cinzia leone cellophane

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cinzia leone cellophane
CINZIA LEONE
CELLOPHANE
ROMANZO
BOMPIANI
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Via Collina
L’ho scelto proprio per i suoi sacchetti della spazzatura,
sempre gialli. Nel fondo oscuro del cassonetto, in mezzo a
tutti gli altri, di sicuro il suo spicca come un grande limone. È stato il colore a colpirmi. Salvo esaurimento scorte,
tutti comprano quelli azzurri o meglio ancora i grigi. Pochi
usano quelli gialli: troppo vistosi. Buttare i rifiuti è un gesto
d’imbarazzo e di pudore, e il giallo è un colore sfacciato.
Nessuno fa caso ai colori dei sacchetti della spazzatura. Io
sì, e amo il giallo.
Sorveglio quell’uomo e i suoi sacchetti ormai da qualche giorno ma ancora non ho deciso di entrare in azione.
Ogni mattina, tra le otto e trenta e le nove, sbuca dal villino
bifamiliare numero 7 di via Collina con la busta della spazzatura in mano, sempre del medesimo colore. Chiude con
delicatezza il portoncino e gira la chiave nella toppa fino
al termine della corsa della serratura, senza mai distrarsi,
concentrato come se dovesse raccontarlo a qualcuno per
filo e per segno. Poi ficca la chiave nel taschino del giubbotto di pelle, controlla la chiusura della zip, attraversa la
strada, getta la busta gialla nel cassonetto e si allontana su
uno scooter su per la salita.
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Tengo sotto controllo tutto il condominio. Ma è lui,
quello che aspetto, col suo giubbotto nero da motociclista
troppo stretto e i jeans attillati. L’altro ieri aveva anche
una sciarpa rossa al collo, una cintura con la fibbia d’argento e una borsa piena di tasche come quelle che usano
i fotografi. Conciato così, come un ragazzo degli anni ’70,
con quegli abiti fuori taglia e oggi, dieci anni dopo, anche
fuori moda, sembrava un signore di mezza età vestito da
adolescente.
È inutile rischiare di farsi notare: una volta che si sarà
liberato della spazzatura, aspetterò che imbocchi la curva
e il rumore della marmitta mi segnali che si è dileguato in
cima alla salita, e finalmente prenderò il suo sacchetto.
Per non sembrare una barbona che rovista nei rifiuti,
utilizzo uno stratagemma: ne porto con me uno riempito
di giornali vecchi e di buste di plastica. Ne ho sempre una
scorta di tutti i colori, e se chi ho puntato ha l’abitudine di
usare sacchetti uguali, posso arrivare già con quello giusto:
giallo con giallo, grigio con grigio, azzurro con azzurro. Il
mio gesto dovrà sembrare un ripensamento, un errore. Uno
di questi giorni aspetterò che il motociclista spiegazzato si
liberi della sua busta, mi avvicinerò al cassonetto con la mia
già piena, farò il gesto di buttarla dentro e ne approfitterò
per ripescare il suo sacchetto. Un trucco che funziona alla
perfezione.
Quella della spazzatura è solo una piccola mania: so
come non farmi prendere la mano. Ho un’azienda, dei soldi da incassare, stipendi da pagare, appuntamenti da rispettare. Il gioco lo conduco io: in azienda e con i sacchetti.
Come a tutti, anche a me la spazzatura ha fatto sempre
schifo. Eppure è diventata la mia fissazione. Non raccolgo i
rifiuti, li ispeziono e basta, ma il mio mestiere con lo sporco
c’entra. E soprattutto con le paure.
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Cinque anni fa, appena uscita dal liceo, dopo la morte
dei miei genitori, ho ereditato da mio padre una ditta di
disinfestazione. Ammazzo zanzare, blatte, acari, tarli e ogni
specie d’insetti, nebulizzandoli con prodotti chimici. Elimino topi con esche avvelenate e installo reti per contrastare
i piccioni. Affronto e combatto tutto quello che il genere
umano odia. È diventato la mia vita.
Ho imparato rapidamente tecniche, pericoli, trucchi.
Gli invasori non mi spaventano, so come tenerli a bada ed
eliminarli. I clienti mi chiamano quando hanno l’acqua alla
gola, con i nemici nascosti nell’ordito delle lenzuola, rintanati nelle fessure dei muri, annidati nelle travi del tetto. Mi
aspettano con ansia, ma il mio intervento li imbarazza: pieni di vergogna mi chiedono di arrivare con furgoni senza il
nome della ditta, parlano a voce bassa, si sentono appestati
e non vogliono che i vicini sappiano del contagio. Il mio
compito è liberarli, incassare e sparire. Fino alla prossima
invasione. Sono un mercenario ingaggiato da un popolo
sotto assedio e senza esercito. Io arrivo con le truppe.
La spazzatura ci racconta e ci tradisce. Finisce per esserci molta più verità in quello che abbandoniamo che in
quello che decidiamo di trattenere. Il mio lavoro non l’ho
scelto ma mi piace. Non ho incubi, non ho debiti e non ho
marito. Ho solo un’ossessione.
Mi faccio guidare dall’istinto, ma inseguo l’obiettivo con
metodo e tenacia. Non lascio che un vizio segreto occupi
più di qualche ora della mia giornata, ma sono le ore che
preferisco e le sole in cui sento di fare qualcosa di importante e di unico.
Nessuno sa della mia mania. Prendere un sacchetto di
rifiuti non è un furto e non c’è motivo di farlo sapere. Topi,
blatte, zecche, pulci e zanzare, approfittano dei rifiuti, io
invece li esploro e basta. E solo se posso risalire ai loro pro7
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prietari. Non rubo, non rivelo ad altri quello che scopro,
non lascio tracce. Le ossessioni aiutano a infilarsi ogni giorno nella propria vita come in un guanto. E a trovarla esattamente della propria misura.
La prima volta che mi è venuta la voglia di guardarci
dentro, avrò avuto sette o otto anni. Ancora non c’erano i
bidoni condominiali e tanto meno cassonetti in strada: solo
secchi di metallo o di plastica, foderati di carta di giornale,
e messi fuori dalla porta in attesa del ritiro che, festivi a
parte, toccava a uomini ingoffati in divise da carcerati e
con grandi sacchi di juta sulle spalle pronti a inghiottire i
rifiuti.
Abitavamo in un condominio elegante vicino al mare.
Tutte famiglie conosciute ma per me piene di misteri insondabili. All’inizio è stato solo per curiosità o forse per
spavalderia: alzavo il coperchio e sbirciavo. Perché l’avvocato del secondo piano butta le uova intere? Non fa in
tempo a mangiarle? E la dirimpettaia che getta le lettere
ancora chiuse, non è curiosa? E la vecchietta del piano terra con il secchio sempre vuoto si mangia tutto? Anche la
carta, anche le bucce?
Mi ero affezionata a quello dell’inquilina dell’attico, un
pianerottolo tranquillo dove non passava nessuno e, con
la scusa di giocare nel terrazzo condominiale, andavo fino
in cima alle scale per guardarci dentro. Era una signora di
poco più di cinquant’anni, una pittrice gentile e svampita,
con un terrazzo pieno di fiori. Il contenuto del suo secchio
le somigliava. Imprevedibile, allegro, odoroso di solventi,
e pieno di stranezze: disegni, giornali illustrati e pennelli
con il colore ancora fresco che veniva voglia di toccarlo e
sporcarsi le mani. Un giorno lo trovai pieno di rose gialle,
con i boccioli decapitati e avvolti in un foglio di cellophane.
Perché tutte gialle? Forse erano le rose del suo terrazzo,
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ma per quale motivo avvolgerle in quell’involucro trasparente? Forse era un regalo. Mi graffiai le mani per cercare una traccia, un messaggio: niente. Strappai un pezzo di
cellophane e me lo ficcai in tasca. Fu una delle mie prime
ispezioni complete. La mia caccia nelle vite degli altri era
cominciata, ma ancora non lo sapevo.
A casa, di nascosto da mia madre, avevo trascorso il pomeriggio a passare in rassegna i miei giochi guardandoli
attraverso la trasparenza del cellophane, scoprendoli diversi e straordinariamente interessanti. Il giorno dopo tornai
all’ultimo piano per dare di nuovo un’occhiata nel secchio
della pittrice svampita: le rose gialle decapitate mi avevano
proprio incuriosito. Sollevato il coperchio, sotto i resti di
un’insalata di pollo, avvolto in un paio di calze nere velate
e con un bocciolo di rosa gialla schiacciato sopra, trovai un
biglietto con una calligrafia puntuta. Soltanto due parole e
una sigla: “Troppa trama”, firmato “G”.
La scoperta della parola “trama”, per me fino a quel momento priva di significato, non mi aiutò a svelare il mistero.
La voce del dizionario parlava di come è fatto un tessuto:
i fili della trama in un verso e quelli dell’ordito intrecciati
nel verso opposto. E nelle ultime righe c’era scritto che la
trama può essere anche una storia complicata, e che quella di un avversario deve essere “sventata”. L’ultima parola
mi portò rapidamente dalla lettera “t” alla “s” del dizionario. “Sventare: rendere vano, far fallire”. Quale che fosse
la “troppa trama” di cui si lamentava il misterioso signor
“G”, ero certa che si trattava di una storia d’amore. E che
una storia d’amore poteva avere una trama pericolosa che
andava sventata e fatta fallire.
Amore era una parola che non avevo bisogno di cercare
nel dizionario, anche se non l’avevo mai sentita pronunciare dai miei genitori.
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Dopo pochi mesi la pittrice traslocò. Sfilarono davanti ai miei occhi lungo la rampa delle scale, camuffati dalle
carte d’imballaggio, quei mobili che non avevo mai visto.
Un lume a stelo, una toeletta con lo specchio, un cavalletto,
una quantità di quadri che non avevo potuto ammirare e
un’infinita serie di scatole tutte classificate: abiti da sera,
golf da montagna, scarpe décolleté, scarpe da pioggia, tovaglie, posate d’argento. La vita della pittrice sfilava lenta
e piena di solennità come un corteo funebre di cartone e
nastro adesivo, spiato dai condomini. Lei scese per ultima,
sulle spalle un impermeabile chiaro, i capelli nascosti da un
foulard di seta, gli occhiali da sole e un album da disegno
sotto il braccio.
Nessuno la salutò. Così strana per il nostro condominio,
ancora troppo bella e solo un po’ sfiorita perché gli uomini
la guardassero senza imbarazzo. Se ne andava a vivere in
continente e poi forse addirittura in America: così dicevano
tutti. “La nostra isola le va stretta,” sussurrò a mia madre
la signora del secondo piano che era di Palermo. “Migliaia
di chilometri che a noi bastano e avanzano, a lei sembrano
pochi. A quell’età, senza marito s’impazzisce.” “È con i mariti che s’impazzisce, date retta a me…” bofonchiò quella
del terzo salendo con la spesa. Mia madre chiuse la porta in
fretta, come faceva sempre quando aveva paura di ascoltare
o capire qualcosa di troppo, ma io riuscii a sgusciare fuori
e a scendere in strada.
Il camion del trasloco non c’era già più e la pittrice stava
salendo su un’automobile rossa di una marca straniera. Alla
guida un uomo con una sciarpa di seta, un soprabito scuro
e il cappello. Era lui il signor “G”? La pittrice stava sparendo dalla mia vita con un uomo elegante e sconosciuto.
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