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OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA PENALE
AGGIORNATO AL 31 GENNAIO 2014
A cura di
Diletta Piazzese
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE, SENTENZA 7 GENNAIO 2014, n. 129
Sul sequestro per equivalente del bene immobile appartenente al fondo patrimoniale
La questione sottoposta al vaglio della Suprema Corte di Cassazione attiene ai limiti del sequestro
preventivo finalizzato alla confisca per equivalente. In particolare, l'esame della Corte si è
concentrato sulla sequestrabilità di un bene immobile appartenente al fondo patrimoniale costituito
dai coniugi in separazione dei beni.
Nel caso di specie il ricorrente in Cassazione, legale rappresentante di una società a responsabilità
limitata, era indagato per i reati di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10 ter (omesso
versamento dell'IVA), art. 10 bis (omesso versamento di ritenute certificate) e art. 11 del predetto
decreto (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte), per avere compiuto atti fraudolenti
costituiti dalla creazione di un fondo patrimoniale con i beni immobili di sua proprietà in modo da
rendere inefficace in tutto o in parte la procedura di riscossione.
Il GIP disponeva dunque il sequestro preventivo dei beni di proprietà dell'indagato o nella sua
disponibilità, ovvero nella disponibilità della società dallo stesso amministrata, per un valore
corrispondente al profitto conseguito dal reato.
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Di talchè, venivano sequestrate all'indagato le somme di cui al conto corrente del coniuge e la quota
pari ad un mezzo pro indiviso di un immobile facente parte di un fondo patrimoniale, che prima
della costituzione di detto fondo, si trovava nella proprietà esclusiva del coniuge.
La Suprema Corte è chiamata, con la pronuncia in oggetto, a valutare la legittimità del superiore
decreto di sequestro preventivo.
Gli ermellini rilevano, anche alla luce di precedenti arresti della Corte di legittimità, che è ammessa
la possibilità di apporre il vincolo cautelare sui beni costituenti il fondo patrimoniale (Cass. Civ.,
Sez. III, n. 1852772011; Cass. Civ., Sez. III, 40364/2012). Non rileva, dunque, né che i coniugi
prima della costituzione del fondo patrimoniale, avessero scelto il regime di separazione dei beni,
né che, prima di essa, il bene immobile in questione fosse di esclusiva proprietà di uno di essi. E,
infatti, la proprietà del bene, successivamente alla sua destinazione al fondo patrimoniale, spetta ad
entrambi i coniugi, salvo che sia diversamente stabilito nell'atto di costituzione, come previsto
dall'art. 168, c.c. Ciò che rileva ai fini dell'applicazione del vincolo cautelare, sottolinea la Corte, è
la disponibilità al momento del disposto sequestro e che, a tale data, il bene era nella disponibilità
di entrambi i coniugi.
La Suprema Corte ha aggiunto che il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente ex art. 322
ter, c.p., a differenza del sequestro preventivo di cui all'art. 321, co. 2, c.p.p., ha ad oggetto
l'equivalente del profitto del reato e, quindi, anche cose di terzi estranei che non sono collegate con
il singolo reato (Cfr Ordinanza n. 33354/2012).
A maggior ragione, dunque, tale misura può colpire anche i beni dell'amministratore di società, il
quale non può considerarsi terzo estraneo rispetto al reato, in quanto lo ha commesso agendo in
nome e per conto della persona giuridica che rappresenta.
Quanto, poi, al sequestro preventivo per equivalente delle somme di cui al conto corrente del
coniuge, la Corte di legittimità ne ritiene la legittimità, sottolineando che qualora il profitto tratto
da taluno dei reati per i quali è prevista la confisca per equivalente sia costituito da denaro,
l'adozione del sequestro preventivo non è subordinata alla verifica che le somme provengano dal
delitto e siano confluite nella effettiva disponibilità dell'indagato, in quanto il denaro oggetto di
ablazione deve solo equivalere all'importo corrispondente per valore al prezzo o al profitto del
reato, non sussistendo alcun nesso pertinenziale tra il reato e il bene da confiscare (Cass. Pen., Sez.
III, n. 1261/2012).
Dunque, il suddetto decreto di sequestro appare, ad avviso della Suprema Corte, del tutto legittimo.
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CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE, SENTENZA 10 GENNAIO 2014, n. 646
Sull'esercizio abusivo della professione di avvocato
Gli Ermellini, nella pronuncia in esame, hanno riconfermato il principio di diritto, già enunciato da
consolidata giurisprudenza della stessa Corte, secondo il quale integra il delitto di esercizio abusivo
della professione di avvocato la condotta di chi, conseguita l'abilitazione statale, eserciti l'attività
professionale prima di aver ottenuto l'iscrizione all'albo professionale (Cfr. Cass. Pen., Sez. VI,
19/1/2011, n. 27440; SU, 15/12/2011, n. 11545). L'imputato, ricorrente in Cassazione, era stato
condannato per i reati di cui agli artt. 348 e 495, c.p., unificati dalla continuazione, per avere
esercitato la professione di avvocato senza essere iscritto nel relativo albo e per essersi qualificato
come avvocato in atti compiuti davanti a giudici ed altri pubblici ufficiali.
Contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente e alla luce di quanto previsto dall'art. 348, c.p., che
punisce l'abusivo esercizio di una professione, assume rilevanza, quale elemento integrante la
condotta punita, anche la mancata iscrizione nell'albo di categoria.
Invero, sottolineano i giudici di legittimità, dalla ricognizione delle normative che prevedono e
regolano le professioni soggette a speciale abilitazione dello Stato emerge, in via generale, che il
conseguimento di tale titolo, da un lato, presuppone il possesso di altri pregressi titoli e, dall'altro,
costituisce a sua volta il presupposto (principale ma non esclusivo) per la iscrizione in appositi albi
(relativi ai laureati) o elenchi (diplomati), tenuti dai rispettivi ordini e collegi professionali (enti
pubblici di autogoverno delle rispettive categorie, a carattere associativo e ad appartenenza
necessaria).
La stessa iscrizione all'albo, dunque, è condizione per l'esercizio della professione. Di talché, la
"abusività" prevista dalla norma penale viene conseguentemente riconnessa, in pratica, alla
mancanza della detta iscrizione.
Per quanto attiene al concorso dei reati di esercizio abusivo della professione e spendita del titolo
(art. 495, c.p.), la Corte, con intervento adesivo al consolidato orientamento giurisprudenziale
formatosi sulla questione, ha rilevato che il primo reato non implica necessariamente la spendita al
cospetto del giudice o di altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente assunta. Quindi, il reato
si perfeziona per il solo fatto che l'agente curi pratiche legali dei clienti o predisponga ricorsi
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anche senza comparire in udienza qualificandosi come avvocato; ne deriva che quando
quest'ultima condotta si accompagna alla prima, viene leso anche il bene giuridico della fede
pubblica tutelato dall'art. 495, c.p. e si configura il concorso dei detti reati (Cass. Pen., Sez. II, n.
18898 del 06/04/2004).
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V, SENTENZA DEL 10 GENNAIO 2014, n. 660
Sulla colpa lieve di cui all'art. 3, L. n. 189 dell' 8 novembre 2012
La Quinta sezione della Suprema Corte di Cassazione ha confermato la sentenza di condanna della
Corte d'Appello di Reggio Calabria nei confronti del primario del reparto di ginecologia
dell'ospedale del capoluogo calabrese, per il reato di cui all'art. 13 legge 22 maggio 1978, n. 194,
per avere con negligenza cagionato l'interruzione della gravidanza di una gestante, omettendo di
disporre la prosecuzione del tracciato cardiografico del feto, nonostante egli stesso avesse
evidenziato la comparsa di tachicardia fetale e la necessità di praticare un immediato intervento di
taglio cesareo.
Il ricorrente, con motivi aggiunti, aveva dedotto la violazione di legge con riferimento al
sopravvenuto articolo 3, comma primo, legge 8 novembre 2012, n. 189, che esclude la
responsabilità per colpa lieve dell'esercente la professione sanitaria il quale si attenga a linee guida e
buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, le quali, secondo la difesa, non prevedono il
taglio cesareo come intervento da praticarsi nel caso, ricorrente nella specie, di epatogestosi, se non
in conseguenza di una sofferenza fetale derivante quale complicanza dell'induzione farmacologica
del travaglio.
La Corte ritiene l'infondatezza del superiore motivo in quanto, da un lato, le linee guida allegate dal
ricorrente non sembrano escludere la praticabilità del taglio cesareo, dall'altro, a seguito delle
risultanze peritali, la diversa tecnica dell'induzione farmacologica al parto, considerata dal
ricorrente alternativa al taglio cesareo, sarebbe stata inutile, se non addirittura pericolosa, perché
avrebbe determinato un prolungamento della gestazione, già giunta alla trentasettesima settimana.
In ogni caso, la Cassazione considera in senso determinante la circostanza secondo la quale il parto
cesareo in questione era stato in concreto programmato come intervento urgente da effettuarsi nella
prima giornata feriale dopo il ricovero della gestante.
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Di talché gli Ermellini hanno ritenuto di escludere che il rinvio dell'operazione, non accompagnato
peraltro da un monitoraggio cardiografico della paziente, fosse conforme a buone pratiche.
Per le superiori ragioni, la Corte ha rigettato il ricorso confermando la condanna del ricorrente.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE, SENTENZA 17 GENNAIO 2014, n. 1856
Sul rapporto tra il reato di truffa e quello di fraudolenta distruzione della cosa propria
Con la sentenza in epigrafe gli Ermellini intervengono sui rapporti tra il reato di truffa ex art. 640,
c.p., e quello di cui all'art. 642, c.p., che punisce la fraudolenta distruzione della cosa propria.
All'imputata veniva, infatti, contestato il reato di cui all'art. 642, c.p., perchè, al fine di conseguire
l'indennizzo relativo alla polizza assicurativa contratta tra la propria di ditta di lavorazione tessile e
una società di assicurazione, distruggeva, mediante incendio, parte del materiale presente presso il
capannone della stessa ditta, nonché parte degli infissi e delle strutture murarie (capo sub A); e il
reato di cui agli art. 56 e 640, c.p., perchè con artifici e raggiri costituiti nell'indicare nella denuncia
di incendio e nella “situazione merci danneggiate” presentate alla società assicurativa, danni
superiori a quelli effettivamente prodotti dall'incendio verificatosi presso il capannone industriale,
compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore la suddetta società al fine di
procurarsi un ingiusto vantaggio ai danni della compagnia di assicurazione (capo sub B).
La Corte territoriale aveva assolto l'imputata ex art. 530, co.2, c.p.p., dal reato di cui all'art. 642,
c.p., avendo ritenuto in esso assorbito il reato di cui agli artt. 56 e 640, c.p.
I giudici di legittimità, con la sentenza in oggetto, sottolineano che l'art. 642, c.p., che punisce la
fraudolenta distruzione di cosa propria, costituisce un'ipotesi criminosa speciale rispetto al reato di
truffa di cui all'art. 640, c.p. E, infatti, nel primo sono presenti tutti gli elementi caratterizzanti il
secondo, mentre gli interessi tutelati (patrimonio dell'assicuratore), il soggetto attivo (per le ipotesi
che presuppongono la stipula di un contratto e, quindi, la qualifica di soggetto assicurato), e
l'elemento materiale dei raggiri e degli artifizi, si caratterizzano per la loro specialità rispetto a
quelli generici previsti per il reato di truffa (Cfr Cass. Pen. n. 12210/2007; Cass. Pen. n.
22906/2012; Cass. Pen. n. 2506/2003).
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La Corte sottolinea, tuttavia, che il rapporto di specialità tra le fattispecie di cui sopra non impedisce
la configurabilità di un concorso materiale o formale fra le cinque diverse ipotesi delittuose previste
dall'art. 642, c.p. (danneggiamento dei beni assicurati; falsificazione od alterazione della polizza o
della documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione; mutilazione
fraudolenta della propria persona; denuncia di un sinistro non avvenuto; falsificazione o alterazione
della documentazione relativi al sinistro).
Sul punto, gli Ermellini ritengono opportuno premettere che l'articolo in questione è un esempio di
norma penale mista. All'interno dell'ampio genus delle norme penali miste, dottrina maggioritaria e
giurisprudenza distinguono le cosiddette norme a più fattispecie (o norme miste alternative) dalle
cosiddette disposizioni a più norme (o norme miste cumulative).
Le prime, ricordano i giudici di legittimità, descrivono una pluralità di condotte fungibili, con le
quali può essere integrata in via alternativa un'unica norma incriminatrice: in definitiva, il reato
astrattamente previsto è uno solo, ma in concreto lo stesso può venire realizzato indifferentemente
da una o più delle condotte tipizzate dalla norma, senza che le modalità di esecuzione –
naturalisticamente unitaria o plurima- incida sul carattere, invariabilmente unitario, del reato
posto in essere dal reo.
Diversamente, le disposizioni a più norme contengono tante norme incriminatrici quante sono le
fattispecie legislativamente previste, in quanto le condotte descritte non sono tra loro equipollenti ed
alternative ma costituiscono elementi materiali di altrettanti reati.
La tematica dell'unicità o pluralità di reati assume particolare rilievo con riguardo all'operatività
della disciplina in materia di concorso di reati, certamente applicabile nella seconda ipotesi descritta
(disposizioni a più norme).
Sul riconoscimento della natura della disposizione (norma a più fattispecie o disposizione a più
norme) sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22902/2001,
che hanno ritenuto, in linea di massima, valido un criterio fondato sulla natura intrinseca delle
varie condotte ipotizzate, configuranti uno o più reati a seconda che costituiscano ontologicamente
diverse manifestazioni esteriori di una sola situazione di fatto rivestente lo stesso disvalore sociale,
ovvero rappresentino situazioni strutturalmente fenomenicamente e cronologicamente distinte
anche in relazione alle offese arrecate.
Alla luce dei superiori rilievi, la Corte in Cassazione ha precisato che il riconoscimento della natura
di norma a più fattispecie viene rimesso al riscontro cumulativo di un'identità oggettiva (devono
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avere uno stesso oggetto materiale), soggettiva (devono essere compiute dallo stesso soggetto),
cronologica (devono essere contestuali) e psicologico-funzionale (devono essere indirizzate verso
un unico fine) tra le diverse condotte penalmente sanzionate. In caso di esito negativo della
superiore verifica, dovrà concludersi che ciascuna violazione della disposizione incriminatrice
integri altrettanti reati quante siano state le condotte effettivamente realizzate dall'agente.
Applicando detti criteri, la Corte ha affermato che l'art. 642, c.p., si configura quale norma penale
mista del tutto peculiare, giacchè accorpa in sè sia la qualifica di disposizione a più norme (nel
rapporto tra le condotte previste nei commi 1 e 2) sia quella di norma a più fattispecie (in
riferimento alle condotte previste all'interno di ciascun comma). Di conseguenza, poichè ciascun
comma prevede ipotesi diverse di reato, ove ne ricorrano gli estremi fattuali, le medesime
concorrono fra di loro.
Con riferimento alla concreta fattispecie in esame, gli ermellini hanno ritenuto che la condotta
contesta all'imputata al capo sub b) integra, in realtà, l'ipotesi criminosa di cui all'art. 642, co. 2,
c.p., che concorre con quella contesta al capo sub b). Pertanto, la sentenza impugnata è stata
annullata.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE, SENTENZA DEL 20 GENNAIO 2014, n.
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Responsabilità medica: consenso informato e colpa lieve
Con la sentenza in epigrafe la Suprema Corte di Cassazione torna ad occuparsi del tema della
responsabilità medica con riferimento alla rilevanza della colpa, anche alla luce della nuova
normativa di cui alla L. 8 novembre 2012, n. 189, e al consenso informato prestato dal paziente
sottoposto alle cure mediche.
E, infatti, con il ricorso introduttivo del giudizio di legittimità il ricorrente, medico specializzato in
chirurgia estetica, lamentava, tra le altre censure meno incisive, anche il vizio motivazionale della
sentenza impugnata con riferimento alla causa giustificatrice del consenso informato che la paziente
aveva firmato e l'omessa applicazione, da parte della Corte territoriale, della nuova normativa di cui
alla L. 8 novembre 2012, n. 189, che avrebbe consentito di valutare come penalmente irrilevante la
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condotta dell'imputato, connotata, ad avviso dello stesso, da colpa lieve. I giudici del secondo grado
avevano, invece, condannato l'imputato, chirurgo responsabile degli interventi di mastoplastica
additiva effettuati su una paziente, perchè colpevole del delitto di lesioni colpose gravi (art. 590,
co. 2, c.p. in relazione all'art. 583, co. 1, n. 1, c.p.), per imperizia dovuta a carente tecnica chirurgica
e alle inadeguate protesi prescelte.
In via preliminare, gli ermellini chiariscono alcuni aspetti di natura processuale che vengono in
rilievo nel caso di specie. Sottolineano, infatti, che alcun vizio motivazionale può essere ravvisato
nella sentenza impugnata, essendo consentiva la motivazione per relationem con riferimento alla
pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate contro quest'ultima non contengano
(come nella specie) elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi (Cfr Cass.
Pen., Sez. IV, sentenza del 17/9/2008, n. 38824).
I giudici di legittimità passano, poi, ad analizzare la censura inerente il consenso informato, firmato
dalla paziente e considerato dai ricorrenti causa giustificatrice.
La Corte coglie l'occasione per ribadire che il consenso del paziente all'esecuzione dell'attività
medico-chirurgica non si identifica con quello di cui all'art. 50, c.p., che prevede la non punibilità di
chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne, ma
costituisce un presupposto di liceità del trattamento. L'obbligo di acquisire il consenso informato
non integra una regola cautelare, la cui inosservanza influisce sulla colpevolezza. E, infatti, fuori dei
casi in cui sussista lo stato di necessità o il paziente non sia in grado di prestare il consenso, il
medico non può intervenire in sua assenza. Tale consenso, com'è noto, deve essere informato,
ovvero espresso a seguito di una informazione completa relativa ai possibili effetti negativi della
terapia o dell'intervento chirurgico, con le possibili controindicazioni e l'indicazione della gravità
degli effetti del trattamento.
Ciò in quanto il criterio di disciplina della relazione medico-ammalato è quello della libera
disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive,
secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e
che deve essere sempre rispettata dal sanitario (Cass. Pen., Sez. IV, sentenza del 24/6/2008, n.
37077).
Pertanto, la mancanza del consenso o la sua invalidità determina l'arbitrarietà del trattamento
medico-chirurgo e la sua rilevanza penale, in quanto eseguito in violazione della sfera personale del
soggetto. Dall'altro lato, però, la Corte sottolinea che la rilevanza penale della condotta dannosa per
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il paziente, non ammette un diverso apprezzamento a seconda che vi sia stato o no il consenso
informato del paziente.
Quanto sin qui detto, sottolinea la Corte, vale a fortiori nell'ambito della chirurgia estetica, per sua
natura non connotata dall'urgenza ma finalizzata a migliorare l'aspetto fisico del paziente in
funzione della sua vita di relazione.
Quanto alla censura relativa alla mancata applicazione dell'art. 3, L. 8 novembre 2012, n. 189, gli
ermellini sottolineano che dal dato normativo emerge la possibilità per il terapeuta di invocare il
nuovo favorevole parametro di valutazione della sua condotta professionale solo se egli si sia
attenuto a direttive solidamente fondate e come tali riconosciute (linee guida e buone pratiche
accreditate dalla comunità scientifica).
Tuttavia, nel caso di specie, la Corte ritiene non sussistere elementi per ricondurre la condotta del
ricorrente alla fattispecie della colpa lieve, penalmente irrilevante, in quanto non è stato dimostrato
che tale condotta abbia osservato linee guida o pratiche terapeutiche mediche virtuose accreditate
dalla comunità scientifica, né, soprattutto, che esse siano state delineate. La scelta sbagliata del
medico sul tipo e sulle dimensioni della protesi impiantata che ha determinato il danno della
paziente, è indicativa, come sostenuto dalla Corte di Appello, di un notevole grado di imperizia
dell'imputato. Ciò vale ad escludere la colpa lieve, essendo l'imputato incorso in quella grave,
tuttora rilevante nell'ambito della professione medica e rinvenibile nell'errore inescusabile, che
trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla
professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell'uso dei mezzi manuali o
strumentali adoperati nell'atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire
correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in
chi esercita la professione sanitaria (Cass. Pen., Sez. IV, sentenza del 29/1/2013, n. 16237).
Per questi motivi, la Quarta sezione penale ha rigettato il ricorso.
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