’azione opposta ad alcuni farmaci oppiacei o alle sostante papaverinosimili, che agendo direttamente
sulla muscolatura liscia ne inducono il rilassamento, o a quei tipi di spasmolitici che agiscono sui neurotrasmettitori con azione eccitatoria facendo diminuire dolore e contrazioni e che in seguito agiscono a livello neurovegetativo
inibendo perciò l’azione del sistema ortosimpatico e parasimpatico che agiscono quasi sempre a livello antagonista. Le sperimentazioni condotte sul farmaco, infatti, hanno potuto concludere che il farmaco agisce tramite l’escalation del dolore fino al picco che permette di agire significativamente
sull’equilibrio del tono della muscolatura liscia, in maniera spesso definitiva.
Sono classificabili come farmaci ortosimpaticolitici e parasimpaticolitici.
UTILIZZO: Il loro impiego è utile anche e soprattutto in casi di patologie
autoimmuni o croniche, data l’alta probabilità di debellamento del dolore
per periodi lunghi o definitivamente, e la contemporanea utilità nell’individuazione dei focolai di batteri derivanti dalle diverse patologie che l’organismo non è in grado di debellare proprio a causa della malattia preesistente. L’uso delle Novelle di Leonhard Frank è indicato anche in casi gravi
di apatia neuronale generata dal contatto con agenti patogeni ambientali.
Si presentano in scatole variamente colorate, prescritte in
gruppi da cinque o più in base alla gravità dei sintomi. Nella scatola, il farmaco è diviso in compresse, di colore rosso e blu. È utile, nella terapia, assumere insieme una compressa rossa e una blu di NovediLF.
CONFEZIONE:
EFFETTI COLLATERALI: In alcuni casi si è rilevato un inspessimento dell’epidermide. Non è da ritenersi un effetto nocivo, dato che non si accompagna a una significativa perdita di sensibilità percettiva, che invece appare stabile o addirittura acuita. Eventuali emicranie improvvise legate all’utilizzo
del farmaco vanno curate con il riposo e un’adeguata azione mitigante delle cause ambientali del dolore.
Finito di stampare nel Luglio 2014
presso la tipografia Printì di Saulino Ivana
Manocalzati (Avellino)