Intervento di Marco Vergottini

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Intervento di Marco Vergottini
TRE TESTI SUL RAPPORTO TRA ’68 E VICENDA ECCLESIALE
MARCO VERGOTTINI
Premessa
È certamente un compito arduo, forse impraticabile, pensare di poter rispondere in poche battute all’interrogativo: Che cosa resta nella cultura e nella società di oggi del ’68?
Subentrano difficoltà di diverso ordine.
Anzitutto, l’inadeguatezza dell’interprete, se raffrontata agli altri due interlocutori: il
prof. Franco Ferrarotti, titolare della prima cattedra di sociologia istituita stabilmente in
Italia, per non parlare delle sue ricerche, dei rapporti con Nicola Abbagnano e Adriano
Olivetti... ; l’amico Angelo Bertani, la cui militanza ecclesiale affonda nei gloriosi anni conciliari, accompagnata dalla ben nota abilità giornalistica.
In secondo luogo, trovo difficile abbozzare in pochi minuti, anche solo a grandi linee,
una risposta non liquidatoria sull’interrogativo in questione.
Avverto poi un terzo problema: la difficoltà di un bilancio a quarant’anni di distanza
dagli eventi sorge dalla non-univocità del primo termine del confronto. Per valutare l’eredità del ’68, i suoi effetti, la sua Wirkungsgeschichte, occorrerebbe un’intesa, almeno sommaria, sulla natura di quell'evento, sulle sue matrici, i suoi confini e la sua effettiva portata. E, invece, la nozione di ’68 – fra detto e non detto, fra fatto e non fatto – ha di che risultare assai problematica. Quarant’anni dopo, il conflitto delle interpretazioni è tuttora vivo
e paralizza non poco la riflessione.
Se poi il raffronto fra il ’68 e l’oggi viene ulteriormente contestualizzato nel quadro dei
riflessi sulla figura della coscienza credente e sulle dinamiche ecclesiali in atto la questione
incrocia una serie di questioni cruciali, che non appena siano richiamate confermano una
difficoltà esponenziale a governare la aggrovigliata matassa. Basti questo elenco di questioni a mostrare il carattere temerario della sfida:
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Il complesso nesso fra l’evento del ’68 e la novità del concilio Vaticano II.
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La fine del monopolio dell’Azione Cattolica e l’esplosione dei movimenti.
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Il mutamento di paradigma nel pensare il rapporto Chiesa-mondo.
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Il problema di una periodizzazione delle fasi del ’68: basti pensare alla differenza
di accenti con cui si sono celebrati gli anniversari a 20, 30 e 40 anni di distanza.
Probabilmente due fattori decisivi meriterebbero di essere messi a fuoco:
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il tornante innescato dalla contestazione giovanile e i suoi riflessi sulla coscienza
credente e sulla forme istituzionali del gruppo-Chiesa;
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l’invito a considerare la questione del paradigma o dello stile della testimonianza
cristiana.
La scelta qui adottata è di affidarsi a tre testi. Testi perché si tratta di scritti dell’epoca.
Testi perché si tratta di protagonisti del tempo, pure recitando ruoli assolutamente differenti. Testi perché si trattano di test, nel senso di prove di verifica della coscienza credente
sollecitata dalle sfide e dalle contraddizioni del ’68.
Più precisamente così si potrebbero catalogare:
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Un tentativo di diagnosi del fenomeno giovanile da parte di un gesuita, teologo, filosofo, scienziato del sociale.
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Una testimonianza diaristica di un vissuto border-line, l’esperienza di un prete operaio.
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Un esercizio critico teso a valutare e pronosticare gli esiti della contestazione giovanile da parte di chi è chiamato a reggere i destini della Chiesa sulla cattedra di Pietro.
1. Comprendere il fenomeno. La “presa della parola” secondo M. de Certeau
Secondo il gesuita M. de Certau nel fatidico maggio ’68 intervenne una rottura epocale, un
evento inaudito che ha fatto traballare, per un “lungo istante”, le possenti mura della società francese e le coscienze dei singoli.. «Qualcosa ci è successo. Dentro di noi, qualcosa ha cominciato a
muoversi. Voci mai sentite ci hanno trasformato – originate in un luogo ignoto, riempiono improvvisamente le strade e le fabbriche, circolano tra noi, diventano nostre senza essere più il rumore
soffocato delle nostre solitudini. […] Quanto si è prodotto di inaudito è questo: ci siamo messi a
parlare. Sembrava fosse la prima volta».
Il gesuita francese, riflettendo a caldo sugli avvenimenti in atto, parlò fondamentalmente di
una rivoluzione simbolica.
«Lo scorso maggio, la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia».
O meglio, si trattò solo di una rivoluzione simbolica. Dove con “solo” si indica quello che fu il
suo limite storico e, insieme, il suo lascito fondamentale. Perché la contestazione si configurò come
“presa della parola” esclusivamente sotto la forma negativa di una denuncia di tutte le forme di
potere e di eredità del passato, rivelandosi incapace di costruire un ordine differente. Poiché la domanda di una nuova progettazione politica dell'umanesimo civile risultò inevasa. Per dirla con Sequeri «Evacuazione che, in certo modo, mantiene la sua inerzia».
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Nell’ottobre ’68 pubblica un secondo saggio su «Ètudes» (dopo quello ricordato di giugno)
dove si impegna in una ricomprensione del fenomeno tesa a scandagliare nei meccanismi sistemici
della contestazione studentesca.
Nella Febbre dell’oro, una tempesta di neve trasporta fin sull’orlo di un precipizio la capanna
dove Charlot trascorre la notte. Al suo risveglio, egli attraversa la stanza per uscire: il suo gesto fa
pericolosamente inclinare lo chalet, poiché la porta da sul vuoto; avvicinarvisi equivarrebbe a perdersi. Tuttavia, con il suo indietreggiare, che ristabilisce l’equilibrio per un istante compromesso, egli
si ritrova in una situazione disperata. Di volta in volta il suo piede avanza e si ritira, tastando il pavimento che poggia su un asse invisibile… A tale immagine della vita che non si può né abitare né abbandonare, è possibile paragonare la situazione creatasi nel maggio scorso. Parrebbe che noi siamo
rinchiusi in un linguaggio che ormai si percepisce come inaccettabile e pertanto senza uscita: non vi
sarebbe sbocco che verso il nichilismo, e all’opposto verso il conformismo. Si produce un déplacement. A nostra insaputa, forse, una linea separa tra il suolo ed il vuoto il nostro “pavimento” culturale; anche se intatto, è già vacillato completamente.
Due movimenti opposti, in maggio e giugno, hanno tradito questa divisione del suolo. Non
sono più la sinistra e la destra, poiché il loro gioco obbedisce alle stesse regole, come hanno mostrato
gli eventi. Queste due reazioni richiamano piuttosto il movimento che riportava Charlot verso il fondo del suo chalet o che lo riconduceva sul lato del vuoto. Ma ci sono oggi molte più persone che obbediscono ad un riflesso di sicurezza: il loro numero assicura provvisoriamente la stabilità della capanna, permettendosi pure il lusso di mettere alla porta, come “avventurieri”, alcuni che non lo desideravano affatto. Altri preferiscono l’esilio, mentale o effettivo, ad un ordine chiuso. […]
Linguaggio e potere
Per quanto ricavata dall’affascinante album di immagini dedicato ai Tempi moderni, la parabola
non è in grado di dare sufficientemente conto dello slittamento del quale noi siamo i testimoni. Una
caratteristica lo rende un avvenimento senza” modello” anteriore”; essa è indicata dal luogo (culturale) e dalla forma (simbolico) dell’”accidente “.
Da una parte, la regione interessata è anzitutto quella della cultura e del sapere, all’università.
Di colpo, un linguaggio è preso di mira, di cui si ricusa la rappresentatività, e vi si contrappone la
“presa della parola”, espressione diretta di quello che un insegnamento o una cultura censurava.
D’altra parte, a questo luogo della contestazione corrispondeva la sua forma. Le manifestazioni traducevano in questo stesso linguaggio, che non poteva che tradire un tipo di comunicazione nuova e
differente, ma ancora privo di una politica o di una teoria che gli fossero proporzionate; così essere
rimasero “simboliche”, vale a dire una “cosa altra” che non riuscirono né ad enunciare, né a realizzare.
Il senso di quello che è accaduto, ci si deve sforzare di afferrarlo nell’evento stesso. Noi non
dobbiamo cedere al lirismo proprio di certi apologeti della contestazione, né al risentimento che si
accompagna alla volontà di porre fine al disordine: l’uno e l’altro costituiscono delle leggende; si accontentano di collocare nell’un campo o nell’altro “geni malvagi”, mitologia indefinitamente disponibile e reversibile; ci riportano allora al problema di rappresentazioni estranee alla realtà, poiché,
nel caso presente; esse mobilitano parole e immagini per dire un’altra cosa (trasgressione dell’ordine?
regressione conservatrice? Poco importa qui). Ogni leggenda vuole fare dimenticare la storia; esse
nega che qualche cosa sia accaduto. Noi dobbiamo applicarci, al contrario, a riconoscere questa storia come avvenuta e come nostra.
Si deve dunque ripartire dal fenomeno. Che esso metta in questione tutto il nostro sistema di
rappresentazioni, io lo credo. A mio avviso, la “presa della parola “ ed il “ritorno all’ordine” che l’ha
seguita lo indicano egualmente. L’accusa, per la maniera stessa in cui si è divisa, e la difesa delle istituzioni, per la misura in cui ha funzionato, presentano in effetti uno stesso sintomo: la dissociazione
tra il potere e la lingua (dissociazione che duplica, sotto un altro verso, ciò che separa la praxis dalla
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teoria). Da un lato, nonostante il progetto che ha manifestato e voluto mantenere, il movimento di
maggio si è disarticolato in due elementi: la violenza e il canto – il pavé e il poema –, come si è ripartito del resto tra l’azione politica e la revisione delle espressioni istituzionali. Dall’altro lato, la difesa
dell’ordine ha svelato, dietro alle istituzioni o alle dottrine che ne erano lo strumento, una forza di
repressione apparentemente senza rapporto con esse, e si è visto il linguaggio più democratico o la
scienza più liberale servire tutt’altra cosa (una volontà di potenza, un istinto di preservazione ecc.)
che la neutralità o il relativismo.
Questa pericolosa scissione permette senza dubbio di diagnosticare la natura della malattia che
si è dapprima fissata nei luoghi del sapere e che ben presto attenta tutte le procedure della rappresentazione. Definisce, in anticipo, ciò che rende possibile il fascismo sotto uno dei suoi aspetti: un
potere che non è più rappresentativo. Che essa intacchi l’equilibrio stesso del sistema, lo mostra un
déplacement generale, che ha i suoi sintomi politici così come teorici. Un rapido esame di questi settori vorrebbe solamente prevenire nei confronti di una terapia chirurgica che si accontentasse di procedere ad un’ablazione, mentre il “male” è globale.
Una scissione tra il «dire» e il fare»
Qualunque sia la nostra decisione, la crisi ha già raggiunto l’intero paese. Le reazioni che ha suscitato lo testimoniano. Essa mette in questione la natura stessa, ossia la possibilità, delle rappresentazioni che assicurano la coerenza degli scambi sociali.
Una questione così pericolosa ha avuto il suo riverbero quasi immediato in questo luogo che
una democrazia costituisce come la chiave di volta ed il segnale del rapporto tra la nazione e le sue
rappresentazioni: il governo. Ora esso è vacillato. Ha avuto un cedimento, per delle ore, per dei giorni forse. È “incomprensibile” che, sul momento, nessuno abbia pensato di prendere il potere. Senza
dubbio perché, in quell’istante di silenzio che ha sospinto i deputati sul lato della retorica e i “rappresentati” sul lato della violenza o del terrore, nessuno poteva sapere perché lo Stato si disfaceva.
Ma il non comprendere il “perché” e il non più comprendersi tra le forze in gioco, erano gli indizi
della stesso difetto: un linguaggio si disaggregava nel momento in cui si scioglieva il legame di potere e rappresentazione. La tendenza che finalmente finalmente ha messo in questione questo legame e
che opponeva a tutti i delegati il discorso della base, finì per inciampare contro lo Stato; il potere che
si accredita della sua rappresentatività sembrò per un momento travolto, astutamente privato di
quello che lo giustificava, da una contestazione che veniva dappertutto e da nessuna parte, e che svelava una soluzione di continuità tra rappresentanti e rappresentazione.
Prendendo di mira l’autorità in nome di quello che costituisce la sua legittimità, questa messa in
causa fu raddoppiata dalla contestazione portata alla generazione dei genitori dalla rivolta dei loro
figli. La minaccia, qui e là, venne dall’interno.
Viziati come i sostituti della felicità da cui gli adulti sono “distolti” dal lavoro, ma anche destinati a provare per la loro attesa iniziatica il valore della società che si prepara a loro, i “figli” di una
cultura, i privilegiati di un sistema erano quegli stessi che si rivoltavano contro il ruolo (assegnato a
loro) di essere, per le loro vacanze indefinitamente prolungate, la sicurezza dei possidenti, l’alibi di
un presente altrimenti privo di senso e i garanti di uno sviluppo per divenire conformi all’attuale.
Che gli studenti, “noi” studenti, destinati ad essere (ma solamente domani) una élite ben integrata si
sollevino, ecco quello che non era tollerabile; ecco ciò che prendeva la società alle spalle – dal di dentro. Perciò si aveva bisogno di dare a questa minaccia un volto meno pericoloso e più comprensibile.
Essa doveva venire del fuori, ovviamente. Una propaganda si è accanita nel sostenerlo, con la complicità di un pubblico inquieto. Ha denunciato degli stranieri, la malavita, i “katanga” della Sorbona
o i”trimards” di Lione, ecc.; doveva gettare la colpa su un nemico che non fosse “noi”; essa obbediva
al vecchio istinto che ha sempre creato delle streghe per mettersi alla loro caccia. Tutto si spiegava a
causa dei gruppuscoli di cui noi “giovani” eravamo le vittime. O certo: tutto veniva dalla Cina… Si
risvegliavano gli stessi riflessi che in Francia sempre giocano in caso di minaccia: l’antisemitismo, lo
chauvinismo anti-tedesco, ecc.
C’erano certamente, in questo senso dei fatti incontestabili. Impariamo meglio a riconoscerli.
Ma come si è potuto passare per delle “spiegazioni”? Temo, o meglio, credo che il paese avesse biso-
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gno di queste streghe per eliminare, con loro, una minaccia ugualmente grave e che gli veniva della
sua gioventù. Agli eredi che negavano il valore dell’eredità promessa e che ricusavano a un sapere o
a un linguaggio sociale il diritto di “sistemarli” facendo astrazione della loro decisione e della loro
esistenza, si sostituivano degli avversari e delle cause facili da combattere. Fatti accertati furono amplificati e assegnati di un nuovo ruolo. L’informazione aveva di conseguenza una funzione latente,
che non era più il servizio della verità. La si usò per fini inconfessati. Aveva un senso differente ed
nascosto, ma determinante, e assai lontanamente collegata alla sua funzione esplicita. Un sapere era
al servizio di qualcosa d’altro di quello che pretendeva di fare. Funzionava diversamente da quanto
diceva. Di conseguenza, ammetteva ciò per cui era accusato. Questo caso particolare tendeva già
provare che la contestazione aveva colpito nel segno (anche se in termini troppo generali), quando
rimproverava alle scienze o alle rappresentazioni di essere solamente “gli strumenti di repressione”
di una società. Per il modo in cui i “rappresentanti” del paese utilizzavano le informazioni per difendersi contro la critica, davano loro ragione. [...]
La legge del disordine
Non c’era là niente che potesse rallegrare, specialmente se è necessario aggiungere che ai loro
diversi livelli, tutti gli apparati politici, sindacali o accademici si misero ugualmente a funzionare per
difendere la loro rappresentatività con la forza, nel momento in cui “ la base” mancava loro; e che al
contrario, allo stesso tempo, il potere di far valere le sue rappresentazioni mancava alla stessa base,
del resto incerta dei suoi fini tanto quanto perplessa sui suoi responsabili, infine ricondotta in gran
parte, ma per lassismo o interesse, ai suoi quadri abituali che almeno avevano il vantaggio di esistere.
Di volta in volta, la contestazione e l’ordine stabilito hanno voluto fare la legge. In realtà, è accaduto loro di dovere subire una legge contraria: “liberata”, la parola si è fatta riprendere; “repressiva”,
l’istituzione ha ammesso il disordine che doveva censurare. Quale è dunque questa legge ovunque
ricorrente e che spiazza di nascosto le volontà esplicite? Quella di un “disordine” che attenta all’organizzazione stessa di una società.
Qualcosa s’è dunque rotto, condannando alla contraddizione le due metà simboliche del linguaggio ‒ portando ciascuna come suo segreto (e sua negazione) l’assenza dell’altro. Entro un’organizzazione sociale che si serve delle rappresentazioni per nascondere dietro a loro i riflessi di difesa
(necessario) di un potere che è anche una volontà di sopravvivenza, d’altra parte, l’impotenza che
confessano le “manifestazioni” fatte in nome di una richiesta di senso (ugualmente necessaria alla comunicazione); entro al potere di acquisto legato ai poteri pubblici che lo garantiscono e la richiesta di
una presa della parola tenuta per la condizione di veri cambi sociali, esiste davvero antinomia?
In realtà, l’analisi che ha ci portato a constatare questa “legge” richiama a sua volta la gravità
della domanda e la coerenza dei suoi indizi opposti. Una questione così globale, di cui non ho richiamato che alcuni segni, e in un modo forse parziale (ma dove si parla con imparzialità?), non potrebbe
essere eliminato senza che perisca una società che, di fatto, è stata “agitata” e messa in questione. Il
privilegio dato all’antico “ordine” creerebbe un’ideologia nazionale senza rapporto con quello che è
passato al di sotto. D’altra parte, non v’è ordine che dei libri e dei musei. Non è un modello per una
cultura, anche se un insegnamento ha potuto lasciarlo supporre. La “soluzione” soprattutto non è al
fuori dal sistema, in margine dell’ordine nella sua negazione (che paralizza sempre le strutture o le
divisioni invertendole). Essa è nell’unione, ma solamente se questa unione è fondata sulla strutturazione nuova che appella l’avvenimento.
Un’organizzazione diversa è necessaria. Essa deve perciò riconoscere negli “avvenimenti” il
problema globale che hanno posto e che tradisce dappertutto un déplacement. Essa permetterà di ricusare l’antinomia che metterebbe la verità nell’una o nell’altra delle posizioni per cui Charlot ci ha
offerto l’immagine: localizzare” l’ordine” qui o là (o il “ disordine”), è in anticipo rendere legittima la
tesi inversa, che non sarà meno superficiale; è negare un déplacement generale già leggibile nelle istituzioni che vogliono nasconderlo, o nelle “manifestazioni” che non possono esprimerlo; è optare per
un’ideologia o una leggenda, mentre noi abbiamo bisogno di un linguaggio. Nella pratica così come
nella teoria, il differente non è mai il contrario. Noi rifiutiamo, in teoria, di dover scegliere tra storia
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e la struttura; in pratica, tra il “movimento” di maggio e l’”ordine” di giugno. In realtà, si tratta di un
ordine differente.
[Michel de Certau, Le pouvoir de parler, «Études» 152 (2008) pp. 628-635]
2. Vivere dal di dentro. L’esperienza di un prete operaio (don Luisito Bianchi)
Negli anni precedenti assistente delle Acli a Cremona e a Roma, Don Luisito Bianchi col febbraio 1968 scelse di farsi assumere come manovale alla Montedison di Alessandria. Alla base di
tale scelta stava una “esigenza di onestà”, per condividere la condizione operaia dal dentro della
fabbrica e non limitarsi a una condivisione astratta e “di maniera”. Ecco un brano tratto da: LUISITO
BIANCHI, I miei amici. Diari (1968-1970), Sironi, Milano 2008, pp. 226-228.
23 dicembre 1968
Il Natale è alle porte. Non sento niente: né aria, né desiderio, né attesa. Ci sono solo i negozi
e le folli spese della tredicesima che lo richiamano. Il mio pensiero è, spesso, a casa. Situazione disperata. Non so che fare.
Giovedì sera, 19, siamo stati dal vescovo. Che tristezza! Siamo considerati delle cavie per un esperimento ormai sorpassato, come se gli scienziati spaziali dovessero, per inviare gli astronauti sulla
Luna, fermarsi a ripetere gli esperimenti sulla rana! Ma voglio andare per ordine, essendo questa
visita molto istruttiva ed edificante, come, del resto, quelle precedenti.
Domanda di rito: come va? Risposta di rito: non c’è male. E poi subito in medias res, quelle
cose, cioè, che interessano o non interessano (chi ci capisce qualcosa?) il «pastore di una diocesi».
Vuol sapere la situazione sindacale. Ma sa già tutto: dai fatti alla strategia da adottare per stimolare i «nostri», per tirare altri nelle file della CISL. Lo dirà al segretario provinciale. Un lungo discorso: a Valenza la situazione è questa; ha parlato a Felizzano ai preti delle due diocesi, questa e di
Asti (anche due mesi fa ce l’ha detto); se c’è indifferenza è perché il clero non si è mai interessato all’azione sociale (anche questo ce l’ha detto, fin dal primo incontro). Ma che gliene importa
di trattare con noi la situazione sindacale? Non c’è chi, per mestiere, s’interessa? Ammetto come
notizia; e se la prenda dove vuole. Ma per quei pochi minuti in cui si incontra un vescovo è
assurdo parlare di queste cose. Mai un interesse sul fatto religioso, su cosa pensano gli operai
di Cristo e della Chiesa... O sono argomenti che non interessano perché, anche su questo punto, si sa già tutto, o non si vogliono sollevare perché fanno paura. Ma quest’ultima è un’interpretazione forse troppo benigna. L’impressione è che non esistono problemi di questo genere. In Val
Trompia (sarebbe stata una grossa sorpresa che non fosse saltata fuori) c’era più vita sindacale perché il clero era sempre stato molto attento alle opere sociali. Mi ricordo che (e giù le sue azioni personali in cui fu l’eroe contro i vari delegati dell’Edison che costruiva dighe dalle parti dell’Adamello) ... mi ricordo che io..., e io feci questo..., e io feci quest’altro… e io dico la verità e non ho
paura di nessuno perché non sono il lacché di nessuno...
Poi la svolta sulla nostra vita «spirituale». E voi, come va la vostra vita spirituale? Dite messa? Sì.
Dite il breviario? No (e gli spieghiamo i motivi, ovvi, che sempre gli abbiamo prospettato). Adesso
saltano fuori anche la visita al Santissimo e il rosario. Dite il rosario? No (e scrive sul taccuino: rosario, due punti, no). Fate la visita al Santissimo? Perché padre Loew che è stato a Ivrea ai primi di
novembre per un convegno organizzato dai seminaristi di Torino ha fatto queste due osservazioni
al cardinale Pellegrino che ne è rimasto vivamente impressionato: che ci sono deviazioni dottrinali e che si prega poco. Dice che, almeno, bisogna fare tre ore di preghiera se si vuole stare a
galla. lo dicevo due ma lui dice addirittura tre e più. Reagisco. Gli dico che vorrei avere presente padre Loew per contestargli qualche affermazione. Che non bisogna pregare tre ore ma ventiquattro ore al giorno. E che noi, per lo meno, preghiamo otto ore al giorno, le otto ore di lavoro.
Che non si può stare in fabbrica se non si cerca, in qualche modo, l’unione con Dio, abituati come
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siamo a un clericalismo di privilegi... Perché o si passa completamente alla rivoluzione o...
Non mi fa terminare. La parola rivoluzione gli dà la possibilità di uscire da un argomento che
gli dà fastidio. Parlare della preghiera in quel modo! E, allora, dove vanno a finire le due ore di
preghiera? Anzi tre, come dice padre Loew? E allora cita le sue ultime letture: un servizio apparso su
«l’Unità» riguardante la società scandinava (ma di quanti mesi fa? L’abbiamo già sentito questa
primavera), una società senz’anima, e Uscita di sicurezza di Silone in cui i valori trascendenti sono
affermati... e non c’è vera rivoluzione senza Cristo, ontologicamente! Che vuol dire? Mah! Se mi avesse lasciato finire gli avrei esposto il secondo corno del problema: o rivoluzione per l’uomo, senza interessarsi più di Dio, o essere con Dio (pregare, quindi) se un prete vuol resistere in fabbrica e andare avanti, nel buio, senza sapere a che cosa può approdare. Ma meglio così. Avrebbe capito ancora meno. Aggiungo solo che se, un anno fa, credevo al 50 per cento alle opere sociali,
ora ci credo al 20 per cento (non dico allo zero per non mettermi completamente in contrasto con
lui, dopo le sue tirate per l’interesse del clero nelle opere sociali che conservano il cristianesimo).
Strano; ha un sussulto sulla poltrona e dice: perfettamente d’accordo. Come perfettamente d’accordo? Ma se cinque minuti fa... Va’ a sondare i misteri di un vescovo! Comunque dobbiamo fare
presto. Gli dico che debbo lavorare alla notte e che dobbiamo affrettarci per la cena. Sono le
20. Dalle 18,30 alle 20, senza poter dire nulla. Si vede che si preoccupa per noi. Ci dice di non
restare soli in questi giorni di Natale; di andare in seminario. Non si può non apprezzare questa
sollecitudine. Ma ci penserà la Montedison a non farmi stare solo. Lavorerò anche il giorno di Natale. E di Santo Stefano. E il giorno successivo. E gli altri giorni. Dimenticavo: ha apprezzato molto il
nostro rifiuto a farci intervistare dalla TV. Ne è stato contento. Apprezza anche le nostre intenzioni
che sono pure e il nostro comportamento. Dice che ha fatto dei sondaggi. Ce l’ha già detto due
mesi fa. Il sondaggio consiste in una cena in casa del direttore della Montedison. Mi vien da ridere.
Il direttore ha detto quello che gli avevo espresso io nell’incontro fortuito di agosto…
3. Cercare il dialogo. Il discernimento spirituale di Paolo VI
Nell’udienza di mercoledì 25 settembre 1968, Paolo VI interviene sulle vicende della contestazione giovanile, che progressivamente prendono piede anche in ambito cattolico.
Della diagnosi del Pontefice colpiscono la lucidità con cui vengono prefigurate le contraddizioni
e la sterilità del movimento di ribellione che finisce per assumere inconsapevolmente un tratto di
marcato conformismo nella pretesa di rovesciare tutto.
Certamente papa Montini vive con grande sofferenza interiore i duri attacchi rivolti in quegli
anni alla Chiesa e alla sua persona, nondimeno dal suo magistero traspare la consapevolezza che –
in una congiuntura storica, quale quella presente, contraddistinta da un’accelerata transizione dei
modelli culturali di riferimento, da un profondo mutamento del costume, da una crisi dell’autorità
ad ogni livello – è inevitabile imbattersi anche sul versante ecclesiale in fatiche, resistenze e contraddizioni, le quali però non devono distogliere dallo sforzo di riconoscere e apprezzare le luci
promettenti e le istanze di bene che senza dubbio contrassegnano la stagione presente nella scia
del Vaticano II.
Merita al riguardo di essere sottolineata la disarmante forza d’animo del pontefice che a più riprese invita i credenti a non lasciarsi prendere dallo sconforto, ma a confidare con sano ottimismo
nei germi di vitalità e di carità istillati nella comunità cristiana dallo spirito conciliare1. Quasi a vo1
« La Chiesa oggi «ha bisogno di ritrovare fiducia in se stessa… ha bisogno di mettere in atto il Concilio… ha bisogno di ritrovarsi interiormente unita, concorde, disciplinata e felice... Ma le difficoltà sono molte, tutti lo vedono. Il Concilio ha impresso nella Chiesa impulsi
molteplici e vivaci, ma non tutti sono stati rivolti verso la buona direzione, cioè verso l’edificazione della Chiesa di Dio; così che non pochi sintomi sembrano piuttosto preludere a gravi malanni per la Chiesa stessa… Occorrerà del tempo per estrarre ciò che vi può essere
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ler rinforzare il significato e insieme apprezzare il merito della sua raccomandazione ripetutamente rivolta ai pastori e ai fedeli di operare un discernimento attento e critico del tempo presente, egli
forgia la categoria di “psicologia positiva”, della quale si serve per propiziare uno sguardo appassionato e fiducioso al processo di risveglio in atto nella coscienza cattolica; un processo che, alla
scuola del Concilio, percorre, vivifica e penetra nell’intimo della coscienza e dell’agire ecclesiale.
Il Concilio è una grande lezione… in tutto quello che il Concilio tratta ed espone, esso considera il lato positivo, il bene; lo vede e lo cerca… La didattica del Vaticano II tende invece a mettere
in luce ciò che conviene lodare, apprezzare, fare e sperare… Lo «Spirito» buono è il cuore del
sano ottimismo, quale ci sembra trasparire dallo stile morale di tutto il Concilio2.
Fautore di un rinnovamento pastorale, improntato a saggezza, equilibrio e gradualità, Paolo VI
si ritrova invece fra due fuochi incrociati, dovendo fare i conti, da una parte, con i mugugni e il biasimo dell’ala tradizionalista e, dall’altra, con le intemperanze e il dissenso del fronte progressista.
Eppure, nello sforzo di sostenere la “via media” fra gli opposti estremismi, il papa sceglie di non
rinunciare a farsi guidare dall’intuizione che sta a fondamento dell’Ecclesiam suam (1966), la sua
enciclica programmatica, ove riconosce nell’attitudine al dialogo un criterio caratterizzante la sua
stessa modalità di interpretare la missione apostolica3.
Nell’esercizio di una “dialettica di autentica sapienza”, egli intende perseverare in un atteggiamento intellettuale e spirituale che lasci trasparire una sincera attenzione alla persona dell’interlocutore, sforzandosi di comprendere le ragioni delle sue posizioni, quand’anche risultassero discutibili sul piano della carità e della prudenza, e puntando a liberare quelle particulae veri che possono nascondersi anche in opinioni obiettivamente riprovabili, purché animate da un’interiore buona
coscienza4.
Così, ad esempio, egli si dispone paternamente a considerare le luci e le ombre che traspaiono
dalle manifestazioni di contestazione ecclesiale, che trovano alimento nel clima infuocato del cosiddetto ”autunno caldo” del ‘68:
Noi vogliamo vedere con rispetto e con simpatia questa fioritura di energie spirituali. Scaturiscono da un atto di riflessione, da una presa di coscienza, da un gesto di liberazione verso consuetudini stanche e diventate irrazionali, da un proposito di serietà e d’impegno personale, da
una ricerca dell’essenziale, da un approfondimento interiore delle espressioni religiose, da un
tentativo fiducioso di dare alla vita spirituale un nuovo linguaggio suo proprio e alla teologia
di buono anche in queste inquiete o aberranti espressioni della vita cattolica e per riassorbirle nell’armonia sua propria». (17 settembre
1969)
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Discorso 4 febbraio 1970.
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Così Paolo VI appunta al n. 86 di Ecclesiam suam: «Nel dialogo si scopre come diverse sono le vie che conducono alla luce della fede, e
come sia possibile farle convergere allo stesso fine. Anche se divergenti, possono diventare complementari, spingendo il nostro ragiona mento fuori dei sentieri comuni e obbligandolo ad approfondire le sue ricerche, a rinnovare le sue espressioni. La dialettica di questo
esercizio di pensiero e di pazienza ci farà scoprire elementi di verità anche nelle opinioni altrui, ci obbligherà ad esprimere con grande
lealtà il nostro insegnamento e ci darà merito per la fatica d'averlo esposto all'altrui obiezione, all'altrui lenta assimilazione». Per una lucida ricostruzione degli antefatti, dell’intentio autoris e delle prospettive che caratterizzano l’enciclica, si veda il saggio di G.. COLOMBO,
Genesi, storia e significato dell’Enciclica «Ecclesiam Suam», in «Ecclesiam Suam». Première Lettre Encyclique de Paul VI. Colloque International
(Rome 24-26 octobre 1980), (= Pubblicazioni dell’Istituto Paolo VI, 2), Istituto Paolo VI - Studium, Brescia-Roma 1982, 131-160.
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A questo riguardo, Gloder mette opportunamente in risalto «l’atteggiamento sempre aperto di papa Montini, capace di leggere i vari
avvenimenti, senza mai tagliare i ponti, e profondamente attento a cogliere quei germi di speranza che, anche nelle situazioni più diffi cili, possono offrire punti di partenza per un cambiamento» (G. GLODER, Carattere ecclesiale e scientifico della teologia di Paolo VI, cit., pag.
170)
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qualche nuova espressione originale, da qualche sacrificio pratico e coraggioso che dia testimonianza di insolita autenticità cristiana: tutto questo merita attenzione e spesso anche ammirazione. Sono germogli di primavera, che spuntano freschi e vigorosi su vecchi tronchi, dove non si
pensava potessero aversi segni di vita nuova. Sono energie preziose, e tanto più degne di affettuoso riguardo quanto più spesso è ingenua e giovanile la loro sorgente. Chi ha senso della psicologia della rinascita ideale d’una generazione, chi ha intuito per le correnti di opinione che domani si affermeranno, chi soprattutto ha cuore pastorale per le vicende del mondo umano non può
disprezzare, non può trascurare simili pronunciamenti di spontaneità spirituale, che sovente da
individuali che erano prendono forma collettiva… Ma questa vegetazione spirituale cresce di solito fuori dai solchi normali del campo apostolico (cf. 1 Cor. 3, 9). È d’istinto un fenomeno con
tendenza «anti-istituzionale»… Sono ruscelli che non fanno fiume. Sono spesso forze magnifiche,
che, senza volerlo, poco costruiscono e talora disturbano, e che, dopo momenti di grande fervore,
di solito si affievoliscono e si disperdono5.
Il pontefice non nasconde certo insofferenza e disagio nel dover constatare come gli attacchi più
ingenerosi alla sua linea pastorale provengano dalle indocilità e dall’infedeltà di taluni ecclesiastici,
così come le più cocenti delusioni sorgano talora proprio negli ambienti da lui più assistiti e prediletti; nondimeno, tiene a precisare che il rammarico non dovrà mai trasformarsi in sfiducia, così
come la preoccupazione per salvaguardare una corretta applicazione della riforma conciliare non
potrà tradursi in pessimismo o nel ricorso all’esercizio di una coercizione esterna. Si tratta invece di
confidare nella possibilità di recuperare ogni condotta intemperante, così pure di favorire quel lungo processo di responsabile decantazione dei problemi, che dovrà accompagnare instancabilmente
l’effervescente e travagliata stagione post-conciliare.
Mercoledì, 25 settembre 1968
Diletti Figli e Figlie!
Noi sappiamo che sono presenti a questa Udienza molti giovani: sono gruppi significativi, per il
loro numero, per la loro provenienza, per le istituzioni e per le attività ch’essi promuovono, per lo scopo che qua li conduce, quello cioè di professare la loro fede sincera in Gesù Cristo, nostro Signore e di
confermare la loro adesione filiale alla santa Chiesa. Noi saluteremo oggi questi giovani in modo particolare, sicuri che quanto a loro si riferisce a tutti può, in misura analoga, essere riferito. I giovani
sono rappresentativi; tutti vorremmo essere giovani; essi sono la vita nella sua freschezza, nella sua
pienezza; essi sono, rispetto al passato, la modernità, l’attualità; rispetto all’avvenire gli scopritori, gli
innovatori; sono la speranza. Così è sempre stato; ma oggi la gioventù riveste caratteri ancora più importanti nel contesto sociale, perché sono padroni, cioè sono subito messi in possesso dei beni, di cui
la vita moderna dispone, gli strumenti della tecnica, la cultura, il benessere, il giudizio sopra ogni cosa
e ogni valore; il vincolo della obbedienza, della norma comune, della dipendenza, nella famiglia, nella
società, nella tradizione è allentato fino a diventare quasi inesistente; sono liberi e arbitri di se stessi e
tendono ad esserlo anche degli altri; la moda della «contestazione» li seduce, la smania del cambiamento supplisce spesso in loro la consapevolezza dei fini da raggiungere; essi non temono alle volte
d’arrivare ad esplosioni di follia; vi è fra loro chi ama la violenza, come segno di virilità e di abilità,
come uno sport del coraggio, o come un’avventura generosa di un film-western. Sono giovani! Noi
non intendiamo ora parlare delle recenti sommosse estremiste, i cui eccessi non possono non incontrare comune deplorazione. Limitiamoci adesso a dare uno sguardo alla consueta opposizione giovanile.
CHE COSA È LA CHIESA E QUALE IL SUO INSEGNAMENTO
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11 settembre 1968.
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E allora per Noi sorge qui una grossa questione: quale rapporto può esistere fra questi giovani e la
Chiesa? La Chiesa è un’istituzione tradizionale: come può essere capita e accettata da una certa gioventù che istintivamente rifugge dalla storia passata, dalla tradizione? Tutto ciò ch’è di ieri è
«matusa» per essa; e questa facile qualifica è una condanna senza appello presso i giovani d’oggi. La
Chiesa è una società estremamente ordinata, è gerarchica, è organizzata, è moralista; tutto vi è previsto, classificato, determinato; come può essere compresa ed amata da chi ama la libertà, talora fino
alla licenza, fino all’anarchia? La Chiesa è una scuola severa, predica la mortificazione, la padronanza
di sé, l’austerità, la croce: potrà mai essere ascoltata da una generazione tutta rivolta all’esperienza degli istinti, delle passioni, del piacere, e sempre abituata al «confort», alla esclusione dello sforzo, alla
rimozione della disciplina e del sacrificio? La Chiesa predica il «regno dei cieli», un mondo spirituale,
una verità invisibile, un fine al di là del tempo; vuole la fede, vuole l’amore: come la ascolterà quella
gioventù che fosse educata soltanto all’esperienza sensibile, al ragionamento scientifico, al calcolo dell’utilità temporale, alla logica dell’egoismo e dell’interesse, al culto dell’uomo e non al culto di Dio?
UNA DIAGNOSI INCOMPLETA E NON CORRISPONDENTE ALLA REALTÀ
Potremmo continuare questo sconcertante confronto fra la Chiesa e certa odierna gioventù, dal
quale confronto sembrano essere confermate le conclusioni di quelli che condannano la Chiesa come
una forma di pensiero e di vita assolutamente inammissibile da gran parte della gioventù del nostro
tempo. Potremmo anche esaminare fino dove sia accettabile il tentativo di quelli che vogliono cambiare strutture e spirito della Chiesa per modellarla secondo le aspirazioni e le dimensioni dei giovani
d’oggi. Ma il discorso si farebbe lungo assai, ed esigerebbe analisi accurate e documentate. Non Ce lo
consentono i limiti strettissimi di queste semplici parole. A Noi basta ora fare un’osservazione d’indole generale, una Nostra contestazione (se così vi piace) circa la diagnosi dell’animo giovanile, alla quale abbiamo testé accennato; ed è questa: quella diagnosi è incompleta, estremamente incompleta; la
potremmo dire «globalmente» falsa, se essa pretende darci una descrizione integrale e onesta della
gioventù degli anni sessanta (o settanta se più vi piace); sarà parzialmente esatta, forse, ma non è corrispondente alla realtà, a tutta la realtà giovanile odierna.
Perché? perché trascura alcune caratteristiche importantissime del giovane d’oggi; caratteristiche,
che, inquadrate nel disegno fedele del suo volto autentico, ci danno di lui, del giovane d’oggi, un’immagine molto diversa. Anche qui, a volere studiare bene le cose, troppo vi sarebbe da dire. Accenniamo appena, quasi ad esempio, con qualche domanda.
CAPACITÀ DI SUPERIORE DEDIZIONE E DI SACRIFICIO
Non è forse vero che oggi la gioventù è appassionata di verità, di sincerità, di «autenticità» (come
ora si dice); e ciò non costituisce un titolo di superiorità? Non vi è forse nella sua inquietudine una ribellione alle ipocrisie convenzionali, di cui la società di ieri era spesso pervasa? E nella reazione, che
sembra inesplicabile ai più, che i giovani scatenano contro il benessere, contro l’ordine burocratico e
tecnologico, contro una società senza ideali superiori e veramente umani, non vi è forse un’insofferenza verso la mediocrità psicologica, morale e spirituale, verso l’insufficienza sentimentale, artistica e religiosa, verso l’uniformità impersonale del nostro ambiente quale la civiltà moderna va formando?
E perciò non vi è in questa insoddisfazione giovanile un segreto bisogno di valori trascendenti, il
bisogno d’una fede nell’Assoluto, nel Dio vivente? Ancora: è poi vero che i giovani d’oggi sono individualisti ed egoisti, quando non sanno più vivere se non in compagnia d’altri giovani, quando hanno
un istinto, perfino eccessivo, dell’associazione, del conformismo collettivo? E chi oserà sostenere che i
nostri giovani sono incapaci di abnegazione e di amore per il prossimo, quando sono proprio essi che
spesso, nei momenti di pubblico bisogno, o nelle situazioni socialmente insostenibili, danno lezione a
tutti di prontezza, di dedizione, di eroismo, di sacrificio? Non conoscono i giovani coloro che non vedono quale capacità di rinuncia, di coraggio, di servizio, di eroico amore essi hanno nel cuore; e oggi
forse più di ieri. E che cos’è quella loro impazienza d’entrare subito, e come uomini adulti non come
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fanciulli minorenni, nell’arringo della vita reale, se non una rispettabile e spesso encomiabile ansia di
partecipazione alle comuni responsabilità?
L’INCONTRO PRODIGIOSO E STUPENDO CON CRISTO
Dunque l’esame dello spirito giovanile contemporaneo è da rifare; esso è delicato e complesso; e a
Noi offre fin d’ora questa certezza: il rapporto fra gioventù e Chiesa, al quale accennavamo, non è affatto un rapporto. definitivamente negativo, non è un rapporto d’opposizione, di estraneità; è un rapporto positivo; quello di una scuola, dove la verità e lo spirito si aprono, si svelano e s’incontrano;
quello d’una comunità organica, dove l’unità non crea oppressione, né uniformità, ma reciprocità, rispetto ed amore; quello d’una singolare pienezza, d’una impensata felicità; la pienezza degli autentici
valori umani e spirituali; la felicità della certezza, della carità; quello d’un incontro prodigioso e stupendo, l’incontro con Uno, il Quale sta tra la Chiesa che lo introduce e la gioventù che lo scopre, anzi
che vi scopre l’unico vero amico, l’unico vero maestro, l’unico vero e sommo eroe, l’unico vero prototipo di Uomo, che valga la pena di cercare e di integrare per sempre alla propria vita; voi capite Chi è;
è Cristo, è Dio fatto uomo. È il segreto, è il dono della Chiesa. Esso lo offre alla Gioventù!
Vi sarebbe ora da dire come la Chiesa, quella d’oggi, quella del Concilio, sappia, pensi, voglia e
adempia questa sua missione di dare Cristo alla gioventù. Ma concludiamo con una sola parola-ricordo, a voi giovani, a voi tutti fedeli che Ci ascoltate: entrate nella Chiesa (entrate: intendiamo nel suo
cuore, nel tesoro nascosto della sua fede, della sua speranza, della sua carità); entrate, e troverete che
là Cristo vi aspetta!
Vi auguriamo di fare questa esperienza; con la Nostra Benedizione Apostolica.
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