Ante Pavelich, l`Ustacha e il sogno nazionalista

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Ante Pavelich, l`Ustacha e il sogno nazionalista
Antonie “Ante” Pavelic nasce nel 1889 a Bradina, una cittadina a sud di Sarajevo, allora nel vasto
Impero austro-ungarico, studia in una scuola elementare musulmana e poi in un collegio gesuita,
comincia ad interessarsi di politica a Zagabria durante i suoi studi universitari di Diritto
avvicinandosi alle idee indipendentiste. Nonostante la sopportabile disciplina del governo di Vienna,
in Croazia era diffuso il desiderio di poter vivere in una nazione sovrana. Allo scoppio della Prima
Guerra mondiale, Ante Pavelic, è chiamato alle armi e inquadrato nel reggimento croato dell’esercito
Imperiale. La fine della Grande Guerra segnò profondamente la geografia europea: nei Balcani sorse
il regno serbo-croato-sloveno. In questo nuovo scenario ogni movimento politico di tendenza
autonomista era soffocato. Le prime esecuzioni di dissidenti avvennero a Zagabria nel dicembre del
1918. La repressione non era solo quella della polizia e dell’esercito ma anche quella dei terroristi
Cetnici e dei sicari della “Mano Bianca” ai quali era lasciato campo libero dal governo serbo. Il duro
prezzo delle persecuzioni fu pagato non solo dai Croati, ma da tutti gli oppositori non importa se
Bosniaci, Sloveni o Macedoni. Questo sangue, secondo l’atroce realtà secolare balcanica, dovrà
essere lavato con altro sangue.
Ustacha in serbo-croato significa “insorto”, “ribelle”. Questo nome venne assunto per la prima volta
dagli oppositori croati alla dominazione Ottomana e successivamente, seguendo un filo logico, dai
nazionalisti in lotta contro Alessandro I, monarca assoluto serbo. L’Ustacha da simbolo dei patrioti
divenne una formazione armata insurrezionale nel 1929, con il crollo del governo parlamentare e
con l’affermarsi del potere autoritario e spietato di Alessandro. Ma facciamo un passo indietro, era il
20 giugno del 1928, durante una seduta del Parlamento del Regno il deputato montenegrino
Ratchitch, fedele alla Corte reale e appoggiato dagli estremisti serbi, spara a sangue freddo sui
deputati dell’opposizione, uccidendo tre politici croati e ferendone altri due. L’attentato provocò una
grave crisi politica: la Croazia si infiammò di manifestazioni e l’opposizione chiese una revisione dei
negoziati sull’unificazione del Regno e nuove elezioni. Il 6 gennaio del 1929 il re Alessandro, non
potendo rispondere in maniera democratica alle sollevazioni dei nazionalisti e alle richieste dei
deputati croati, istaurò una dittatura sospendendo la Costituzione e dando vita al Regno di
Jugoslavia con l’obbiettivo di sopprimere ogni diversità etnica e culturale nei Balcani.
Noto avvocato, deputato a Zagabria, sposato con una donna ebrea e padre di tre bambini, a 40 anni
Ante Pavelic decide di reagire con la forza alla tirannide. La polizia e i servizi segreti di Belgrado già
lo consideravano un pericoloso difensore di repubblicani e nazionalisti croati, macedoni e bosniaci,
ma soprattutto un possibile ‘’collante’’ tra i vari gruppi ribelli dei Balcani, per via della sua influenza
e della sua fama. Con la presa di potere da parte di
Alessandro si
moltiplicano gli arresti dei dissidenti. Pavelic non aspetta le manette, il 7 gennaio del 1929 annuncia
la creazione dell’Ustacha e fugge a Vienna, dove continua la sua attività politica e di reclutamento.
Ora è il Poglavnik, capo assoluto dell’Ustacha. Viene condannato a morte in contumacia. Si reca a
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Sofia dove entra in contatto con Mikailoff, conosciuto col nome di “Tigre dei Karpazi”, capo di un
vero e proprio esercito criminale balcanico, molti uomini della “Tigre” sono stati difesi in tribunale
da Pavelich al quale vengono forniti denaro e armi, ma soprattutto un numero di aiduchi, audaci
mercenari esperti di guerriglia, per addestrare i ribelli dell’Ustacha. Anche se le notizie sono poche
sul movimento, l’Ustacha è subito guardato con sospetto dal governo jugoslavo e le pressioni
sull’Austria spingono Vienna a decidere l’espulsione di Pavelich, che viene accolto in Italia insieme a
tanti altri croati. Ufficialmente erano detenuti in “campi di raccolta”, che gli ‘’internati’’ avevano
trasformato in campi di addestramento, ma godevano di estrema libertà, dell’appoggio velato del
governo italiano e di un piccolo finanziamento. Veri e propri campi di addestramento militare
sorgevano in Ungheria dove l’Ustacha era appoggiato dal governo nazionalista di Mikos Horty.
Il primo obiettivo dell’Ustacha è di mandare all’altro mondo il re Alessandro I. La propaganda del
movimento incita continuamente al regicidio con parole infuocate. Il primo attentato avviene a
Zagabria nel 1933. Il re si recherà nella capitale croata in occasione dell’anniversario
dell’assorbimento della Croazia nel regno. Il piano è di lanciare delle granate sull’auto reale e poi
finire il sovrano a colpi di pistola, agiranno in due. Per una fuga di notizie i servizi segreti vengono a
conoscenza degli intenti della cellula terroristica che dal primo momento capisce di essere braccata
e isolata: i loro contatti non si fanno vivi. Ma l’obiettivo è quello di uccidere il re a tutti i costi. Pochi
secondi prima che entrino in azione, decine di agenti in borghese sono addosso ai due croati, che
cercano di reagire, sparano, uccidono un poliziotto. Saranno torturati e impiccati in segreto per
azzerare lo scalpore dell’azione. Un nuovo regicidio viene programmato in Francia, dove si recherà il
tiranno jugoslavo per un incontro diplomatico il 9 ottobre 1934. In un campo militare in Ungheria
vengono estratti a sorte tre uomini. Nell’Ustacha l’estrazione è una regola, non si chiedono
volontari, sono tutti volontari. I tre si dirigono in Treno a Zurigo con dei documenti falsi e disarmati,
lì si uniscono ad altri due uomini, con un battello turistico si spostano oltre il confine francese per
raggiungere Parigi, dove una giovane donna, tutt’oggi non si sa chi fosse e da dove venisse, fornisce
ai croati pistole e bombe a mano. Il piano è duplice, due uomini colpiscono a Marsiglia, in caso di
fallimento, entrerebbero in azione gli altri due uomini a Parigi, il quinto deve partire per
raggiungere il Poglavnik a Torino. La vettura di Alessandro attraversa Marsiglia, un ustacha
all’improvviso esce dalla folla, si getta sull’automobile reale e spara a brucia pelo al sovrano. Una
pioggia di sciabolate e di proiettili si abbatte sull’attentatore, il suo complice non riesce a lanciare le
granate per l’ondata impazzita di folla che lo travolge, morirà poco dopo in una caserma. La polizia
francese reagisce duramente allo scacco dei croati mobilitando tutte le sue forze. Gli ustacha
vengono arrestati insieme ad altri sospettati croati, la sorte peggiore toccherà a quanti saranno
consegnati alle autorità jugoslave per interrogatori “più approfonditi”. Il re Alessandro I è morto.
Subito dopo l’attentato, in Italia, Ante Pavelich e molti croati vengono arrestati, il governo di Roma
adesso li tiene sotto controllo e li reputa inutili e pericolosi ma non concede l’estradizione richiesta
dalla Francia.
Dopo l’uccisione di Alessandro I era salito al trono Pietro II, appena undicenne, sotto la tutela dello
zio, il principe Paolo. Il regicidio non aveva cambiato in modo sostanziale la situazione della
repressione dei dissidenti, ma aveva riempito le carceri di nazionalisti e patrioti e moltiplicato le
esecuzioni e le torture: una polveriera sul punto di esplodere. Nel frattempo in tutta Europa si
avvertiva un clima sempre più teso, lo scoppio di un conflitto era prossimo. Il Poglavnik confidava in
uno sconvolgimento internazionale che potesse mettere in crisi il regno jugoslavo.
Era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1940 l’Italia era entrata in guerra e le forze
tedesche avevano raggiunto le coste francesi sull’Atlantico. Il governo jugoslavo aderisce al Patto
Tripartito il 25 marzo del 1941, due giorni dopo un colpo di mano fa salire al potere un gruppo di
militari che si dichiara nemico dell’Asse. La Wermacht invade e occupa la Jugoslavia. La Carinzia, la
Stiria e la Serbia passarono sotto il controllo del Reich, i territori della Serenissima, l’Albania e la
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Slovenia al governo di Roma, il Banato all’Ungheria, le zone macedoni alla Bulgaria. In questo
stravolgimento la Croazia proclama la sua autonomia. Ante Pavelich, simbolo della lotta senza
compromessi e del sogno nazionalista, prende le redini del paese, l’Ustacha non è più
un’organizzazione clandestina ma diventa una struttura politico-militare.
L’offensiva tedesca in Jugoslavia era stata fulminea, ma condotta in modo troppo sbrigativo: aveva
messo fuori gioco il nemico, non l’aveva distrutto. Sulle montagne dell’Erzegovina un contingente
serbo non fu nemmeno sfiorato dalla Wermacht. Tra quei picchi montuosi il colonnello jugoslavo
Dragoliub “Draja” Mihajlovitch creò un’enclave. Draja era un militare serbo, un monarchico
profondamente anticomunista e antitedesco. Chiamò la sua gente e i suoi combattenti col nome di
Cetnici, dal serbo-croato ceta (banda). I cetnici erano formazioni per lo più serbe ma anche greche,
bulgare e valacche che si impegnarono nel combattere i turchi e che nel 1918, con la nascita del
regno jugoslavo erano diventati un’istituzione militare col compito di mantenere l’egemonia del
nazionalismo serbo nel Paese. Non occorre un particolare sforzo per capire cosa suscitava il termine
“Cetnici” nell’animo dei Bosniaci e dei Croati: i Cetnici sotto il re Alessandro erano gli incendiari
delle chiese cattoliche, i torturatori dei dissidenti, i boia dei nazionalisti. Sicuramente Draja
denominando Cetnici i suoi uomini non aveva previsto l’effetto che avrebbe provocato quel nome tra
le genti balcaniche. Per i cattolici i Cetnici erano i rivali ortodossi, per i musulmani i nemici infedeli,
per i Croati gli sterminatori da sterminare. Già nell’autunno del 1941 reparti dell’Ustacha entrano in
azione per colpire i Cetnici, questi ultimi hanno la peggio. Lo scenario è tragico e sanguinoso, è il
tipico scenario balcanico: chiese ortodosse devastate e feroci massacri di serbi. La strategia cetnica
è attendista, gli Ustacha sono diventati troppo forti nello scontro diretto, è necessario aspettare, al
massimo sabotare il nemico con azioni di guerriglia verso le unità musulmane inquadrate
nell’esercito nazista e i patrioti croati dell’Ustacha: l’obiettivo primario, per ora, è salvaguardare la
sopravvivenza biologica dei Serbi.
Nella primavera del 1941, a Zagabria, Josip Broz “Tito” raduna clandestinamente i dirigenti del
Partito Comunista Jugoslavo, getta le basi per una lotta di classe jugoslava. Tito decide di
combattere i nazisti tedeschi, i fascisti italiani, i monarchici serbi e i nazionalisti croati. Con
l’Operazione Barbarossa ha inizio la crociata titina per il trionfo del comunismo. I partigiani non
esitano ad intraprendere una guerra del terrore. Lo storico Michel Lespart rende bene l’idea: in una
segheria vengono ritrovati i corpi di alcuni esploratori dell’Ustacha presi dai partigiani, sono
inchiodati ai tavoli, tagliati in due, sgozzati, mutilati, decapitati, incoronati da bossoli inflitti a colpi
di martello nel cranio, trapassati da un ferro e arrostiti o sepolti vivi.
La guerra civile balcanica oltre ai partigiani comunisti, alle bande di Cetnici e alle milizie Ustacha
vede sul campo dello scontro i musulmani bosniaci che vestono l’uniforme delle SS con l’obiettivo di
vendicare migliaia di loro correligionari. Alle atrocità di questa guerra etnica si sommano le torture
rituali degli antichi guerrieri islamici. La testimonianza di un medico neozelandese al servizio
dell’esercito britannico ci descrive una SS musulmana catturata dai partigiani jugoslavi: il
prigioniero portava al collo un sacchetto contenente occhi umani cavati dalle orbite dei nemici.
Stragi di massa, torture efferate, esecuzioni sommarie: il timbro delle tante guerre che hanno
insanguinato il carnaio dei Balcani.
I volontari dell’Ustacha vestivano uniformi del disciolto esercito jugoslavo e, materiale tedesco o
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italiano. Tutti
indossavano l’elmetto tedesco con la U
bianca dell’Ustacha dipinta sul lato destro. La maggior parte dei volontari erano studenti, operai e
contadini, ma scelsero la lotta armata anche molti uomini della Chiesa Cattolica. Dopo decenni dalla
fine di quei fatti, in Croazia si ricordavano ancora i nomi di chi servì il Signore col crocifisso nella
mano sinistra e la pistola in quella destra. Nel 1942 il Poglavink chiese volontari da inviare sul fronte
russo, questi furono talmente tanti che fu necessaria una selezione. Vennero inquadrati nella
Wermacht una brigata di frontiera croata e un battaglione bosniaco, furono creati due gruppi
d’aviazione croati nella Luftwaffe dotati dei Messershmitt 90, gioielli dell’ingegneria aeronautica
tedesca, volontari croati affiancarono Sloveni, Albanesi, Bosniaci, e persino Serbi nelle SS. In Russia
le truppe croate fecero la loro parte, sui soldati croati piovevano bombe e proiettili, ma anche Croci
di Ferro. Entrati a Stalingrado al fianco delle truppe tedesche, i volontari croati e bosniaci
musulmani, accerchiati, si batterono con coraggio in quell’inferno di rovine fumanti. Il comando
della V Armata tedesca gli propose, come premio per il valore dimostrato, un’evacuazione aerea, i
croati rifiutarono, estrassero a sorte un gruppo che sarebbe tornato in patria per raccontare la storia
di quegli uomini che non chiesero e non concessero sconti.
Nel settembre del 1943, l’esercito italiano è allo sbando: gli Ustacha e i titini ne approfittano per
fare incetta di armi e di materiale bellico, i tedeschi penetrano tra mille difficoltà in Kosovo, in
Albania, in Macedonia e nel Montenegro. La guerra etnica si inasprisce, nessun carnefice e nessuna
vittima, non ci sono buoni e cattivi. I nazionalisti croati vengono sepolti vivi dai titini, non pregano,
recitano poesie, e le giovani comuniste condotte sul patibolo rispondono agli Ustacha cantando.
Ognuno a modo suo è un eroe della propria causa.
E’ la fine del 1944, lo scenario bellico è del tutto mutato. Mihajlovitch è fuori dalla partita, Londra e
Washington lo hanno abbandonato. Ora è Tito a dialogare con gli Alleati concentrandosi sulla
Jugoslavia e dimenticando le direttive di Stalin, se lo può permettere: la sua milizia partigiana ora è
un vero esercito composto da più di 400 mila uomini, con artiglieria e armi pesanti. Le formazioni
bosniache si sono sciolte, alcuni sono morti con la divisa delle SS, mentre gli altri sono troppo pochi
e disorganizzati per continuare la loro lotta del terrore. Per Pavelic la situazione peggiora, i sovietici
avanzano da Est e i Tedeschi non possono restare e presidiare i Balcani, devono far fronte ai Russi
che si avvicinano alla Germania. Nonostante questo la popolazione croata continua a sognare di
poter mantenere la sovranità nazionale e resta vicina al Poglavnik. La Serbia e la Jugoslavia sono in
mano ai partigiani di Tito che fa valicare i suoi confini solo ad un numero esiguo, simbolico, di
truppe sovietiche. Ante Pavelic capisce che non c’è più speranza di vincere, cerca di dimettersi, ma il
governo di Berlino non glielo permette. Bisogna resistere, viene ordinata la mobilitazione generale
per tutti i Croati.
Il 1945 si apre con le cattive notizie sulla situazione dell’Asse. Roosevelt e Churchill cedono alle
richieste di Stalin: i Balcani vengono consegnati al comunismo. A maggio Pavelic e i componenti del
governo fuggono in Austria. L’Ustacha si prepara all’ultima resistenza disperata nella speranza di un
intervento angloamericano. In Europa la guerra è finita, ma non in questo fazzoletto di terra, quando
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tutto finirà i civili croati saranno sterminati, devono scappare, i combattenti nazionalisti coprono la
loro fuga verso l’Austria. Le colonne di profughi sono colpite dall’artiglieria dei partigiani titini che
non si avvicinano, gli Ustacha li tengono lontani. I Croati arrivano al confine austriaco e si
consegnano agli Inglesi. Ma gli ordini sono netti: gli Alleati non accettano nessuna resa dei Croati,
che non possono passare il confine e raggiungere la zona sotto il controllo militare alleato,
l’alternativa è consegnarsi agli uomini di Tito: donne e uomini, vecchi e bambini, civili e soldati.
Arrendersi ai partigiani significherebbe gettarsi nelle braccia della morte. I titini concedono un’ora
di tempo agli Ustacha per deporre le armi, allo scadere del tempo concesso i partigiani apriranno il
fuoco, i gruppi armati croati si dispongono a difesa dei loro compatrioti: meglio cadere combattendo
che morire torturati. Allo scadere dell’ultimatum 300mila Croati sono colpiti da una pioggia di
proiettili e bombe, è una carneficina, è guerra balcanica. L’ecatombe sul confine austriaco dura per
lunghe ore, passerà alla storia come il “massacro di Bliburg”. Le violenze non si fermano lì: per due
giorni i soldati di Tito danno la caccia agli jugoslavi di origine tedesca di quelle zone, la pulizia
etnica va avanti per due giorni. Un brutale episodio fa comprendere la situazione: circa 300
prigionieri croati vengono sotterrati fino al collo dai partigiani, l’ordine è di passare su quel campo
di teste una falciatrice meccanica.
Ante Pavelich è sparito, secondo molti è morto e con lui il sogno di una Croazia libera. Ma il Pglavnik
è vivo e anche l’Ustacha, un milione di Croati erano riusciti a fuggire dall’inferno dei Balcani, non
tutti avevano combattuto nei ranghi dell’Ustacha, gente povera ma tenace, ma nutrita a pane e odio
per il comunismo. Pavelich era fuggito dalla Croazia grazie ai suoi rapporti con il clero cattolico, alla
sua fitta rete di amicizie e ai suoi seguaci dispersi in tutto il mondo. Con il saio ‘’padre Gomez’’
attraversa l’Austria e giunge in Italia, a Roma, dove è segretamente accolto in un istituto religioso.
Nel 1948 “Pablo Aranjos”, con un passaporto della Croce Rossa Internazionale, sbarca in Argentina.
Il Poglavnik riprende la sua attività in nome della Croazia indipendente e sovrana, l’Ustacha ritorna
un’organizzazione clandestina e terroristica. L’Ustacha riprende vita, nella Jugoslavia stessa,
nell’Europa Occidentale, nel Sud America e negli Stati Uniti. I rapporti dei servizi segreti di Tito sui
gruppi nazionalisti croati e sulle azioni di sabotaggio si moltiplicano. L’Ustacha fa paura al Governo
jugoslavo, Le richieste di estradizione rivolte all’Argentina sono vane. Tito decide di eliminare
fisicamente Pavelich. 10 aprile 1957, Buenos Aires, il Poglavnik scende da un autobus di linea
affiancato da una guardia del corpo, un uomo gli si avvicina, estrae una pistola e scarica il caricatore
sul capo dell’Ustacha, la fortuna assiste il croato: il sicario ha fallito, i primi quattro proiettili
mancano il bersaglio gli altri due feriscono lievemente Pavelich, che viene trasportato in un ospedale
in cui opera personale siriano e libanese. Ora è sotto i riflettori, e decide di ricevere i giornalisti, la
voce secondo cui si trovava in Argentina ora è una certezza. La stampa si chiede quali sono i
propositi futuri per Pavelich. Il croato risponde scomparendo silenziosamente dall’ospedale. Ante
Pavelich giunge nella penisola iberica e lì trova ospitalità in un convento francescano di Madrid,
dove il 28 dicembre 1959 muore a 70 anni.
Il Consiglio Nazionale Croato in esilio passa sotto il comando di Andreas Hefner, uno dei fedelissimi
del Poglavnik, mentre il musulmano bosniaco Branimir Jelitch, a suo tempo Console Generale di
Croazia a Berlino, crea un proprio Comitato Croato Europeo: manca una strategia unitaria e una
linea politica definita; ma tra i Croati resta radicata la necessità di far sapere al mondo che il sogno
nazionale non è mai morto, con o senza Pavelich. Le azioni dei nazionalisti croati continuano in tutta
Europa. Con l’arrivo degli anni ’70 la lotta si intensifica: una bomba distrugge una sala
cinematografica a Belgrado, un aereo di linea jugoslavo viene fatto precipitare sulla Germania
dell’Est, l’ambasciatore e il console jugoslavi in Svezia vengono freddati, e l’elenco sarebbe ancora
lungo tra incendi, sabotaggi, omicidi e attentati. La repressione del Governo di Belgrado diventa più
dura: licei e università croati sono spesso presi di mira, effettivamente sono vere e proprie fabbriche
di dissidenti nazionalisti, e gli studenti periodicamente vengono arrestati. Arriva il 1980 e la morte di
Tito, la Jugoslavia precipita nella crisi politica e nella bancarotta. I primi fermenti ribellistici di
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massa nascono in Kosovo nel 1981: i kosovari hanno fame e vogliono l’indipendenza da Belgrado. In
Croazia, in Slovenia e in Bosnia salgono al potere i partiti anticomunisti, ormai il sistema comunista
è crollato, la Lega dei Comunisti si è spezzettata. Passano gli anni, il Muro di Berlino crolla, l’Urss si
sbriciola. Nel 1991 la Croazia si dichiara indipendente, sulle bandiere nazionali riappare lo scudo a
scacchi rossi e bianchi. Ma la caduta del comunismo ha riacceso la miccia dell’odio etnico nei
Balcani, l’oppressione aveva incatenato per anni le passioni nazionaliste dei popoli balcanici, quelle
terre sono nuovamente bagnate dal sangue: la contesa per la Kranjna, il conflitto in Bosnia, la guerra
nel Kosovo. Non ci sono le milizie croate degli Ustacha, i musulmani non combattono sotto la
bandiera delle SS, le truppe di Belgrado non fanno capo a Tito, è passato più di mezzo secolo dalle
lotte nazionaliste croate, ma nel cuore di quella terra martoriata scorre ancora il sangue degli
Ustacha: terroristi assetati di sangue o combattenti che sognavano la libertà? Al lettore l’ardua
sentenza.
Valerio Ferri
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