Alzheimer, la frontiera (incerta) della cura Pillole, bambole e robot

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Alzheimer, la frontiera (incerta) della cura Pillole, bambole e robot
Sostegno Psicologico Educativo Domiciliare
DEMENZA
Alzheimer, la frontiera (incerta) della cura
Pillole, bambole e robot
Rino e Ricordina erano braccianti. Ennio e Silvana avevano una pizzeria. Antonio e Maria non si sa.
Tre coppie, sei demenze. Come dribblare il dolore: ammalarsi insieme. Mirandola, Modena: terremoti e
smottamenti della mente. I tre mariti al Nucleo Alzheimer del Cisa (Centro Integrato Servizi Anziani), le
tre mogli avanti e indietro da casa (per ora). Stadi sfasati della malattia. Prima Antonio stava con Maria
nell’appartamento del figlio e della nuora, tenuto sempre a letto (allettato) con sedativi e omogeneizzati
(dei nipotini).
La graphic novel
Non sempre a casa si sta bene.
«Quando è arrivato da noi non riusciva più a camminare, bisognava imboccarlo - racconta Annalisa
Bonora, psicologa responsabile del nucleo -. Abbiamo cominciato da capo». Meno pillole, più cure non
farmacologiche. Antonio, 73 anni, napoletano, ha ripreso a mangiare da solo (di tutto). Cammina (anche
troppo). Scarica l’aggressività nel giardino esterno. Dentro, nell’ambiente Snoezelen importato
dall’Olanda, cercano di rilassarlo nella stanza multisensoriale con musica, profumi, colori, tubi a bolle.
L’obiettivo è farlo vivere meglio, ritardare l’«allettamento» in una casa di riposo. Per un po’ Maria è
andata a trovare il marito con il figlio, fino a quando ha cominciato a perdersi intorno a casa. Adesso
bisognerà pensare anche al suo Alzheimer. Antonio è migliorato, ma va comunque a periodi. Ennio
invece «è irriconoscibile rispetto a un anno fa»: nella residenza sanitaria (Rsa) dove l’avevano piazzato
con la sua demenza vascolare picchiava tutti, lo imbottivano di psicofarmaci. «È arrivato qui che non
parlava - ricorda Giacomo Menabue, terapista della riabilitazione per i disturbi del comportamento ripeteva meccanicamente “Ho la mamma nel cuore”, vagava in continuazione. Abbiamo cominciato col
mettere insieme i pezzi della sua storia». Ennio ha fatto molti lavori. Muratore, giardiniere. Dopo il
terremoto del 2012 con le crepe che si sono aperte nei muri del centro, lui ed altri malati si sono
ritrovati sfollati in una struttura di Modena per un paio di mesi. Nel viaggio in ambulanza Ennio
riconosceva ogni strada: «Ecco Medolla, io abito nell’ultima casa». Non ha perso i riferimenti spaziotemporali. Voce e faccia da Nick Novecento vecchio: «Mi piace fare le pizze. Le faccio con passione». È
diventato l’ospite tuttofare del posto. Silvana, la moglie, veniva a trovarlo con la corriera. Un giorno ha
chiesto: quando guarisce mio marito? Aveva dimenticato che dalla demenza non si torna. Gli operatori
hanno capito che qualcosa non andava. Gli esami hanno detto Alzheimer. Ora Ennio vorrebbe tornare a
casa. «L’obiettivo di questo Nucleo è lavorare sulla temporaneità» dice Andrea Fabbo, geriatra,
direttore del Programma Demenze della Usl di Modena. Ennio e Silvana a casa, con una persona in
aiuto, un bel progetto. Però ci sono problemi economici, niente risparmi, il figlio sta perdendo il lavoro.
Per Rino e Ricordina ancora peggio. La famiglia è ridotta a un nipote, per tornare a casa avrebbero
bisogno minimo di due badanti. Ricordina (il nome che Rino non ricorda) va ancora in macchina, lui è
più avanti nella malattia: molto ansioso, si rilassa svitando bulloni, quando è agitato bisogna stare con
Dott. Pietro Caputo
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lui, se non ottiene attenzione dice «adesso devo morire», Annalisa la psicologa lo anticipa con ironia:
«Oggi non si muore Rino», e lui: «Perbacco ci mancherebbe altro».
La signora che non mangiava più
Mirandola, Emilia Romagna, regione amica delle persone con demenza. Rete di servizi, gentle care ,
spazio «protesico» come gli operatori. Vuol dire che l’ambiente e le persone devono funzionare da
protesi, senza sostituirsi al malato. Il dottor Fabbo ha cominciato a lavorare qui nel 2000: «Cosa
scatena i disturbi del comportamento? Spesso la noia. Fermi su una poltrona tutto il giorno. Combattere
la noia con una attività non frustrante e gradita. A un contadino faccio fare l’orto, non i disegnini».
Ancora: «Le attività individuali funzionano meglio dell’animazione tradizionale di gruppo». Modello
Snoezelen: non solo una stanza per la stimolazione multisensoriale, ma uno stile di cura: elasticità negli
orari («Se un paziente si addormenta sul divano non lo svegliamo per portarlo a letto»), operatori senza
divisa. Il nome viene dall’olandese: esplorare e anche cullare. «Si lavora sui 5 sensi, sull’interazione con
gli altri. Non ci sono ancora evidenze scientifiche», dice Fabbo, ma l’esperienza è positiva. Giacomo
racconta di una signora che non mangiava più. Sullo schermo gigante le hanno mostrato video con piatti
gustosi, le hanno fatto sentire gli odori, a poco a poco, nella stanza del relax con la tavola apparecchiata.
La signora ha ripreso a mangiare. «Inserire elementi Snoezelen nel bagno - luci soffuse, musica dolce,
colori, tubi a bolle effetto acquario (il tubo funziona bene con il delirium) - tranquillizza le persone e
rende meno problematico il lavarsi». Qui la chiamano «Spa». L’elemento umano è fondamentale. Certe
case di riposo spendono 10mila euro per la stanza multisensoriale e poi «bloccano» i malati a letto con
gli psicofarmaci o quei sacchi-lenzuolo che a Fabbo ricordano «le camicie di forza».
In Gran Bretagna nelle case di riposo hanno dimezzato l’uso di psicofarmaci su persone con demenza
perché hanno migliorato la rete dei servizi. «In Italia invece c’è un abuso di psicofarmaci », dice Fabbo,
e un deficit di servizi. Si parla tanto di cure non farmacologiche. La Snuezelen, la musicoterapia, la doll
therapy con le bambole importate dalla Svezia, la foca robot giapponese Paro, che in una casa di riposo
di Siena fa rinascere le parole sulle labbra di Roberto e il sorriso su quelle di Enrica... «Bisognerebbe
che il sistema pubblico investisse per studiare la validità di queste pratiche» dice Nicola Vanacore,
ricercatore dell’istituto Superiore di Sanità. Nel frattempo, ci si muove lungo la frontiera della
sperimentazione. E le medicine? Al di là dei sedativi per i «disturbi del comportamento», l’armadietto
dell’Alzheimer è lo stesso da 15 anni: quattro farmaci (tre inibitori della colinesterasi) che puntano a
migliorare «la comunicazione» tra i neuroni, con effetti molto variabili (nel tempo e da persona a
persona). In Francia il loro consumo è diminuito negli anni. Sono farmaci sintomatici, che non fermano
il progresso della malattia.
Il miraggio della guarigione
Quando si potrà guarire dall’Alzheimer? Il Corriere ha parlato con Luca Santarelli, capo del settore
Neuroscienze della Roche, e Iain Chessell che guida la ricerca per Astrazeneca. I loro team, come quelli
di altri giganti farmaceutici (Lilly, Pfitzer etc) stanno studiando il modo per neutralizzare l’amiloide, la
proteina ritenuta responsabile principale dell’Alzheimer (basterebbero 10 centimetri cubi per mandare
in tilt il cervello). Perché una soluzione è così difficile? La lentezza della malattia è una sua forza.
«Quando si manifestano i sintomi, la patologia è già cominciata da 15-20 anni», dice Santarelli, «il
problema è trovare il momento giusto» per agire sull’amiloide che si accumula. Oggi si arriva troppo
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tardi, quando il cervello è devastato, «come un paziente che ha un tumore al polmone: se gli togli la
sigaretta ormai il danno è fatto». Gli aspiranti giustizieri dell’amiloide oggi sono gli anticorpi
monoclonali, grandi molecole che «si legano bene al bersaglio». Secondo Stefano Govoni, farmacologo
dell’università di Pavia, «il problema è che sappiamo ancora troppo poco delle malattie
neurodegenerative: bisogna studiare di più e investire di più nella ricerca». L’obiettivo attuale delle
grandi industrie è sperimentare i nuovi farmaci su un numero maggiore di pazienti (finora «solo»
33mila in tutto il mondo) con lievi disturbi cognitivi, prima che l’Alzheimer mostri i segni dell’avvenuta
devastazione (3-4 anni prima nei trial della Roche), sfruttando le tecniche di diagnosi precoce.
Santarelli dice che «siamo tutti più ottimisti rispetto a cinque anni fa». Anche Chessell, nel suo
laboratorio-bunker di Cambridge, è su questa linea. Ma se anche si trovasse un modo per fermare la
malattia, allo stadio attuale della ricerca è molto più probabile che funzionerebbe su chi non ci è ancora
dentro.
Le due Piere viaggiano ormai sui binari della malattia. Ospiti del nucleo Alzheimer della Rsa Camelot di
Gallarate, oggi sono sedute in carrozzina nello scompartimento del Treno della Memoria, vagone
virtuale che simula un vero viaggio lungo la ferrovia. Con tanto di biglietto, cartellone con le partenze e
gli arrivi, le valigie. Piera e Piera, ostetriche ottantenni. Quella di Porto Ceresio ha girato il mondo,
prima di venire qui viveva da sola (ultimamente la vicina le rubava i soldi e piazzava il figlio in casa sua),
quella milanese ricorda le passeggiate sui Navigli con la madre. Sullo schermo finestrino scorrono le
immagini della tratta Milano-Colico. La Piera globetrotter: «Quando ero ragazzina non c’erano tutte
queste ville». La Piera della Mangiagalli, alla stazione di Lecco, esclama: «L’Africa». La compagna di
viaggio: «Faremo in tempo a tornare indietro?».
Michele Farina
CORRIERE DELLA SERA
Dott. Pietro Caputo
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