Giuseppe Mascolo, l`omicidio di un farmacista coraggioso di

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Giuseppe Mascolo, l`omicidio di un farmacista coraggioso di
Giuseppe Mascolo, l’omicidio di un
farmacista coraggioso
di Raffaele Cantone
La prima volta che ho sentito parlare dell’omicidio del farmacista Giuseppe Mascolo ero
entrato da poco a far parte della Direzione distrettuale antimafia della procura di Napoli.
Era la fine del 1999 e mi erano stati assegnati i processi dell’area casertana. Non ne ero
particolarmente entusiasta: mi sarei dovuto occupare del clan dei casalesi, di cui avevo
sentito parlare molto più da pm che da cittadino di Giugliano.
Tra i miei primi incarichi c’era la gestione di un pentito, un tale Gianfranco. Aveva fatto
parte di un clan camorristico che operava nella zona di Sessa Aurunca, una graziosa
cittadina non lontana dal confine con il Lazio, stretta tra le colline e il mare.
Era una realtà che conoscevo poco. Il clan della zona portava il cognome del suo capo,
molto comune in Campania: Esposito. Gli esponenti della famiglia del boss, però, erano
anche chiamati «Muzzoni», termine dialettale usato forse per alludere a una corporatura
tarchiata. Ed era così che venivano indicati anche negli atti della polizia.
Non sapendo nulla né di questo clan né di questo Gianfranco, avevo iniziato a
documentarmi leggendo una dettagliata sentenza del tribunale di Santa Maria Capua
Vetere che fra l’altro aveva condannato, seppur da latitante, il «mio» pentito.
La loro storia era simile a quella di tanti gruppi camorristici campani. I «Muzzoni»
avevano esordito come criminali comuni negli anni Settanta. Inizialmente si erano alleati
con il clan della vicina Mondragone, affiliati alla famiglia La Torre, quindi si erano legati al
boss Antonio Bardellino.
Durante il conflitto con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, si erano schierati
con il cartello opposto, la Nuova famiglia con il risultato di perdere la propria autonomia e
trasformarsi in un gruppo satellite.
Uscito di scena Bardellino, erano confluiti nel clan dei casalesi, guidato da quella sorta di
direttorio che come si è visto faceva capo a Francesco Bidognetti e a Francesco Schiavone
(«Sandokan»).
Un legame che, però, era sottoposto a continue tensioni. I «Muzzoni» e i La Torre non
tolleravano i metodi dei casalesi che, d’altro canto, lavoravano in modo sotterraneo per
estrometterli dai loro territori, diventati nel frattempo economicamente interessanti. E,
infatti, proprio nella zona più ricca e turistica, quel litorale dove si trova Baia Domitia,
avevano imposto un loro uomo, quell’Alberto Beneduce il cui omicidio avrebbe scatenato
una lunga guerra intestina.
I casalesi, secondo un metodo già sperimentato, avevano cercato di mettere i due gruppi
locali gli uni contro gli altri per indebolirli. Ma non avevano fatto i conti con Augusto La
Torre, giovane erede della famiglia di Mondragone, che freddò Beneduce con la complicità
del boss Esposito.
Avevo anche raccolto alcune informazioni sul pentito Gianfranco. Risultava un
personaggio di medio calibro. Il suo curriculum era solo apparentemente atipico: non era
uno sbandato cresciuto in una famiglia indigente, ma il figlio di un piccolo imprenditore
edile. Diplomato geometra, aveva anche sostenuto alcuni esami alla facoltà di architettura,
prima di farsi invischiare nel «sistema». A Giugliano c’erano molti malavitosi con una
storia simile alla sua.
Nel 1993 aveva abbandonato il clan ed era fuggito all’estero per il timore di essere ucciso. Il
suo prestigio nel mondo della criminalità organizzata era cresciuto al punto da dare
fastidio ai boss. Anche questa non era una novità: ai clan vai bene fino a quando accetti di
fare il soldato, ma se dimostri di voler scalare le linee gerarchiche, scattano le gelosie
interne e sei morto.
Per colmare ulteriori lacune mi ero fatto aiutare da una collega della procura di Santa
Maria Capua Vetere, che conosceva bene l’argomento anche per aver lavorato a casi di
camorra alla procura di Napoli. In particolare, mi interessava avere un’idea delle vicende
ancora insolute da sottoporre poi a Gianfranco. Purtroppo, infatti, a causa della totale
assenza di testimoni, è quasi solo grazie ai pentiti che è possibile scoprire gli autori dei
delitti di camorra più gravi. Di quegli omicidi i cui fascicoli vengono archiviati con la
burocratica etichetta «ignoti gli autori del reato».
Mentre lei parlava, prendevo diligentemente appunti su un piccolo taccuino. È stato allora
che è venuto fuori il nome di Giuseppe Mascolo, per me totalmente sconosciuto. La mia
collega si era sentita in dovere di puntualizzarne la professione: farmacista.
Evidentemente, per distinguere quell’omicidio da tutti gli altri, peraltro numerosi nella
zona, che invece riguardavano perlopiù personaggi coinvolti nelle attività illecite dei clan.
Aveva subito aggiunto, infatti, che Mascolo era estraneo alle logiche criminali: titolare di
una nota farmacia a Cellole, un piccolo comune vicino a Sessa Aurunca, aveva ricoperto
vari incarichi politici nell’amministrazione comunale. Era stato ammazzato nel 1988 a Baia
Domitia, nei pressi della sua abitazione. Sull’episodio si erano fatte diverse ipotesi, ma
erano rimaste tali. Il caso era stato archiviato.
Lì per lì l’omicidio di Giuseppe Mascolo non aveva destato in me particolare interesse,
talmente era lunga la lista di fatti di sangue che mi ero appuntato. Una volta faccia a faccia
con Giancarlo, però, gli chiesi se ne sapeva qualcosa. Mi rispose che non aveva avuto alcun
ruolo diretto in quella vicenda, ma poteva riferirmi ciò che gli aveva confidato un
esponente del clan dei casalesi di Baia Domitia, all’epoca alleato dei «Muzzoni». L’omicidio
era stato un errore. Beneduce pretendeva del denaro dal farmacista, ma lui ssi era rifiutato.
Il boss allora aveva mandato alcuni suoi uomini a minacciarlo a mano armata, ma forse a
causa di una reazione della vittima era partito un colpo di pistola che l’aveva ammazzato.
Fece anche i nomi di alcuni degli esecutori materiali, un certo Toraldo, detto «il
Guercio», e un tale Lucio.
Erano dichiarazioni stringate e «di seconda mano», insufficienti per imbastire un
processo. Ma si trattava comunque di un primo indizio utile per far partire le indagini. A
quel punto, infatti, il mio interesse per Giuseppe Mascolo si era ridestato. Volevo saperne
di più e, soprattutto, capire se era possibile dopo tanto tempo trovare ancora delle prove.
Per le indagini pensai subito a Peppe Iatomasi, un maresciallo dei carabinieri in servizio al
nucleo operativo di Caserta. Incarnava il tipico investigatore di strada: grande segugio e
preziosa miniera di informazioni.
Quando al telefono gli nominai Giuseppe Mascolo come immaginavo, mi disse subito di
ricordarsi bene di quell’omicidio. Il farmacista era morto per caso e i colpevoli erano
rimasti ignoti, ma forse c’era una pista ancora da battere. Il giorno dopo mi aveva già
procurato il vecchio rapporto dell’agguato, poche pagine ingiallite redatte dai carabinieri di
Baia Domitia, intervenuti sul luogo del delitto.
La dinamica del delitto era descritta con precisione, grazie alle testimonianze dei familiari.
Giuseppe Mascolo come ogni sera aveva chiuso la farmacia dove lavorava con il figlio Luigi,
anche lui farmacista, per poi rincasare. Si erano allontanati insieme, ciascuno con la
propria auto. Luigi aveva raccontato ai carabinieri di aver seguito il padre per una parte del
tragitto, quindi si era diretto per una commissione verso la guardia medica, che però aveva
trovato chiusa. Aveva quindi ripreso la via di casa ed entrando nel vialetto aveva incrociato
un’auto con tre persone a bordo che si allontanava a tutta velocità. Pensando fossero ladri,
d’istinto si era lanciato all’inseguimento ed era riuscito a prendere il numero di targa.
Quindi, si era fermato alla stazione dei carabinieri per denunciare ciò che credeva un
tentato furto. Il tutto era durato pochi minuti. Arrivato a casa, si era subito precipitato
dentro per parlare con i genitori. C’era, però, soltanto la madre, che gli disse di aver sentito
un urto e poi uno sparo. Solo allora Luigi era corso verso l’auto del padre, trovandolo
riverso sui sedili anteriori ormai privo di vita.
Non avevo potuto fare a meno di rabbrividire pensando a cosa doveva aver provato quel
ragazzo nel vedere il padre, che aveva lasciato vivo solo pochi minuti prima, giacere
cadavere.
Al contrario di Sessa Aurunca, Baia Domitia la conoscevo abbastanza bene. Da ragazzino
venivo lì dalla vicina e più popolare Castelvolturno, dove i miei avevano una casetta per le
vacanze. Allora era un insieme di villette, parchi e palazzine residenziali, costruite
all’interno di una splendida pineta a ridosso della spiaggia, lungo il litorale domizio. Negli
anni Settanta era diventata una meta turistica ambita dagli stranieri. Tra i vari residence
c’era anche il cosiddetto villaggio svedese, un luogo «mitico» della mia infanzia. Si
favoleggiava fosse popolato da straordinarie bellezze nordiche, rimaste per quanto mi
riguarda solo una leggenda metropolitana.
Con il tempo quel posto era cambiato, e in peggio. Il turismo era diventato «mordi e fuggi»
e le ville più belle erano state chiuse e abbandonate. Ho sempre pensato che gran parte
delle colpe del degrado fosse della camorra. Anche chi come me ci capitava solo
occasionalmente, aveva sentito dire più di una volta che alcune delle più significative
attività commerciali e turistiche di quella zona erano gestite da esponenti dei clan. Del
resto, bastava guardarsi intorno con un po’ di attenzione per notare gruppetti di giovinastri
che ostentavano con orgoglio il fatto di sentirsi «casalesi».
Dopo avere letto le dichiarazioni del giovane Luigi Mascolo, mi concentrai su quelle della
madre. Seppi così che il farmacista aveva fatto degli investimenti in zona: aveva acquistato
dei terreni, uno dei quali inserito nel piano regolatore. Si trattava di un ottimo affare, che
poteva senz’altro aver ingolosito il clan. Qualcuno, infatti, si era fatto avanti per conto dei
camorristi, manifestando il loro interesse. Anche dopo la morte del farmacista, un
personaggio della zona aveva avuto l’ardire di ritornare alla carica presentandosi a nome di
Beneduce per riproporre l’acquisto di quel lotto.
Pensai che poteva essere quella la vera causa dell’omicidio. Provai anche un moto di rabbia
all’idea che la vita di un uomo era stata spezzata per costruire qualche villetta. Ma allora
ero ancora un magistrato alle prime armi: oggi, dopo otto anni alla Direzione distrettuale
antimafia, avendo visto di quanta crudeltà sono capaci gli uomini della camorra, purtroppo
non potrei più provare lo stesso sconcerto.
Dopo qualche giorno incontrai finalmente Iatomasi per parlare del caso Mascolo. Mi
confermò che il farmacista era una persona stimata: la sua morte aveva destato un certo
clamore. Il maresciallo aveva anche incontrato il figlio, che continuava a non darsi pace.
Oltre al dolore di quella tragedia, c’erano state le insinuazioni della gente: in terra di
camorra dopo un omicidio accade spesso che soffi il venticello della calunnia.
Gli chiesi a cosa si riferisse quando al telefono mi aveva parlato di una pista. Iatomasi mi
raccontò che parecchi anni prima, nel corso di un’indagine in quella zona, aveva conosciuto
la moglie di un esponente di primo piano del clan di Baia Domitia. L’uomo, un tale
Toraldo, era scomparso e tutti sapevano che non era fuggito ma doveva essere rimasto
vittima della «lupara bianca». La donna aveva chiesto notizie del marito agli amici, ma
erano stati evasivi. Si era presentata allora a casa di Beneduce, che l’aveva trattata in malo
modo. Il boss le aveva offerto del denaro ma lei, pur avendone bisogno, l’aveva rifiutato:
non avrebbe potuto accettare la carità da chi riteneva responsabile della morte del suo
uomo. Si era rivolta quindi ai carabinieri perché voleva liberarsi la coscienza, raccontando
agli inquirenti tutto ciò che Toraldo nel corso degli anni le aveva rivelato. Tra quei segreti,
c’era anche l’omicidio di Giuseppe Mascolo che, a suo dire, era stato ammazzato proprio
dal marito.
Il maresciallo aveva subito informato la procura che una testimone era disposta a parlare,
ma non ne aveva saputo più nulla. Forse quella donna non era stata mai sentita dai
magistrati.
Mi entusiasmai: Toraldo era proprio uno dei killer indicati da Gianfranco. Dovevamo
assolutamente trovare quella donna e verificare se era ancora disposta a collaborare.
Passarono parecchi giorni e a Giuseppe Mascolo non ci pensavo più, risucchiato com’ero
dal vortice dei tanti altri casi di cui mi dovevo occupare. Iatomasi, però, si era dato da fare
e mi portava buone notizie. Aveva trovato la donna. Ora abitava in provincia di Napoli e si
era rifatta una vita con un altro uomo. Al telefono, però, la signora gli era apparsa
scocciata: non era più il momento di parlare per lei, anche perché il nuovo compagno non
voleva sapere nulla del suo passato.
Sono sempre stato convinto che in certe situazioni una telefonata non basta: è
fondamentale creare un clima di fiducia attraverso il rapporto umano diretto. Pregai il
maresciallo di non arrendersi e di andare a parlarle di persona. Ero certo che ci sarebbe
riuscito, e così fu.
Sebbene recalcitrante, alla fine la donna aveva acconsentito a rispondere alle domande. Si
chiamava Silvana. Ancora bella, seppure non più giovanissima, i suoi occhi spenti
tradivano una vita difficile e sofferta. Suo marito era effettivamente uno degli uomini di
fiducia di Beneduce e si occupava di estorsioni e intimidazioni. A suggello di questo legame
criminale, il boss aveva fatto da testimone alle loro nozze.
Toraldo, in realtà, non le raccontava granché, ma ci voleva poco a capire la vita che faceva.
Una notte era rientrato stravolto e ferito a un piede. Imprecava contro i suoi amici, dicendo
che lo avevano lasciato solo sulla spiaggia. La mattina successiva le aveva chiesto di
comprare un quotidiano locale. Appena aveva visto i titoli, era sbiancato. Poi le aveva
raccontato che era stato proprio lui ad ammazzare la persona di cui parlava il giornale. Si
trattava di Giuseppe Mascolo.
Silvana non l’aveva mai ritenuto capace di uccidere, ma lui si era giustificato dicendole che
il farmacista doveva solo essere intimidito perché non voleva pagare il pizzo. Le cose
avevano iniziato ad andare storte quando, insieme ai suoi complici, si era avvicinato con le
armi in pugno. Mascolo aveva cercato di scappare con l’auto e lui nella confusione si era
ferito il piede. Aveva reagito sparando un unico colpo, che purtroppo aveva centrato il
farmacista alla testa. Allora erano fuggiti. Abbandonata l’auto nei pressi di una spiaggia, si
erano divisi: malgrado fosse ferito, Toraldo era stato lasciato solo. Le aveva anche fatto i
nomi dei suoi tre compari: fra di loro c’era quel Lucio di cui mi aveva parlato Gianfranco.
Silvana ci disse che dopo quell’omicidio il marito era cambiato. I suoi rapporti con
Beneduce erano andati via via peggiorando. A quanto pare, il clan ora lo riteneva
inaffidabile: temevano che potesse crollare e lo avevano fatto sparire per questo. Aggiunse
che glielo avevano tolto nel modo peggiore: non aveva nemmeno un cadavere su cui
piangere.
Quest’ultima parte della deposizione era stata particolarmente toccante. E anche
significativa, perché riassumeva la filosofia delle donne di camorra, che considerano la
morte del proprio uomo come un’eventualità quasi fisiologica: lo sgarbo più grave non è
l’omicidio in sé, ma l’impossibilità di avere una tomba da venerare.
Le dichiarazioni di Silvana, dunque, si erano confermate molto utili: i fatti che ci aveva
raccontato coincidevano con quello che mi aveva detto il pentito.
I carabinieri prepararono un’informativa piena di elementi di riscontro e io scrissi una
richiesta cautelare nei confronti di Lucio. Del resto, Toraldo era da considerarsi morto così
come Beneduce, il presunto mandante del delitto, che era stato a sua volta ammazzato
nella guerra tra clan.
Il gip non accolse la richiesta, ritenendo insufficiente il materiale probatorio. Sollecitai,
comunque, il rinvio a giudizio che il gup, il giudice dell'udienza preliminare, non negò: alla
fine, dunque, ci sarebbe stato il processo davanti alla Corte di assise di Santa Maria Capua
Vetere.
Alla prima udienza del processo, la famiglia Mascolo si era costituita parte civile. Una
piacevole sorpresa: in terra di camorra i familiari dei morti ammazzati non lo fanno quasi
mai. Sanno che i boss non lo gradiscono perché leggono questa iniziativa come una
simbolica adesione allo Stato e, quindi, una sfida alla loro autorità. Inoltre, sono anche
pochi gli avvocati che accettano questo tipo di incarichi. Forse temono di perdere la
numerosa clientela che viene dalle file della camorra. Ciò che altrove è semplicemente un
passaggio tecnico del processo, infatti, in Campania diventa un atto di coraggio.
Durante una pausa dell’udienza, mi si era avvicinato Luigi Mascolo, accompagnato dal suo
avvocato. Non l’avevo mai incontrato prima, non ritenendolo necessario dato che le sue
dichiarazioni all’epoca dei fatti erano state molto esaurienti. Mi aveva stretto la mano,
ringraziando me e i carabinieri per aver riportato a galla un episodio che ormai era rimasto
un tarlo solo per la sua famiglia.
Partivamo con lo svantaggio di un gip che aveva ritenuto gli indizi insufficienti, e dunque
non gli avevo nascosto che l’esito del processo mi sembrava incerto. Inoltre, temevo per la
tenuta della teste. Dopo i riscontri dei carabinieri, l’avevo fatta ricontattare per proporle di
entrare nel programma di protezione come collaboratore di giustizia, ma si era rifiutata.
Ormai aveva un’altra vita e il suo compagno non avrebbe mai accettato di lasciare il
Napoletano, per vivere chissà dove, guardandosi sempre le spalle.
Luigi Mascolo, però, era ottimista: comunque sarebbe andata, quel rinvio a giudizio lo
ripagava di tante amarezze. Aveva sognato mille volte il momento in cui lo Stato avrebbe
ristabilito la verità e restituito l’onore a un uomo che aveva avuto il solo torto di non cedere
a un sopruso.
Il processo si svolse a ritmo serrato, con un calendario fitto di udienze. Poi arrivò il giorno
della testimonianza di Silvana, che tanto mi preoccupava. Chiesi a Iatomasi di starle vicino
per tutto il tempo: non sarebbe stato facile per lei parlare in pubblico davanti agli ex amici
del marito ed era molto probabile che avesse ricevuto intimidazioni. Quando venne il suo
turno, non riusciva quasi a proferire parola e condiva le poche frasi di «non ricordo». Ma
confermò tutte le sue dichiarazioni. La sua testimonianza resse anche al controesame della
difesa.
Nel corso del processo, decisero di collaborare anche Augusto La Torre, il boss di
Mondragone, e alcuni suoi uomini. Pur non avendo avuto un ruolo diretto nella vicenda,
non potevano non sapere chi e perché aveva voluto un omicidio come quello, nella zona
confinante al loro territorio.
Finita l’istruttoria, mi ero quindi dedicato a preparare la requisitoria seguendo un sistema
che sarebbe poi diventato il «mio» metodo: ulteriori letture dei verbali, tanti appunti e una
scaletta dettagliata. Rileggendo il materiale per l’ennesima volta, facevo l’avvocato del
diavolo ponendomi domande su domande: solo una volta convinto al cento per cento avrei
potuto chiedere una condanna.
Feci una requisitoria breve e concisa, riservando però un ampio spazio introduttivo alla
vittima, un uomo che aveva perso la vita per un atto di coraggio e che meritava un tributo.
Conclusi chiedendo per Lucio, che non si era mai presentato alle udienze, una condanna a
ventisei anni.
Al momento della sentenza ero nervoso. Ho sempre evitato le personalizzazioni, ma
quando un processo ti costa tanto lavoro e, soprattutto, sei convinto delle tue
argomentazioni, non puoi non fare il tifo perché finisca in un certo modo. Non appena la
Corte iniziò a leggere la sentenza, capii che aveva condannato l’imputato. La pena fu di
ventuno anni.
Uscendo dal tribunale, Luigi Mascolo mi disse che lo Stato e le istituzioni per fortuna ogni
tanto non deludono i cittadini. Gli strinsi la mano e me ne andai.
Una volta che il mio compito in un processo si esaurisce, è mia abitudine disinteressarmi di
quanto avviene dopo, e fu così anche quella volta. A distanza di qualche tempo, però,
l’avvocato di parte civile mi informò che la sentenza era stata convalidata in appello. Anni
dopo, sono venuto a sapere che anche la Corte di cassazione l’aveva confermata.