Figure femminili tra quotidianità e storia

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Figure femminili tra quotidianità e storia
-Appunti di storia –
Figure femminili tra quotidianità e storia.
Lo sfondo nel quale dobbiamo collocare le vicende del 1797 è quello di una società nella quale le donne
avevano conquistato una posizione importante in campo culturale, tanto da far attribuire al Settecento
l’appellativo di “secolo delle donne”. In ogni campo della produzione culturale erano presenti significative
figure femminili: nel giornalismo, nella poesia, nel teatro, nella musica, nella pittura, perfino nelle scienze e
nella matematica, dalla giornalista Elisabetta Caminer Turra, direttrice del “Giornale Enciclopedico”, alla
pittrice Rosalba Carriera, alla scrittrice Gioseffa Cornoldi Caminer, redattrice de “La donna galante ed
erudita”, a Luisa Bergalli, moglie di Gasparo Gozzi, autrice de “L’almanacco in difesa delle donne”, alle
poetesse Silvia Curtoni Verza (All.n°1) e Isabella Teotochi Albrizzi – la “bella Temira” apprezzata anche da
Giacomo Leopardi – a Giustina Renier Michiel, che si dilettava di scienza e filosofia. Si trattava di donne
poliglotte, impegnate spesso in attività di tradizione di opere letterarie europee, come la Michiel, che
traduce Shakespeare, o Elisabetta Caminer, che fa conoscere Madame De Genlis.
Il loro ruolo è importante soprattutto sul piano della mediazione culturale, in virtù della funzione esercitata
dai salotti, luoghi precipui della sciabilità settecentesca gestiti appunto dalle salonnierès, particolarmente
importanti nel contesto europeo anche per la moda dei viaggi letterari, per il fascino che continua ad
esercitare l’Italia, per il ruolo internazionale giocato da Venezia, per le caratteristiche sovranazionali delle
élites, culturali.
L’incalzare degli eventi politici, le rapide trasformazioni messe in moto da Napoleone le coinvolgono in
modo diretto, sollecitandole ad una partecipazione intensa, condivisa con gli amici, i parenti, gli sposi. Il
sostegno al nuovo corso democratico è espresso in modi e forme diverse: dalla partecipazione alle feste e
alle manifestazioni rivoluzionarie, all’adozione di una nuova moda e di un nuovo stile di vita; dalla rottura di
legami familiari, alla scrittura di testi e appelli rivoluzionari, segnali tutti di quella aspirazione alla libertà
personale che si era manifestata già negli ultimi decenni del secolo, con l’insofferenza verso il potere
patriarcale, con aspirazioni di libertà nelle scelte matrimoniali, con un aumento delle richieste di divorzio.
A Vicenza fa scandalo tra i benpensanti il comportamento di Fiorenza Vendramin, che non solo non cela
le sue idee rivoluzionarie, ma all’arrivo dei francesi, lascia l’autoritario e retrivo ambiente familiare. Sposa
forzata del marchese vicentino Filippo Luigi Sale Manfredi Repeta, “pastorella” d’Arcadia con il nome di
Andosine Erigenia, socia dell’Accademia dei Riposti di Cologna Veneta, diviene amante di un ufficiale delle
truppe in servizio nella città, abbandona il marito e va a vivere con lui.
Molte vedono nella Rivoluzione l’inizio di un processo di rigenerazione sociale che, nel cancellare le
diseguaglianze, va a ridisegnare anche una nuova condizione femminile.
A Verona è Fulvia Mattei, membro della Società Patriottica, a intervenire a più riprese nella sala di
Pubblica Istruzione che aveva trovato sede presso la soppressa Accademia dei Filarmonici, per iniziativa di
Giovanni Pindemonte (fratello di Ippolito). Ella sostiene che le donne sono essenziali per la vittoria della
democrazia; che il nuovo corso democratico non può non coinvolgerle pienamente, pena il suo stesso
insuccesso, e che deve farlo nella duplice forma dell’educazione pubblica e della concessione di uguali
diritti.
Le molte facce del patriottismo femminile
La sconfitta di Napoleone e il tentativo di restaurare l’antico ordine, secondo le decisioni assunte dal
Congresso di Vienna, non riescono a arrestare quel processo di trasformazione politica e sociale messo in
atto dalla Rivoluzione, in cui aspirazioni nazionali s’intrecciavano a istanze di rinnovamento sociale e
politico, a sentimenti di patriottismo, a nuove forme di identità e di cittadinanza. Sentimenti e aspirazioni
che il nuovo clima romantico riveste di afflati spirituali e religiosi, che connotano l’impegno patriottico di
sacralità e sacrificio, facendone una nuova “religione” della patria, un obiettivo morale e spirituale prima
ancora che politico, come ha messo in luce Alberto Banti (Banti, 2000). Il nuovo canone risorgimentale
declina un linguaggio assai familiare soprattutto alle donne, intrecciando simboli religiosi a valori di fedeltà,
amore familiare, abnegazione. Le nuove forme di identità femminile, maturate nel triennio giacobino, i
principi di uguaglianza e libertà sviluppati dal dibattito sul versante del genere, restano un patrimonio che si
trasmette alle nuove generazioni.
La presenza delle donne nelle varie società segrete che si diffondono capillarmente in questo periodo,
secondo un modello massonico diffuso dalla Rivoluzione, è un capitolo che attende ancora di esser
compiutamente scritto. Si segnalano tuttavia presenze significative e non gregarie, soprattutto nella
Carboneria. Nel Veneto spiccano i nomi di Elena Monti da Fratta Polesine e di Anna da Schio. La prima,
sposa del generale d’Arnaud, è una delle animatrici della setta segreta fin dall’inizio; riesce a organizzare
nel Polesine, già nel 1818, una prima rete di carbonari. Gli iscritti, scoperti dalla polizia, vengono catturati e
processati l’anno successivo, prima rete di arresti, seguiti da quelli di Milano. Maggiormente incisiva
l’azione svolta a Verona da Anna da Schio. Vicentina di origine, giovane sposa del conte Federico SeregoAlighieri, di temperamento vivace e appassionato, riesce a raccogliere nel suo salotto patrioti veronesi e
bresciani, come Alessandro Torri, Pietro degli Emilei, Giuseppe Nicolini, collaboratore del “Conciliatore” e
amico di Silvio Pellico. Il legame amoroso stretto con il bresciano Camillo Ugoni, conosciuto nel 1818,
rinsalda ulteriormente questo impegno politico. All’inizio degli anni Venti, la sua attività cospirativa diviene
più intensa : essa finanzia la Carboneria, con donazioni di gioielli e preziosi, ne allarga e consolida la rete in
città intensificando i rapporti e i collegamenti con Brescia, fino alla repressione austriaca, che porta
all’arresto di Nicolini, e all’allontanamento di Torri. Dopo la sua prematura scomparsa nel 1829, l’attività
politica viene continuata dalla figlia Maria Teresa (chiamata Nina), che non solo riesce a mantenere i
rapporti e la relazione con i vecchi amici, ma coagula intorno a sé una nuova generazione di patrioti e
patriote, come i poeti Aleardo Aleardi e Caterina Bon Brenzoni. Dopo la partenza per Bologna, in seguito
alle nozze con Giovanni Gozzadini, il testimone è assunto dall’amica che ne continua a Verona l’opera.
Al di là di un’attività apertamente cospirativa, il ruolo delle donne risulta centrale nella diffusione di
sentimenti di identità nazionale e di opposizione agli austriaci, nel consolidamento di reti associative.
Alcune figure femminili assumono in questa fase un ruolo centrale, diventando dei veri e propri simboli
dell’orgoglio patriottico e dell’opposizione allo straniero: è il caso di Giustina Renier. La sua casa diventa
punto di ritrovo dei più importanti liberali, di quei giovani che saranno il motore della Rivoluzione del ’48:
nelle sue sale si incontrano, ad esempio, Daniele Manin e Alessandro Zanetto. Anche la sua attività di
ricerca e di scrittura si orienta in senso patriottico, secondo un concetto di patria che guarda forse più alla
storia della Serenissima che non ad una nuova entità nazionale (forse anche in virtù dell’esser stata nipote
dell’ultimo Doge di Venezia).
L’opposizione si esprimeva in gesti, abbigliamenti, comportamenti che assumono valore simbolico.
Proverbiale la fierezza e il disprezzo esibito verso gli austriaci da Maria Teresa Serego-Alighieri. Ad un
colonnello austriaco che la invitava ad assistere ad una rivista della guarnigione austriaca, essa rispose che
sarebbe andata a vedere i soldati austriaci solo quando se ne fossero andati, uscendo per sempre da Porta
S. Giorgio: allora sicuramente non sarebbe mancata.
Alcune sarte e merciaie di Verona vengono arrestate per aver confezionato e venduto fazzoletti con ricami
satirici nei confronti dell’Austria.
Reti di relazione legavano anche le scrittrici Ermina Fuà Fusinato, Caterina Percoto, collaboratrice del
giornale patriottico “Caffè Pedrocchi”, la poetessa veneziana Anna Mander Cecchetti, Vittoria Aganoor e
Luigia Codemo.
Nell’insurrezione del 1848
La rivoluzione del ’48 vede un profondo coinvolgimento di tutte le classi sociali: in molte città del Veneto
anche le donne scendono in campo a fianco degli uomini, prendendo parte a manifestazioni, organizzando
l’attività insurrezionale,diffondendo manifesti e proclami, raccogliendo fondi, in un crescendo d’impegno
che le porta a predisporre barricate, a combattere se necessario, ma soprattutto ad assumere la direzione
delle operazioni di soccorso, di approvvigionamento ed equipaggiamento delle truppe.
Allo scoppio della rivoluzione, la mobilitazione si generalizza, estendendosi a tutte le classi sociali.
Ragazze del popolo si arruolano nelle “crociate” (formazioni volontarie che marciano contro gli austriaci):
suonando il tamburo o portando la bandiera precedono i soldati e li accompagnano agli scontri, non meno
intrepide dei loro compagni sulle barricate, come testimoniano ammirati gli improvvisati generali. Le
operaie della fabbrica dei Tabacchi di Venezia converono la loro produzione in confezionamento di sacchi di
tela e cartocci per la polvere da sparo. Donne dell’aristocrazia e della borghesia trasformano i loro palazzi in
ospedali, centri di raccolta degli esuli e dei volontario che accorrono numerosi a Venezia, dopo la resa delle
città della terraferma.
Il Comandante Mengaldo risponde concedendo la formazione di una “guardia femminile”, ma con
funzione di supporto e soccorso ai militari, negando quindi l’uso delle armi. Non si sa se in conseguenza di
questo decreto o in polemica con esso, per iniziativa delle stesse donne viene istituita la “Pia Associazione
pel supporto ai militari”.
Questo impegno non si traduce nel riconoscimento dei diritti civili e politici. Il segnale evidente è
l’esclusione delle donne dal voto dell’assemblea costituente dell’aprile del ’48, che doveva pronunciarsi
sull’annessione delle province della terraferma al Regno di Sardegna.
(Da “L’Arena” mercoledì 8 marzo 2006 pag. V Cronaca della Provincia di Emma Cerpelloni)
Aveva una villa anche a Sandrà, sempre luogo di incontri letterari. La figlia Clarina fu amica di Carlo
Montanari, il maggior patriota veronese e di Aleardo Aleardi, il grande poeta romantico cittadino.
Una eroica donna dell’ottocento veronese fu Carolina Bevilacqua, di origini bresciane. Sposò il conte
Bevilacqua, che morì giovane, lasciandola con tre figli ed in condizioni economiche precarie. Carolina non si
diede vinta: in pochi anni riuscì a ricostruire il patrimonio di famiglia, riacquistando il castello di Bevilacqua,
che era stato venduto anni prima. Di sentimenti patriottici, partecipò con i figli all’insurrezione bresciana,
ricoverando nel suo palazzo i feriti. Quando a Venezia fu proclamata la Repubblica, concesse ai patrioti
l’uso del castello e la proprietà dei terreni annessi. Il figlio Girolamo cadde a Pastrengo il 30 marzo 1848 e fu
lo stesso re Carlo Alberto, che assistette alla morte del giovane, a decorare la nobildonna, con una medaglia
d’oro per meriti patriottici. Carolina morì a Valeggio nel settembre dell’anno dopo, prostrata dalle sventure
familiari e nazionali. A Valeggio aveva aperto a proprie spese un ospedale per i feriti italiani, che essa
curava insieme alla figlia Felicita (All. n°2), anch’essa fervente patriota. Pare che sia stata lei, divenuta
moglie del patriota siciliano Giuseppe La Masa, esule in Piemonte a convincere Garibaldi alla spedizione dei
Mille, che sarà preparata dal marito.
Ma dovette accettare la volontà del consorte che non la volle al seguito nella spedizione. Era pur sempre
una donna dell’ottocento! Altra gloria del risorgimento veronese, Anna da Schio Serego Alighieri, che
contribuì a diffondere, tra il 1820 e 1821, la Carboneria a Verona, presto stroncata dal governo austriaco. La
contessa è entrata anche in una pagina culturale molto significativa per la nostra letteratura: il 18 maggio
1820 invitò, nella sua villa di Gargagnago i famosi poeti Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte ed il quasi
novantenne Abate Lorenzi, sceso da Mazzurega in groppa alla sua mula. Nell’occasione i poeti piantarono
nel giardino tre alberi di alloro. Una vicenda culturale dal sapore pre-femminista ebbe per protagonista la
più insigne letterata del romanticismo veronese, Caterina Bon Brenzoni. Nata a Verona nel 1813, scrisse
pregevoli versi e, quando sposò il conte Paolo Brenzoni, animò un importante circolo culturale
d’orientamento liberale, frequentato dai più illustri veronesi del tempo, fra cui Aleardo Aleardi. Nel ’49, a
Colà di Lazise, nella villa Miniscalchi Erizzo, che era della sua famiglia, Caterina incontrò incontrò una
scienziata inglese, studiosa di astronomia, Mary Fairfax Sommerville, ed alle loro “chiacchierate”
scientifiche, Caterina dedicherà una delle sue composizioni più belle, il poemetto I cieli, che pubblicherà
due anni dopo, “mirabile accordo di sentimento e di dottrina, d’ispirazione ed esattezza scientifica”, come
scrissero i critici. Caterina morì nella sua villa di Sant’Ambrogio di Valpolicella, a soli 43 anni, l’1 ottobre
1856. (All. n°3)
Nella Bassa veronese del Novecento, la donna più famosa fu Maria Fioroni (All. n° 4), una grande figura,
impegnata in molteplici attività benefiche, culturali e patriottiche. Originaria di Castelmassa in provincia di
Rovigo, venne a Legnago ancora giovane e subito si distinse per il sostegno a varie attività. Appassionata di
storia, lasciò scritti, pubblicazioni, manoscritti sulle ceramiche, sulle armi bianche, sui ritrovamenti
archeologici nelle Valli veronesi, che le diedero la medaglia d’oro del ministero della Pubblica Istruzione.
Tutto Il materiale che raccolse lo sistemò con un lavoro di decenni in quella che resta la maggiore
istituzione culturale della Bassa, il museo Fioroni, con una ricca biblioteca. Maria Fioroni è morta il 13
marzo 1970. Restando a Legnago, non va dimenticata Apollonia Pellini, morta nel 1967, nata a Colognola ai
Colli, soprano, con un repertorio di romanze di opere a lieder di Schubert, Brahms, Strauss. Va ricordata
perché, dopo il matrimonio, visse a Legnago, dove fondò la Società degli amici della musica. Concludiamo
la nostra carrellata femminile ricordando che la presenza delle donne nella Resistenza è stata oggetto di un
convegno alla Gran Guardia a Verona, promosso dall’Istituto per la storia della Resistenza di Verona, nel
dicembre scorso, e proprio in quell’occasione, è stato messo in risalto come il ruolo femminile nella lotta al
Fascismo è stato a torto considerato marginale ed è invece ricchissimo di figure e di protagoniste. Per tutte
le partigiane dimenticate,ricordiamo una figura doppiamente drammatica, di partigiana ed ebrea, l’unica
medaglia d’oro femminile della resistenza veronese: Rita Rosani. Entrata in una banda armata partigiana, il
17 settembre 1944 venne circondata da forze nazifasciste e venne uccisa a Monte Comun di Negrar. Una
pagina eroica, scritta da una grande donna.
Allegato n° 1:
La Contessa Silvia
Colti inchiostri lascò, lode ebbe piena
A' di che coturnata in palco venne;
E con applauso non minor sostenne
La sua parte del Mondo in sulla scena.
Di assoluto rilievo all'interno della Fam. Guastaverza è la letterata nobildonna Silvia Curtoni Verza
Guastaverza (1751-1835), figlia di Antonio Curtoni ed Elisabetta Maffei, nipote dell'illustre Scipione
Maffei, e giovane sposa del conte Francesco Guastaverza, che la lascerà presto vedova.
Istruita ed educata presso il monastero benedettino di Santa Maria degli Angeli, vi rimase fino a tutto
il 1769, e ne era uscita con la convinzione di volersi consacrare alla vita monastica; anzi, nel suo
intimo, era convinta di aver pronunciato un voto definitivo. La sua vocazione venne però bruscamente
impedita dal padre, che per lei aveva invece progetti ben diversi; ella doveva andare in sposa ad un
"buon partito", cosî da rafforzare ed aumentare il prestigio della sua famiglia. Venne quindi data in
sposa a Francesco Verza Guastaverza.
Fu un matrimonio imposto, che nacque senza alcuna partecipazione sentimentale tra i due: l'uno
soddisfatto d'aver con sé la nobildonna più desiderata di Verona, l'altra d'esser entrata, assecondando
il padre, tra le famiglie più ricche, nobili ed influenti della città.
Più tardi la Contessa tornò a ripensar alla sua infatuazione religiosa, rendendosi ben conto che la vita
mondana le era certo più consona di quella monastica; scrive infatti nelle sue "Terze Rime":
Inesperta pur io, giovane, e ignara
Di sì fatta tra misera sorte,
Mi dannai quasi ad esta vita amara;
Ma il mio genitore, in suo amor forte,
Dal perielio mi trasse il dì ch'io avea
Già le caste ghirlande al crine attorte.
Bella, nobile e letterata, la Contessa godeva dell'ammirazione dei personaggi più illustri della sua
epoca, tra i quali non mancavano personalità del rango di Sua Maesta Maria Lodovica Imperatrice
d'Austria.
Famosissimi i suoi salotti letterari che settimanalmente radunavano nel suo palazzo di città, le
eminenze culturali, veronesi e non, della scienza della letteratura,e che nei mesi caldi si tenevano
spesso nella Villa di Ramedello, la quale può oggi fregiarsi d'esser stata frequentata da colossi della
letteratura italiana quali: il Foscolo, Giuseppe Parini, ed Ippolito Pindemonte, che risiedeva vicino alla
Villa e secondo quanto riportato dal Benassù Montanari nella sua "Vita di Ippolito Pindemonte", "era
cotidiano alla Villa della Contessa".
Per quanto riguarda il Parini, la sua conoscenza con Silvia Curtoni risale ad un incontro a Milano del
1788, da cui derivò un amore dell'abate per la contessa ed un copioso e famoso carteggio. Col Foscolo
invece ci furono solo pochi ma intensi incontri. Ebbe a conoscerlo per il tramite del Pindemonte, e nel
salotto della Verza vi giunse di ritorno da un viaggio a Venezia.
I rapporti tra i due non furono idilliaci, se, come riferisce l'Uglietti, durante una conversazione sulla più
recente opera ("Ultime lettere di Jacopo Ortis") "il Foscolo ad un certo punto non seppe controllare il
suo carattere focoso ed evidentemente superò i limiti di una civile controversia. Allora intervenne Silvia,
e non con dolcezza femminile ma con mascolina fermezza, sicchè il Foscolo fu messo bellamente a
tacere."
Il Montanari assicura comunque sull'immediata riconciliazione dei contendenti.
Assidue frequentatrici della contessa, tra gli altri già citati e non citati erano anche: Isabella Teotochi
Albrizzi, Francesco Emilei, Elisabetta Contarini Mosconi, Lavinia Pompei.
Grande fama l'ebbe comunque non solo come donna dell'alta società, ma anche come fine poetessa
oltre che per la sua arte nel recitare. Particolarmente attratta dal teatro francese, attrice sotto lo
pseudonimo arcadico di Flaminda Caritea, ebbe grandissimo successo con la "Berenice" di Racine,
tanto che addirittura tra il popolo presero a chiamarla "Regina".
Della contessa si conserva in un salotto di Villa Guastaverza Bottura un busto in stucco posto a vertice
dei fregi stile Rococò" di un camino.
Allegato n° 2:
Felicita Bevilacqua La Masa (1822-1899). Figlia di Carolina Santi e del conte veronese
Alessandro Bevilacqua, viene educata dalla madre all’amor di patria e all’impegno per la causa
nazionale. Allo scoppio della rivoluzione del’48 collabora all’ organizzazione del soccorso dei feriti.
Dopo la caduta di Brescia, fugge a Roma, dove conosce il marchese garibaldino siciliano Giuseppe
La Masa, che sposa nel 1858. In questi anni si fa promotrice di varie iniziative patriottiche: allo
scoppio della seconda guerra d’indipendenza lancia un appello alle donne italiane e crea a Torino
un Comitato centrale per la raccolta delle bende, delle filacce, ecc. in soccorso ai feriti della
guerra. Promuove una raccolta di fondi per l’impresa dei Mille a cui il marito prende parte. Dopo
la proclamazione del Regno D’Italia fonda a Torino, con Anna Pallavicino Trivulzio, l’Associazione
filantropica delle donne italiane, per l’assistenza e l’educazione dei bambini poveri, che apre
sezioni filiali in varie città d’Italia. Rimasta vedova e senza figli, alla sua morte lascia alla città di
Verona il palazzo Bevilacqua, a quella di Venezia il famoso palazzo Pesaro sul Canal Grande, con
l'intenzione di istituirvi un luogo di accoglienza ed esposizione per i giovani artisti. Seguendo il suo
testamento olografo, dal 1898 Ca' Pesaro ospitò la Fondazione Bevilacqua La Masa, oggi è sede
anche del museo d’arte moderna e contemporanea.
Allegato n°3
Altre figure femminili del Risorgimento
Di alcune figure femminili, la cui opera si intreccia con il processo risorgimentale e vi contribuisce, è
stato scritto, anche in forma romanzata, tuttavia non esiste una ricerca storica che superi una visione di
genere. Inoltre, se di alcune l’opera e il nome restarono vivi nelle carte e nei documenti, ancor più
numerose sono le donne senza nome, che hanno operato personalmente o che hanno sostenuto i
congiunti, subendo nei cuori lo strazio che altri soffrivano nella carne, per la prigionia, le torture, la
guerra, senza contare le donne ferite, offese, uccise.
Così il loro eroismo si consuma, come quello delle eroine conosciute, in chiave di assoluta e spoglia
quotidianità.
Le donne sono dunque presenti, nel primo Ottocento, in una prodigiosa varietà di atteggiamenti, di
scelte, alcune delle quali così coraggiose e innovatrici da segnare una decisa maturazione culturale e
spirituale, che le consegna a un destino di dolore e attesta una partecipazione piena alla dimensione
civile del vivere. Ad esse va riconosciuto un realismo non puramente pragmatico, ma disposto a cogliere
il senso concreto e profondo delle situazioni. Appare loro chiara la necessità di interventi immediati intesi
a sanare situazioni contingenti e insieme connessi in una visione che abbraccia eventi e istituzioni in una
logica storica.
Inoltre non temono di prodursi in testi a stampa di vivace e profonda concretezza e non rifuggono la
dialettica critica.
Un esempio, non marginale. Violento e misogino, come molti altri, e spesso in conflitto con tutti,
Francesco Domenico Guerrazzi non risparmiava critiche al genere femminile: nel 1857 dopo il Carnevale,
pubblicò un libello dal titolo Memento homo, in cui deplorava con parole roventi la partecipazione delle
donne ai balli. Gli rispose Nina Bardi, il 22 marzo, con una intensa brochure, per i tipi di Delle Piane di
Genova, con parole piene di dignità e di orgoglio, ricordando le varie forme di presenza femminile, in
questi tempi in cui il sesso dei forti (fatte poche eccezioni) s’addorme in vano torpore…
Relazioni personali, letture, viaggi, destano attitudini e sprigionano capacità operative nuove.
Le donne amano, soprattutto, e di questo amore alimentano progetti e attività.
Sia che aprano i loro salotti al nuovo spirito libertario, come Nina Schiaffino Giustiniani, o Bianca De
Simoni Rebizzo, o accolgano gli esuli nelle loro case, come Giuditta Sidoli, o svolgano nuovi ruoli, come
prodigarsi come infermiere, fondare scuole e istituti professionali, asili per gli orfani, studiare problemi
sociali e del lavoro, come Bianca Rebizzo, Cristina Trivulzio, Elena Casati Sacchi, Luisa Solera Mantegazza,
sia che combattano cavalcando come a Milano ,Cristina Trivulzio o sulle barricate, come a Novara Teresa
Durazzo Doria o Anita Ribeiro Garibaldi a Roma - vicina al suo José a Villa Spada nel giugno 49, incinta del
quinto figlio e destinata a spirare il 3 agosto dopo un calvario di 33 giorni, di marce forzate a cavallo, a 28
anni - oppure sostengano con la loro fede destini di esilio e di prigionia, esse consegnano alla storia e al
futuro dell’Italia un patrimonio di valori morali e civili che accompagnerà il faticoso percorso dell’unità.
E tuttavia il riconoscimento del loro valore si ridusse spesso ad una valorizzazione di elementi
romanzeschi, mentre una certa supponenza maschile impedì anche a uomini di valore di comprendere
l’intelligente e costruttivo apporto di idee di alcune straordinarie figure di donne, quali Cristina Trivulzio.
Il cammino verso l’emancipazione sarà lungo, esse ad esempio avranno il diritto di esprimere il loro voto
solo nel 1947, né si può affermare che si tratti di un cammino compiuto.
A Muggiò, in provincia di Milano, v’è un cimitero con il mausoleo della famiglia Casati Stampa, ormai
bisognoso di restauri. Nel 1830 vi riceve sepoltura Teresa, moglie di Federico Confalonieri. Per lei
Alessandro Manzoni fece incidere sulla tomba il 26 settembre: Consunta, ma non vinta dal cordoglio
Arrestato il 13 dicembre 1821, Federico Confalonieri era stato condannato a morte nel 1823, il 9 ottobre,
poi la sentenza venne commutata nel carcere a vita, per cui il conte fu tradotto il 10 marzo allo Spielberg.
La sua sposa non lo ha più rivisto dal giorno dell’arresto. Di lei raccontava Giuseppe Mazzini, nel 1832:
vedemmo la giovane moglie nata al sorriso d’amore, bella, pura, fiorente, strisciarsi ai piedi del teutono
pregando che le fosse concesso il soggiorno nei luoghi ove geme il marito, e reietta la sua preghiera,
venirle per grazia speciale ogni cinque o sei mesi una voce mossa dallo Spielberg a proferirle “Il numero
14 vive”e morì come un fiore inaridito, nel lungo dolore e nella insistenza d’un pensiero tormentatore.
Invano la sua amica contessa Erminia Frecavalli la sostenne con l’affetto devoto, carbonara pure lei.
Ora sulla tomba Casati questa epigrafe non si legge più, ma la memoria di questa sposa non deve essere
perduta.
Un altro tremendo eposodio. Ad Alessandria il medico assai stimato Andrea Vochieri, arrestato perché
diffondeva il verbo della Giovane Italia, non volle confessarlo, pur essendo incatenato alle mani e ai piedi
e stretto al collo con una catena di ferro. Fu tenuto 56 giorni in una cella lunga solo cinque passi, con una
piccola finestra a terra. Fu mandata a chiamare la moglie, che incanutì al vederlo, stretto dalle catene
come un animale, i piedi nudi e piagati, irriconoscibile, e fu poi rimproverata dal governatore, che
pensava avesse portato allo sposo del veleno, per ”defraudarne il patibolo”.
Il governatore Galateri lo condanna a morte, pur promettendogli salva la vita se confessa. Vochieri gli
chiede di liberarlo dalla sua presenza e riceve un calcio nel ventre. Galateri lo fa portare al patibolo
passando davanti alla sua casa, sotto le finestre. La sposa incinta sviene, la sorella impazzisce. Condotto
alla Piazza d’Arme a porta Marengo, per giustiziarlo sono chiamati degli aguzzini, non fucilieri, che non
riescono a ucciderlo dopo undici colpi, finché un agente non lo finisce con un colpo alla tempia.
Tante furono le madri generose ed eroiche, sollecite della formazione morale e civile dei figli.
Maria Drago ci lascia un prezioso carteggio prima col cugino Giuseppe Patroni, poi con l’avvocato
Giacomo Bregante, per avere consiglio circa le letture e gli studi di Giuseppe. E’ da notare che Bregante
suggerisce tra altri testi gli “Annali”del Muratori, perché “Il primo debito di un italiano è quello di
conoscere la storia d’Italia”. E Giuseppe allora aveva undici anni.
Adelaide Zoagli, la cui famiglia annoverava due dogi, Nicola (1394) e Giambattista (1561) nonché tre
consoli, Anselmo (1117), Giordano (1131) e Andalone ( 1165), sceglie per il giovanissimo Goffredo
l’istituto dei padri Scolopi. Anche il figlio secondogenito è affidato ai calasanziani, nel collegio di Carcare.
Adelaide rifiuta i gesuiti, allora con sede nel palazzo Doria Tursi, perché odia la simulazione e
l’intransigenza che avevano tanta parte nei sistemi educativi dei padri gesuiti. I Calasanziani invece
facevano cardine del loro insegnamento la lealtà e una qual liberalità. Il padre Muraglia, maestro di
Goffredo, faceva leggere Foscolo, Leopardi, Niccolini e Guerrazzi, Gothe, Byron Schiller, tutti messi al
bando dai gesuiti.
I liberali genovesi preferivano dunque per la formazione dei figli gli Scolopi, e ciò spiega anche
l’ammirazione del Mazzini per tre di loro, il padre Dasso, il padre Paroldo e il chiavarese Michele
Bancalari, scienziato insigne. Ricordo che Vincenzo Gioberti, nel Gesuita moderno, narrava che i Gesuiti,
per mezzo della confessione e corrompendo i domestici, si procuravano i segreti delle famiglie e li
comunicavano alla polizia.
A proposito delle donne, e dei gesuiti, forse si ignora che a Chiavari, in provincia di Genova, nel 1846, l’11
ottobre, Goffredo Mameli, Gerolamo Boccardo, Nino Bixio, Nicolò Daneri, Stefano Castagnola, avevano
fondato la Società Entellica, divenuta poi in autunno, a Genova, iniziati i corsi all’Università, Società poi
Accademia Entelema. Si trattavano temi di storia, di diritto, di economia, di politica.
Ebbene, questi giovani ad altri, col ricordo ancor vivo del Congresso degli scienziati, dopo la visita di Carlo
Alberto a Genova il 4 novembre 1846 e la serata di gala al Carlo Felice, riuniti in casa del console di
Francia, dove erano presenti anche alcune ragazze, dopo che Goffredo ebbe composto l’Inno, poi inviato
a Torino all’amico Novaro che lo musicò, questi giovani dunque presero un impegno curioso. Non
avrebbero sposato fanciulle che fossero state educate presso istituti in qualche modo ispirate ai gesuiti:
Convinta la gioventù italiana essere suo stretto dovere il promuovere con quanti mezzi le è possibile il
miglioramento dell’educazione e lo sviluppo delle virtù patrie cittadine, virtù senza le quali non sarà dato
a questa Italia risorgere, …i giovani sottoscritti si obbligano sotto legame d’onore di non riunirsi in
matrimonio con zite state educate sotto la immediata o mediata direzione delle suore del Sacro Cuore,
non solo, non pur con quelle che si conosce appartenere a parenti ligi o dipendenti dalla Compagnia dei
Gesuiti…ovvero educate sotto la direzione spirituale degli stessi”
Questo prova come quei giovani desiderassero nel matrimonio anche una comunione di pensiero.
In quei giorni si celebrava il centesimo anniversario della rivolta antiaustriaca di Balilla, e il 10 si cantò
l’inno composto da Goffredo. Dal Varo al Magra ardevano giganteschi falò sulle cime dell’Appennino, e
mentre il marchese Giorgio Doria in processione con le autorità civili e religiose recava alta la bandiera
già alzata contro gli Austriaci nel 1746, dietro di lui la sposa Teresa Doria, che farà consegnare le catene
della Meloria da Genova a Pisa. capeggiava 150 donne genovesi.
Non passarono due anni che l’esercito di Alfonso Lamarmora inviato da Vittorio Emanuele II contro
Genova, rea di aver proposto di continuare la guerra, la Prima Guerra di Indipendenza, dopo
l’abdicazione di Carlo Alberto, infieriva dal 29 marzo al 9 aprile contro i cittadini, ricevuta l’autorizzazione
di effettuare ogni violenza e stupro. Il 5 aprile 1849 le batterie piemontesi sparano contro i genovesi e
per 36 ore dura il combattimento. Poi i bersaglieri si abbandonano a violenze che i genovesi non
potranno dimenticare .
Non parliamo delle torture cui vennero sottoposte le donne, le mogli dei fuggiaschi, nel regno di Napoli e
nello Stato Pontificio.
In Sicilia Nicola de Matteis, feroce persecutore, incarcerava a centinaia donne, bambini e vecchi e li
costringeva a fare delazioni a forza di bastonate.
Gli uomini erano legati con sottili fili per i pollici, gli alluci e i genitali, e a terra ricevevano nerbate,
oppure così raggomitolati erano buttati giù a calci per le scale.
Nel 1846 Gregorio XVI stava per morire, ma non si placavano le torture, le persecuzioni. Il sospetto era
diventato il clima quotidiano, con il carcere senza imputazioni e senza difensori, la tortura, la ruota, le
tenaglie infuocate, i cadaveri profanati e dati in pasto ai lupi, la sedia ardente su cui venivano fatte
sedere le donne, e poi si bruciava sotto della paglia, la macchina angelica che frantumava le braccia, il
cerchio di fuoco che faceva schizzare gli occhi fuori delle orbite…E come potevano stare le donne? L’ansia
per le persone care, l’angoscia per il loro destino, i problemi economici…son motivo di strazio nell’anima
e nel corpo.
E un altro oltraggio viene fatto alle donne: venivano falsamente addotte le loro implorazioni per indurre
gli uomini a confessare.
Contro i milanesi che avevano deciso di astenersi dal fumo (che dava un reddito all’Austria di lire
1.386.786, annue) i soldati di Radesky guastarono, stuprarono, come in una città presa d’assalto (lo
racconta Vittore Ottolina, veterano della Guerra di Indipendenza).
Le donne salgono sulle barricate: Rosa Vega muore sotto una pioggia di pallottole, lo ricorda Giovanni
Montanelli. Una donna disarma tre poliziotti, altre contrastano i croati, con gli schioppi e le carabine,
nelle memorie di Giorgio Pallavicino.
Nei salotti si parla di libertà, di indipendenza, di Costituzione, di diritti, aborrendo i monopoli e i privilegi,
mentre l’ala più avanzata della democrazia, con Giuseppe Ferrari, Carlo Pisacane, affronta la questione
sociale.
Nel salotto di Clelia Piermarini, Massimo d’Azeglio viene sollecitato a riannodare le fila dei patrioti,
frenando le forze indisciplinate, e sostenendo la fede di chi sperava di eliminare il potere del papato.
Poco dopo la morte della moglie Giulietta Manzoni, sposa Luisa Blondel, che verrà esiliata per aver
organizzato una questua per i feriti vittime degli sbirri austriaci. Ma Luisa gli procura tramite Teresa Doria
moglie di Giorgio, i documenti per la stesura de I lutti di Lombardia. Aveva già pubblicato Gli ultimi casi di
Romagna, di cui in otto giorni furono vendute 2.000 copie, una requisitoria inesorabile.
Poi D’Azeglio combatte a Pastrengo come Cesare Balbo, che ha con sé cinque figli di cui uno morirà
proprio a Pastrengo. Al monte Berico, dove sarà ferito, Luisa corre ad assisterlo.
A Brescia, dove continua la lotta dopo la “fatal Novara”, le donne combattono con gli uomini, e vengono
ricordate da Cesare Correnti due sorelle,” fanciulle entrambe, di vita e di casa onorate, che sembravano
martiri, più che combattenti…”
A Torino la signora Farini, Emilia Peruzzi a Firenze, i Borromeo, i Litta, i Visconti, i Trivulzio, i Trotta
accolgono a Milano Marco Minghetti, i fratelli Visconti Venosta, Emilio Dandolo, Stefano Jacini. Il salotto
Maffei riunisce l’alta borghesia, aperta ai liberi commerci e alle scienze.
A Genova tiene salotto d’opposizione Luisa Nina Schiaffino Giustiniani, come Bianca Milesi, esule da
Milano in quanto fondatrice della prima sezione della Carboneria nel 1821. Poi fugge a Parigi, dove
accoglie Confalonieri, Pellico e il giovane Cavour.
Carlotta Benettini è arrestata nel ’33 per la sua fede mazziniana: sarà nel ’49 sulle barricate con il figlio
Carlo.
Enrichetta de Lorenzo, amante di Carlo Pisacane, sarà a Roma nel ’49 come infermiera, con Giulia Calame
moglie di Gustavo Modena, e Cristina Trivulzio.
Bianca Rebizzo riceve Nino Bixio, Gioberti, Aleardi, Mercantini, Paganini e numerosi esuli, tra cui nel 1857
Giuseppe Mazzini. Organizza comitati di soccorso, e dà lavoro a decine di esuli, oltre a porre le basi per il
collegio italiano delle fanciulle.
Le donne intervengono anche pubblicamente con i loro scritti, a cominciare da Cristina Trivulzio, e poi
Bruna Milesi Moyon, Laura Solera Mantegazza, Elena Casati Sacchi, la giornalista inglese Jessie White
imprigionata per i moti del 57, che sposerà Alberto Mario conosciuto in carcere …
Cristina Trivulzio riesce ad impegnarsi in tutte queste attività. Meriterebbe una giornata dedicata a lei
sola. Ora vorrei ricordare, oltre a numerose altre opere, come si prodigò, insieme a Bianca Rebizzo, Elena
Casati Sacchi, Laura Solera Mantegazza, nell’organizzare efficacemente l’assistenza ai feriti, su ordine del
Mazzini, e nell’opera di infermiera tra quei volontari, come Nino Bixio, Goffredo Mameli, o Gerolamo
Induno che combattevano a difesa della repubblica Romana, nel 1849, Queste donne, che curavano con
dedizione i feriti e restavano vicine ai morenti, furono giudicate da Pio IX, che riteneva li distraessero
dalla preghiera, “sfacciate meretrici”. Così furono definite nell’Enciclica dell’8 XII ’49 Nostis et nobiscum.
La geniale e generosa Cristina Trivulzio subì dunque le incomprensioni di molti, compreso il Manzoni
bigotto, che pure aveva accettato la cospicua eredità dell’amante della madre, Carlo Imbonati. Cristina,
coltissima (conosceva il latino, il francese, l’inglese, la filosofia, la musica, il disegno) aveva sposato Emilio
Barbiano di Belgioioso, donnaiolo inaffidabile, nel 1824, e nel 28 lo lascia (era sifilitico), pur continuando
ad aiutarlo finanziariamente, per stabilirsi a Genova, dove viene accolta dalla vecchia Marchesa
Pallavicino e lì conosce Adelaide Zoagli Mameli, e le marchese Teresa Doria e Nina Giustiniani. Genova,
tradita dal Congresso di Vienna, con un sovrano del tutto ignorante vissuto in esilio in Sardegna, aveva
aderito alla Carboneria e ora guarda alla Francia. La memoria della cacciata degli Austriaci, la fiera
tradizione repubblicana, l’esperienza napoleonica, una nuova cultura imprenditoriale, la presenza di
moltissimi esuli a cui si apriva generosamente la casa, rende la città una fucina di liberali e rivoluzionari.
Cristina viaggia per l’Italia, frequenta salotti come quello di Ortensia Beauharnais, madre di Luigi
Napoleone, a Firenze recita Shakespeare in inglese, frequenta il Gabinetto Viesseux, vi conosce il
Tommaseo e il Poerio, che la stimano molto.
Dalla Svizzera, dove è compromessa per aver approvato la costituzione liberale nel Canton Ticino, passa
in Francia. Conosce i più importanti storici e con il Thiers e il Guizot propone l’unione europea. Finanzia
insurrezioni in Piemonte, con 60.000 lire, che andranno perdute e l’Austria le sequestra i beni. In un
discorso alla camera salva T. Mamiani, Pepoli e Zucchi fatti prigionieri. Le sono amici devoti Balzac, De
Musset, Bellini, Stendhal, List, Heine, Chopin, La Fayette. Traduce Leopardi e G.B. Vico in Francese. Nel
suo salotto, dove riceve anche il Cavour, si ascolta Mozart, ad esempio il Requiem, e tutti i musicisti del
primo Ottocento. Fonda la Gazzetta Italiana, a cui il Manzoni però non vuol collaborare, perché giudica
disdicevole scrivere su un giornale fondato da una donna.
Torna nel 1841 in Lombardia. Tutto è assopito. Cristina trasforma i suoi terreni in colonia agricola, crea il
primo asilo infantile, fonda scuole elementari per maschi e femmine, e scuole professionali (vi si insegna
economia domestica, tecniche agrarie, canto), ateliers per pittori, restauratori, rilegatori, stamperia,
centro infermieristico, dà pasti caldi, medicine gratuite: è un modello di falansterio. Le sue proposte
saranno seguite solo da Ferrante Aporti.
Le sue opere apprezzate in Francia sono criticate dal Manzoni, che non la riceve quando Cristina viene a
visitare l’amata Giulia Beccaria morente. Il Tommaseo la conforta, come Hugo, Dumas padre, SainteBeuve, Michelet, Balzac….
Dopo l’elezione di Pio IX va a Torino e discute con Balbo, Cavour, Brofferio, Carlo Alberto. Nel gennaio del
1848 fonda a Napoli l’”Ausonio”, e a marzo il “Nazionale”, che sostiene il progetto dell’unificazione. Alla
notizia della insurrezione di Milano, noleggia il Virgilio e va a Genova con 170 volontari. Con loro sale a
Milano dove l’attende Gabrio Casati. Combatterà, e i suoi volontari saranno anche a Curtatone e
Montanara. Nello stesso tempo scrive sul “Crociato”, e sulla “Revue des deux Monds” per indurre i
patrioti a superare le divisioni. Dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, va a Roma, dove sostiene la
Repubblica e Mazzini le affida la gestione dell’ospedale.
Ancora qualche esempio di eroismo di donna. Nel 1854, quando Cavour portò il Piemonte alla guerra in
Crimea, passò dinanzi alla coste di S. Fruttuoso di Camogli il piroscafo inglese Croesus, che portava
soldati in Crimea. Ci fu a bordo un incendio, si ignora se per errore o sabotaggio, e l’equipaggio si gettò in
mare. Dalle vicine barche dei pescatori, tra quelli che per salvarli si buttarono in mare, c’erano anche due
sorelle, Maria e Caterina Avegno, che perirono trascinate a fondo dagli uomini presi dal panico. Il loro
gesto eroico fu riconosciuto dal governo britannico, ed esse furono tumulate a San Fruttuoso nel
mausoleo dei Doria.
Pier Carlo Boggio, deputato liberale amico di Cavour, scrive una storia dei fatti del ’59 e racconta come le
donne spingessere alla guerra quei medesimi per cui avrebbero dato la vita.
Garibaldi ricorda a Varese la morte del più giovane dei fratelli Cairoli, Ernesto, elogiandone la madre
Adelaide Bono, moglie del dottor Carlo Cairoli di Pavia e con lei tutte le madri.
In Sicilia, fallito il primo moto a Palermo il 4 aprile 1860, nel corso delle terribili repressioni fu anche
percossa e imprigionata la vecchia badessa del convento di S. Maria, rea di aver assistito i feriti.
I contatti fra i comitati siciliani e i comitati di Malta e Genova erano tenuti dalla moglie di Francesco
Crispi, Rosalia Montmesson, che poi fu dal marito abbandonata in povertà. (Per questo la regina
Margherita quando Crispi, presidente del consiglio dei Ministri, le si presentò, gli voltò le spalle.)
Molti nomi potremmo ancora citare, ma concludo, ricordando un personaggio dell’arte, che incarnò
l’eroismo femminile, dell’Attila di Verdi la giovane Odabella, l’eroina della libertà di Aquileia.
Le quattro straordinarie frasi di recitativo vocalmente ardite e nuove con cui proclamava la sua
irriducibile scelta di libertà suscitavano gli entusiasmi più intensi alla Fenice di Venezia quando l’opera fu
presentata la prima volta il 13 marzo 1846, poi nel gennaio ‘47 al C. Felice a Genova, e nel ’50 a Chiavari.
Vorrei ora terminare con pochi versi composti per le donne che si batterono per la Resistenza, a
completare un cammino libertario, non ancora concluso.
Piccola Italia, non avevi corone turrite
Né matronali gramaglie.
Eri una ragazza scalza,
coi capelli sul viso
e piangevi
e sparavi.
E’ di Elena Bono, una delle più alte voci poetiche del ‘900, e siamo onorati di averla a Chiavari, nostra
concittadina. [Elvira Landò]
Di solito quando si parla del ruolo femminile nel Risorgimento sono due le figure più ricorrenti: una eroica,
come Anita Garibaldi, l'altra, piuttosto controversa, come la contessa di Castiglione, al secolo Virginia
Oldoini. La realtà è però assai più complessa: nel Risorgimento italiano troviamo infatti donne di tutti i ceti
sociali, iscritte alla Carboneria, mazziniane e liberali. Donne intente a ricamare bandiere tricolori, come la
moglie di Andrea Sgarallino, sfidando la polizia granducale, ma pronte anche a salire sulle barricate come a
Milano, Brescia e Livorno oppure a soccorrere i feriti di ambo le parti, come nella sanguinosa battaglia di
Solferino che vide poi la nascita della Croce Rossa. Qualcuna non esitò a prendere le armi, come Rose
Montmasson, moglie di Francesco Crispi, che fu l'unica donna a partecipare all'impresa dei Mille
combattendo travestita da uomo. Vi troviamo inoltre molte animatrici di salotti politici, intellettuali e
scrittrici come la livornese Angelica Palli Bartolommei oppure come la milanese Cristina Trivulzio Belgiojoso,
straordinaria figura di editrice e giornalista che vediamo in prima fila durante la Cinque Giornate di Milano
e nella difesa della Repubblica Romana.
La storia del Risorgimento italiano sembrerebbe a prima vista tutta scritta al maschile. I nomi sono noti:
Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanule II, Bixio e tantissimi altri. In realtà esiste anche un
Risorgimento al femminile costituito da popolane, nobili e borghesi. Donne che hanno offerto un contributo
non indifferente
La storia del Risorgimento italiano sembrerebbe a prima vista tutta scritta al maschile. I nomi sono noti:
Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanule II, Bixio e tantissimi altri. In realtà esiste anche un
Risorgimento al femminile costituito da popolane, nobili e borghesi.
Donne che hanno offerto un contributo non indifferente a costruire all'Unità d'Italia e alla nascita della
nostra Repubblica.
Clara Maffei
Parma partecipò col suo contributo di garibaldini e di patrioti al
periodo risorgimentale, che iniziò con fervore ben prima del 1860,
non solo nelle battaglie ma anche nei salotti dell’alta borghesia e
della nobiltà, in cui ebbero un ruolo di primo piano le donne,
nell’elaborazione delle idee e col sostegno anche materiale. Il loro
contributo si esplicò persino nei campi di battaglia, ma soprattutto
fu fondamentale nei salotti dove si riunivano gli spiriti illuminati:
sotto l’apparenza di conversazioni letterarie si cospirava; così le
dame dell’alta borghesia accoglievano i grandi protagonisti maschili,
ai quali fornivano conforto e appoggio, nonché suggerimenti
intelligenti.
L’elaborazione delle idee al femminile è rimasta tuttavia in ombra,
sebbene non siano mancate le dame colte e attive, che
manifestarono pubblicamente con lo scrivere le loro tendenze
politiche: tra queste ricordiamo Clara Maffei, animatrice di un famoso salotto milanese, frequentato anche
da Giuseppe Verdi.
Anche a Parma vi furono signore che seguirono tale strada; erano per lo più di posizione sociale altolocata
e mogli di personaggi a loro volta impegnati nel movimento liberale: facciamo solo un cenno di Antonietta
Ferroni Tommasini (1780-1839), consorte del celebre medico, e nota per essere stata amica, con la figlia
Adelaide Tommasini Maestri, di Giacomo Leopardi. Antonietta, poligrafa, manifestò varie volte sentimenti
patriottici, di cui è testimonianza una lettera scritta a un giovane patriota reggiano.
Interessante è la figura di Albertina Montenovo Sanvitale (1817-1847), la figlia di Maria Luigia che condivise
col marito Luigi Sanvitale gli ideali liberali, accettando sofferenze familiari: sopportò con coraggio
persecuzioni politiche, confortò il marito nell’esilio e incoraggiò il figlio Alberto ad impegnarsi per la causa
italiana.Anche Albertina ha lasciato diversi scritti . Alla famiglia Sanvitale appartenne Isabella Sanvitale
Simonetta, alla quale dedicò un bel componimento Jacopo Sanvitale (1785-1867), che patì l’esilio per non
venir meno alle sue idee; esse furono peraltro condivise dalla moglie Giuseppa Folcheri, piemontese, colta
e geniale pittrice, ardente come lui di spirito di italianità, che la portò a subire col marito l’esilio e aspre
traversie. Partecipò infatti ai moti del 1831, e la sua scheda segnaletica redatta dalle autorità di polizia ci
dice che fu allontanata dallo stato con passaporto intestato al cognome della sua famiglia di origine e un
sussidio pecuniario. Morì in esilio, a Marsiglia nel 1848, come la figlia Clementina.
Tenne un salotto rinomato anche Margherita Moradet Melloni, cognata dell’illustre fisico e liberale
Macedonio Melloni (1798-1854): la sua casa era frequentata da eminenti personalità, scienziati, letterati,
artisti; la signora non trascurò neppure le opere di carità verso i più deboli, come ricorda lo Janelli che ne
tesse ampi elogi. Dai biografi fu confusa con Rita Melloni, figlia di Macedonio, che morì a Genova dopo aver
condotto una vita oscura e appartata.
Di tipo diverso, strettamente umano e sentimentale, è il ruolo giocato da Teresa Trecchi (Cremona, circa
1814 - post 1862), figlia del marchese Manfredo e sorella del colonnello Gaspare, aiutante di campo di
Garibaldi. Donna colta, sensibile e aperta alle nuove idee politiche, rimase affascinata da Garibaldi (la cui
fama di conquistatore di donne non si smentì certo a Parma...), che ospitò nella sua bella villa di Maiatico,
dopo la visita da lui compiuta a Parma in un’atmosfera di entusiasmo. Viveva separata dal marito, per cui
non fece nulla per nascondere la sua amicizia col celebre condottiero; arrivò addirittura ad ospitare la
giovane e vivacissima figlia di Garibaldi, Anita, con la madre Battistina Ravel, di Nizza. Mentre Garibaldi era
a Caprera, gli scrisse moltissimo, inviandogli anche tralci di vite di Maiatico da trapiantare e fusti di
castagno.Interessante è la figura di Ada Corbellini Martini (1843-1866), una poetessa «pasionaria»
garibaldina, che dedicò ai ragazzi in camicia rossa guidati dall’«eroe dei due mondi» versi che furono
popolarissimi non solo in Italia ma anche in America. Le sue infiammate rime in lode dei ragazzi in camicia
rossa varcarono addirittura l’Oceano, essendo citati persino in un giornale di Buenos Ayres. Molto celebre è
la poesia «Io sono l’italiana giardiniera» che esalta la società segreta femminile (detta appunto la
Giardiniera) parallela a quella maschile dei Carbonari. Ada Corbellini morì giovanissima nel 1866, non senza
aver visto coronato il suo sogno patriottico, e aver assistito di persona alle prime sedute del nuovo
Parlamento.
Visse anche a Parma Giuditta Sidoli (1804-1871), amica, collaboratrice e amante di Giuseppe Mazzini; fu
nella nostra città dal 1837 al 1852, anno in cui la sua villa (che si trovava nella zona della via attualmente a
lei intitolata) fu perquisita. La Sidoli venne dapprima portata nel carcere di San Francesco, poi allontanata
da Parma e dall’Italia. Trascorse i suoi ultimi anni a Torino, dove tenne un salotto frequentato da spiriti
liberali.
(ANNA CERUTI BURGIO )
Jessie White Mario
Nella ricorrenza del 150 anniversario dell’Unità d’Italia , si evidenziano giustamente le gesta di alcuni dei
protagonisti di tante gloriose avventure, tralasciando che accanto e con loro, vissero donne le quali furono
protagoniste non secondarie dell'epopea garibaldina e, seppure non con le armi in pugno, seppero
combattere una battaglia altrettanto se non più importante: quella delle idee. Tra loro spicca Jessie White,
di nazionalità inglese, la quale, nata il 9 maggio 1832 vicino Portsmouht da ricca famiglia borghese d'idee
liberali, dopo gli studi compiuti a Birmingham, all'inizio del 1854 decideva di completarli recandosi a Parigi e
iscrivendosi all'università della Sorbona. L'Europa continentale, in quei tempi ancora sotto l'impressione
prodotta dai grandi moti popolari del 1848, costituiva un campo fecondo per le idee libertarie propugnate
da Mazzini, Cattaneo ed altri e i loro seguaci si contavano ormai numerosi in ogni ceto e classe sociale. La
giovane Jessie, aveva solo 22 anni, colta, sensibile, attenta osservatrice della realtà sociale, non poteva che
simpatizzare per il movimento mazziniano, al quale, infatti, finì con l'aderire, dedicandosi anima e corpo alla
raccolta di fondi e alla scrittura di articoli sull'argomento per i giornali inglesi e americani.
Fondamentale quello, apparso sul Daily News nel 1856 con il titolo "Italy for italians" (l'Italia agli italiani),
nel quale la White esponeva in modo così rigoroso e persuasivo la necessità per gli italiani di decidere
autonomamente il proprio destino, da convincere politici ad alto livello e l'opinione pubblica inglese, ad
appoggiare più vigorosamente la causa dell'indipendenza italiana. Nel 1854, a Nizza, presentata da comuni
amici, conosce Garibaldi, dalla cui personalità rimane così affascinata che, insieme al marito, lo
seguirà dappertutto nelle sue varie spedizioni.
Per fare conoscere le ragioni della causa nazionale italiana viaggia molto e si espone, rimasta coinvolta, nel
1857, nella fallita spedizione dei fratelli Bandiera a Sapri, la polizia di Genova, dietro denuncia delle autorità
napoletane, la incarcera nelle prigioni della città dove conosce un giovane patriota veneto, Alberto Mario, il
quale, amico dei Bandiera, è anche lui prigioniero, tra i due nasce una viva simpatia, che presto diventa
amore. Appena liberi vanno in Inghilterra e si sposano, da allora Jessie firmerà le sue corrispondenze,
articoli, libri, come: Jessie White Mario.Sempre per la propaganda della causa italiana, con il marito, nel
1859 si reca negli Stati Uniti per un giro di conferenze, ma appena arrivati a New York li raggiunge la notizia
dello scoppio della seconda guerra d'indipendenza, piantano tutto e si precipitano in Italia. Lui, ovviamente,
si arruola tra i garibaldini e lei scrive corrispondenze sulla campagna per il giornale inglese Morning Star e
per quello americano The Nation, negli intervalli cura come infermiera i garibaldini feriti o ammalati.
Alla fine della guerra passa in Svizzera, ma la polizia elvetica, forse temendo che le sue idee rivoluzionarie
possano contagiare i pacifici svizzeri, l'arresta tenendola in carcere per qualche tempo ma, essendosi
dimostrate false le accuse contro di lei, è rilasciata e rimandata in Italia. Appena in tempo, è il maggio del
1860 e Garibaldi è già partito da Quarto con i Mille ed è sbarcato in Sicilia, a Marsala. Pochi giorni per i
preparativi e in giugno Jessie White e l'inseparabile marito Alberto sono già al loro fianco, accompagnandoli
nelle battaglie e nella trionfale marcia verso Napoli, dove Garibaldi è nominato Dittatore. A Napoli ha modo
di conoscere il grande storico meridionalista liberale Pasquale Villari, il quale, forse, con il suo libre "Lettere
meridionali" le ispira quel grande affresco sociale che, pubblicato nel 1876 a puntate sul giornale "Il
Pungolo" di Napoli, fu' poi raccolto in volume con il titolo "La miseria in Napoli".Nell'inchiesta, svolta
visitando da sola tutti i quartieri della città, anche quelli più malfamati e condotta con piglio modernissimo,
indagò sulle origini della criminalità, la condizione femminile, sull'assistenza all'infanzia, sull'istruzione, sul
sistema carcerario, sulle condizioni di lavoro. Denunciando senza paura mali e difetti di una città e di una
società, quella napoletana che, oltre agli antichi vizi, ne stava conoscendo di nuovi e suggerendo i rimedi
per combatterli. Sempre a fianco del marito, partecipò anche all'ultima campagna di Garibaldi, quella di
Francia del 1870, dove Garibaldi era accorso per difendere la Repubblica Francese minacciata dai Prussiani
vittoriosi, riportando, a Digione, l'unico successo delle armi francesi. Anche in questa occasione seppe
affiancare alla consueta attività di giornalista, quella di infermiera per i molti feriti garibaldini dell'Esercito
dei Vosgi, curandone moltissimi tra cui Luigi Perla. Jessie White Mario, mortole l'adorato marito Alberto, si
ritira Firenze dove, come testimone diretta dei fatti e delle persone, scrisse e curò le biografie di alcuni
grandi del Risorgimento italiano tra cui Mazzini e Cattaneo. Mentre quella di Garibaldi, edita nel 1884 in
Milano dalla Fratelli Treves Editori e splendidamente illustrata da Matania, anche se introvabile (ne
esistono forse quattro copie e perfino il Museo del Risorgimento di Milano, che è uno dei più importanti
italiani, ne è privo) è unanimemente considerata, tra le tante, come la più completa ed esauriente. Donna
di spirito vivace, conobbe e apprezzò l'opera di Mary Cosway, fondatrice a Lodi del famoso Collegio delle
Dame inglesi e il giornale lodigiano "La Plebe", di tendenza riformista-socialista, pubblicò vari suoi articoli.
Muore a Firenze il 5 marzo 1906, lasciando un chi aveva avuto il privilegio di conoscerla, il ricordo di donna
intelligente, coraggiosa, forte, che amò d'amore appassionato l'Italia e gli italiani e alla quale le donne, e
non solo le italiane, possono guardare con legittimo orgoglio come a una sorella maggiore che ha saputo
indicare la strada del riscatto femminile.
(Dott. Marco Baratto *
Associazione Lodigiana per lo Studio del Risorgimento
Cristina Trivulzi Di Belgioioso
Era nata nel 1808 da una nobile famiglia, la milanese Cristina Trivulzi. E quell’origine aristocratica, come ha
sottolineato nella sua ricostruzione la professoressa Lina D’Onofrio, le aveva consentito di studiare, un vero
privilegio riservato a pochissime per le donne di quel tempo. Una vita serena la sua, negli anni dell’infanzia
e della giovinezza, con frequentazioni importanti, come quella con Giulia Beccaria, la madre di Manzoni, e
seri interessi culturali. Una vita che si preannunciava simile a quella delle donne del suo rango, tanto più
dopo il matrimonio con un giovane nobile, il Belgioso, che sembrava in grado di farla felice. Tra i viaggi della
giovinezza, a vent’anni, Cristina giunse sull’isola d’Ischia per le cure termali già molto in voga a quel tempo.
Fu il fallimento del matrimonio, causato dalle continue infedeltà del marito, che spinse Cristina a decidere
un cambiamento totale, riprendendo il totale controllo della sua esistenza. Ciò che ben presto l’avvicinò a
quanti coltivavano le idee mazziniane. Del resto, aveva conosciuto personalmente molto tempo prima il
fondatore della “Giovine Italia”.
Ricca, non esitò a sostenere concretamente le azioni dei Carbonari, fino a finanziare Ciro Menotti per i moti
di Modena. Questa sua contiguità con i gruppi clandestini la costrinse a trasferirsi all’estero, a Parigi, dove
animò un salotto frequentato da intellettuali e musicisti, tra i quali Bellini, Liszt, De Musset. Fu nella capitale
francese che venne in contatto con il socialismo utopistico, restandone conquistata. Il suo impegno a favore
dei fuoriusciti italiani, di quanti lottavano per l’unificazione italiana divenne instancabile. Insieme alle sue
attività umanitarie. Durante la breve esperienza della Repubblica Romana, a cui non volle rimanere
estranea, Cristina di Belgioso organizzò nella Città Eterna dodici ospedale, avvalendosi della collaborazione
di aristocratiche e prostitute.
Partecipò con crescente coinvolgimento al periodo travagliato, ma foriero di straordinari cambiamenti, che
portò a realizzare il progetto di unire tutti gli stati e staterelli della Penisola. Ma il suo impegno politico e
civile non si esaurì con l’unificazione. Cristina si dedicò alla costruzione e organizzazione di numerosi asili e
scrisse perfino un manuale di puericultura. Non fu la sua unica opera. Giornalista nota anche in Francia,
Cristina di Belgioioso ha lasciato vari scritti. Morì nel 1871, quando il sogno dell’Italia unita si era ormai
compiuto.
Bianca De Simoni Rebizzo
Altra figura di aristocratica proiettata verso il nuovo rappresentato dalle idee dei fautori dell’unità d’Italia,
assidua dei salotti culturali milanesi, Bianca De Simoni, sposata al poeta Rebizzo, si trasferì ben presto a
Genova, dove animò ella stessa un noto salotto, regolarmente frequentato dal fior fiore degli intellettuali
presenti in città, ma anche di convinti patrioti, tra i quali Mariani, Bixio, Mameli.
Delineata dalla vicepresidente distrettuale della Fidapa, Caterina Cesareo, la storia di Bianca De Simoni si
intreccia con quella di alcune delle imprese più significative dell’epopea risorgimentale, che furono discusse
e pianificate nella sua casa: dal primo, sfortunato tentativo di trasferire la rivolta pro-unità nel Mezzogiorno
ad opera di Carlo Pisacane alla vittoriosa campagna dei Mille.
A Genova il nome di Bianca De Simoni è legato alla fondazione del primo collegio femminile nel 1850 e, in
seguito, del primo asilo cittadino.
Antonietta De Pace
Ben tre sono state le biografe di una delle donne che maggiormente contribuirono alla causa dell’unità,
Antonietta De Pace. Ad occuparsi della coraggiosa sostenitrice della libertà originaria di Gallipoli, in Puglia,
dov’era nata nel 1818, sono state la professoressa Emilia Sorrentino, la professoressa Anna Verde e la
signora Anna Maria Piccolo.
Di estrazione borghese, ma con una buona istruzione, Antonietta era cognata del patriota Epaminonda
Valentino e fu tramite lui che entrò in contatto abbastanza con i gruppi antiborbonici. Determinata, audace,
sprezzante del pericolo, insofferente verso ogni forma di ingiustizia, Antonietta svolse un delicatissimo
lavoro di collegamento e di supporto rispetto ai gruppi di patrioti che operavano tra la Puglia e la
Campania. Dopo aver partecipato ai moti del maggio del 1848 a Napoli, fermatasi in città ricorrendo a
travestimenti e trovate di ogni genere per sottrarsi alla polizia borbonica, fondò nel ’49 un primo comitato
femminile.
Arrestata, rimase a lungo in prigione, in condizioni durissime, che tuttavia non la videro mai cedere alla
delazione per salvarsi la vita. Che salvò in extremis, a conclusione di un processo drammatico che la vide
protagonista, durante il quale riuscì a conquistarsi l’appoggio della stampa e dell’opinione pubblica.
Il 7 settembre 1860, nel suo ingresso a Napoli, due sole donne si trovarono a sfilare a fianco di Garibaldi,
Emma Ferretti e Antonietta De Pace. E come riconoscimento per l’opera straordinaria che aveva svolto per
la causa unitaria, il comandante le assegnò una pensione.
La De Pace si dedicò anima e corpo ad attività sociali. Direttrice dell’ospedale del Gesù, riservò molte delle
sue energie alla formazione dei giovani e a diffondere l’istruzione tra le donne.
Enrichetta Caracciolo
Altro personaggio di spicco, al quale hanno dedicato la loro attenzione la professoressa Chiara Mattera e
l’architetto Ilia Delizia, è stata la napoletana Enrichetta Caracciolo. Una storia, la sua, di sofferenze, rinunce
e prevaricazioni, che tuttavia non la vide mai vittima rassegnata, bensì fiera lottatrice per riconquistare la
propria libertà e affermare la sua dignità di persona, contestualmente alla battaglia ideale a favore
dell’Italia unita.
Nata nel 1821, già da ragazzina era stata messa in convento dalla madre, nel monastero di San Gregorio
Armeno. A vent’anni, costrettavi dai condizionamenti familiari e sociali, pronunciò i voti, senza accettare
tuttavia che quello dovesse essere il suo destino. Ribelle, contestatrice tanto da guadagnarsi presto fama di
rivoluzionaria tra le pareti del monastero e al di là di esse, Enrichetta che già si nutriva delle idee liberali e
neppure lo nascondeva, fece ogni tentativo per ottenere la dispensa, indirizzando varie volte le sue istanze
fino al papa Pio IX. Ma ogni volta trovò un deciso oppositore nell’arcivescovo di Napoli Riario Sforza, che
dovette tuttavia arrendersi alla decisione del Papa di consentire ad Enrichetta di lasciare per qualche tempo
il convento per motivi di salute.
Nel 1851 fu arrestata per il suo sostegno ai rivoluzionari. Dopo un periodo di isolamento e varie peripezie
per sottrarsi ai continui controlli della polizia borbonica, si diede alla clandestinità. E continuò ad
appoggiare i patrioti fino all’ingresso di Garibaldi.
Il 7 settembre 1860, giorno storico per la Città e per l’Italia, Enrichetta poté deporre il velo e riottenere la
libertà personale che aveva a lungo inseguita. Qualche tempo dopo sposò il patriota Giovanni Greuter e al
suo fianco proseguì il suo impegno attivo da “cittadina”, come amava che la definissero, nel campo sociale
e politico.
Nel 1864 diede alle stampe “I misteri del chiostro napoletano”, la sua autobiografia, che divenne in poco
tempo un vero e proprio best seller del tempo, tradotto in numerosi paesi europei fino in Russia. Un testo
in cui le vicende personali si collegano a quelle del disfacimento del regno borbonico e dell’unificazione
italiana, che tornò bruscamente d’attualità, insieme al nome della sua dimenticata autrice nel 1964.
Del “Risorgimento invisibile” fatto dalle donne ha trattato la professoressa Rosa Impagliazzo, che si è
soffermata anche sulle prime lotte femministe che in quei decenni si organizzavano negli altri Paesi
europei, dove la questione nazionale era già risolta da secoli.
Virginia Oldoini, la Contessa di Castiglione
A completare l’affresco del contributo delle donne al Risorgimento italiano è stata la presidente della
Fidapa di Ischia, Rita Agostino, che ha ricordato il personaggio femminile di cui si è conservato più vivo il
ricordo fino ai nostri giorni, pur essendo (o forse non a caso) il più discusso del gruppo: Virginia Oldoini,
contessa di Castiglione. L’unica ad aver messo in gioco la sua bellezza più che la forza delle idee, che era
stata determinante nell’impegno delle patriote di cui abbiamo trattato finora.
Bellissima, tanto da essere considerata la donna più bella d’Europa, figlia di un ambasciatore e di una
nobildonna di Firenze, frequentatrice della buona società, amò la vita mondana nella quale poteva
valorizzare le sue qualità, apprezzate soprattutto dagli uomini.
Sposata al conte di Castiglione, cugino di Cavour, si distinse ben presto alla corte sabauda, dove frequentò
assiduamente Cavour che, accortosi della sua capacità non comune di relazione e anche delle sue doti
diplomatiche, decise di usarne la prima e le seconde per convincere Napoleone III ad allearsi al Regno di
Sardegna. Fu così che iniziò la missione di seduzione con finalità politico-diplomatiche di Virginia, che non
tardò, una volta giunta nella capitale francese, ad ottenere il suo scopo, conquistando l’imperatore.
Un contributo, il suo, determinante per l’alleanza franco-piemontese che fu una delle carte vincenti del
progetto unitario gestito da Cavour.
Ma quella fama legata alla bellezza venne meno con quella. Poco a poco, con l’avanzare dell’età, finì con il
restare sola, senza rassegnarsi al decadimento fisico e alla perdita delle armi che l’avevano resa sempre
vittoriosa in gioventù. Morì in solitudine. E né l’Italia né la Francia le tributarono particolari onori. Eppure, il
suo nome non è stato coperto dall’oblio.
(Isabella Marino, “Il Golfo” dell’11 marzo 2006)
Approfondimenti
In biblioteca
Renata Pescanti Botti, Donne del Risorgimento italiano, Ceschina 1966: ricco di notizie e di figure ma un po’
datato ed enfatico, cerca comunque di riparare al torto della sottovalutazione femminile nella
rappresentazione del Risorgimento
Antonio Spinosa, Italiane, il lato segreto del Risorgimento, Mondadori, 1994: ritratti un po’ romanzeschi
anche se avvincenti, con uno sguardo esclusivamente maschile
Rachele Farina, Dizionario biografico delle donne lombarde, Baldini Castoldi Dalai, 1995: il testo
metodologicamente più interessante e prezioso con l’ovvia limitazione dell’area geografica considerata
Tarquinio Maiorino, Giuseppe Marchetti Tricamo e Andrea Zagam, Viva l'Italia. Viva la Repubblica. Uomini,
donne, luoghi dal sogno risorgimentale a oggi, Mondadori, 2004: i momenti cruciali della storia italiana
moderna, con notizie e riflessioni sulla partecipazione delle donne
Storia d’Italia – Annali. Vol. 22: Il Risorgimento, Einaudi, 2007: curato da Paul Ginsborg e Alberto Mario
Banti, si propone di scrivere una nuova storia del Risorgimento, con molti saggi ispirati a una lettura di
genere della storia
Sul web
Le donne invisibili nell’unità d’Italia - Kila, il punto di vista delle donne.)
Piccola Italia, non avevi corone turrite
né matronali gramaglie.
Eri una ragazza scalza,
coi capelli sul viso
e piangevi
e sparavi.
Elena Bono
Uno di questi lavori interessanti sulle donne del Risorgimento è l’ipertesto Trame femminili nel processo di
indipendenza italiano realizzato per il sito Donne e conoscenza storica da Donatella Massara e Paolo
Ernano con gli allievi di una classe del Liceo Scientifico di Garbagnate Milanese nel 2001. In questa
esperienza didattica sono state ricostruite e sintetizzate le biografie di una quindicina di donne
protagoniste del Risorgimento e sono stati approfonditi alcuni temi centrali tratti da queste vite e dai loro
rapporti personali e sociali: il ruolo delle donne nelle cospirazioni carbonare e nella congiura dei cosiddetti
martiri di Belfiore, l’assistenza ai feriti, i salotti e il dibattito culturale e politico, le poche figure di eroina
entrate nell’immaginario popolare.
“Energie femminili che agirono nel paese reale, mentre i codici si ostinavano a tenerle sottomesse e
frustrate e che tessero anch’esse la faticosa tela del Risorgimento italiano”.
Il lavoro inizia con le parole di Rachele Farina e Maria Teresa Sillano tratto dal catalogo della mostra Esistere
come donna, svoltasi a Milano nel 1983, che fornisce un inquadramento storico dei principali problemi che
ostacolarono l’emergere del contributo femminile alla lotta di liberazione.
Il contesto della restaurazione post-napoleonica contribuì inizialmente a soffocare le istanze femminili che
si erano sviluppate durante l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, ristabilendo un’organizzazione familiare
di stampo patriarcale e delegando l’educazione delle donne alle oblate, donne che dopo aver ceduto i loro
beni ai monasteri, vestivano l’abito senza prendere i voti, e che inevitabilmente dovevano perpetuare una
morale conservatrice. Nella prima metà dell’800 quindi le donne vivevano in una situazione di inferiorità e i
loro sforzi per la patria erano ripagati solo con la protezione della quale gli uomini credevano che queste
avessero bisogno. Le uniche donne che potevano avere una certa importanza erano quelle appartenenti
all’élite politica e culturale che si distingueva per gesta eroiche, nelle arti o nelle scienze, mentre le altre
erano relegate all’ambito familiare con un’istruzione mirata solo alla loro formazione come mogli e madri.
Ciò non impedì a molte donne di impegnarsi da subito nella lotta contro il dominio straniero. Ma il senso
comune dei patrioti e la storiografia ufficiale, impregnati di pregiudizi, ne hanno spesso oscurato o
marginalizzato il contributo politico e intellettuale.
E così sono entrate nei libri di storia alcune di loro, come Anita Garibaldi, Teresa Casati Confalonieri, Giulia
Beccaria, nel ruolo di madre o compagna di personaggi maschili, le cui virtù vengono esaltate in funzione
di quelle dell’eroe, e idealizzate in una dimensione tragica, oppure se vivono di vita autonoma è nell’ambito
di una sfera tipicamente femminile, quella dell’intrigo magari a sfondo erotico come la contessa Oldoini di
Castiglione.
Invece, come scrive Donatella Massara, va sottolineata la straordinaria libertà con la quale si muovono
queste signore. Appassionate interpreti del processo di indipendenza, pagarono in tutti i modi per l’idea di
una Italia libera e unita. Persero i beni, la libertà, i figli, o la loro stessa vita; alcune furono ferite sul campo
di guerra.
Usarono la parola e l’azione. Organizzarono ospedali e curarono i feriti. Crearono esperienze più libere e
umane di carceri per le donne, il vastissimo numero di prostitute italiane che circolavano in quegli anni con
la patente professionale. Si inventarono scuole di mutuo insegnamento e esperienze socialiste.
Oltre la militanza impegnata spesso si rivolsero alle donne con scritti e organizzazione di istituti protettivi e
educativi.
Inoltre affermarono con decisione i desideri della loro vita intima. Abbandonarono mariti, in qualche caso
anche la prole, peregrinarono con il loro uomo per l’Europa, nobildonne adattate a mestieri umili.
Il loro eroismo si consuma, scrive Elvira Landò in un articolo su Camicia Rossa il notiziario dell’Associazione
Reduci Garibaldini, in chiave di assoluta e spoglia quotidianità.
Le donne sono dunque presenti, nel primo Ottocento, in una prodigiosa varietà di atteggiamenti, di scelte,
alcune delle quali così coraggiose e innovatrici da segnare una decisa maturazione culturale e spirituale, che
le consegna a un destino di dolore e attesta una partecipazione piena alla dimensione civile del vivere. Ad
esse va riconosciuto un realismo non puramente pragmatico, ma disposto a cogliere il senso concreto e
profondo delle situazioni. Appare loro chiara la necessità di interventi immediati intesi a sanare situazioni
contingenti e insieme connessi in una visione che abbraccia eventi e istituzioni in una logica storica (…)
Sia che aprano i loro salotti al nuovo spirito libertario, come Nina Schiaffino Giustiniani, o Bianca De Simoni
Rebizzo, o accolgano gli esuli nelle loro case, come Giuditta Sidoli, o svolgano nuovi ruoli, come prodigarsi
come infermiere, fondare scuole e istituti professionali, asili per gli orfani, studiare problemi sociali e del
lavoro, come Bianca Rebizzo, Cristina Trivulzio, Elena Casati Sacchi, Luisa Solera Mantegazza, sia che
combattano cavalcando come a Milano Cristina Trivulzio, o sulle barricate, come a Novara Teresa Durazzo
Doria o Anita Ribeiro Garibaldi a Roma oppure sostengano con la loro fede destini di esilio e di prigionia,
esse consegnano alla storia e al futuro dell’Italia un patrimonio di valori morali e civili che accompagnerà il
faticoso percorso dell’unità.
E tuttavia - continua Landò - il riconoscimento del loro valore si ridusse spesso ad una valorizzazione di
elementi romanzeschi, mentre una certa supponenza maschile impedì anche a uomini di valore di
comprendere l’intelligente e costruttivo apporto di idee di alcune straordinarie figure di donne.
Quanti sanno ad esempio che durante le Cinque Giornate di Milano, tra i patrioti giunti da tutta Italia per
combattere gli Austriaci, c’era un contingente di duecento napoletani guidati da una donna, la già citata
Cristina Trivulzio di Belgioioso?
Ricorda Massara, che l’idea che la donna del XIX secolo romanticamente languisse in case ammantate di
velluti cremisi con uno scialletto sulle spalle e il libro di poesie che scivola fra le mani non è difficile a
ritrovarsi: nella letteratura, nella poesia, nell’arte del Romanticismo.
Molto più complicato è fare venire a galla queste storie e chiedersi, poi, ma le altre, allora, chi erano? E
che cosa è questa storia costruita esclusivamente sui documenti ufficiali, sulla diplomazia, sul versante
maschile del potere?
Grazie al lavoro compiuto da un ristretto numero di studiose e studiosi, oggi possiamo tentare di far uscire
dall’oblio qualche figura femminile che ha realmente contribuito al progresso della storia.
Con questo obiettivo, la Commissione Regionale Pari Opportunità del Piemonte premierà tra breve con
borse di studio, finalizzate alla pubblicazione, tre tesi di laurea o di dottorato su temi di genere legati al
processo storico dell’unificazione nazionale.
Anche il sito Kila, nel corso di quest’anno, darà spazio alla rievocazione di singole donne, di episodi con
protagoniste femminili o di fenomeni che hanno caratterizzato l’unificazione riletti da un punto di vista di
genere.
Chiunque voglia contribuire con suggerimenti, link o testi sarà benvenuta/o.
Approfondimenti
In biblioteca
Renata Pescanti Botti, Donne del Risorgimento italiano, Ceschina 1966: ricco di notizie e di figure ma un po’
datato ed enfatico, cerca comunque di riparare al torto della sottovalutazione femminile nella
rappresentazione del Risorgimento
Antonio Spinosa, Italiane, il lato segreto del Risorgimento, Mondadori, 1994: ritratti un po’ romanzeschi
anche se avvincenti, con uno sguardo esclusivamente maschile
Rachele Farina, Dizionario biografico delle donne lombarde, Baldini Castoldi Dalai, 1995: il testo
metodologicamente più interessante e prezioso con l’ovvia limitazione dell’area geografica considerata
Tarquinio Maiorino, Giuseppe Marchetti Tricamo e Andrea Zagam, Viva l'Italia. Viva la Repubblica. Uomini,
donne, luoghi dal sogno risorgimentale a oggi, Mondadori, 2004: i momenti cruciali della storia italiana
moderna, con notizie e riflessioni sulla partecipazione delle donne
Storia d’Italia – Annali. Vol. 22: Il Risorgimento, Einaudi, 2007: curato da Paul Ginsborg e Alberto Mario
Banti, si propone di scrivere una nuova storia del Risorgimento, con molti saggi ispirati a una lettura di
genere della storia
Sul web
Trame femminili nel processo di indipendenza italiano, da Donne e conoscenza storica
Le donne e il Risorgimento, da Camicia Rossa
Il Risorgimento invisibile. Presenze femminili nell’Ottocento meridionale dal sito
dell’Università Federico II di Napoli
La poesia al femminile nell’Italia del Risorgimento
Chi dice donna dice Risorgimento, di Gaetano Afeltra da Il Corriere della Sera del 30
giugno 2003
Il Risorgimento delle donne. Da icona del patriottismo a patriota filmato didattico
prodotto dalla Provincia di Livorno
Il sito di Esperienza Italia
Il sito nazionale dell’anniversario dell’Unità italiana
Allegato n° 3
Maria Fioroni
Ricordo di Maria Fioroni (da Celebrazione del centenario della nascita di Maria Fioroni di Gino Barbieri )
(…) Negli anni del primo conflitto mondiale — io ne contavo quattro o cinque, non di più, — mia Madre ci
parlava dei personaggi più autorevoli e benemeriti della vita legnaghese del tempo. Tra questi — lo ricordo
benissimo — elencava le sorelle Fioroni, la Gemma e la signorina Maria, che destinavano tutte le risorse del
loro patrimonio all'assistenza dei nostri combattenti e delle loro famiglie. Ricordo pure le figure fisiche di
queste personalità generose, che intravvidi nei pressi dell’ospedale o nella Chiesa dell’Assunta, quando si
onoravano con sacro rito le spoglie dei nostri Caduti, trasportate dal fronte. Un ricordo indimenticabile, che
non riesco mai a dissociare dalla figura di Maria Fioroni, nel periodo tra le due guerre, quando cominciai, ero studente ginnasiale — a rendermi conto che — dopo il nobile e cristiano impegno di civile e patriottica
assistenza —aveva abbracciato un’altra missione, non meno meritoria nelle vicende legnaghesi: la
vocazione storiografica per contribuire con tutte le sue forze ad arricchire la Sua diletta Legnago delle radici
archeologiche e documentali della civiltà atesina e delle Basse, in cui appunto Legna go è l’indiscutibile
centro. Impegnato prima a Legnago, poi a Verona e a Milano nei miei studi fino a quelli universitari, ero di
tanto in tanto informato dei ritrovamenti di reperti archeologici nella zona delle Valli Veronesi ad opera di
dilettanti in tali ricerche, ma non meno meritevoli, al di là delle vicende politiche in cui militavano: come
quell’Alessio de Bon, che ha in un certo senso riscattato notevoli colpe nel campo dell’arroganza propria
dell’epoca con la passione di ricerche di antiche testimonianze sui primi insediamenti umani e sulla loro
evoluzione. Maria Fioroni, sempre estranea ad ogni colorazione partitica che ne riducesse o caratterizzasse
le sue scelte operative, ma sempre presente ad ogni impegno di ricerca culturale che dilatasse il patrimonio
della nostra storia, non solo si interessa dei difficili problemi storiografici relativi alle epoche più remote
della nostra civiltà padana e veronese, ma incoraggia tali studi e da inizio a quelle raccolte di "monumenti"
del passato, di cui in questo Museo da Lei voluto abbiamo tante preziose testimonianze. Ma Maria Fioroni
aveva la preparazione scientifica e tecnica per attuare i progetti, che andò via via realizzando tra le due
guerre e dopo le rovine del secondo conflitto? una domanda che ci poniamo non solo noi, legnaghesi, ma
che si pongono, con un senso di immediata e sorpresa ammirazione, anche i visitatori e gli estimatori di
questo Museo e del centro di studi che stasera ci ospita. Per rispondere a simili interrogativi, bisogna
brevemente richiamare qualche dato biografico, cominciando dal ricordo dei Fioroni, casata di origine
fiorentina, ad un certo punto migrata in Lombardia, insediandosi nell'Alta Brianza. I Fioroni, anzi il ramo
lombardo da cui discende la nostra concittadina, ebbero una particolare operosità e quindi si affermarono
anche dal punto di vista economico, se gli avi della nostra Maria poterono per un secolo occupare a Barni,
appunto nella Brianza, le più alte cariche amministrative, che in quell’epoca costituivano un servizio, al di là
di ogni materiale compenso. Trasferitisi nel Rodigino e precisamente a Massa Superiore — l'attuale
Castelmassa —agli inizi dell'Ottocento, i Fioroni si stabilirono a Legnago alla fine del secolo scorso, abitando
il Palazzo che io stesso ricordo tra quelli più notevoli di questa nostra città sin dagli inizi del Novecento.
Maria Fioroni, nata a Massa Superiore proprio un secolo fa, e inviata da Legnago a Verona al Collegio "Agli
Angeli' ’, conseguendovi nel 1904 il diploma magistrale. Qualcuno, tra i più giovani dei presenti, sarà
tentato di chiedersi perché una Casata anche economicamente potente non avesse voluto avviare agli
studi universitari una figliola indubbiamente capace. Un secolo fa era già un ardimento la meta magistrale
per le donne, cui si soleva abitualmente assicurare una cultura poco più che primaria, la conoscenza del
pianoforte, forse un po’ di disegno e niente più, salvo una lingua straniera in qualche famiglia meno
tradizionale. Ciò premesso ritorna a proposito l’interrogativo sul come possa essersi ad un certo punto
della sua vita maturata la vocazione agli studi storici ed archeologici, che hanno assorbito buona parte delle
sue nobili energie. La risposta —io credo — ai semplice quanto convincente. Maria Fioroni, durante la
prima guerra mondiale, nel ricordo di suo padre combattente a Bezzecca, si fece crocerossina e dedicò
tutte le sue forze per l’assistenza ai soldati e alle loro famiglie: un capitolo della sua vita, che non si può
spiegare alla luce della razionalità, perchè scaturisce dall'intimo di una interiore vocazione, che coincide con
la fede in alcuni valori spirituali e di patria. Così pure il secondo momento di Maria Fioroni —quello
culturale e della investigazione archeologica, documentale e musiva — non ha che una spiegazione: la sua
grande fede nella funzione della cultura e soprattutto nella conoscenza delle radici della nostra civiltà,
come impegno che migliora il cittadino ed accresce il prestigio della comunità. Su questi valori culturali, su
questa funzione della storia per lo sviluppo armonico delle popolazioni Maria Fioroni non ha potuto, né
voluto dissertare "accademicamente", anche perchè — donna illuminata e preparata — sapeva che questo
non era il suo mestiere, nel senso del "ministerium'°, come ufficio da compiere insegnando. Ma proprio in
questa sua limitazione, anzi in questa sua consapevolezza è la misura di una personalità eminente, che sa
orientare i propri talenti verso ciò che e loro congeniale. Nel caso di Maria Fioroni i talenti erano fatti di
intuizione, di ricerca, di sensibilità, di capacità organizzativa. Negli anni di guerra, sia della prima come della
seconda, la Nostra concittadina intuì sempre e seppe realizzare ciò che socialmente e spiritualmente
occorreva alle vittime dei conflitti. Nei momenti, nelle stagioni tanto desiderate della pace e dell’operosità
Maria Fioroni seppe inventare — è la parola — tutto quanto sapeva di crescita della vita locale, di raccolta
di quanto agevolasse la cultura della comunità, soprattutto delle classi giovanili, di creazione di strumenti di
studio, che superassero la quotidianità per trasformarsi in istituzioni inserite stabilmente nella storia locale
e più oltre. Questo e il motivo dominante nell'opera della nostra nobile Signora di Legnago del Novecento,
che — in un certo senso maestra di se stessa e feconda autodidatta— ha lasciato alcuni studi meritevoli di
uno specifico ricordo. Studi che superano la interessante a quanto passeggera varietà delle indagini erudite,
perche fanno parte integrante di quella vocazione di ricercatrice della storia locale, che caratterizza la sua
eredita. Un’esemplare sua monografia riguarda le armi: studio in lei determinato non da scelte
accademiche, ma dalla necessaria illustrazione di reperti che in tale campo riuscì ad adunare, in occasione
di scavi e di rifacimenti degli argini, nella parte destra, del nostro fiume. Il passaggio dai reperti alle raccolte
di tipi accuratamente adunati fu facile e incontenibile nella prassi e nella mentalità di Maria Fioroni. E ciò
spiega non solo la preziosità del materiale qui esposto, ma anche l’acutezza delle sue illustrazioni, ove
colpisce anche i più esperti la capacità analitica particolare e, indirettamente, il contributo prezioso alle
tematiche non facili dell’armoristica e della sua storia. Ma forse il campo in cui Maria Fioroni, come
studiosa, ha lasciato, anzi lascia una eredita unica e quello della storia ceramistica: un campo assai avanzato
nelle ricerche, anche se e sempre aperto a nuove scoperte nei settori non investigati territorialmente. Ed in
effetti le ricerche della Fioroni in questo tema sono approdate ad autentiche scoperte, positivamente
registrate dalla migliore storiografia scientifica. (…)italiani ed europei. Fino a pochi lustri or sono, nessuno
avrebbe mai pensato che in castelli o fortezze circoscritte, come Legnago e Porto, fossero state attive, nei
secoli passati, fabbriche di ceramiche conosciute ben oltre i confini del Veronese per l’eccellenza dei
manufatti e quindi per la ricca domanda espressa da una clientela di altissimo rango. Quando seppi delle
tre fabbriche scoperte dalla Fioroni come operanti tra il Quattrocento e i primi anni del Cinquecento, scrissi
a qualche amico legnaghese che ero molto felice per la nostra incomparabile studiosa, ma dubitavo che i
“Boccalari” attivi da noi al di qua e al di là del fiume non superassero i fabbricanti di piatti. che si trovano —
lo dicono i registri dei nostri estimi - in moltissimi centri della Padania e di altre regioni. Ma quando, anche
parlando con l`amico Morazzoni, potei conoscere meglio la natura e le forme dei reperti delle tre fabbriche
(due a Legnago ed una a Porto), capii che non si trattava di semplici “boccalari”, ma di veri e propri artisti,
rivolti ad alimentare un traffico di alti prodotti tecnologici, che rendevano celebre — anche sotto questo
profilo —la nostra città atesina. Piatti, tazze, vassoi, catini: manufatti di fine decorazione, alcuni con stemmi
policromi, che ricordano Casate molto note a quel tempo, come il Colleoni, il celebre condottiero
bergamasco della seconda meta del Quattrocento, e i Da Porto, con quel militare veneto del primo
Cinquecento, Luigi, cui si deve la novella sui Montecchi e Capuleti, che ispirarono la leggenda e la realtà di
Giulietta e Romeo del mondo poetico scespiriano. (…). Maria Fioroni, senza possedere dottrine filosofiche
ed economiche particolari, ha avuto una visione pratica e ideale della storia di Legnago e del suo imminente
destino. Elevare culturalmente, cominciando da se stessa, le nostre generazioni giovanili, partendo dalla
puntuale conoscenza delle nostre radici. Ecco, cari amici, come io spiego la sua vocazione di crocerossina,
che aiuta i soldati al fronte, ne registra i nomi e le vicende, assistendo le loro famiglie. Spiego la sua
vocazione, quando con pazienza certosina aduna tutti i reperti, dai più antichi dei passati millenni sino alla
mutevole moda e ai costumi borghesi del secolo scorso: la multiforme espressione della nostra civiltà,
intelligentemente appuntata e documentata in queste sale. Spiego la sua vocazione, quando si sofferma a
raccogliere —a partire dal Cotta al Salieri, allo Zurla e via via sino ai martiri gloriosi del Risorgimento, gli
esemplari più significativi di un popolo. (…). Dal doveroso ricordo di Maria Fioroni, che continua a vivere —
con il suo stile discreto e dignitoso — in questo Palazzo e in queste stesse aule, scaturisce, a mio avviso, una
eredità ancora più preziosa delle mura materiali ed e un incitamento per tutti noi ad imboccare la strada
della concordia e dell’unità di intenti per una nuova stagione di avanzamento civile ed economico della
nostra Legnago