I racconti di Hannibal Lecter

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I racconti di Hannibal Lecter
Collana Ombre
I racconti di Hannibal Lecter di AA.VV.
Collana: Ombre
Genere: Triller
ISBN: 9788898036387
PRIMA EDIZIONE Agosto 2015
©2015 Watson edizioni – Tutti i diritti riservati
Editing e cura redazionale: Ivan Alemanno
Cover design: Bernardo Anichini
Watson edizioni, via Pescosolido, 102 – 00158 Roma
www.watsonedizioni.it
[email protected]
AA.VV.
I racconti di
Hannibal Lecter
Watson edizioni
“Vorrei che potessimo parlare più a lungo,
ma sto per avere un vecchio amico per cena stasera. Addio.”
Dr. Hannibal Lecter
I racconti di Hannibal Lecter
Legami di sangue di Diego Cocco e Luisa Lajosa ................. 1
Il volo di San Valentino di Enrica Aragona ...................... 10
Il tavolino di Lomas Zamora di Massimiliano Giri ........... 23
Il rappresentante di Eleonora Angelini .............................. 31
H di Alessandro Artistico ed Emanuele Intartaglia ............. 40
Semplici deduzioni di Simone Carletti ............................. 51
Pensionamento di Marco Bertoli ...................................... 65
Ultimo bagliore di luna di Alessandro Margheriti ............. 73
Il testimone di Claudio Ferrara ....................................... 80
Il gioco di Lazzaro di Mattia Insolia .................................. 88
Mosca cieca di Samuele Fabbrizzi .................................... 101
Bloody siren di Daniele Passera ....................................... 114
Legami di sangue
di Diego Cocco e Luisa Lajosa
Chiudi gli occhi e guarda cosa sei diventato, mio piccolo idolo di
muscoli e carne. Sei fuggito lontano dal patibolo di chi ti era nemico,
lontano dall’ombra fatta di scherno e nomignoli.
Sei un uomo, adesso. Ossa robuste hanno preso il posto della paura.
Cammina su un tappeto di purezza, candido come il peccato redento. Ora sei diverso, non cadrai mai più. Mai più.
*
Erano circa le quattro del mattino quando Aalina udì il camion
della nettezza urbana fare manovra davanti a casa sua.
La neve caduta fno a poche ore prima, su Belogorsk e gran parte
della Russia orientale, aveva ritardato le operazioni dei netturbini e
forse, pensò la donna, la bestemmia che riecheggiò fn sulla fnestra
del bagno era dovuta proprio al nervosismo che si era creato quella
notte in città.
E sì che al maltempo avrebbero dovuto essere abituati. L’inverno
russo non dava molte alternative, bisognava imparare a convivere
con il disagio della stagione e l’interminabile sequenza di giorni
strangolati dal ghiaccio.
Aalina questo lo sapeva bene, anche se quella sera un paio di imprecazioni le aveva sfoderate pure lei: non tanto per la bufera, visto
che il viaggio di ritorno dall’ospedale non le aveva creato grosse dif1
fcoltà. Era la macchia di vomito sul maglione nuovo che l’aveva
mandata fuori di testa. Il maledetto conato di Egor, che le aveva riversato addosso i resti della cena. Diavolo, non credeva che pochi
milligrammi di Propofol in vena lo avrebbero steso in quella maniera. Povero, pazzo Egor. Ventisei anni e un metro e settantacinque di ragazzo tutto muscoli, cervello escluso. O meglio, non pervenuto.
Da tre mesi faceva parte del meraviglioso gruppo misto di ritardati del reparto psichiatrico nel quale lavorava Aalina. Un soggetto
ideale, quello che fa poche domande e quando apre bocca devi essere pronto col fazzoletto per asciugargli la bava. Quello che devi
stare attento con le previsioni del tempo, perché se viene a sapere
che fuori non c’è il sole s’incazza come un orso a cui hanno appena
fregato il miele.
L’aveva provato sulla pelle non più di una settimana prima: la
nuova collega aveva lasciato la persiana socchiusa, e lei era entrata
col vassoio della cena. Purtroppo niente sole, ma pioggerella ghiacciata. Egor le aveva strappato il piatto dalle mani e l’aveva lanciato
contro la fnestra. Prima che Aalina riuscisse a rendersi conto di
quello che stava succedendo il ragazzo si era già lanciato su di lei.
Li avevano separati in corridoio, per fortuna senza conseguenze.
Solo l’ennesima siringa di Propofol per il meteoropatico e una notte in punizione bloccato nel letto. Il giorno dopo grazie a Dio tornò il bel tempo.
Prese il detersivo e iniziò a sfregare la chiazza scura sul maglione.
L’odore acre di vomito lasciò posto a una fragranza di lavanda, e
questo fu il primo passo per rimetterla di buonumore. Il silenzio
della casa a quell’ora contribuì a tranquillizzarla, anche se non poteva permettersi il lusso di abbassare la concentrazione.
*
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Rafail non riusciva a dormire. Non quella notte. Allungò a fatica
la mano verso l’interruttore e accese la lampada: il libro sul comodino era aperto alla solita pagina.
Scosso da un brivido di euforia, ricominciò a leggere per l’ennesima volta quelle righe ingiallite dal tempo.
“La sera, calda e umida, divenne rovente non appena Baba, il più
giovane tra i maschi del popolo Niam Niam, accese il falò; di lì a poco
tutti gli uomini si sarebbero radunati per assistere al rito del capo tribù Kijana. Un altare di bambù intrecciato era stato adornato di fori
rossi e da un machete rigorosamente aflato.
Gli anziani arrivarono per primi e si disposero attorno al fuoco, a
loro spettava la fla d’onore nel cerchio, e via via tutti gli altri fno ad
arrivare ai bambini: anche questi ultimi dovevano assistere per imparare e tramandare il culto alle generazioni future.
Questa volta non era stato facile per Kijana, aveva dovuto pagare
l’uomo bianco con dieci pelli di leopardo, anche se ne era valsa la
pena. La donna consegnatagli era perfetta, aveva la pelle più bianca
dell’avorio, i capelli erano di un biondo chiarissimo e le pupille, rosse
come il sangue, erano il tocco fnale.
Kijana fnalmente aveva la sua albina.
I tamburi iniziarono a suonare con un ritmo ascensionale: le mani
degli anziani colpivano la pelle tesa dei tamtam con forza maggiore,
un colpo dopo l’altro, procurandosi una sorta di piacere che presto divenne trance. Kijana fece il suo ingresso, seguito da due giovani che
portavano la donna legata mani e piedi a un grosso palo sorretto sulle
spalle. Con un cenno il capo tribù ordinò loro di adagiarla sull’altare.
I ragazzi la poggiarono delicatamente: sapevano che la pelle preziosa della donna non doveva subire neppure un grafo prima del rituale, altrimenti Kijana li avrebbe sgozzati entrambi senza pensarci due
volte.”
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Il ragazzo chiuse gli occhi per un momento, voleva immaginare
la stessa scena come se il protagonista fosse lui stesso. In quel preciso istante divenne Kijana: stava immobile davanti alla splendida
fanciulla scelta come vittima sacrifcale. Ora poteva disporne come
più gli aggradava. Era lui che dispensava gli ordini e riceveva in
cambio gloria e adorazione. Dall’alto dei suoi quattordici anni.
Sentì ardere dentro il fuoco dell’eccitazione. Guardò l’orologio e
pregò che arrivasse presto il momento.
*
L’orecchio di Aalina rimaneva teso a percepire qualsiasi rumore
provenisse dalla casa, con un’attenzione particolare per il garage.
Fino a quel momento era andato tutto bene, ma non voleva perdere altro tempo. Sciacquò il maglione e controllò che fosse di nuovo
immacolato, poi lo appese con delicatezza sullo stendino accanto
alla lavatrice.
Era stata una notte movimentata, ma lo aveva messo in preventivo fn dall’inizio: la cosa importante e che più la rendeva orgogliosa
era non aver intaccato la coltre di silenzio che la faceva sentire al sicuro, nemmeno nei momenti più difcili e di maggiore sforzo.
D’altra parte Aalina, quando si trattava di sfoderare una certa prestanza fsica, non si tirava certo indietro: il suo metro e sessantadue
era supportato da una muscolatura robusta, che la faceva rientrare
nel tipico esemplare di femmina russa che non avrebbe mal fgurato in una gara maschile di lancio del peso.
A causa di questa sua caratteristica non andava molto d’accordo
con le diete e la cucina salutistica. Tutta quella massa compatta di
carne e muscoli aveva bisogno di un certo mantenimento.
Prima di uscire dal bagno volse lo sguardo verso la bilancia accanto alla vasca. Quel rapporto intimo di amore e odio non poteva
essere interrotto neanche in una nottata come quella. Abbandonò
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un secondo la fretta che l’attanagliava per lasciare posto all’ansia
della lettura del peso. Salì lentamente, come se questo le permettesse di ingannare quello strumento infernale lasciando qualche chilo
per strada.
La lancetta stava ancora oscillando quando un tonfo secco le fece
esplodere il cuore nel petto: il piano di sotto. Il garage. Spalancò la
porta e attraversò il corridoio imprecando sottovoce. Si bloccò davanti a un vecchio armadio di noce scuro, lo aprì e indossò un paio
di guanti in lattice, poi divorò gli ultimi gradini che la separavano
dallo scantinato.
La sua Lada-Vaz portava ancora i segni della bufera: venti gradi
sottozero non avrebbero fatto sparire tanto in fretta la neve dalla
carrozzeria. Aggirò la vecchia station-wagon e si ritrovò davanti la
stessa scena che aveva dovuto abbandonare per colpa del maglione.
Solo che stavolta Egor era cosciente.
Cosciente, ma ancora intontito dal Propofol. Un rivolo di bava
gli scendeva dalla bocca e lo sguardo sembrava, per quanto possibile, più ebete del solito. Solo quel maledetto pugno continuava a
picchiare la parete. Un afronto per le cinture di pelle che Aalina
aveva fssato con tanta cura sui ganci messi a disposizione dal marito. Ci appendeva gli attrezzi per il giardino, prima di crepare folgorato da un cancro ai polmoni. Cheslav l’aveva lasciata nel momento peggiore, in balia del problema peggiore. Ma lei era una donna
forte, e avrebbe superato qualsiasi cosa.
Si avvicinò a Egor e gli sollevò la testa. Lo vide cercare in tutti i
modi di fssare l’immagine davanti a lui. Controllò le cinghie e si
assicurò che tutto fosse a posto, poi ripensò alla faticaccia che aveva
fatto per portare quel peso morto fno a lì. La valigetta che aveva
preso in prestito dall’ospedale era ancora sul banco da lavoro del
marito, proprio dove l’aveva posata. Voltò le spalle a Egor e si dedicò alla preparazione degli strumenti.
Sapeva che non sarebbe servito a niente supplicarlo di smetterla
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con quel pugno. Sapeva che non ci sarebbe stato alcun modo per
tranquillizzarlo, una volta che l’efetto dell’anestetico fosse passato
del tutto. Fuori, purtroppo, il sole non c’era.
*
Rafail rimase immobile a fssare il softto color crema. Non voleva spegnere la luce, perché aveva paura che il sogno afogasse nelle tenebre ancora prima di assaporarne l’essenza. Ormai mancava
davvero poco. Continuò a leggere il libro.
“Le urla strazianti della donna sollecitarono gli anziani ad aumentare il ritmo, e la trance raggiunse il culmine: le loro palpebre sbattevano veloci mentre le pupille erano rivoltate all’indietro.
Il momento era arrivato: Kijana urlò alla luna la sua preghiera,
poi si unì al coro della tribù, recitò a sua volta la litania e andò in
trance.
Incurante delle grida della giovane, aferrò il coltello e con un taglio
netto le recise la carotide. Baba raccolse il sangue che sgorgava a fotti
in una grossa coppa di legno e quando fu piena la passò a Kijana. Il
capo tribù innalzò il trofeo al cielo e ringraziando gli Dei bevve avidamente, lasciando fuire una gran quantità del contenuto ai lati della
bocca; ora il suo corpo era pervaso dal dolce tepore del sangue caldo.
Si pulì la bocca con il braccio, poi ghermì un’accetta e colpì con forza il collo della donna, decapitandola. Continuò fnché anche l’ultimo
arto fu separato dal tronco: infne suddivise in tanti piccoli pezzi anche quest’ultimo, tenendo da parte i genitali per le sue mogli; ne sarebbero risultate più fertili e la sua progenie più forte. Prese fra le mani la
testa della vittima, che aveva ancora gli occhi spalancati in un’orribile
smorfa di dolore, e premette con forza la sua bocca contro quella della
donna. Con la lingua ne esaminò l’interno, non appena incontrò quella di lei l’aferrò prontamente tra i denti e con un rapido movimento
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del capo la strappò via. Dovette masticare con una certa forza quella
parte che l’avrebbe reso un’abile oratore.
Quindi passò agli occhi, li staccò dall’orbita con un piccolo coltello e
una volta liberi li risucchiò: era certo che gli avrebbero aguzzato la vista, non solo quella fsica ma anche quella spirituale, facendogli scovare i nemici prima che questi giungessero a lui.
Per ultimo estrasse il cervello ancora caldo: sarebbe stato il regalo
perfetto per Oji, il suo primogenito nato senza il dono della ragione.
Se fosse stato per lui se ne sarebbe sbarazzato già da tempo, subito
dopo la nascita. Solo lo sciamano del villaggio era riuscito a farlo desistere dal suo intento: gli aveva annunciato che quel bambino era speciale e sarebbe diventato capo tribù a sua volta, un giorno non lontano. Quella era la settima vittima dall’inizio dell’anno e Kijana non
aveva ancora ottenuto i risultati sperati per la guarigione del fglio.
Lo sciamano gli aveva raccomandato di continuare a nutrirlo con
cervelli puri, così defniva gli esseri umani di razza albina. Chiunque
se ne fosse cibato avrebbe ottenuto straordinari poteri magici e sarebbe
guarito da ogni malattia.
Kijana fece un cenno con il capo e tutta la tribù si gettò sul prezioso
banchetto: questa fase era la più brutale e feroce di tutto il rito. Gli
uomini erano disposti a tutto, e dopo la fne della cerimonia qualche
altro corpo sarebbe rimasto a terra, colpito a morte dagli altri membri
e trasformato in parte integrante del pasto.
Il capo tribù si diresse verso la capanna di Oji. Il bambino non era
in grado di mangiare da solo, per questo lo avrebbe imboccato lui stesso. La ricerca di vittime sacrifcali dalla pelle candida diveniva sempre
più difcile e dispendiosa, ma Kijana era disposto a tutto pur di garantire a Oji un futuro da capo tribù.”
*
Aalina tirò fuori dalla valigetta una siringa e un paio di fale di
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Ketamina. Aspirò velocemente con l’ago il liquido anestetico e fece
uscire l’aria in eccesso, poi si voltò di nuovo verso il prigioniero.
Lo vide aprire la bocca a stento e biascicare qualcosa sottovoce.
Quello che la donna intuì suonava pressappoco come la parola
“Cattiva”, ma lei si sforzò di non farci troppo caso e si concentrò
sull’avambraccio di Egor. Inflò l’ago in vena e svuotò la siringa:
qualche goccia si perse sul pavimento perché il pugno nel frattempo non era mai rimasto fermo, anche se lo avrebbe fatto presto.
Passarono un paio di minuti. Aalina attese paziente, senza lasciar
trasparire alcuna emozione.
Quando fu sicura dell’efetto dell’anestetico si avvicinò e posò la
mano sulla testa dell’uomo. Mentre accarezzava quei capelli candidi come la neve avvertì una ftta alla spalla: il morso che aveva ricevuto il giorno prima le procurava ancora dolore.
Egor ricambiò il gesto con un sorriso. Una goccia di bava si staccò dal labbro inferiore. La donna si voltò di scatto verso il banco e
prese il nastro adesivo, ne staccò un paio di pezzi e li appiccicò su
quelle labbra umide.
Chiudi gli occhi, da bravo. Il buio ti avvolgerà in un sudario di
consolazione: non sentirai dolore, perché diventerai parte del nostro sogno. Sarai lo spartiacque tra passato e futuro, tra merda e speranza.
Spostò di nuovo l’attenzione sulla valigetta: scartò il piccolo bisturi che era riuscita a procurarsi in una delle sale operatorie dell’ospedale e ne saggiò il flo con la punta del pollice.
Osservò il pigiama azzurro di Egor e pensò che era di una taglia
troppo piccola per uno come lui. Tagliò la stofa all’altezza della
spalla sinistra, sflò la manica e la piegò con cura. Un ottimo straccio che avrebbe utilizzato per ripulire il pavimento. Senza esitare
praticò un’incisione netta intorno al bicipite di Egor. Inflò la lama
in profondità fnché sentì il duro dell’osso, tagliò anche l’ultima
porzione di carne che ancora opponeva resistenza, infne sflò il tessuto muscolare e lo ripulì dalla parte di grasso in eccesso. Estrasse
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un contenitore di plastica dalla valigetta e vi adagiò il pezzo di muscolo. Prima di prendere le garze strofnò i guanti luridi sui capelli
dell’uomo.
Sangue che cade sulla neve, macchia che non si può lavare. Non c’è
via per tornare, ormai. Presto il ghiaccio si scioglierà e splenderà di
nuovo il sole, mio caro.
Confezionò una stretta fasciatura degna di un chirurgo: il braccio di Egor non sanguinava quasi più. Meglio così, meno lavoro
per rimettere a nuovo le piastrelle.
Aalina calcolò il tempo che gli restava prima che il suo prigioniero tornasse dai dolci sogni. Senza aspettare un secondo di più aferrò il contenitore di plastica e corse di sopra come una bambina eccitata. Avrebbe sistemato tutto dopo. Si sarebbe scusata con Egor,
lo avrebbe costretto a mangiare qualcosa e forse gli avrebbe anche
allentato un po’ le cinghie. Ma ora doveva andare, fnché la carne
era ancora calda.
Le campane di Belogorsk produssero cinque rintocchi ovattati
dalla neve, che non accennava a smettere di cadere.
Aalina aprì di soppiatto la camera di Rafail e si bloccò quando
vide che era già sveglio. La stava aspettando seduto ai piedi del letto. Gli riempì la fronte e la testa completamente calva di teneri
baci, poi lo aiutò a sistemarsi sulla sedia a rotelle. Era talmente magro che non aveva nessuna difcoltà a trasportarlo. Lo guidò in cucina senza dire una parola. Quando furono a tavola Aalina gli rivolse un sorriso pieno d’amore, e lo invitò ad assaggiare la colazione che aveva preparato con tanta cura.
Rafail ripensò alla splendida ragazza dai capelli candidi. Iniziò a
masticare mentre sua madre gli sussurrava dolci parole all’orecchio.
Sei un uomo, adesso. Non cadrai mai più.
Sarebbe guarito un poco alla volta, proprio come aveva fatto
Oji.
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Il volo di San Valentino
di Enrica Aragona
«Fa caldo eh, commissario?»
Paolo Colomba deterse il sudore dalla nuca con un fazzoletto
sgualcito ed evitò di rispondere. Non voleva incazzarsi, non ancora
almeno: davanti gli si stava parando quella che si prospettava come
una lunga notte rovente, e di tempo per perdere la pazienza ne
avrebbe avuto ancora parecchio. Ma il sovrintendente Calasso, con
quella faccia butterata e l’aria di chi si sentiva fuori posto anche al
cesso, aveva l’innata capacità di irritarlo. Senza contare che in una
notte come quella la riserva di tolleranza del commissario – già
scarsa in condizioni ottimali – si era esaurita ben prima di arrivare
ai Parioli, visto che alle due e mezza di notte Roma era ancora immersa in un caldo opprimente. E mentre si agitava in un inferno di
lenzuola appiccicose, bestemmiando l’afa e il mal di schiena che
non gli dava tregua, era stato chiamato per quello che si prospettava come l’ennesimo caso di suicidio della sua carriera.
Ricordò quando i colleghi di Milano, il giorno del suo trasferimento, gli dissero che a Roma la sera arrivava il ponentino a mitigare il caldo, la brezza marina celebrata in tanti stornelli popolari. In
quella notte di quattro mesi dopo si chiese se l’avessero spostato, il
mare, perché tra quelle palazzine lussuose nascoste da siepi e foriere gli sembrava di sofocare. Agosto sciroppava l’aria, e persino la
luna, sudata e stanca, si nascondeva dietro una foschia irrespirabile.
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Non c’era da stupirsi che la gente andasse fuori di testa.
Non era nemmeno la sua zona di competenza quella, ma con
mezza città in ferie gli era toccato coprire il turno di un collega che
in quel momento si stava godendo – lui sì, altro che ponentino – la
brezza della costiera amalftana.
Calasso intanto continuava a blaterare qualcosa, ma Colomba
ormai non l’ascoltava più.
«Non crede, commissario?»
«Cosa?»
«Che fosse molto bella.»
«Interessante.»
Colomba portò una mano sulla schiena cercando di raddrizzarsi
il più possibile: doveva assolutamente fare una lastra.
«Cosa, commissario?»
«Che tu riesca a trovare bello un cadavere. Hai mai pensato di
fare il medico legale? Ti troveresti bene.»
«Ma no...» le guance bucherellate di Calasso avvamparono. «È
che la notte, le stelle, il nome di questa via... m’è venuto spontaneo.»
«È già arrivato l’ispettore Ristori?»
«Sta parlando con il medico legale.»
«Digli di venire qui subito che mi serve qualcuno lucido, stanotte. Tanto Pieri non gli dirà nulla che non sappiamo già. Non ora,
almeno.»
«Ma, commissario...»
«Calasso, dì, da quanto mi conosci?»
«Quattro mesi e tre giorni.» rispose il sovrintendente, scattando
come se una scarica gli avesse elettrifcato il cervello passando direttamente attraverso le suole.
Il commissario Paolo Colomba allentò la camicia sul collo e sospirò: chissà quanti altri cadaveri avrebbe dovuto vedere Calasso
prima di diventare un bravo poliziotto.
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«E in quattro mesi e tre giorni non hai imparato che gli ordini
non si discutono? Fa’ venire Ristori. Subito. E tornatene a casa, che
qua siamo già in troppi.»
Il sovrintendente arricciò le labbra e obbedì, ma prima lanciò
un’ultima languida occhiata al corpo di Giulia Bressani: lunghe
onde castane a nascondere la maschera di sangue grumoso che era
stato il suo bel viso; busto coperto da una sottoveste rosa e lunghe
gambe nude, abbandonate sull’asfalto annerito a cavallo della linea
blu che delimitava i parcheggi nella signorile via di San Valentino
ai Parioli.
Il commissario Colomba alzò lo sguardo; tre uomini della scientifca si muovevano dietro le siepi dell’attico da cui era volata Giulia.
«Allora, che dice il dottore?» chiese a Ristori appena gli fu abbastanza vicino.
«Le solite cose.» rispose l’ispettore sventolandosi con un foglio
strappato allo stradario di Roma. «Morta a causa dei traumi riportati a seguito della caduta ma non posso pronunciarmi prima...»
«...dell’autopsia. Santiddio, ma dove pensano di essere, questi?
Dentro una fction di Montalbano? In che obitorio la portano?»
«Al Sant’Andrea.»
«Avvisa i genitori. La scientifca?»
«Sta terminando i rilievi in terrazza. In strada non hanno trovato
nulla, a parte il corpo, ovviamente.»
«Di lei cosa sappiamo?»
«Oltre al fatto che era una gran bella gnocca?»
Il commissario alzò gli occhi al cielo e l’ispettore represse un ghigno; non gli piaceva ridere davanti ai morti. Specialmente se erano
giovani e belli come il morto di quella notte.
«Giulia Bressani, trentacinque anni. Uno spirito inquieto con
un recente passato da tossica di lusso.»
«Cocaina?»
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«Speedball, festini, alcol... roba da ricchi annoiati, hai presente
no? I genitori l’hanno spedita in comunità e quando si è ripulita le
hanno comprato quest’attico. Gente di un certo prestigio. Lui giudice, lei chirurgo plastico, recentemente promossa direttore di unità operativa.»
«Evidentemente non la volevano in mezzo ai coglioni» osservò
Colomba.
«Una fglia tossica può rovinarti la reputazione, tanto più che
negli ultimi tempi sembrava avere la scomoda abitudine di sputtanare il patrimonio di famiglia.»
«Ci hai parlato con i genitori?» chiese Colomba roteando il collo
da destra a sinistra per trovare sollievo dai dolori cervicali.
«Ma, Paolo... non sei ancora andato a farti una lastra?»
«Ristori, non mi rompere i coglioni. Dimmi dei genitori.»
«Non sono rimasti molto sorpresi dalla notizia. Era depressa, e
di brutto a quanto pare. In casa abbiamo trovato così tanta Paroxetina che potremmo rifornirci un SPDC per un anno...»
«Ma sono qui? Ci posso parlare?»
«No, il padre ha detto che sarebbe andato direttamente in obitorio, una volta saputo dove l’avrebbero portata. La madre non se la
sente.»
«Era sposata? Fidanzata?»
«Niente di serio. Frequentava un tizio da qualche settimana, è
stato lui a chiamare il 118. Dice che si erano addormentati e a un
certo punto si è svegliato senza trovarla. Appena ha visto la porta
del terrazzo spalancata ha pensato subito che si fosse buttata giù.»
«La prima cosa a cui avrei pensato io, se avessi visto una fnestra
aperta stanotte, sarebbe stato il caldo.»
«Prima di addormentarsi avevano acceso il climatizzatore. E avevano chiuso tutte le fnestre.»
Paolo Colomba accese una sigaretta, sbufando una boccata di
fumo che ristagnò qualche secondo nell’aria immobile.
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«Di lui cosa sappiamo?»
«Stefano Asseri. Medico pure lui, fresco di specializzazione. Si
sono conosciuti poco tempo fa a una festa organizzata per la promozione della madre di Giulia.»
«Andiamo a fargli qualche domanda. Magari lassù tira un po’
d’aria e riusciamo pure a respirare.»
Quando Colomba si mosse, qualcosa tintinnò sull’asfalto.
«Ti è caduto l’accendino, Paolo. Già ti si sopporta poco, se non
puoi nemmeno fumare...»
«Ti prendi troppe libertà, Ristori. Prima o poi ti mando a pulire
i cessi di San Vittore.»
«Siamo a Roma, commissario...»
«E allora? Mai sentito parlare di trasferte di servizio?»
Mentre Ristori si chinava, consapevole che se Colomba avesse
provato a raccogliere l’accendino non si sarebbe più rimesso in piedi, si accorse che sotto una delle auto c’era qualcosa.
«Paolo, aspetta un momento. C’è un cellulare, lì.»
Colomba si arrestò.
«Non c’è bisogno che ti dica di non toccarlo, vero?»
L’ispettore, ancora carponi sull’asfalto, girò il collo e incenerì il
commissario con uno sguardo.
«Usa questo.» disse Colomba porgendogli un fazzoletto. «E datti
una mossa.»
L’ispettore Ristori s’inflò sotto l’auto e ne estrasse uno smartphone ultimo modello.
Colomba pensò a quanto fosse strana la vita: quel telefono e
Giulia con tutta probabilità avevano fatto lo stesso volo, ma mentre lei si era spappolata, il cellulare non aveva che qualche grafo
sullo schermo.
«E menomale che è venuta la scientifca!» sentenziò il commissario incamminandosi verso il portone. «Poi ci lamentiamo se ci
prendono tutti per il culo e i giornalisti si arricchiscono alle nostre
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spalle.»
*
«Mi ripeta com’è andata.»
Stefano Asseri era seduto sul bordo del letto come se scottasse.
Mani sul volto e piede che picchiettava il parquet. Eppure la pelle
abbronzata e la camicia senza grinze, arrotolata sui gomiti, gli conferivano un aspetto tutt’altro che stravolto.
Come lui, anche l’attico sembrava in ordine: sul tavolo c’erano
già due tovagliette apparecchiate per la colazione. Tutto lasciava
pensare che il gesto di Giulia non fosse stato premeditato, o che
qualcuno avesse agevolato il suo ritorno tra le braccia di Dio.
«Ve l’ho già detto. Io non mi sono accorto di nulla. Quando mi
sono svegliato si era già buttata.»
«Da quanto vi frequentavate?»
«Tre... forse quattro settimane.»
«Che tipo era Giulia?» chiese Colomba uscendo in terrazza. Si
afacciò, ripercorrendo con lo sguardo l’ultimo viaggio della donna.
In strada, i sanitari del 118 avevano appena inflato il cadavere nella bara di metallo.
«Era strana. Lunatica. In alcuni momenti era molto afettuosa,
in altri si allontanava da tutti senza motivo. Si chiudeva in un
mondo dove non permetteva a nessuno di entrare.»
«E lei le ha mai chiesto perché?»
«Certo. Ma non voleva parlarne. Non è un segreto per nessuno
che Giulia fosse depressa, tanto meno per me che sono un medico.
Solo una terapia farmacologica adeguata poteva...»
«Questo era di Giulia?» chiese il commissario mostrando ad Asseri il cellulare trovato in strada, protetto in un involucro trasparente.
«Sì, credo di sì.»
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«Come sarebbe a dire “Credo”?»
«Non ce l’aveva da molto. Quando l’ho conosciuta diceva che
un cellulare non le serviva. L’aveva comprato da poche settimane.»
«D’accordo, grazie. Se ne torni a casa, Asseri. Ha bisogno di riposare. Andiamo, Ristori. Qui abbiamo fnito.»
*
«Allora, commissario? Che idea ti sei fatto?»
«Che si stava meglio su quella terrazza. Dio mio, ma lo senti che
non si respira?»
«Intendevo dire a proposito della Bressani.»
«Asseri non ci ha detto la verità, Giulia non si è suicidata. L’ha
buttata giù lui.»
«Mi spieghi da dove nasce questa convinzione?»
«Stavolta non è difcile. Ci puoi arrivare anche tu, se ti impegni
un attimo.»
L’ispettore poggiò il sedere al cofano di un’auto parcheggiata e
incrociò le braccia sul petto.
«Forza, spara. Tanto lo so che non vedi l’ora di attaccare con la
storia che “chissà quanti cadaveri devo vedere ancora prima di diventare un bravo poliziotto”...»
Colomba sorrise. Tirò fuori le sigarette dalla tasca posteriore dei
pantaloni e fece segno a Ristori di restituirgli l’accendino.
«Quanti anni hai?»
«Trentadue» rispose l’ispettore facendo scorrere un dito sul touchscreen del suo smartphone: qualcuno lo aveva taggato su Facebook.
«E quante volte al giorno prendi in mano il cellulare, in media?»
Ristori sollevò gli occhi dal display e aggrottò le sopracciglia.
«Ma non lo so... dieci?»
«Non dire cazzate! Passi più tempo a guardare il cellulare che a
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respirare. Al giorno d’oggi state sempre con questi cosi in mano.»
«Non capisco cosa c’entri questo con...»
«Hai visto la faccia di Asseri quando gli ho fatto vedere il telefono?»
«Sì, era... perplesso?»
«Secondo te è possibile che non sapesse che era di Giulia? Il caricabatterie era collegato vicino al comodino dove dormiva lui. Quel
telefono ce l’avrà avuto sotto gli occhi tutte le sere, l’avrà visto decine di volte.»
«Ma questi cellulari sono tutti uguali.»
«Perché una donna che decide di uccidersi si porta dietro il cellulare?»
«Ma che ne so, Paolo... era mezza matta, quella lì. Chissà cosa le
è passato per il cervello... era depressa, magari incazzata sa iddio
perché, e si è buttata giù.»
«Se tutti ragionassero come te avremmo le galere piene d’innocenti e le strade piene di criminali. Cazzo, ma non hai notato che
in casa non c’era nulla che parlasse di quella relazione? Una foto,
un peluche, dei fori... niente!»
«E allora?»
«E allora c’è qualcosa di strano, no? Stavano assieme da meno di
un mese, dovrebbe essere il periodo più bello per due innamorati.
E poi la tavola era già apparecchiata per la colazione.»
«Magari l’aveva sistemata lui. Dimentichi sempre che lei era depressa.»
«Appunto! Che ci faceva uno yuppie come Asseri con un’ex tossica depressa?»
«Yuppie? Ma come parli? Te sei rimasto nella Milano da bere,
caro mio.»
«A proposito di bere, ho una sete micidiale. Torniamo in ufcio
così mi ofri una bottiglia d’acqua e analizziamo i tabulati. Anche
se penso già di sapere cosa ci troveremo.»
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Caldo o no, quella notte di dormire non se ne parlava.
*
«A quanto pare Giulia non aveva molti amici. Le chiamate sono
tutte verso lo stesso numero, sia in uscita sia in entrata. È intestato
a sua madre.»
«Come pensavo. E Asseri non lo chiamava?»
«Pare di no. Lo yuppie ci ha detto la verità, comunque: la sim è
stata registrata solo qualche settimana fa. Niente trafco internet,
niente messaggi. Solo chiamate vocali. L’ultima l’ha fatta appunto
alla madre, qualche ora prima di buttarsi giù.»
«Una coincidenza curiosa, non trovi?»
Ristori piegò la testa guardando il commissario. Nella luce albumina della lampada da tavolo, Paolo Colomba gli sembrò improvvisamente più vecchio. Per la prima volta, in oltre quattro mesi,
notò la cornice di rughe attorno agli occhi verdi e i peli bianchi che
spiccavano tra quelli più scuri del pizzetto. Ma quando seguiva
un’intuizione, quando gli si accendeva il guizzo aveva l’energia di
un ventenne.
«Giulia conosce Asseri da poche settimane. Improvvisamente, a
trentacinque anni sente il bisogno di comprarsi un cellulare, però
non lo chiama mai. In compenso bombarda di telefonate sua madre, che – per inciso – non si è degnata nemmeno di andare a casa
della fglia a vedere cosa fosse successo. E ti pare,» borbottò ancora
Colomba «che becchiamo l’unica persona al mondo che si compra
uno smartphone e non usa né Facebook né... come si chiama quella roba che usi tu?»
«Whatsapp.»
«Ecco, quello.»
«Era depressa. Di solito chi è depresso non ha voglia di chattare.»
18
«Vacca boia, Ristori. A volte mi sembri scemo come Calasso.
Ma come fai a non vederlo?»
«Ma di che parli?»
«Del fatto che non si è trattato di un suicidio! Abbiamo rintracciato qualche amico, conoscente, qualche stronzo che la frequentava?»
«Solo un’ex compagna di liceo. Si sono frequentate per qualche
anno dopo la fne della scuola ma non si sentivano più da mesi.
Sembra che col fatto che la Bressani non fosse avvezza alla tecnologia i rapporti si erano freddati. Ormai si sentono tutti con queste
chat, Facebook e roba simile. Chi voleva sentire Giulia invece doveva alzare il telefono e chiamarla, cosa che ormai non fa più nessuno.»
«Hai ragione, Ristori, non lo faceva nessuno. Nemmeno sua madre, a dispetto di quello che vuole farci credere. Manda un’auto a
casa di Asseri. Fallo sorvegliare. E nel frattempo chiedi un mandato
d’arresto.»
*
I Bressani vivevano nel quartiere Coppedè, in un enorme appartamento che occupava due piani di una torre di inizio Novecento.
Mentre saliva le scale con la paura di sporcare il marmo immacolato, Colomba pensava che quel posto di ambasciate e consolati lo
aveva già visto nel flm di Dario Argento “L’uccello dalle piume di
cristallo”, una storia torbida di schizofrenia, sangue e tradimenti.
«Signora Bressani, capisco che non sia un buon momento ma
dovremmo farle qualche domanda.»
Anna Bressani fece accomodare i due sbirri su un divanetto in
un salone liberty, talmente pulito ed essenziale da sembrare, agli occhi di Colomba, una sala operatoria. Evidentemente la signora
amava portarsi il lavoro a casa.
19
Si sedette di fronte a loro su una chaise longue in apparenza piuttosto scomoda. Il volto sottile tradiva la stanchezza di quei giorni,
trascorsi con tutta probabilità a piangere le sorti della fglia disgraziata. O magari – cosa che agli occhi del commissario appariva più
credibile – a scopare con il suo giovane e focoso amante.
«Posso ofrirvi qualcosa?»
«No, grazie. Suo marito non c’è?» chiese il commissario.
«È andato in obitorio.»
«Capisco. Ascolti, signora... Giulia le aveva mai accennato qualcosa riguardo la volontà di...»
«Vuole scherzare, commissario?» lo interruppe indignata scattando in piedi. «Lei crede che se avessi sospettato che mia fglia voleva
ammazzarsi sarei rimasta qui senza fare nulla? Già così non me lo
posso perdonare!»
«Quando vi siete sentite l’ultima volta?»
«Ieri sera. Prima che...»
«Lei sa che sua fglia frequentava Stefano Asseri?»
«Certo.»
«E sua fglia lo sapeva che il fdanzato era, come dire... in subafftto?»
Anna Bressani fece un movimento in avanti, come se qualcuno
le avesse punto la schiena con un ago. Impercettibile per chiunque,
ma non per uno sbirro come Colomba.
«Credo di no.» rimarcò Colomba, poi, mostrando il pacchetto
di Camel, proseguì «Almeno fno a stasera. Posso ofrirgliene una?»
«Non fumo.»
«Io sì. Le dispiace?»
Colomba accese la sigaretta senza attendere risposta. Poi fece un
cenno con il capo al suo ispettore.
«Digli di entrare ad arrestare Asseri.» e, rivolgendosi alla Bressani, proseguì «Non è curiosa di sapere come l’ho capito?»
Anna fece un lungo sospiro e tornò a sedersi.
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«Lei ha spedito sua fglia lontano da occhi indiscreti, in un attico
da favola dove poteva ammazzarsi come e meglio le piaceva. Credeva di essersi tolta per sempre quella rogna da torno, ma poi nella
sua vita è entrato Stefano Asseri. Lei ha perso la testa per il giovane
chirurgo e ha deciso di usare sua fglia per coprire la sua relazione
extraconiugale. D’altronde non poteva certo permettersi un divorzio. Per quanto chirurgo afermato, è suo marito che manda avanti
la baracca, qui.» fece roteare lentamente il dito, a indicare lo sfarzoso appartamento.
La donna non rispose. Così Colomba proseguì.
«Quale modo migliore di tenersi vicino Asseri se non far credere
che fosse innamorato di Giulia? D’altronde avevano più o meno la
stessa età, giusto? Così è andata in un negozio, ha comprato un cellulare e lo ha fatto intestare a sua fglia facendo credere a tutti che
venisse usato da Giulia, quando in realtà a usarlo era Asseri. E Asseri lo usava per chiamare lei, signora. Soltanto lei.»
«Io non c’entro nulla con quello che è successo. È vero, ho una
relazione con Stefano Asseri. E allora? Non è mica vietato dalla legge.»
«No. Ma buttare sua fglia giù dal balcone un po’ vietato lo è.»
«Ma che sta farneticando? Io ero qui, stavo dormendo!»
«Infatti non è stata lei, signora. È stato Asseri. E penso anche di
sapere perché. Non avevate messo in conto che Giulia potesse realmente innamorarsi di lui. Per questo si è accorta del vostro gioco.
Era gelosa e assai meno rincoglionita di quello che pensavate voi.
Magari ha visto Asseri parlare al telefono di nascosto, e mentre lui
era in bagno, o in un’altra stanza, ha guardato il registro chiamate.
Probabilmente avrà minacciato di dire tutto a suo padre, nonché
suo marito. E Asseri, preso dal panico, durante la colluttazione l’ha
spinta giù.»
Annamaria Bressani si alzò, diede le spalle ai due sbirri e si versò
due dita di single malt. Poi si voltò con un sorriso befardo.
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«Solo ipotesi. Non avete nulla contro di me.»
«È vero, signora. Probabilmente a pagare sarà solo Asseri, ma lasci che le dica una cosa: quando questa storia verrà fuori suo marito
la lascerà e lei vivrà il resto della sua vita nel rimorso e nello scandalo. E penso che per una come lei non ci sia condanna peggiore.»
«Vada all’inferno, commissario.»
«Ci sono già, signora.» mormorò Colomba mentre si alzava, tenendo una mano sui reni per raddrizzare la schiena. «Ci sono già.»
22
Il tavolino di Lomas Zamora
di Massimiliano Giri
Argentina, sabato 12 gennaio 1980
Buenos Aires alitava il suo fato bollente sopra ai tetti di lamiera
di Lomas Zamora, accartocciando le ombre come fgli disobbedienti da punire. Un sudario infuocato avvolgeva la favela e tutti i
reietti umani che l’abitavano: bande armate di ragazzini scheletrici,
prostitute dai visi troppo truccati, tossicodipendenti con braccia livide e denti marci.
Dentro una baracca edifcata con terra e immondizia, Fernando
se ne stava seduto avvinghiato alle gambe ossute mentre Carlos, il
fratello maggiore, preparava le dosi da vendere per pochi pesos ai
diseredati del quartiere.
«Dai alza il culo, la roba è pronta. Portala al mercato e non fare
credito a nessuno, capito? Specie a Pablo, che non ha mai il becco
di un quattrino.»
Fernando non rispose, raccolse le bustine e s’incamminò lungo
la via di terra battuta che puzzava di carne avariata e urina, accompagnato da Angus, un cane spellato dalla rogna.
Il sole, nella piazza del mercato, gocciava un nodo d’olio bollente sulle schiene bruciate degli avventori, che si accalcavano come
formiche sulle numerose bancarelle. In mezzo alla calca variopinta
si difondeva odore di sudore, pesce fresco e pannocchie arrostite.
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Pablo gli venne incontro con il solito crocefsso d’oro che gli ciondolava sul petto glabro, gli stessi pantaloncini verdi e infradito di
paglia che indossava da una vita.
«Non posso darti niente» l’anticipò Fernando, riparandosi sotto
l’ombra di un tendone. «Mio fratello è stato tassativo.»
Pablo si strinse nelle spalle mostrando i palmi della mani in segno di resa.
«Ehi, okay. Non preoccuparti! Comunque ho molto denaro
adesso. Sto diventando ricco, sai?»
«Ricco? Ma che vai blaterando?»
«Sì!» insistette lui. «Ho un lavoro che mi sta fruttando bene.»
«Allora ricordati dei soldi che devi a mio fratello.»
«Naturale che me li ricordo. Li avrà.»
«Di che lavoro si tratta?»
«Recluto persone per soddisfare i bisogni particolari del mio
cliente. È un uomo ricchissimo che vive a La Horqueta» sibilò Pablo, mostrando gli incisivi bianchissimi.
«Tu per esempio, vuoi lavorare per lui?»
«Bisogni particolari di che tipo?»
Pablo si avvicino all’orecchio di Fernando per sussurrargli i dettagli del lavoro.
«Ma è matto?» squittì Fernando, dopo aver ascoltato.
«No. È solo eccentrico e gli piacciono queste cose. Ma a te che
importa? Vedilo solo come un lavoro!» si afrettò a ribattere Pablo.
«Tutte le persone che ho portato da lui adesso hanno il portafoglio
più gonfo.»
Fernando si grattò il mento. Poteva essere l’occasione per dimostrare a Carlos che anche lui riusciva a contribuire all’economia
della famiglia.
«Quanto paga per il lavoro?»
Pablo ghignò con aria soddisfatta.
«All’inizio cento pesos, ma se gli andrai bene arriverà a trecento.»
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«Al mese?»
«A servizio.»
Fernando si sentì nervoso ed eccitato allo stesso tempo.
«Va bene, accetto il lavoro.»
«Bueno cabrón, allora seguimi e te lo farò conoscere.»
«Come si chiama?»
«Nessuno sa il suo nome. Io lo chiamo solo signore.»
Fernando seguì Pablo fuori dalla favela, attraversando lo squallore multicolore delle baracche che assediavano la collina come nidi
di zecche. Dopo un’ora di cammino arrivarono a La Horqueta,
dove le case dei facoltosi riposavano protette da mura di cemento
armato e flo elettrifcato. Si diressero verso una villa immersa nel
verde, e Fernando restò sorpreso quando vide Pablo estrarre una
chiave personale.
«Te l’ho detto che sto per diventare ricco.» sghignazzò, aprendo
la porta dell’abitazione.
Oltre l’ingresso, un salone con il softto afrescato si aprì ai loro
occhi. Ai lati, otto colonne doriche di marmo svettavano come in
un antico tempio.
«Impressionato?»
«Sì,» tentennò Fernando «un po’.»
«Vieni. Ci aspetta in biblioteca.»
Pablo aprì una porta e condusse Fernando in una stanza circolare, colma di piante e libri stipati ovunque. All’interno un uomo,
curvo come un salice piangente sopra il proprio bastone, li stava
aspettando. La sua pelle era una diafana carta velina, in contrasto
con l’abito scuro che indossava. Il viso, con il lato destro seminascosto dai lunghi capelli argentei, accoglieva occhi torbidi e ispide
sopracciglia pettinate all’insù.
«Buongiorno, signore. Le ho portato un ragazzo che potrebbe
fare al caso suo.»
Il vecchio sondò Fernando dalla testa ai piedi, facendolo sentire
25
a disagio.
«Qual è il suo nome, giovanotto?»
«Fernando.»
«Pablo le avrà accennato in cosa consiste il lavoro.»
Fernando confermò con imbarazzo «Sì, me l’ha detto.»
«Molto bene. Ci lasci soli ora.» ordinò l’anziano rivolgendosi a
Pablo. «Più tardi le darò la sua percentuale.»
«Tornerò fra un paio d’ore, signore.» borbottò Pablo, e scivolò a
testa bassa dietro la porta, scomparendo.
Quando furono soli, l’uomo alzò il bastone fno al mento, e
grattandosi con l’impugnatura d’avorio, ordinò «Si giri, per favore.»
Fernando obbedì con prudenza. Non si fdava di quella mummia: nei suoi modi c’era qualcosa di bizzarro. Un’aurea malevola
circondava la sua fgura come un sudario. Il vecchio si avvicinò,
tanto che Fernando percepì il suo fato sulle scapole sudate: puzzava di carogne lasciate a decomporsi al sole.
«Una buona schiena.» gracchiò. «Ora si spogli, e si metta a quattro zampe.»
Fernando incrociò lo sguardo dell’anziano.
«Voglio prima i soldi.» mormorò, con voce malferma.
«Cinquanta pesos adesso.» rispose l’altro. «Il resto a fne lavoro.»
Il vecchio gli porse il denaro con la mano nodosa.
«Coraggio. Li prenda.»
Fernando osservò la banconota: la faccia stampata in viola del
presidente Julio Roca Paz lo fssava accartocciata di fanco alla fligrana. Non aveva mai guadagnato tanto da solo. Suo fratello ne sarebbe stato fero. Prese i soldi e l’intascò.
«Bene. Adesso si spogli.»
Fernando lasciò scivolare pantaloncini e slip fno alle caviglie e li
sflò da un piede, poi, si posizionò carponi.
«Cerchi di mantenere la schiena dritta.» bofonchiò il vecchio, di26
rigendosi verso un armadio a due ante.
Fernando abbassò la testa a fssare il marmo del pavimento, sentendo il cuore pompargli convulso nelle tempie. Udì l’altro trafcare nell’armadio, fnché una sensazione di gelo gli pervase le scapole
e la zona lombare: l’uomo gli aveva appoggiato sul dorso una pesante lastra di vetro.
«Stia fermo!» grugnì. «Devo vedere se la sua schiena è adatta.»
Fernando cercò di concentrarsi, e irrigidì i muscoli per stabilizzare il piano di cristallo che gli premeva da sopra come una mano
invisibile. Dopo qualche secondo di silenzio, il vecchio rimosse la
lastra e l’appoggiò contro una parete.
«Bene, congratulazioni! Lei è perfetto per essere il mio nuovo tavolino.»
«Okay.» replicò Fernando. «Ma poi voglio la mia paga.»
«Sono un uomo di parola, non si preoccupi, la pagherò. Ma
adesso, la prego, beva un po’ di limonata fresca.» lo invitò l’altro,
che nel frattempo aveva riempito un bicchiere da una brocca. «La
aspetta un pomeriggio faticoso e mi sembra ancora accaldato.»
Fernando aveva la gola riarsa come la favela da dove proveniva.
Accettò di buon grado il bicchiere che gli veniva oferto e trangugiò la bevanda tutta d’un fato.
«Per quanto tempo dovrò farle da tavolino?» azzardò a domandare Fernando.
«Per oggi solo qualche ora, tanto per valutare la sua resistenza.
Poi la convocherò un paio di volte alla settimana, in occasioni particolari.» rispose l’uomo. «Io e i miei amici giocheremo a carte sulla
sua schiena.» continuò. «Ora mi segua. Voglio che faccia la prova
di resistenza nello studio, non in biblioteca.»
L’anziano guidò Fernando in una stanza buia adiacente la libreria, dove solo una parete s’intravvedeva in quel gorgo di pece.
«Mi aspetti qui, mentre vado a prendere la lastra e le cinghie per
fssarla.»
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Fernando obbedì, cercando di non inciampare nell’ombra. Riuscì a distinguere solo, appesa alla parete visibile, una foto in bianco
e nero di un plotone di soldati in parata, sotto la quale campeggiavano svastiche e altre iconografe naziste.
Mentre studiava i volti inespressivi dei soldati, avvertì un violento capogiro. Si sentì pervaso da un senso di torpore improvviso. Si
accasciò a terra, ansimando, con lo sguardo perso nell’oscurità.
I passi del vecchio si avvicinarono echeggiando nella sua testa
come tamburi e, quando la luce di una lampadina a incandescenza
ingoiò le tenebre, Fernando vide, con gli occhi sgranati dal terrore,
l’interno dello studio: alla sua sinistra un uomo nudo, rigido come
una statua, fungeva da attaccapanni, reggendo una giacca e un cappello. Nelle orbite vuote erano inserite due svastiche di metallo e la
mandibola, semi staccata, lasciava in mostra tutta l’arcata dentaria
inferiore. Vicino all’attaccapanni, c’era una libreria composta da
quattro uomini mummifcati usati come ripiani. I corpi erano sostenuti da tubi di acciaio che fuoriuscivano dalle bocche e dai retti,
rendendo i cadaveri come enormi spiedini. Tutto lo studio, a esclusione della scrivania, risultava arredato con un macabro mobilio di
carne e metallo.
Il vecchio si avvicinò a Fernando e cominciò a punzecchiarlo
nelle costole con la punta del bastone.
«Mi dispiace che debba fnire così,» ridacchiò «ma voi siete animali e io il cacciatore. Comunque non si preoccupi, non sentirà alcun male mentre le reciderò i tendini, la svuoterò delle interiora e
la riempirò di metallo e formaldeide. Vedrà, riuscirò a fare di lei un
tavolino perfetto!»
Fernando lo aferrò per una gamba con le ultime forze che gli restavano in corpo. Il vecchio scivolò contro una mensola stipata di
barattoli colmi di organi genitali sotto formalina. Un recipiente
esplose al suolo spargendo sul pavimento uno sciame di schegge e
un pene intorpidito. Un odore pungente aggredì le narici di Fer28
nando facendogli lacrimare gli occhi.
Il vecchio ritrovò l’equilibrio e i suoi lineamenti trasfgurarono
in pieghe di pazzia. Si avvicinò al ragazzo e gli assestò due colpi alla
testa con il bastone. Fernando sentì un rivolo di liquido caldo scivolargli dalla tempia allo zigomo, disegnando sulla trama del tappeto un intricato groviglio di lingue scarlatte.
«Brutto animale!» grugnì l’anziano, con la voce che adesso sembrava una eco lontana. «Cosa voleva fare, scappare?»
«M… lasc…» biascicò Fernando, che cominciava a vedere il suo
carnefce con i contorni sempre più rarefatti.
«Non si sforzi a parlare.» mormorò, sedendosi su una poltrona
fatta di braccia e gambe intrecciate. «Si arrenda all’inevitabile e vedrà che non se ne accorgerà nemmeno.»
Fernando lottò contro se stesso per restare sveglio. Strisciò sul
pavimento sentendo alle sue spalle il ghigno cacofonico del pazzo.
Presto la stanza e i volti dei cadaveri cominciarono a girare nella
sua mente in un caleidoscopio di colori bruciati, e Fernando si arrese all’idea che non avrebbe mai contribuito all’economia della famiglia. Sarebbe diventato un tavolino di carne secca e nessuno l’avrebbe più trovato.
Un’ombra scura lo abbracciò quando ormai non distingueva più
le immagini e i colori. Un grido gli inondò i timpani come uno
tsunami di frequenze altisonanti. Udì i suoni confusi e concitati di
una colluttazione. Poi fu solo silenzio.
Domenica 13 gennaio
Quando Fernando annusò l’aria, puzzava di piscio cotto dal sole
e spazzatura. Riaprì gli occhi e riconobbe subito il softto: era
quello della sua baracca a Lomas Zamora. Era steso nel suo letto di
stracci, tramortito, con la bocca amara e una patina di sudore ad
avvolgerlo come una seconda pelle. Da dietro la zanzariera vide
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Carlos seduto a tavola: armeggiava con un tirapugni. In un angolo
c’era Pablo raggomitolato sopra una macchia paglierina e pezzi di
denti rotti: la sua faccia era una lampo aperta che vomitava sangue.
«Ehi, sei sveglio?» esclamò Carlos, voltandosi verso Fernando.
«Co… cos’è successo?»
«Ti ho salvato il culo. Ma che cazzo ci facevi lì? Ti ha dato di
volta il cervello?»
«Ma… come mi hai trovato?»
«Vi ho seguiti.» rispose il fratello. «Per via dei soldi che mi doveva questo infame.» sibilò, puntando Pablo. «Sapevo che se mi fossi
presentato io al mercato sarebbe scappato, così ho mandato te in
avanscoperta. Poi ho visto che prendevate la via del centro.»
«L’hai ucciso?»
«Il nazista? Certo che l’ho ucciso, gente come quella non merita
un processo. Come non lo merita questo cane.» Carlos si alzò e assestò una rafca di calci a Pablo, ormai in fn di vita. «Volevi vendere mio fratello a quello psicopatico, vero?»
Fernando arrancò verso Carlos, tenendo premuta la benda che
gli avvolgeva la testa come un turbante. Fitte lancinanti gli martellavano il cranio con scosse regolari.
«Il corpo del vecchio dov’è?»
«Che domande! L’ho lasciato in quella specie di mausoleo.»
«Voglio tornarci.»
«Perché?»
Fernando fssò il fratello, sentendo la rabbia veleggiare dentro di
sé come una fregata sul piede di guerra.
«Perché ci serve un tavolino nuovo. Non credi?»
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Il rappresentante
di Eleonora Angelini
Mi chiamo Martino e faccio il rappresentante di materassi.
Ho trentadue anni ben portati, e siccome sono del segno della
bilancia ho un carattere solare e sognatore, ma sono anche un po’
permaloso, e in amore non mi lascio andare facilmente.
Mi piacciono il cinema e la musica, il mio gruppo preferito sono
i Te Doors e il mio programma televisivo preferito è X-factor.
Ho una fdanzata che si chiama Lucrezia, stiamo insieme da sei
anni e conviviamo da due. È romantica ma focosa, come tutte le
ragazze con i capelli rossi; ama sciare e la sua più grande passione è
il giardinaggio. Tiene molto alle sue piante e compra una volta al
mese uno speciale concime che viene dal Messico, che ordina su
Ebay.
Alcune persone pensano che il mio sia un mestiere facile, ma
non è così. È un mestiere impegnativo, con alti e bassi, che richiede
grande concentrazione. Non sono mancati i momenti bui, momenti in cui ho pensato che non ce l’avrei fatta: ma la soddisfazione che provo quando le mie fatiche vengono coronate da un successo mi ripaga di tutte le preoccupazioni. Ad oggi, in efetti, posso
feramente ammettere di essere uno dei migliori nel mio campo.
Lo scorso ottobre ho vinto, per la terza volta consecutiva, il premio per “Il miglior rappresentante dell’anno”. Il direttore della sezione a cui appartengo mi ha consegnato una targa e mi ha regalato
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un portachiavi d’oro a forma di delfno. Io i delfni non li posso
sofrire, veramente, ma ho fatto fnta di nulla e l’ho ringraziato calorosamente. Ho ricevuto un cospicuo aumento di stipendio e, se
le cose continueranno ad andare così bene, penso proprio che io e
Lucrezia potremo partire per il mar Rosso, questa estate.
Lavoro in un centro commerciale, al piano terra, accanto a un
rifornitore di divani e al reparto merceria. Nel magazzino presso il
quale sono impiegato vengono vendute tre linee di materassi. Io
sono l’addetto alle vendite della linea Nuvolaria. Ho due colleghi,
uno si chiama Roberto e si occupa di vendere i materassi Piumania,
e lavora assieme a me da quasi tre anni. L’altro si chiama Fernando
e vende la linea Meravigliosonno, ed è nuovo, perché a settembre il
vecchio rappresentante di questa linea, Danilo, è morto.
Ci tengo a precisare che i materassi dei quali io mi occupo sono
in assoluto i migliori dei tre tipi. A partire dalla fodera in cotone
naturale traspirante, il materasso Nuvolaria è interamente progettato in materiali biologici ed ecosostenibili. È disponibile in quattro
taglie: singolo, alla francese, matrimoniale e matrimoniale XL, per
coloro che desiderano un maggiore confort. Il corpo è in lattice ed
è suddiviso in sette zone a diversa densità, per sostenere nel modo
corretto testa, collo, spalle, dorso, glutei, gambe e piedi. La rigidità
è intermedia rispetto a Piumania, decisamente troppo morbido, e
Meravigliosonno, che secondo me non asseconda sufcientemente i
movimenti del corpo.
I miei colleghi non ci sanno fare con i clienti. Lo dico senza presunzione, anzi, provo una sorta di tenerezza per loro.
Roberto, ad esempio, usa una tecnica decisamente troppo aggressiva, la stessa che suggerivano le linee-guida nel ’98.
Quando un cliente compie l’errore di sollevare il naso e guardarsi attorno con aria spaesata, incerto sull’ubicazione di scale mobili
o toilette, lui lo aferra per le spalle e inizia a elencargli in rapida
successione i vantaggi che un materasso Piumania ofre rispetto a
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uno tradizionale, e lo fa senza smettere un solo istante di sorridere.
L’abilità sta proprio nel riuscire a conciliare fonazione e sorriso.
Roberto ha dovuto fare uno speciale corso di dizione, per riuscire a
dire la M senza accartocciare le labbra. E continua così per più
tempo possibile, fnché quello non cede o lo manda a quel paese.
Questa seconda eventualità si verifca nella maggioranza dei casi,
ma a volte, specie i più gentili, riesce a prenderli per stanchezza.
Roberto ha dalla sua parte il fatto di possedere un sorriso veramente smagliante, il che aiuta non poco. Il suo fascino fa breccia
soprattutto sulle signore di una certa età, perché ricorda vagamente
Paul Newman, e sfrutta questa somiglianza pettinandosi i capelli
con la riga laterale. Il suo sistema, per quanto rozzo, non si è rivelato del tutto fallimentare; inoltre, la caratteristica morbidezza della
linea Piumania è particolarmente gradita alle anziane signore artritiche.
Fernando, essendo nuovo dell’ambiente, è ancora un po’ timido.
Prima faceva il rappresentante per una rete telefonica, ed è quindi
abituato ad avere a che fare con una clientela completamente diversa. Detto fra noi, secondo me non ne capisce molto di materassi.
Fernando ha un carattere molto sensibile, come del resto tutti i
nati a fne giugno, e ci resta malissimo quando viene mandato al
diavolo da un acquirente più brusco del consueto.
Guida un’Audi blu notte, di un lusso sproporzionato rispetto al
suo guardaroba. Una volta gli ho rigato la fancata destra della carrozzeria con le chiavi; volevo vedere se aveva una buona vernice antigrafo, tutto qui.
Io, nel corso di tutti questi anni, ho sviluppato un metodo rafnatissimo e molto particolare. Il segreto principale sta nel non sprecare le energie. Perché tentare di arrafare clienti a casaccio, quando
posso scegliere quelli che fanno al caso mio?
Pertanto, bisogna essere per prima cosa degli acuti osservatori.
Bisogna saper riconoscere alla prima occhiata, nel marasma di
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clienti, coloro che potrebbero aver bisogno di un materasso. Quando osservo uno di loro, mi domando sempre: dorme bene? Incede
con un’andatura afaticata, ha le occhiaie? Tiene la schiena curva?
Ha dei bambini a seguito? Non c’è nulla di più orribile che far dormire un bambino con le ossa ancora in accrescimento su un materasso inadeguato, ne converrete.
In secondo luogo, il mio motto è “Non cercare il cliente, fai in
modo che sia lui a cercare te”.
Per far questo, passo ogni giorno dalle due alle quattro ore seduto comodamente su uno dei materassi Nuvolaria, tenendo un giornale aperto sulle ginocchia. In realtà non è un giornale solo, sono
due inflati l'uno nell'altro: La gazzetta dello Sport e l’ultimo numero di Novella 2000.
Alcuni lo giudicheranno un metodo piuttosto singolare, e in effetti lo è, ma vi assicuro che funziona. Mi è sufciente esporre di
volta in volta il giornale più adeguato al cliente di cui voglio catturare l’attenzione.
Vi sorprenderebbe sapere quanti uomini vengano attirati dal
lampo rosato delle pagine della gazzetta sportiva. Ora, è ben difcile che un uomo si rechi per conto proprio in un magazzino che
vende divani e tende per interni. Solitamente si tratta di un poveraccio che è stato trascinato lì dalla moglie, e che non vuole saperne
di confrontare il blu pervinca col blu oltremare per scegliere la tappezzeria del salotto.
Gli uomini, generalmente, non solo detestano gli acquisti, ma
detestano in modo particolarmente feroce gli acquisti che concernono la casa, perché rammentano loro la fatale inamovibilità della
vita coniugale. Quel genere di cliente non vede l’ora di trovare un
pretesto per sganciare la moglie, e io non faccio altro che ofrirglielo. È di fondamentale importanza individuare sin dal primo scambio di battute quale sia la squadra del cuore del mio pupillo, ma è
meno difcile di quanto si creda. Una volta individuata la base cal34
cistica su cui instaurare il rapporto, il gioco è fatto; datemi una
mezz’ora e il cliente non vorrà andarsene prima di aver frmato una
ricevuta d’acquisto per un materasso Nuvolaria.
Non immaginate che ruolo straordinario abbia la gratifcazione
nell’invogliare a un acquisto non programmato. E se la gratifcazione non dovesse essere sufciente, mi basta sottolineare la ben nota
correlazione tra l’uso di materassi inadeguati e disfunzione erettile.
Che, per quanto ne so, potrebbe essere una correlazione assolutamente plausibile.
Quando invece voglio attirare l’attenzione di una donna, espongo la copertina di Novella 2000. Il mio record di vendite si è verifcato due mesi fa, quando quell’attrice di fction ha posato in topless per farsi fotografare all’ottavo mese di gravidanza su una
spiaggia di Maiorca. Si era creata una tale folla di ragazze che ho
dovuto far loro spazio su un Nuvolaria XL, ma questo mi ha concesso di illustrare loro i vantaggi di riposare su un materasso più
largo di quaranta centimetri rispetto al normale. Non che mi abbiano ascoltato granché, ma parecchie di loro hanno aperto il portafoglio senza nemmeno avvedersene. Può essere utile, specie se
sono un pochino in carne, anche confdare loro che una recente ricerca americana ha evidenziato una riduzione dell’otto per cento
delle adiposità localizzate nelle donne che cambiano materasso almeno una volta l’anno. Fortunatamente, nessuna di loro mi ha mai
domandato la fonte di questa clamorosa scoperta.
Queste sono strategie estremamente utili. Il cliente, non sentendosi molestato, entra in uno stato di benevolo rilassamento, che mi
consente con estrema facilità di portare a termine in modo vincente la strategia commerciale. Ovviamente, al di là di questi approcci
generali, ogni cliente possiede le sue particolarità, e deve essere
considerato individualmente. È necessario riuscire a sforare i suoi
più intimi sentimenti: comprendetelo, accettatelo per quello che è,
amatelo, se necessario. Fategli capire che avete davvero a cuore il
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loro riposo, la loro vita, i loro problemi.
Insomma, il mio lavoro è molto più variegato di quanto non si
ritenga. Occorrono una certa fantasia, una buona conoscenza della
psicologia umana e non è male apprendere anche qualche rudimento di ipnosi, cosa che ho iniziato a mettere in pratica in quest’ultimo mese. Beh, ma utilizzo l’ipnosi solo se il cliente si mostra
proprio ostinato, è chiaro.
Certo, come vi ho accennato non sono mancati anche dei momenti difcili.
Ad esempio, la primavera scorsa, quando le vendite di Nuvolaria
erano scese così in basso che ho dovuto convincere mia zia Ester a
comprarne uno. Era particolarmente cocciuta, non ne voleva sapere di cambiare il suo vecchio pagliericcio a molle. Ho tentato di
spiegarle che le molle sono quanto di più dannoso per la spina dorsale, ma lei non voleva sentir ragioni.
Così, sono stato costretto a entrare nel suo appartamento con le
chiavi di riserva e a dare fuoco alla stanza da letto, mentre lei era a
messa. Purtroppo nell’incendio è morto Dadino, il vecchio volpino
di zia Ester. Ma quel cane la sua vita se l’era fatta, diamine. E mia
zia, adesso, visto che ha un nuovo materasso, riposa certamente
meglio. Inoltre ha buttato via la sua vecchia stufa elettrica, ed è tuttora convinta che l’incendio sia scaturito da lì: il che non è una
cosa negativa, visti tutti i problemi che danno quegli aggeggi.
Un’altra volta mi è capitato di dover intervenire per limitare le
vendite di Piumania. Lasciatemelo dire, quel materasso è veramente dannoso. Se la gente avesse la minima idea di cosa accade ai loro
dischi intervertebrali quando si sdraiano su un materasso troppo
morbido, non esiterebbero a comprendere le motivazioni che mi
hanno spinto a sabotarne le vendite. D’altronde, mi sono limitato a
tagliare i freni del tir che trasportava un carico di cinquantasei materassi Piumania verso il sud della regione. Assolutamente sacrifcabili, ve lo assicuro. Ricordate quella storia di quel tir che travolse
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sei macchine sulla statale, qualche mese fa? Beh, è stato spiacevole,
ma necessario.
Per di più sono riuscito a sostituire tutti e cinquantasei i pezzi
andati perduti nell’incidente con dei Nuvolaria ultimo modello. È
stata una mia trovata: mi è bastato procurarmi l’elenco completo di
indirizzi e numeri telefonici delle famiglie che avevano ordinato i
Piumania, e ofrire loro un cambio con i miei materassi. L’elenco
era nell’ufcio di Roberto, ma fortunatamente sono riuscito a
prenderlo prima che potesse farlo lui: ho dovuto soltanto forzare la
serratura con la stanghetta degli occhiali.
Non si può certo dire, in sostanza, che io non mi impegni anima
e corpo per migliorare le vendite della mia linea. Modestia a parte,
da quando lavoro qui ho incrementato le entrate della ditta del diciotto virgola due per cento. Non è un caso che io sia stato eletto
per tre volte di seguito “Miglior rappresentante dell’anno”.
Solamente l’anno scorso mi è capitato di incontrare qualche problemino per via di Danilo, il vecchio rappresentante della linea
Meravigliosonno. Un tipo piuttosto scaltro, quel Danilo. Aveva
escogitato una trovata niente male: la campagna promozionale consisteva nel concedere in prova i materassi Meravigliosonno per quindici giorni. In sostanza, consentiva ai clienti di portarsi a casa il
materasso, impacchettato sottovuoto, naturalmente, e accludeva
anche in omaggio uno spray anti acaro. Ora, questo è senza dubbio
il metodo migliore per poter vendere i materassi di quella linea.
Perché all’inizio sembrano scomodissimi ma poi, quando ci si abitua, devo ammettere che non sono malvagi. Il materasso Nuvolaria,
invece, fa un po’ difetto dopo qualche tempo di utilizzo: il problema sta nella zona cinque, quella dei glutei. È un po’ troppo morbida, e tende a cedere. Per questo non ho mai potuto sfruttare lo
stesso metodo di Danilo.
Con quella tattica Danilo era riuscito a piazzare talmente tanti
materassi Meravigliosonno che rischiava di sofarmi il premio di
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“Miglior rappresentante dell’anno”. Ho tentato di dissuaderlo dal
proseguire con quella strategia, ma come immaginerete non ne ha
voluto sapere; così, ho dovuto ucciderlo. Non è stato per nulla
semplice. L’ho dovuto pedinare per una intera giornata di pioggia
attraverso tutta la città. L’ho seguito prima fn sotto casa, poi l’ho
aspettato all’uscita di un cinema, infne sono riuscito a colpirlo con
il cric della macchina quando si è inflato in una stradina laterale,
tornando dal tabaccaio. Ho dovuto parcheggiare la macchina in seconda fla, di fronte ai cassonetti, e, dopo averlo avvolto ben bene
in tre buste della spazzatura formato gigante, l’ho caricato nel portabagagli. Poi ho guidato fno al Panaro e ho parcheggiato sul lungofume, là dove ci sono i gradini; ho trascinato il corpo di Danilo
fno a una spiaggetta piena di immondizia e l’ho tagliato a quadratini con le cesoie da giardino di Lucrezia. La parte più complicata è
stata quando ho dovuto tagliare le gambe, ho sudato sette camicie.
In tutto ho impiegato quattro ore e mezza, già albeggiava e ho
avuto paura che qualcuno mi vedesse. Ma fortunatamente sono
riuscito a concludere tutto senza problemi. Ho ammucchiato i pezzetti di carne e ossa dentro i tre sacchi della spazzatura e li ho portati di nuovo alla macchina, e sono tornato a casa. Poi, i muscoli e
la materia molle li ho messi nel tritatutto e li ho seppelliti sotto i
cespugli di rose di Lucrezia. Le ossa le ho tagliate a pezzetti piccolissimi e le ho cucite dentro dodici materassi Nuvolaria nuovi di
zecca, che si trovavano nel deposito già disimballati, pronti per essere esposti nel magazzino.
Ho concentrato i frammenti d’osso nella zona cinque, quella
troppo morbida, e sono convinto di avere apportato col mio intervento un miglioramento straordinario a questa linea. Sono riuscito
a vendere tutti e dodici i materassi in due settimane; un record
straordinario, in efetti. Così, a ottobre ho potuto vincere per la
terza volta di seguito il premio di “Miglior rappresentante dell’anno”, anche perché Danilo non avrebbe più potuto riscuoterlo. Ma
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d’altronde, grazie alla mia piccola modifca, i materassi Nuvolaria
sono diventati decisamente migliori di quelli Meravigliosonno.
Ancora non ho svelato al direttore il mio segreto, ma conto di
farlo quando sarò riuscito a vendere con lo stesso metodo un’altra
dozzina di pezzi. Non è facile procurarsi ossa umane da sminuzzare; ma se Roberto continua a sofarmi le vecchie signore, potrei
usare le sue. Lucrezia, inoltre, mi ha fatto notare come crescono rigogliosamente i suoi Buganvillea, da qualche tempo a questa parte.
Spero che riuscirò a convincerla a fare a meno di quel costosissimo
concime del Messico; la carne umana è meno cara, e oltretutto è
biologica ed ecosostenibile, al contrario di tutte quelle porcherie
chimiche dei fertilizzanti. È importante tutelare l’ambiente, e nel
mio piccolo cerco di dare sempre il giusto contributo.
Nessuno può rimproverarmi di non aver dato a questo lavoro
tutto me stesso. Le difcoltà non sono mancate, eccome, ma non
mi sono mai lasciato scoraggiare o intimidire dalle sfde.
Quando la sera chiudo gli occhi, sdraiato nel mio comodo materasso Nuvolaria XL, so di aver garantito a tutti i miei clienti un
sonno migliore, e mi sento riempire il cuore d’orgoglio.
Non c’è nulla di più bello che sapere che stanotte, grazie a me,
centinaia di persone possono dormire serene, rilassate e nella corretta postura, coricate su un eccellente materasso Nuvolaria.
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H
di Alessandro Artistico ed Emanuele Intartaglia
Il fragore metallico, della saracinesca alzata a metà, squarcia le
prime luci dell’alba. Molti toni più in basso, il respiro afannato di
una signora di mezza età - corpulenta, occhiaie, capelli corti e neri,
qualche pelo di troppo sul viso - trascinatasi lì dopo un’altra notte
insonne a sperare che suo marito non si fosse di nuovo fermato a
ubriacarsi tra un pub e l’altro o, peggio ancora, a intrattenersi con
qualche puttana in tangenziale.
La luce fltra dall’esterno, disegna sottili lame orizzontali tra il
pulviscolo sospeso nel piccolo locale della macelleria. Seguendo il
muro e con la vista non ancora abituata alla penombra, Franca raggiunge il quadro elettrico, i neon iniziano a lampeggiare come fossero stanchi e scocciati pure loro. Le piastrelle alle pareti hanno
perso il candore originario, rivestite dalla patina gialla del tempo e
dell’incuria. Il pavimento sta anche peggio: impronte, polvere e
forme di vita a sei o più zampe.
Prima ancora di lasciare la borsa in cassa, aferra la scopa per
dare almeno una pulita sommaria. È abituata alla puzza della carne
in decomposizione, al vedere continuamente tutte quelle bestie
squartate, i loro bulbi opachi e appiccicosi fssi nel vuoto, ma alla
mancanza di igiene non si abituerà mai. C’è un’aria pesante, solcata da un paio di mosche, i suoi occhi di sfuggita avevano registrato
qualcosa, senza che la mente avesse avuto il tempo di decodifcare.
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Strizza le palpebre, per mettere meglio a fuoco ciò che il bancone protegge nel suo pancione di vetro: i fegati scuri ammucchiati
tra liquido e cellophane, fettine di braciole e fletti, una pila di costate già tagliate, una vaschetta colma di viscere varie. Le si ferma il
respiro quando arriva alle teste dei maiali che urlano mute, immobili nella foschia della condensa, allo stesso tempo vittime, spettatori e giudici. Una è quella di suo marito. Di fronte a quegli occhi
rigirati, al naso spezzato e alzato per somigliare ai suoi vicini, alla
bocca aperta e alla lingua gonfa e violacea, pendente su un lato,
Franca resta impietrita per qualche istante, prima di scappar fuori a
urlare tutto il fato che trova in gola.
Sabato, 22 novembre
È successo tutto ieri mattina, quando la Signora F. B. proprietaria
di una macelleria, ha rinvenuto il cadavere del marito O. B. o meglio,
una parte, per la precisione, la testa. Erano circa le sette, dopo aver
aperto il negozio e svolto le prime faccende, la donna non ha potuto
fare a meno di urlare in preda al panico alla vista raccapricciante del
volto martoriato e decollato dell’uomo con cui aveva deciso di trascorrere la vita insieme, esposto in vetrina con gli altri pezzi di carne.
L’omicidio sembra non essere l’unico evento di cronaca nera della
tranquilla comunità; poco meno di tre settimane fa, il terribile incidente, stando al rapporto dalle forze dell’ordine, del cacciatore ritrovato nei boschi parecchi giorni dopo la sua scomparsa, riverso a terra tra
sangue e fogliame, con una tagliola serrata sul viso e un pettirosso inflato in gola.
Le atrocità sembrano superare il limite della mera coincidenza per
un paese che in forse cinquant’anni avrà avuto sì e no un paio di casi
di omicidio. Gli abitanti sconcertati si chiudono in un muro di silenzio.
Come in un romanzo giallo o in un thriller americano, pieno di ef41
fetti speciali, c’è tutto: l’omicidio, la polizia che brancola nel buio, la
comunità scioccata e inorridita, manca solo il presunto assassino.
Scendo dall’auto, lasciando cadere lo stralcio di giornale sul
brecciolino. Un po’ di polvere si alza dietro i miei passi. Davanti a
me un edifcio, quelli di una volta: un grosso capannone in pietra,
acciaio e amianto, strati di nero e mufa sono lo specchio della sua
anima. Prima di entrare, da uno dei cancelli, quello dell’edifcio H,
un uomo grasso e stempiato, spenta la cicca sotto il tallone, mi viene incontro.
«Buongiorno, come va?» mi fa, allungando la mano tozza e pelosa. Il guanto e un leggero cenno di intesa mi aiutano a procedere.
«Mmm, sì, da questa parte, ma ti ricordi un po’, vero?»
Camminiamo l’uno di fanco all’altro, mi arriva sì e no alla spalla. La pelle arida di bulbi piliferi è ocra, macchiata di sole e lucida
di unto e sudore. Per fortuna, superato l’ingresso dello stabilimento, la tonalità cromatica dei neon impedisce la visione di certi dettagli. Nel corridoio si afacciano porte a vetri scorrevoli, come al reparto di ginecologia o allo zoo, quando si vogliono guardare i rettili. L’odore sale nel naso, s’arrampica tra i peli e penetra fno all’amigdala, impregnato di ghiandole sudoripare, manti adiposi, ferro,
orina, feci. L’assalto ai padiglioni auricolari è condotto da lamenti,
belati, seghe circolari, rulli e macchinari. Un operaio ruota la valvola dell'idrante fno a che il getto d’acqua bollente spinge fuori dal
recinto le bestie intontite e piene di pustole rigonfe.
«Dunque, come ben sai, ultimamente la nostra azienda sta passando un momentaccio, anzi diciamo che da quando te ne sei andato le cose hanno continuato a peggiorare.»
Attaccato alle mammelle, l’aspiratore succhia latte, sangue e pus
di ferite chiuse e riaperte; le mucche segate e urtate vagiscono: la
produzione è più veloce della cicatrizzazione. L’uomo in tuta di
carta e mascherina controlla il serbatoio.
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«Bisogna spremerle bene, con questi tempi non ci possiamo fermare, abbiamo aumentato gli orari e tagliato il personale.»
Proseguiamo tra luce e ombra alternate, a destra un addetto alla
zona avicola raccoglie sotto il tritacarne la melma rosa e grumosa
appena prodotta, ripone la vaschetta nella cella frigorifera e torna al
macchinario facendo un cenno all’operaio sul lato esterno. Il frastuono del tritacarne sovrasta il pigolio dei batufoli gialli: ai maschi i denti d’acciaio, alle femmine limatura del becco e una vita di
prigionia.
«Stiamo provando ad aumentare il fatturato con i nuovi sistemi
sul mercato. Tutta roba legale, eh...»
Ci fermiamo davanti alla vetrina delle gabbie a batteria. C’è puzza di piume, fango, feci e cocce d’uovo. I colli rinsecchiti sbucano
dalle grate, qualcuno penzola senza vita. Un uomo, rastrella via il
feno, alza per un attimo lo sguardo, ci vede e saluta. Gira la manopola vicino la porta e la luce si fa più scura, lo sbatter di ali e il
chiocciare si spengono lentamente. Con un dito ci fa capire che arriva subito. Prende lo strumento appoggiato all’angolo del muro,
seleziona l’intensità e si dirige verso il gancio a cui una decina di
galline moribonde aspettano la propria sorte. È un attimo, un sibilo e un ronzio intenso, i corpi vibrano e si irrigidiscono.
Ci guarda, abbassa la maschera e urla «Guardate ora che succede.»
Tutto contento dei suoi esperimenti, aumenta ancora l’intensità
della scarica elettrica. Il collo esile e spiumato della gallina, toccato
dalle due pinze, si gonfa, si ferma un secondo, esplode.
Mascherina sporca, guanti e stivali che scrocchiano, mi saluta
dopo essersi pulito la mano sul camice di cuoio.
«Salve.» rispondo trafcando con le mani nella borsa.
Ritira la stretta, vuota.
«Comunque ecco, hai capito quello che ti dicevo prima, ci serve
qualcosa che possa incrementare il fatturato, ne abbiamo bisogno.
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Ma sono sicuro che il nostro allevatore ti potrà essere più utile, vi
lascio. Arrivederci e ben trovato.»
«Ti piace? È una mia invenzione.» si picca dei suoi progressi.
«Credevo fosse illegale l’uso dell’elettronarcosi.»
«È sicura al cento per cento, non sofrono. Comunque, veniamo
a noi, ci serve qualcosa per aumentare il peso, prodotti che facciano
miracoli.» mi strizza l’occhio.
«Come veterinario posso rimediare qualcosa, ma sarebbe meglio
non avere trattazioni trasparenti per questa attività.»
«Ok, vediamoci, questo è il mio indirizzo.»
Le luci sono tutte spente. Ricontrollo l’indirizzo sul biglietto da
visita, giro ancora un po’ intorno alla casa. Sembra non esserci nessuno ma un rumore e un debole bagliore azzurro attirano la mia attenzione. La porta blindata reggerebbe a un colpo di pistola, ma
cede facilmente alla mia Visa.
Lo trovo a gambe aperte sul divano, il pene eretto, la testa rivolta
verso le immagini che scorrono in silenzio sul computer. Si dimena. Nella mano libera stringe l’elettronarcotizzatore, quello di stamattina, lo attacca allo scroto e prima di attivarlo trattiene il respiro: una scarica, gli occhi socchiusi e un sospiro di sollievo mentre
l’addome si rialza, la schiena arcuata, il collo piegato all’indietro.
È uno shock quando vede il mio rifesso sul monitor. Fa per tirarsi su, ma è gofo nel riprendersi e io sono più rapido. Una mano
alla gola e una siringa sulla vena pulsante.
«È solo un sedativo blando.»
La mascella serrata e l’occhio dilatato sono molto più chiari di
parole sconnesse.
«Non si deve preoccupare per il suo hobby, ognuno ha il proprio
svago.»
Mi giro verso lo schermo, agnelli appesi a uncini si divincolano a
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testa in giù come cappotti mal riposti, presi a calci dagli operai. Il
volume a zero non dà voce ai loro lamenti.
«Certo, capisco l’eccitarsi con del sangue, l’odore del ferro che si
attacca alle narici è impagabile, ma con gli animali…»
Mugugni incomprensibili.
«Oggi mi ha chiesto, se non sbaglio, di portarle qualche stimolatore della crescita. Beh, si dà il caso che avrei quello di cui la sua
azienda ha bisogno – estraggo dalla borsa la bottiglietta – M320. Il
top. Incrementa la massa muscolare del trecento percento. Pulcini
che vivranno quanto una farfalla. Questa è chimica, e noi ci campiamo.»
La testa oscilla.
«Shh, shh. Comunque non è ancora stato testato su larga scala,
ma i primi risultati sono stati soddisfacenti. Mi dispiace che non
potrà vantarsene in fabbrica.»
Con il dito sbatto sul corpo della siringa mentre con una mano
espello l’aria in eccesso. Una puntura per le arterie nelle gambe, altre sugli avambracci e sul collo, sotto il mento, dietro la nuca, una,
per fnire, sul glande.
La pelle in pochi istanti inizia a seccarsi e a farsi più tirata. È il
segnale per indossare il camicie e le protezioni adeguate. L’epidermide perde il suo colorito per prendere in prestito diverse tonalità
miste tra il grigio e il verde fnanche il bianco marmo o il giallo
pergamena. Turgida, cresce, aumentando il volume esponenzialmente. Le labbra sono ammassi di carne cruda avariata, le palpebre
troppo spesse non riescono a contenere i bulbi grandi come uova. I
capelli scivolano in basso verso la fne del collo. La pancia brulica
di rigonfamenti, il grasso si è moltiplicato fagocitando ogni parvenza di osso e rimane a prima vista come polvere morbida nascosta sotto un tappeto ben tirato. Come una camicia troppo stretta,
morsa da un serpente a sonagli, l’epidermide inizia a scucirsi, rivoli
di sangue e sbruf di lipidi e pus scivolano a terra. Credevo sarebbe
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durato di più. Meglio procedere prima che l’enorme blob umanoide cada senza aver la gioia di rimbalzare. Le pinze elettrifcate stringono ancora quel che resta della sacca scrotale inglobata dal perineo
e rinsecchita per efetto degli steroidi somministrati. Regolo la potenza al massimo, un ultimo sguardo all’allevatore, i bulbi oculari
penduli a malapena attaccati. L’esplosione arriva come uno tsunami di carne secca, grasso, sangue e ossa.
Mercoledì, 26 novembre
Ennesimo capitolo della spirale di sangue che avvolge la città. La
vittima è G. B.: allevatore, trovato morto nella sua abitazione.
Dalle prime indiscrezioni, risulta sia stato molto difcile il recupero
del cadavere, ridotto a brandelli da una defagrazione, anche se non
sembra vi siano tracce di esplosivi. Sul luogo del delitto sono stati rinvenuti degli strani strumenti di tortura, forse presi dal suo ambiente di
lavoro, dove si concentreranno le indagini nelle prossime ore.
Il modus operandi risulta insolito e gli investigatori sono intenzionati a non tralasciare alcuna pista. Proseguono gli interrogatori e le ricerche tra i sospettati, per poter stringere il cerchio intorno all’assassino, che al momento resta ancora sconosciuto. Di lui non esiste un
nome, a parte mostro.
Torno allo stabilimento.
Con il buio posso muovermi con maggiore libertà. Per aggirare
la sorveglianza, l’ingresso secondario, ben nascosto su un lato del
parcheggio, è perfetto, via preferenziale di bustarelle e altri trafci
loschi.
Prendo le scale di servizio fno al piano degli ufci, il terzo. Il
grosso serpente di neon che striscia sopra il corridoio è spento,
un’unica luce fltra da una porta socchiusa, sulla targa il nome del
direttore. Mi avvicino a passo lento, fnché non riesco a vederlo. È
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appoggiato sul bordo della scrivania, occhi chiusi e testa all’indietro
con aria estasiata, pantaloni calati e fra le gambe la gonfa capigliatura biondo-cenere della donna inginocchiata ai suoi piedi che si
muove rapida avanti e indietro. La stanza è pregna degli schiocchi
di lingua e saliva, insieme a mugolii e monosillabi ansimati.
Nessuno dei due si accorge della mia presenza, né della statuetta
di marmo che dagli scafali arriva a frantumare la testa della malcapitata. Il dolore del morso ricevuto gli arriva alla corteccia celebrale. Urla il porco, sgomento e incredulo, gli occhi sembrano voler
saltargli fuori dalle orbite. Guarda me, la puttana riversa a terra,
poi il suo membro masticato che comincia a spruzzare sangue insieme a un liquido bianco e denso. Devo averlo interrotto proprio
sul più bello. Con un cazzotto ben assestato alla mandibola smette
di gridare, si ribalta all’indietro, rovinando sulla scrivania, facendo
volare documenti e soldi. Il direttore con una mano al viso e l’altra
all’inguine, mugugna e si lamenta. Un ginocchio allo sterno lo
blocca, lui si dimena, scalcia, cerca persino di mordermi, io, presa
una manciata di banconote, le accartoccio e le spingo giù in gola,
via via più a fondo fno a che non si ritrova senza fato. Annaspa,
trema, riesco a leggergli il terrore in faccia, poi la morte.
Mi rialzo a guardare i due corpi senza vita. C’è voluto meno di
quanto pensassi per far fuori il direttore, meriterebbe una morte
più comica e dissacrante. Scarto a priori l’idea di attaccargli la macchina aspira-latte al cazzo, le dimensioni non lo permetterebbero,
tant’è che ora ne manca anche un pezzo.
Altre banconote in bocca fnché ce ne entrano e qualcuna la lascio fuori per metà. A completare l’opera, un semicerchio e due
strisce orizzontali sull’addome.
Esco, dal buio due grosse fgure mi assalgono. Sotto una pioggia
di calci e pugni, un colpo alla nuca mi stordisce, perdo i sensi.
Il padiglione H, riconosco la sala per la pulitura e il taglio delle
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carcasse di maiale. Delle cinghie mi legano a un tavolo d’acciaio.
Nella penombra, i due energumeni ridono, non sembrano poliziotti, si sono accorti di me.
«Bentornato tra i vivi,» mi si avvicina uno «ma non farci l’abitudine, non ci resterai a lungo.»
L’altro intanto trafca con degli arnesi. Mi tiene una mano sulla
gamba, con un gesto veloce me la arpiona con un gancio, passando
tra tibia e perone. Il dolore è immane, non posso muovermi, non
riesco a trattenere le grida, mi sento di nuovo svenire.
«Dai, sta’ fermo che ti faccio anche l’altra.» e ride.
Mi manca il fato mentre vengo traftto. Mi slegano, inarco la
schiena e per poco non cado dal tavolo. Uno dei due preme un
pulsante sulla parete e un argano mi solleva tirandomi dai ganci. Il
dolore si fa più intenso quando perdo l’appoggio, con la pelle e i
muscoli in tensione per il peso. Resto indolenzito, ciondolante tra
le carcasse di maiali.
«Va’ a chiamare il capo, vorrà gustarsi lo spettacolo, io resto a
dare due pugni al sacco.»
Quasi non sento gli ennesimi colpi, persi nel cumulo di dolori e
nel sangue che mi sta andando in testa. Si ferma, l’altro torna di
corsa urlando.
«Cazzo, vieni, corri. Il direttore è stato ammazzato nel suo ufcio.»
Mentre si allontanano, raccolgo forze e lucidità. Faccio leva coi
piedi sui ganci e, piegando le ginocchia, tento di aferrare l’argano
per tirarmi su. La carne si lacera e le ossa si portano al limite della
frattura. Aferro la catena, alzo piano una gamba, sflo l’uncino.
Cerco di liberarmi, ma i guanti perdono la presa e per poco non
me la strappo con la caduta. Ci provo di nuovo, riaferro la catena
e riprendo fato. Levo anche l’altra gamba dal gancio e mi lascio
andare di schiena sul linoleum.
Allo stremo, mi rialzo. Sento dei passi avvicinarsi. Attendo na48
scosto dietro la porta, il primo che entra lo colpisco alla trachea
con tutta la forza che ho, si porta le mani alla gola, vomita e sviene.
L’altro, prima di vedermi, inciampa sulle gambe del collega,
quanto basta per prenderlo alle spalle. Sofocarlo non è cosa facile,
si divincola, mi colpisce e cadiamo insieme. A terra avvinghiati, rotoliamo fno a che, una volta sopra, gli comprimo le tempie. Lui
mi cerca annaspando e allora azzanno la giugulare. Con la faccia
sporca lo guardo nella sua agonia di rantoli e convulsioni.
Li trascino nella grande bocca della macchina dei wrustel. Uno
dei due riprende conoscenza, alza gli occhi verso di me. Ci fssiamo
poco prima che, acceso il tritacarne, entrambi svaniscano inghiottiti nel metallo urlante.
Torno sui miei passi, cercando di non lasciare impronte. Il mio
sangue si confonde con quello umano e animale, che già lorda il
pavimento.
Guardo l’ora, un profondo respiro, e schiaccio il pulsante di discesa dell’argano.
Domenica, 30 novembre
Ancora crescente la parabola di violenza che sta tenendo in scacco le
forze dell’ordine. Questa volta si contano almeno tre omicidi, avvenuti
tutti nello stesso luogo: gli stabilimenti di allevamento e macellazione
di una prestigiosa compagnia, vanto e motore dell’economia locale.
A cader vittima la notte scorsa è stato il direttore G. S., barbaramente sofocato, denudato ed evirato nel suo ufcio. Sembra che alcune banconote siano state inserite nella bocca e che sulla pancia avesse
disegnato un enorme simbolo dell’euro. È stato rinvenuto anche il cadavere di una donna con il cranio spaccato.
Sono in corso accertamenti per altri resti umani, di una o più persone, ritrovati all’interno di un macchinario.
L'unico superstite è un ex dipendente, appeso a testa in giù, privo di
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sensi, con le gambe inflzate da ganci metallici, forse salvo perché creduto morto. Ora lotta per la vita, i medici sono speranzosi, ma la prognosi resta riservata.
Il consiglio di amministrazione dell’azienda ha già decretato lo
smantellamento della produzione e il trasferimento in un paese dell’est
Europa, sperando di porre fne alla catena di omicidi.
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Semplici deduzioni
di Simone Carletti
A giudicare dai seni microscopici che intravidi sotto la camicetta, non sarebbe valsa il prezzo di un whisky, meno che mai una
notte passata a fare sesso e ubriacarsi. Eppure, più la osservavo più
mi convincevo che la ragazza non fosse proprio da buttare.
«Posso andare, commissario? È un’ora che m’interroga, inizio a
essere stanca!»
Scosse la testa, facendo oscillare i lunghi capelli neri.
«Signorina Farnesi, sono io che stabilisco quando abbiamo fnito. E noi non abbiamo fnito.»
Capii che ad attrarmi erano gli occhi, scuri e lucidi come catrame sulle ali di un cormorano. Quello sguardo, unito a due gambe
da urlo, che la pupa insisteva a sbandierarmi davanti, mostrando
forse più di quanto suo padre avrebbe voluto, mi persuasero a insistere nell’interrogatorio. Sapevo che non avrei cavato un ragno dal
buco, me l’ero spremuta come un pompelmo, ma puntavo a incassare almeno il numero di cellulare. Avevo la serata libera.
«Ricominciamo dall’inizio, bellezza. A che ora ha lasciato la festa
ieri sera a casa del signor Piano?»
«Ancora? Le ho già detto che all’una ero nel mio letto e quando
ho lasciato la villa, Carlo… il signor Piano era in piena salute. La
mattina mi sveglio presto. Ho bisogno di lavorare, io!»
«Immagino. E scommetto che non c’era proprio nessuno con lei
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nel suo bel lettone morbido. Qualcuno che possa confermarlo, intendo.»
«Vivo da sola, come glielo devo spiegare? Venga a controllare di
persona, se non mi crede. Continua a farmi le stesse domande. Almeno mi dia una sigaretta!»
Le lanciai il pacchetto di Camel che tenevo in tasca. La donna
estrasse una cicca, poi stringendola tra i denti si protese verso di
me. Accesi un fammifero e l’avvicinai a quelle labbra carnose, pensando che mi mancava davvero poco per accenderle qualcos’altro.
Aferrai la scheda della giovane che avevo appoggiato sulla scrivania prima che arrivasse in Commissariato. Maura Farnesi, venticinque anni, massaggiatrice professionista. Non le avrei dato più di
diciott’anni ed ero certo che le stimolazioni manuali che faceva ai
suoi clienti fossero assai apprezzate.
Sgualdrina!
I festini e la droga avevano procurato segni indelebili sulla sua
giovane faccia. Le occhiaie e il tirar sù spesso con il naso erano lì a
confermarmelo.
Carlo Piano era un noto organizzatore di party a base di sesso e
stupefacenti nella sua mega villa di Ostia. Lo sapevano tutti, noi
poliziotti per primi. Chiudevamo spesso un occhio - quando non
tutti e due - visto che tra i frequentatori della magione vi erano politici, artisti, imprenditori e molti, troppi colleghi. Adesso che quel
vecchio sporcaccione era morto bisognava scavare nel giro delle sue
amicizie.
«Dimmi Maura,» passai con nonchalance dal lei al tu, a suggellare l’intimità che sentivo scaturire dalle boccate di fumo che mi lanciava addosso «è stato il signor Piano a invitarti a casa sua? Che
rapporti avevate?»
«Non ci andavo a letto, se è questo che vuole sapere!»
La pupa manteneva le distanze.
«Mi ha portato lì la mia amica Veronica, era lei che conosceva
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quel maiale. L’ho solo accompagnata, le dovevo un favore.»
Virginia Marconi, ventisette anni, tossicomane. Una vecchia conoscenza del Commissariato. La ricordavo bene, soprattutto per il
posteriore da schianto.
«Facciamo fnta che io non sappia nulla dei soldi sporchi che
devi a quella cocainomane. Ho già troppi casini per le mani. Spiegami solo cosa è successo in quella casa. Vi ha picchiato? Ha abusato di voi?»
Scosse la testa. Era una falsa pista, quella sessuale. Prostitute
come loro ne avevano viste di sicuro di tutti i colori. La droga, poi,
l’aveva fornita lo sporcaccione: una manna per quelle due. Dovevo
indagare sugli altri presenti.
«Il custode mi ha raccontato che voi ragazze eravate le uniche
due donne, e di certo non siete state invitate per mangiare una pizza. Mi sa tanto che c’è scappata l’orgia, dico bene? Quanto vi hanno dato? Chi erano gli altri maialoni?»
«Chiedilo al custode, se sa tante cose!»
«Lo chiedo a te, invece. Lui gli altri convitati non li conosceva.»
«No?»
«No, allora? Vuoi darmi una mano?»
La ragazza non colse il doppio senso. O almeno non lo diede a
vedere. Forse amava le volgarità.
In quel momento entrò l’agente Polsetti. Un metro e ottanta di
scempiaggine per centodieci chili di onestà. Lo conoscevo poco era nuovo - ma abbastanza per defnirlo un tipo inopportuno.
«Commissario, abbiamo i risultati dell’autopsia.»
Vide la ragazza e si bloccò. Troppa femminilità in un colpo solo
per uno abituato a condividere il letto con una gatta.
«Grazie Polsetti. Poggia la cartella sul tavolo, dopo gli darò
un’occhiata.»
Il giovane agente, come imbambolato, non si mosse.
Mi costrinse a gridare «Polsetti!»
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Lo aferrai per una spalla, gli strappai i documenti e lo spinsi
fuori dalla porta. Poggiai la scheda sul tavolo, poi tornai a occuparmi della ragazza. Stava frugando nella sua borsa. Le porsi un posacenere in cui spense il mozzicone. Ammiccando, vi fece cadere
dentro un foglietto. Sopra c’era scritto un numero di telefono.
Centro!
«Allora?»
La guardai, aspettando una risposta alla mia domanda precedente. Con l’occasione le feci un occhiolino di ringraziamento che di
certo le contorse le viscere.
«Commissario, così mi metti in difcoltà.»
Era passata al tu anche lei. Ottimo segno.
«È tutta gente in vista e…»
«Poche chiacchiere, voglio i nomi.»
Titubò, poi si aprì come un rubinetto.
«Be’, oltre a noi ragazze e a Piano c’erano altri due uomini. Il senatore Moliti, quello dello scandalo del Banco Lucano.»
«E tu che ne sai dello scandalo?»
«Niente. Leggo i giornali, guardo la televisione, tutto qui. Cosa
credi, che siccome sono una bella fgliola allora ho la zucca vuota
e...»
«Va bene. Uno era Moliti. E l’altro?»
«Era uno sbirro.»
Mi sparò un sorriso da ragazzina stronza. Avrei voluto scoparmela lì, subito, sulla scrivania.
«Ha detto di chiamarsi Massimo. Un tipo pelato, grosso, con
una cicatrice qui.» e si allungò una mano nell’interno coscia. «L’ho
vista da vicino, un bel ghirigoro.»
Un brivido mi percorse la schiena, sapevo di chi stava parlando.
«Ok bellezza, basta così. Sei stata di grande aiuto. Ora vai a casa
a farti una bella doccia.»
«Mentre mi aspetti» aggiunsi mentalmente.
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Senza fatare si alzò per andarsene. Buttai al volo l’occhio nella
cartella che mi aveva portato Polsetti, più che altro per curiosità.
Diedi una rapida occhiata e tradussi gli astrusi termini medici: il tizio s’era rotto l’osso del collo. Niente di più. A parte alcuni graf
leggeri rinvenuti su una spalla. Guardai il sedere della ragazza che
stava per uscire dalla stanza, non proprio sodo ma neanche calante,
e pensai che né Virginia né lei potevano aver ammazzato Piano.
Fragili, magroline, quasi deperite dalla troppa droga e da un’esistenza sempre ai limiti, non sarebbero riuscite a spezzare l’osso del
collo a un gatto. Mi alzai e la raggiunsi.
«Maura!»
Sforai la sua spalla. Quella fu scossa da un brivido, proprio sull’uscio dell’ufcio. Ero caricato a pallettoni, ma la piccola depravata doveva aspettare ancora se voleva che sfogassi su di lei il mio caricatore.
«Vino rosso o bianco?»
*
«Stefano Piazzalunga! Commissario Stefano Piazzalunga. Chi
l’avrebbe detto che te la facevi con le puttane, per di più cocainomani!»
Maura mi sofò del fumo in faccia, mentre con la mano accarezzava i peli del mio petto.
«Tutti possono sbagliare, bellezza. Non buttarti giù così: se vendi il tuo corpo, lo fai con cognizione di causa e con una clientela
certifcata. Non che questo ti giustifchi, ma almeno non batti le
strade.»
«E giustifca il fatto che tu venga a letto con me, commissario?»
Si sollevò e spense la cicca. Mi guardò con aria sfacciata.
«Parli troppo, signorina! Siamo entrambi adulti, lasciamo il poliziotto e la puttana fuori da questo letto. Non hai niente da bere?»
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Maura scivolò fuori dalle lenzuola e si avvicinò a un mobiletto.
Era completamente nuda e a guardarla capii che non mi ero sbagliato. Il seno era insignifcante: due pere avvizzite quasi non fossero mai maturate. Il sedere, però, come avevo sospettato, non era affatto male. E il pelo rasato aveva sempre un certo fascino. Sì, tutto
sommato lo valeva il prezzo di un whisky.
Fu proprio un bicchiere di Chivas che la ragazza mi mise sotto il
naso. Lo ingurgitai in tre secondi.
«Una cosa non riesco a capire,» rifettei ad alta voce «mi hai detto che a cena da Piano non hai notato nulla di strano. Avete mangiato, chiacchierato, fatto l’amore, snifato la roba, eppure quel
vecchio è schiattato con il collo rotto. Come lo spieghi?»
«Non dovevamo lasciare il poliziotto e la puttana lontani da
qui?»
«Infatti sono chiacchiere fra amici. Due amici, per così dire, intimi.»
Tastandole il sedere, la strinsi a me e le stampai un bacio in bocca. Sapevo bene come ottenere le mie informazioni. Non erano
metodi del tutto professionali, però si rivelavano efcaci.
«Non ho idea di cosa sia accaduto durante la notte. Virginia e
io, dopo il lavoro, ce ne siamo andate. Gli altri sono rimasti là.
Anzi no, l’onorevole Moliti è uscito con noi.»
Bel tipo Moliti. Senatore da tre legislature, ultrasessantenne,
bacchettone in Parlamento e molto più tollerante di notte, era noto
ai più per la vicenda del Banco Lucano, che lo aveva visto tra gli
imputati. Poi l’accusa di appropriazione indebita era caduta in prescrizione e lui era rimasto abbarbicato alla sua bella poltrona da senatore. Lo conoscevo bene, più volte l’avevo pizzicato con le braghe calate accanto a donne poco raccomandabili o giovinetti imberbi. Era uno che si godeva la vita. Eccome, se se la godeva! E l’aveva sempre scampata, gli bastava sganciare belle sommette ai miei
superiori.
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Così va il mondo.
Ero più che convinto che anche stavolta il suo coinvolgimento
fosse imputabile esclusivamente al testosterone eccessivo. Una
chiacchierata me lo avrebbe confermato, conoscevo molto bene il
soggetto. Un viscido innocuo.
Rimaneva dunque in gioco il poliziotto. La faccenda si faceva
scottante. Doveva essere lui il colpevole. Secondo il referto del medico legale l’omicidio era avvenuto tra l’una e l’una e un quarto del
mattino, poco dopo che le pupe e il senatore se n’erano andati. E
prima che lo sbirro uscisse dal cancello, almeno secondo quanto
confermato dal custode.
«Ora basta domande, commissario!»
«Hai ragione, hai ragione.»
Mi accesi una sigaretta. Maura era scomparsa sotto le lenzuola a
giocherellare con le mie parti basse. In fondo lo valeva proprio il
prezzo di un whisky.
*
Prima di passare a trovare il poliziotto, avevo deciso di tornare
nella villa di Ostia. C’ero già stato durante la notte dell’omicidio,
poche ore dopo il ritrovamento del cadavere, ma col buio e la confusione del momento avevo potuto osservare ben poco.
Sono un animale solitario, mi piace muovermi secondo i miei
tempi e le mie modalità, peccato che non sempre corrispondano a
quelle stampate sui codici. Sono convinto che le prove si ottengano
solo con la determinazione, e poco importa se a volte essa corrisponda con l’illegalità. Per questo, quando arrivai al numero sette
di via dei Pescatori, strappai senza troppe remore il nastro messo da
qualche mio collega ed entrai all’interno della casa, pur non essendo autorizzato.
Gli ambienti erano immersi nel buio. Solo in salotto fltrava un
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raggio di luce attraverso le tapparelle, per il resto non riuscivo a vedere la punta del mio naso. Accesi la torcia che mi ero portato appresso e iniziai a scrutare in ogni stanza, alla ricerca di qualche indizio che fosse sfuggito agli altri.
Ripensai alla scena che avevo trovato quella notte, il corpo senza
vita di Carlo Piano riverso alla base dell’ampio scalone che conduceva al piano superiore, dove si trovavano le camere da letto. La testa era girata su un lato e il collo piegato in una posa innaturale lo
faceva sembrare una marionetta addormentata.
E se il vecchio fosse caduto da solo? In fondo erano tutti strafatti
quella sera. No, improbabile, qualcuno l’aveva spinto giù per le
scale. Il Piano era un personaggio troppo scomodo, in molti lo volevano morto. C’erano i graf sulla spalla, però non erano state trovate tracce di rilievo in casa, a eccezione di quelle dei suoi ospiti
sparse nei bagni e sopra i letti. L’uomo per di più indossava una vestaglia di seta blu, null’altro.
«Quel porco è schiattato nudo come un verme.» rimuginai. «Almeno si è divertito! Pure i segni sulla spalla… Sesso spinto?»
Il pensiero volò a Maura, ai rifessi che emanava la sua pelle ambrata, ai fanchi larghi e alla peluria rada in mezzo alle gambe. Che
donna! Peccato fosse una tossicodipendente, altrimenti avrei quasi
potuto considerare di frequentarla.
Scivolai lungo i corridoi dell’ampia villa, senza scorgere nulla di
interessante. Non un indizio, un oggetto che mi aiutasse a capire,
nulla. Solo buio e polvere. L’unica cosa interessante che trovai fu
una gabbia in tinello con un pappagallo dentro. Il cancelletto era
aperto, ma lui se ne stava rintanato in un angolo.
«Amico, sei rimasto solo tu in questa casa.»
L’uccello mi guardava incuriosito, muovendo a scatti la testa. Lo
infastidiva il raggio di luce che gli proiettavo addosso. Si era abituato alla penombra.
«Di sicuro tu hai visto tutto. Puoi parlare?»
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Mi sentii uno stupido a dialogare con un pennuto, ma insistetti.
Dal punto in cui era posizionata la gabbia, infatti, si intravedeva la
base delle scale.
«Chi c’era con il tuo padrone quella sera? Dì qualcosa, uccellaccio, aiutami! O sei l’unico pappagallo muto della terra?»
All’improvviso squillò il cellulare. L’animale schiamazzò per lo
spavento e io con lui. Nel tirare fuori il telefono dalla tasca della
giacca, lo feci cadere a terra e, distrattamente, col piede lo calciai
lontano da me. Col fascio di luce della torcia presi a cercarlo.
Sentivo il suono arrivare da sotto un mobile, uno di quegli armadi di legno massiccio che gli antiquari erano disposti a pagare
caro pur di esporlo nei propri negozi. Quando mi piegai per raccoglierlo, maledicendo la mia sbadataggine, qualcosa mi passò in
mezzo alle gambe, facendomi cadere a faccia avanti.
«Cazzo!»
Cercai di illuminare intorno a me con la torcia. Due sfere iridescenti mi fssarono dal fondo del corridoio.
«Maledetto gattaccio, quasi mi ammazzavi!»
Il cellulare riprese a suonare. Lo aferrai da sotto l’armadio.
«Commissario Piazzalunga?» Una voce conosciuta pronunciò il
mio nome.
«Polsetti! Capiti sempre nel momento sbagliato. Che vuoi?»
«Commissario, deve correre in centrale. Si è presentato l’agente
Cecchini.»
«Massimo Cecchini?»
«Proprio lui! È in evidente stato confusionale, ha parlato di un
omicidio. A quanto ho capito era alla villa di Piano l’altra sera.
Dice di vedersi le mani sporche di sangue. Detto fra noi, secondo
me è sotto gli efetti di qualche droga pesante. Le sue mani sono
pulite.»
«Arrivo Polsetti, arrivo.»
Chiusi la conversazione e mi precipitai verso l’uscita. Pestai con
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la scarpa la coda del gatto, che emise un mugolio di dolore. Il pappagallo allora impazzì: iniziò a sbattere le ali contro la gabbia e strepitare. Non vi badai molto. In quella casa non avevo trovato risposte, probabilmente non ce n’erano, ma l’agente Cecchini poteva di
certo schiarirmi le idee.
*
Il via vai di gente, le volanti spiegate e l’ambulanza con la sirena
accesa non preannunciavano nulla di buono. Quando varcai la soglia d’ingresso capii subito cos’era successo. Polsetti mi corse incontro.
«Commissario! Non c’è stato nulla da fare, è accaduto tutto in
un attimo.»
Era sporco di sangue e visibilmente scosso. Temetti che svenisse
da un momento all’altro.
«Dimmi solo come ha fatto?»
Ero nero, ma volevo mantenere la calma. Quel ragazzo era terrorizzato, si era ritrovato in una situazione più grande di lui, di cui
non aveva responsabilità diretta. Ero nero, perché con Cecchini se
ne andava l’unica possibilità di conoscere la verità.
«Lo stavo portando nella stanza degli interrogatori, in attesa che
lei tornasse. Ma quello… Straparlava, si colpiva la testa, gridava di
non essere un assassino ma di avere le mani sporche di sangue. Di
sicuro il sangue lo aveva iniettato negli occhi. Come potevo immaginare? Un poliziotto, drogato, qua lo conoscevano tutti tranne
me, che sono nuovo.»
«Stai calmo, Polsetti. Non è colpa tua.»
«Mi ha aferrato la pistola e si è sparato! Si è sparato in bocca,
capisce?» Scoppiò a piangere. Povero ragazzo. Si sarebbe ripreso.
Raggiunsi il corridoio dove Cecchini si era ammazzato. Sentivo
l’odore del sangue, ce n’era dappertutto. Dopo tanti anni di carrie60
ra lo riconoscevo subito: acre e terroso, con una punta dolciastra.
Il sangue.
Ne avevo visto tanto, troppo. Sangue di donne straziate, di giovani perduti, sangue di vittime, di malviventi, sangue di bambini.
Tremendo, ma di ogni goccia versata ero riuscito a spiegarne le ragioni. Ora osservavo il sangue di Massimo Cecchini e non capivo il
perché di quelle macchie scure sulle pareti del corridoio, sopra gli
schedari, sulla porta del bagno.
Perché uccidere Carlo Piano? E perché spararsi alla testa dopo
aver confessato l’omicidio? Se poi di confessione si poteva parlare.
Forse la vergogna? La paura di perdere la famiglia, il lavoro? Era
sempre stato un debole Cecchini. Aveva gli occhi iniettati di sangue. Le droghe, si sa, hanno strani efetti sulla mente dei più fragili:
fanno mentire, fanno immaginare, fanno subire.
Cecchini aveva mentito? Aveva immaginato? Aveva subito?
Ogni ipotesi rimaneva aperta e il corpo ancora caldo non avrebbe
dato risposte.
«Commissario?»
Era Polsetti.
«Possiamo dichiarare il caso chiuso?»
“Poliziotto uccide noto imprenditore romano durante un festino
a base di sesso e droga, poi confessa e si spara alla testa” già immagino i titoli dei giornali di domani.
Il giovane mi guardava in cerca di una risposta. Lo accontentai.
«Sì ragazzo, caso chiuso.»
Ero stanco. Non dormivo da due giorni e mi sentivo impotente.
Un caso chiuso, ma a mio avviso irrisolto. Un assassino presunto,
nessun vero colpevole. Cecchini si era sparato, agendo sotto gli effetti della droga, per di più blaterando di un omicidio. Ma non c’era un vero movente, né prove di alcun genere. Un’impronta, una
traccia, nulla. Carlo Piano però era stato ritrovato col collo spezzato.
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E che dire degli altri? Un politico che aveva tutto l’interesse che
Piano restasse vivo, dato che gli procurava ragazze a buon prezzo. E
in perfetto anonimato. Poi due tossicomani che lo preferivano in
vita perché da lui ottenevano con facilità droghe e soldi in cambio
di prestazioni sessuali. Nulla di bizzarro per uno come me, che di
lordura ne aveva vista tanta.
Dovevo staccare la spina, far riposare il cervello.
Estraniarmi.
Scopare.
Scelsi un nome a caso dall'harem della mia agenda telefonica:
Giovanna.
*
La porta della doccia si aprì, lasciando fuoriuscire il vapore caldo. Giovanna si intrufolò sotto il getto d’acqua, poggiando il seno
sul mio petto. L’aferrai per i capelli e le inflai la lingua in bocca.
Sapevo che non amava i preliminari, per cui la sollevai da terra,
premendole il sedere. Lei strinse le gambe intorno ai miei fanchi e
mi regalò una perfetta mezz’ora d’amore.
Quando uscimmo dal bagno, ancora nudi e bagnati, ci accendemmo una sigaretta ciascuno e ci buttammo sul letto.
Le hostess sono fantastiche.
Così eleganti e femminili, così disponibili e schiette. Sarà per il
fatto che sono continuamente in viaggio, con le valige sempre
pronte, ma hanno una concezione del tempo diversa da quella di
qualsiasi altra femmina. Per loro ogni minuto è prezioso, ogni weekend lo trascorrono come fosse l’ultimo, ogni notte di sesso la vivono al meglio. Giovanna era la conferma a questa regola.
«Ti vedo pensieroso commissario.»
Mi accarezzò i capelli, dietro la nuca. Si era seduta sul letto, alle
mie spalle.
62
«Qualche scocciatura sul lavoro, non mi piace lasciare le cose a
metà.»
«Hai voglia di discuterne con me?»
Scossi la testa in segno di diniego. Poi, senza girarmi dalla sua
parte, presi a parlare, sopravvenendo a qualsiasi regola deontologica. Avevo bisogno di sfogarmi, il sesso non era bastato. Le raccontai dei festini nella villa a Ostia, del cadavere dell’imprenditore,
delle ragazze, del politico e del suicidio del poliziotto. Tutto, insomma.
«Mi sembra una storia abbastanza lineare.» commentò Giovanna, tirando una boccata dalla sigaretta, poi proseguì. «Un party a
base di droghe e sesso, personalità del mondo politico invischiate,
puttane, una situazione delicata, da nascondere, un poliziotto che
va fuori di testa, spinge il padrone di casa giù per le scale e confessa
l’omicidio…»
«Mah» Storsi la bocca. Quella storia mi convinceva poco.
«E se invece fosse stato l’altro?»
«Ma chi?»
«Il poliziotto, Polsetti!»
Rimasi con la mandibola spalancata.
«Pensaci, era presente al suicidio, è l’unico testimone, a quanto
pare. E se fosse un maniaco, un depravato?»
«Stai vaneggiando, bellezza!»
«Chi ti dice che non fosse lui lo sbirro pelato, che ha partecipato
all’orgia in casa di Piano? La stazza è quella e mi hai detto, è un
tipo solitario, vive da solo… Magari sul lavoro indossa la parrucca!
In fondo da quanto lo conosci?»
«Smettila subito, Giovanna! Polsetti è un bravo ragazzo e non
c’entra con questa brutta storia. Mi è bastata l’aria di terrore che
aveva negli occhi, quando Cecchini s’è sparato. No, c’era qualcun
altro in quella maledetta villa, qualcuno che ancora ci sfugge…»
«Ho solo fatto una deduzione.»
63
«Lascia fare il lavoro investigativo a chi di dovere. Fosse davvero
tutto così semplice.»
«Forse lo è più di quel che pensi.»
Giovanna mi girò il viso baciandomi con passione. Poi mi fece
sdraiare e salì sopra di me. In un attimo ero dentro di lei e gemevamo come animali. Ah, le hostess! Sanno proprio godersi la vita e
fartela godere.
Ci divertimmo ancora per un’oretta, abbastanza per allontanare
qualsiasi ombra dalla mia testa. Mi fermai solo quando vidi due biglie dorate che mi scrutavano.
«E quello?» Indicai una palla di pelo rosso in fondo al letto.
«Oh, lui è Sirio, il mio gatto. Non ci badare.»
Non ci badare? Non avevo mai amato molto quegli animali, ma
trovarmene uno accanto quando ero nudo a fare sesso con una
donna mi irritava parecchio. Mi alzai e aferrai una vestaglia di seta
che era buttata su una sedia accanto al comodino. Uno di quei vezzi femminili fatti di penne e lustrini. Il felino con uno scatto fulmineo si precipitò tra le mie gambe, forse attratto dalla cintura a penzoloni della veste, o forse dalle piume. Non riuscii a evitarlo: inciampai sul suo corpo, cadendo di peso sopra un fanco.
«Porca puttana!» gridai. Un dolore lancinante mi perforò il cervello. Partiva dal gomito.
«Stai bene, commissario?»
«Cazzo, gatto di merda! Maledizione, che male!»
Stringendomi il braccio al petto, mi voltai verso Giovanna, ancora sul materasso. Vidi che ero fnito a pochi centimetri dallo spigolo del comodino. Un passo più in là e mi sarei rotto l’osso del
collo.
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Pensionamento
di Marco Bertoli
Il vicolo è una fogna a cielo aperto.
Una stretta cloaca alimentata dalle immondizie traboccanti dagli
sgangherati cassonetti che nessun operatore ecologico svuota da un
pezzo. Un tanfo stomachevole appesta l’aria. Un miasma lurido
che prima incolla la lingua al palato e poi scivola denso nella gola,
grafandola tanto è acre.
Il ratto nero, grande quanto un cagnolino, mi punta con due occhi furenti perché ho interrotto il suo pasto notturno. Squittendo
di rabbia, si rizza sulle zampe posteriori, quasi a sfdarmi. Noto di
sfuggita che ha i peli del muso screziati di vivido scarlatto.
Controllo il messaggio sul display dello smartphone: luogo dell’incontro e orario sono quelli indicati dall’anonimo committente
ma, a parte lo schifoso roditore, sono solo.
L’istinto forgiato tra le montagne dell’Afghanistan sbraita di raggomitolarsi per ridurre le mie dimensioni di bersaglio. Cerco di
sciogliermi nelle ombre che fagocitano le silenziose facciate degli
edifci così scalognati da aggettare su questo cesso di strada.
Tutta la faccenda puzza di brutto. Assai più del marciume purulento che mi circonda.
Il grosso sorcio si allontana scodinzolando sulle zampette, l’andatura pigra e soddisfatta di chi è gonfo da scoppiare.
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Nel cerchio di luce evanescente, difuso dall’unico lampione sopravvissuto agli attacchi dei bravi ragazzi del vicinato, spiccano le
impronte rosse che lascia prima di sparire in una bocca di lupo.
Risalgo la pista con gli occhi, sino alla sua origine.
C’è qualcosa di orribilmente strano in quello che avevo ritenuto
un mucchio di stracci buttati via perché troppo logori per essere
donati a un ente benefco. Prudenza e raziocinio mi urlano di svignarmela ma, nel fondo del mio essere, molto in basso, si ostina a
brillare pervicace una scintilla dell’eroico cavaliere che sognavo di
diventare da bambino. Quanto mi piaceva ascoltare le favole!
Mi accosto al fagotto, scivolando attento contro un muro su cui
mufa e chiazze d’umido hanno divorato la vernice, esponendo l’intonaco farinoso. Allungo una mano. Con lentezza, come presagendo l’abisso in cui precipiterò.
A parte la coperta macchiata in cui è avvolta, la donna è completamente nuda. Oltre ai segni di tortura sparsi ovunque sul corpo
minuto, qualcuno si è divertito a disegnarle uno Smile sulla pancia.
Dalla bocca incisa nel ventre fuoriesce un groviglio abominevole.
Un martello mi schiaccia lo stomaco. Vomito. Non per lo schifo, ma per la disperazione. Assoluta.
M’impongo di guardare il viso della morta. I lineamenti che ho
accarezzato nella loro fragile delicatezza sono contorti in un’espressione di soferenza tetanica. Uno strazio che mi rifuto d’immaginare per non impazzire.
Le labbra morbide, da cui ho bevuto amore sincero, sono congelate in un rictus violaceo, un urlo muto di terrore. Non sussurreranno più il mio nome.
«Chissà se mi ha invocato.» penso, mentre stringo i pugni.
Le unghie vangano i palmi sino ai tendini.
Colgo un timido bagliore al lobo di un orecchio: un piccolo cigno d'argento sguazza in uno stagno di secco carminio. Souvenir
profanato di una serena domenica sul lago.
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Cambio di scatto inquadratura, ma il panorama non migliora.
Anzi. Il manico di un coltello spunta osceno da un fodero di carne.
Una nuova marea di nausea mi sommerge. Quando l’onda si ritira, sono un patetico relitto abbandonato sulla spiaggia.
Mi è bastata un’occhiata per riconoscerlo. È Extrema Ratio. È il
mio: ci sono le iniziali sul pomo. Il ricordo di un tempo, un’era
geologica fa, in cui uccidevo uomini ignari sotto lo scudo di una
bandiera, con tanto di benedizione della patria. Poi la mina che,
subdola, attende dove meno te lo aspetti. Il DPTS, disturbo posttraumatico da stress. La ricerca di aiuto nella tequila e nella cocaina. Il ruzzolare in un inferno popolato da demoni bercianti nella
mente. Quando riuscii a tenerli a bada, avevo perso ogni cosa: affetti, soldi e, soprattutto, dignità. Per sopravvivere imboccai la strada più facile. Avevo un mestiere in mano: mi ofrii come sicario a
pagamento. Poche commissioni ben eseguite e divenni O’ cecchino.
Spezzo il fuire dei ricordi inginocchiandomi. Sforo con pudore
i capelli di Annabella. Una scossa rabbrividisce muscoli e anima.
Sbarro in fretta i cancelli della memoria per impedire che la reminiscenza di quanto mi ha regalato mi anneghi. L’eco della sua risata
cristallina, però, sguscia befarda oltre l’argine e mi schiafeggia senza pietà. Non mi difendo. Me lo merito. È colpa mia se i suoi trent’anni non danzeranno più scalzi nell’erba: mi ero illuso che una
belva come me potesse godere di un barlume di felicità. Mi maledico, perché ho permesso ai sentimenti di distrarmi per un attimo di
troppo. Nel mio mondo, gli errori si pagano. Sempre.
Il gemito lontano di una sirena mi riscuote.
Le meningi prendono a rimuginare, ingolfando di elucubrazioni
le sinapsi neuronali. Qualcuno mi vuole fuori dai piedi. Mentre lo
stridulo richiamo a due toni si avvicina, scorro veloce gli schedari
dell’archivio cerebrale alla ricerca di un volto da associare allo
scempio in cui sono immerso. Uno s’impone sulla folla di non rispettabili gentiluomini, Rinterzo. Il suo modus operandi? È famoso
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per non colpire mai direttamente il bersaglio. Sì, molto probabile
che ci sia lui dietro questo tentativo d’incastrarmi.
Ho bisogno di qualche conferma.
Mi sforzo di piangere, ma non trovo lacrime disponibili mentre
mormoro una scusa e sflo l’arma.
Il suono rimbomba con petulante insistenza quando la mia ombra si dissolve nel buio.
Piove. Oltre l’asfalto traslucido e il trafco scarso, il locale
ostenta l’aria trasandata di un normale bar di periferia cittadina.
Dietro l’apparenza asfttica e tranquilla, si nasconde, in realtà, la
centrale operativa di Rinterzo e della sua banda.
Non è stato difcile avere la certezza che sia proprio lui a desiderare di pensionarmi a spese dello Stato. Colombella, il travestito, ha
cinguettato come un bravo uccellino, specialmente dopo che l’ho
incoraggiato un poco, spezzandogli i mignoli e fracassandogli il
naso per buona misura. A essere sincero, il suo aspetto ne ha guadagnato: adesso è sparita la gobba pronunciata che rovinava la simmetria della faccia.
Attraverso la carreggiata fschiettando “Hell’s coming with me”,
le mani in tasca come un normale tiratardi. Nelle pozzanghere, la
mia fgura ha i contorni tremuli di un fantasma, dello spirito dannato che sono.
Orecchie a sventola ai lati di una zucca a cocomero, l’energumeno che blocca la porta a vetri mi squadra con sospetto, tuttavia non
accenna alcuna reazione ostile. Ho sempre sospettato che, oltre a
quella intellettuale, abbia un’acuta defcienza visiva, infatti realizza
chi sono quando ormai gli piombo addosso. Per la sorpresa, inarca
sopracciglia simili a cespugli incolti, impreziosite però da un piercing recente, trofeo dell’ultima impresa: un cigno d’argento.
«Ciao, Pachiderma.» lo saluto a bassa voce, le pupille accecate da
barbagli rossi. «Sei contento di vedermi?».
Non conoscerò mai la risposta, di cui peraltro non me ne frega
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niente, perché gli pianto il coltello nel petto. Esperta, la lama s’insinua nello spazio tra due costole e raggiunge dritta il cuore, spaccandolo al centro. Lo scagnozzo è già cadavere prima ancora di affosciarsi sul marciapiede, però torco comunque la lama d’acciaio
nella ferita. Provo piacere fsico nell’avvertire, al tatto, il dilaniarsi
viscido della carne.
Recupero Extrema Ratio e pulisco la lama sulla giacchetta del defunto. Non credo che se ne avrà a male.
Ora viene il bello. Non ho avuto il tempo di elaborare un accurato piano d’azione, tutt’al più un abbozzo, eppure non sono preoccupato. Loro saranno in tanti, io uno solo, ma ho un vantaggio
fondamentale: non ho paura di morire, loro invece sì.
Impugno la mia Colt Anaconda Quarantaquattro Magnum. È un
revolver pesante e difcile da maneggiare, ma qui non si tratta di
un lavoro discreto o di precisione. Cerco vendetta. Pura e semplice.
Spalanco la vetrata ed entro nel cafè.
Oltre al barista, che sta asciugando un bicchiere, quattro cef
giocano a carte a un tavolo d’angolo, infschiandosene dei cartelli
“Vietato Fumare” appesi alle pareti tra brutte croste, rafguranti
pacifche marine. La porta che dà sul retrobottega non è sorvegliata. Nessuna arma in vista: si sentono sicuri nella loro tana.
«Buonasera a tutti!» esclamo con l’educazione di un ghigno da
tigre afamata.
Il barman è il primo a reagire. Le mani corrono sotto il bancone,
ma non abbastanza in fretta. Il primo dei miei proiettili lo centra
in piena fronte. La testa esplode, schizzando sangue e materia cerebellare sulle bottiglie disposte in bell’ordine sopra le mensole di vetro alle sue spalle. Spero che siano ben tappate: di norma, si utilizza
solo la Vodka per preparare un classico Bloody Mary.
Un arco di pochi gradi. Adesso la canna cromata è rivolta contro
i giocatori. Premo il grilletto quattro volte, resistendo alle ftte causate dai violenti contraccolpi del rinculo.
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Quando la canna espira l’ultima nuvoletta di fumo grigio, il
mazzo di carte è irrimediabilmente da buttare. Soltanto un gestore
taccagno si prenderebbe la briga di ripulirlo dal sangue e dai frammenti di ossa e altre porcherie che lo inzaccherano.
Mi accosto al tavolo.
Uno dei gagliof ha ancora la forza di provare a estrarre la pistola, una Glock 17, nonostante abbia un cratere dai bordi irregolari al
posto del polmone sinistro. Non mi fa compassione. Sto per spacciarlo quando le iridi acquose diventano vitree. Il tizio si sgonfa
sulla sedia, andando a raggiungere i compari nell’afollata anticamera di Belzebù.
Contando Pachiderma, in tutto fanno sei. Schiocco la lingua.
Oltre l’anta chiusa mi aspetta Rinterzo.
Non ho tempo da perdere. La sinfonia che ho appena eseguito
ha di sicuro destato l’attenzione dell’intero quartiere.
Ricarico le roventi camere di scoppio.
Busso alla porta, mantenendomi di lato allo stipite. Una rafca
di mitraglietta crivella il pannello di laminato economico, spargendo schegge ovunque. Scuoto la testa.
«Che sgarbato! Le donne delle pulizie saranno costrette ad almeno un paio di ore di straordinario.»
Skorpion o Uzi? Problematico rispondere. Sono propenso per la
seconda ipotesi: la considero un’automatica più in linea con i gusti
del proprietario.
Me ne sbatto della maniglia, risparmiata dalla sventagliata di
piombo: sfondo l’anta con una spallata.
Lui è in piedi, la schiena appoggiata alla parete opposta. Nelle
pupille il panico cieco dell’animale in trappola. Sta armeggiando
con un caricatore. Non è pratico e ha i palmi sudati.
«Discutiamone!» strilla.
Il timbro in precario equilibrio sul precipizio dell’isteria.
«Discutiamone?» Curioso come il terrore della morte induca la
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gente a straparlare! Mi limito a fssarlo con l’espressione di chi è
pronto a calpestare un verme schifoso. Il mio silenzio sembra incoraggiarlo.
«Ti darò tutto quello che vuoi!» insiste sincopato, mentre continua a lottare con la clip disobbediente.
«Voglio te.» sibilo, il volto una maschera di ghiaccio.
«Pietà!» supplica, liquefacendosi in una pozza di ripugnante vigliaccheria. Il suo simile a quattro zampe era più coraggioso. E non
puzzava di escrementi!
Potrei dilungarmi in una conferenza sull’ipocrisia del genere
umano, ma lascio che sia la mia Anaconda a rispondergli. Laconica
ma pregnante.
La prima pallottola gli spezza il braccio destro. La Uzi, perché si
trattava proprio di lei, cade sul pavimento con un tonfo metallico.
La seconda gli trancia via di netto l’avambraccio sinistro. Balzo
all’indietro per evitare la fontana purpurea che le arterie recise
spruzzano nella stanza.
Rinterzo piange e strilla in un tanfo di nuove deiezioni corporee.
Uno spettacolo disgustoso eppure mi riempie di acida soddisfazione.
Terzo e quarto colpo in veloce successione: addio alle rotule.
L’ammasso accasciato sulle piastrelle non assomiglia più a un individuo bensì a un miserabile grumo di carni stravolte dallo sgomento e dalla soferenza.
Lo spettacolo titilla il mio compiacimento.
Quinto proiettile. Nel ventre, lontano però dagli organi vitali.
«Ora sai, bastardo, cosa si prova a essere squartati!» lo apostrofo
in un muto sogghigno.
Il sapore ferroso del sangue satura l’ambiente angusto. Me ne
abbevero, inghiottendolo con profondi singulti: voglio ubriacarmene. Assaporo i gemiti del ferito, deciso a godermi quanto più possibile ogni rantolo di agonia.
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Protendendo il moncherino, Rinterzo mi scongiura in un bisbiglio «Uccidimi, ti prego».
«Troppo comodo! Non meriti una fne rapida. Sofri, carogna,
sofri!»
L’immagine di Annabella avvampa inattesa. Gli occhi verdi brillano di un amore che mi abbaglia nella sua totale limpidezza. Illuminata, la bestia che sono si manifesta in tutta la sua abominevole
crudezza.
«Come facevi ad amarmi?»
Dovrò convivere con questa domanda. O forse no.
Mentre dalla strada giunge attutito l’ululato di un branco di sirene, sollevo la Colt.
È un attimo. Passeggero.
Scopro i denti in una smorfa feroce. Non è nel mio carattere
anticipare l’arrivo della Signora con la falce.
La fnestra in alto sul muro è piccola e protetta da spesse sbarre
di ferro: niente che le mie pallottole non possano dilaniare.
Uno scroscio intenso di pioggia accompagna l’afevolirsi dei
miei passi in lontananza.
Spiacente per voi, ma O’ cecchino è ancora in pista!
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Ultimo bagliore di luna
di Alessandro Margheriti
Non hai visto la mia mano esitare.
È una notte d'estate un po' più fresca delle precedenti. Forse
avrai colto oscuri presagi in questa luna di cui resta ormai poco.
Perché quel bagliore nel cielo non è un occhio socchiuso, ammiccante, ma una lama sottile. Un rendez-vous che certo non ti aspetti. Domani sarà luna nuova, e vita nuova per me.
È con questa convinzione che sono uscito stasera e attraverso i
viali deciso, silenziosamente e a grandi falcate.
Sono impaziente di agire, espletare questa formalità, compiere la
missione che mi sono assegnato per abbattere tutti i ricordi che
sembrano aggrapparsi ai miei vestiti e trascinarmi giù, passo dopo
passo. Ho un bisogno impellente di dimenticare, non posso aspettare che il tempo rivesta di polvere ogni cosa altrimenti rischio di
impazzire.
Probabilmente avrai avvertito un brivido lungo la schiena, anche
se non hai potuto vedere la mia ombra allungarsi nella notte e farsi
sempre più vicina e minacciosa.
L'incedere della mia marcia è un'esecuzione spietata: a ogni
mossa calpesto uno dei ricordi che ti evoca, faccio a brandelli tessu73
ti di memorie ormai scomode, e mentre avanzo mi sento più leggero e determinato.
L'ultimo ricordo di cui dovrò liberarmi stanotte è il più ingombrante e ha la tua forma.
La mia risoluzione è maturata nel corso della notte scorsa, che è
stata tormentata e insonne.
Al mattino è cominciato il processo di epurazione, dapprima
con calma metodica poi con furia distruttiva. Ho fnalmente spostato il macigno che gravava sul mio cuore, ho rassettato i miei
pensieri. Al tramonto tutto quello che poteva essere stato eliminato
era stato rimosso, tutto quello che poteva essere distrutto era stato
fatto a pezzi.
Non hai sentito le famme crepitare.
Sto per essere al tuo cospetto, sono fermo ad ascoltare il mio
cuore che ora sembra impazzito.
Sto per varcare una soglia che conosco bene, l'ho già fatto così
tante volte ma adesso è per un motivo diverso.
Stavolta non è per cenare assieme, per portarti un regalo, non è
per abbracciarti, consolarti o dormire con te.
Stavolta è per compiere un gesto d'amore di tutt'altra natura.
Sì, perché uccidere è un gesto d'amore, e talvolta è necessario.
Non credere che sia semplicemente per vendetta. Semmai per
puro istinto di auto-conservazione: sapere che non esisti più o che
non sei mai esistito mi renderà la vita meno impossibile.
Potresti non essere in casa, essere uscito a divertirti, a godere dell'ultimo dei tuoi bagordi ingordi, e in tal caso resterò ad aspettarti.
Nascosto in un angolo, acquattato nell'oscurità, aspetterò il momento più opportuno per entrare in scena e colpire.
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Oppure, ripensandoci, potresti essere benissimo in casa ma in
compagnia... perché ciò che prima era tradimento ora è diventato
lecito, giusto? Oppure è più appagante e gustoso il frutto dell'albero proibito?
A pensare a una simile situazione mi si accappona la pelle. Non
ho previsto di dover versare anche sangue innocente, spero davvero
che non sia necessario.
Uccidere è una cosa troppo intima, è un atto d'amore. E a me
non piace fare l'amore con degli sconosciuti.
A te sì invece, purtroppo l'ho scoperto troppo tardi.
Per te fare l'amore è un gesto meccanico, quasi automatico. Non
gli dai un'importanza particolare, è qualcosa che fai senza pensarci
come lavare i denti, cambiare i calzini, prendere sempre lo stesso
autobus al mattino e scendere alla fermata giusta senza contarle una
per una.
Non è una cosa che implica intimità, i calzini puoi cambiarli in
presenza di chiunque.
Capirai anche tu, quindi, che non è una cosa su cui poter discutere o a cui poter rimediare, il fatto di dare a qualcuno l'importanza di un calzino.
Non hai sentito la serratura scattare, la porta d'ingresso cigolare
nel permettermi di entrare.
Hai sempre avuto il sonno pesante, del resto.
Non sapevi che avevo un'altra copia delle tue chiavi di casa, colpa della mia maledetta fobia di perdere ogni cosa.
Attraverso il corridoio e svolto a destra, il momento è cruciale.
E inaspettatamente, di colpo, mi ritrovo al mare.
Mi sembra di sentire perfno la sabbia ricoprire i miei piedi, e il
sole cocente picchiare dritto sulla fronte mentre osservo con gli occhi socchiusi l'infnita distesa d'acqua, pregando ardentemente che
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mi restituisca la vista di quella macchiolina scura all'orizzonte che
prima eri tu.
Nuotavi al largo, e da qualche minuto non riuscivo più a scorgerti. Il tempo trascorre inesorabile e l'angoscia aumenta, i minuti
sembrano ore. Non torni indietro e già ti immagino inghiottito
dalle onde o divorato dagli squali. Anche se so perfettamente che
non sono mai stati avvistati squali in queste acque, e probabilmente
non ce ne saranno mai.
Quando poi, riemerso incolume, mi picchietti sulle spalle, io sto
litigando col bagnino perché insisteva nel rifutarsi di lasciare la sua
comoda postazione per andarti a cercare in alto mare.
Mentre mi trascini via ci metto poco a riprendermi dalla sorpresa di rivederti vivo e continuo a urlare, stavolta contro di te, che sei
stato via un'eternità, abbandonandomi sulla spiaggia solo e indifeso. Dai un'occhiata al tuo orologio e mi informi che in realtà sono
passati solo venti minuti, non hai fatto mica 'sta gran nuotata.
Non faccio in tempo a protestare oltre, il tuo sorriso s'impossessa della mia vista - hai questo dannato potere di frantumare ogni
sguardo -, le tue braccia si posano sulle mie spalle e cominci a ba ciarmi.
Gli squali perdono tutti i loro denti e diventano inofensivi; il
sole si sposta un po' per non disturbare il momento e va a mietere
vittime altrove.
Scaccio via quest'immagine sdolcinata, che per qualche secondo
ha tenuto in ostaggio la mia mente, una chimera inutile e senza
senso, l'ultima romanticheria che ho voluto concederti.
Non ricordo infatti di essere mai stato al mare con te, nella realtà. Non hai mai voluto andarci, nonostante le mie ripetute richieste. Ma se stavolta me lo chiedessi tu, sceglierei di sicuro un luogo
dove gli squali abbondano.
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Non mi aspettavo di trovarti da solo.
Il pensiero di non essere stato già sostituito mi regala qualche attimo di autocompiacimento. Che non mi distrae tuttavia più di
tanto dal motivo della mia visita. Non è abbastanza per indurmi a
fare marcia indietro.
La stanza da letto ospita il disordine consueto - portacenere non
svuotati e avanzi di cibo sul tavolino, vestiti sparsi sulle sedie o caduti sul pavimento - e tu dormi il sonno degli ingiusti, dandomi le
spalle e la schiena nuda.
Un braccio sotto il cuscino, l'altro proteso verso il lato opposto
del letto. Lo stesso che mi ospitava fno a qualche notte fa.
Gli occhi si riempiono di lacrime, mi assale la voglia di avanzare
senza far rumore e stendermi lì accanto, rivendicare il mio posto.
Ma ho paura di poterti svegliare, non saprei come giustifcare la
mia presenza. O peggio ancora, di cedere al sonno e addormentarmi al tuo fanco.
In questo momento non hai visto la mia mano esitare, la lama che
stringo quasi cadere.
La cosa più dura è senz'altro dover fare i conti con l'abitudine,
quella di aspettare una tua telefonata alle solite ore o i messaggi sul
cellulare durante la giornata; da qui il forte senso di disagio nel dover cenare da solo, e ora l'amarezza mista a delusione nel vederti
dormire senza di me. Il corpo è quello che fa più fatica ad abituarsi,
anche dopo che la mente è stata disinfestata.
Ora è difcile mantenere i nervi saldi, dominarsi, non cercare di
raggiungerti e stringerti a me. Perché probabilmente il mio corpo
ha ancora desiderio del tuo, anche solo per abitudine, appunto.
Ci si mette anche il vento che irrompe improvvisamente nella
stanza, dalla fnestra lasciata aperta a metà. Le tende si gonfano e
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poi ricadono lentamente sforandomi la spalla. Sembra il tocco di
un fantasma... c'è mancato poco che non mi mettessi a urlare e rivelassi la mia presenza!
Non hai visto la mia mano esitare, e poi stringere la lama fno a
ferirmi io stesso. Non avevo certo previsto che le prime gocce di
sangue sarebbero state le mie.
Non hai sentito neppure un fruscio, non ti sei accorto dell'ombra che si allungava su di te.
Quando la lama penetra nella tua carne nuda mi sembra di udire
un suono strozzato, inarticolato, confuso.
Come quando mi dicevi ti amo.
Quelle rare volte quando, braccato nell'angolo, lo dicevi esclusivamente per salvarti il culo. E di solito funzionava, fa sempre piacere sentirselo dire dalla persona che ami e illudersi che sia vero.
Il suono che emetti adesso invece non fa propriamente piacere,
mi ricorda vagamente quello degli scarafaggi quando li schiaccio
col tacco della scarpa: mi ha sempre fatto schifo, ma mi fa ancora
più schifo sapere che sono liberi di gironzolare.
Anche tu non meritavi più questa libertà.
Resto a osservare per qualche attimo il sangue espandersi sulle
lenzuola, prima di togliermi lo zaino dalle spalle e cominciare a
estrarne il contenuto.
Tutte le nostre foto, gli oggetti che ti appartengono o che mi hai
regalato negli anni e che hanno scandito il nostro tempo insieme,
tanti piccoli tasselli del puzzle della nostra storia.
Sparpaglio tutto sul letto, accanto al tuo corpo ancora caldo.
Cose morte e corpi morti è giusto che si facciano compagnia.
L'ultima foto a lasciare la mia mano è quella scattata nella notte
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in cui ci siamo conosciuti. Avevi quella camicia azzurra che ti piaceva tanto, mentre io indossavo un modo di sorridere che ormai
non mi appartiene più.
Ci eravamo già scambiati il primo bacio. Il primo di una lunghissima serie.
Mi avevi già lusingato con le parole e catturato con quel tuo
sguardo irresistibile.
Mi avevi già mentito allora, dicendomi che non ci saremmo lasciati mai e che tradirmi sarebbe stato inconcepibile.
Allora scelgo proprio questa foto, è la designata a fare da apripista. E prima di appiccare il fuoco prometto a me stesso che non mi
innamorerò mai più.
Non hai sentito le famme crepitare, non le hai viste crescere e
avanzare verso di te.
Peccato, i falò ti sono sempre piaciuti.
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Il testimone
di Claudio Ferrara
Se le intuizioni contano ancora qualcosa, sapevo che sarebbero
venuti a cercare anche me.
Al trillo del campanello mi sono alzato dal divano e voltato verso
l’ingresso. Osservo la faccia di mia moglie sbiancare, mentre torna
in soggiorno. Ho in mano il telecomando per abbassare il volume.
Alle mie spalle, adesso, il telegiornale bisbiglia soltanto: sullo schermo quel viso che mi è così terribilmente familiare.
«Vogliono te... dei signori… signori in divisa».
L’appuntato, che si scorge appena dietro le mostrine del maresciallo, sembra sorpreso del mio aspetto sereno.
«Dottor Locatelli, buonasera.» mi saluta il suo superiore.
«Maresciallo, buonasera. Cosa ci fa qui? E a quest’ora?»
«È per questa.»
Mi porge una busta piena di timbri e sigilli.
«Dovrebbe venire alla nostra stazione il prima possibile.»
«Firmi qui, per favore.» aggiunge l’appuntato, e mi allunga una
di quelle tavolette di plastica con la pinza di metallo in alto. Tiene
fermo un foglio pieno di caselle, righe e colonne ordinate di nomi,
cognomi, indirizzi e frme. Per la maggior parte, le righe sono già
compilate del tutto.
Nell’ultima, una stampante ha già dichiarato al mondo come mi
chiamo e dove abito. Ma la casella in fondo a destra è ancora vuo80
ta.
«Credo non serva chiederle un documento d’identità, direttore,»
continua il maresciallo, con la voce più tranquillizzante che riesce a
modulare «ci siamo già visti qualche volta per altre formalità.»
È già capitato che avessi a che fare con lui, in efetti. In quei casi
la vittima ero io. Noi, come azienda. Banalità: assegni a vuoto,
maldestre tentate rapine con pistole giocattolo. Dilettanti. Gli unici che non lo sono, in queste valli, sono costruttori e allevatori. I
miei facoltosi clienti.
Il maresciallo vuole farmi una cortesia, ma l’unica cosa che riesco a pensare, invece, è che cercano proprio me.
«Ce la farebbe domani mattina? Come vedrà, la cosa è piuttosto
urgente.»
Suona come una convocazione, più che una gentile richiesta. Il
suo tono è già cambiato.
«Ci vorrà molto?» mi sfugge la domanda. Poi mi correggo, non
vorrei che pensino chissà cosa.
«Sa, non è tanto per me... è per i miei superiori, dovrei... giustifcare.»
«Capisco benissimo. Ma, sì, ho paura di sì. Ci vorrà un po’. È
una faccenda molto delicata.»
«Firmi qui, per favore.» interrompe l’appuntato, picchiettando
sull’ultimo spazio libero la sfera della penna che mi sta ofrendo.
«Beh, vedrò di organizzarmi in qualche modo.» dico, continuando a rivolgermi al maresciallo.
M’innervosiscono i minuti puntini d’inchiostro che l’appuntato
ha lasciato proprio dove devo confermare, nero su bianco, che io
sono chi sono. Disegno uno sgorbio incomprensibile, molto diverso dall’elegante svolazzo con cui di solito autorizzo le operazioni
dei miei impiegati, giù alla fliale della banca in paese.
Ho appena richiuso la porta di casa, quasi in faccia alle unifor81
mi, quando Stefania mi chiede con voce preoccupata «Mio Dio,
Mario, ma che cos’è?»
Non mi dà neanche il tempo di aprire la busta.
«Un mandato di comparizione.» rispondo, mentre sto ancora dispiegando il foglio.
«Non mi dire che è ancora per quella storia delle rapine.»
«No, stavolta non è per quello.»
«E per cos’altro può essere?»
«È per quella ragazza.»
Il viso le diventa ancora più pallido.
«E tu cosa c’entri?»
«C’è scritto che sono una “Persona informata sui fatti”. In fondo
sono stato l’ultimo a vederla viva. L’ultimo a parte l’assassino, ovvio.»
Eccome, se l’ho vista.
Frequentava lo stesso corso di nuoto di mia fglia, la più grande.
È sparita all’uscita dalla piscina, una settimana prima che il loro
gruppo facesse il saggio.
L’altro ieri, lo stesso giorno che Monica ha preso il terzo brevetto,
a lei l’hanno trovata mezza nuda nel cantiere di un centro commerciale in costruzione.
Siamo a febbraio: dicono che se non l’hanno notata subito è stato per colpa della neve. Ne è caduta tanta quest’anno. La neve ha
fermato per un po’ i lavori e ha occultato il corpo. Quando è tornato il sole e hanno ripreso a lavorare, un muratore, mentre saliva
su un bulldozer, ha intravisto per caso un brandello di felpa rossa
che spuntava dal manto bianco.
Alla televisione hanno detto che c'erano evidenti segni di sevizie.
Ma che non è morta per quelle. È stato il freddo, il freddo e il san gue perso dalle ferite. Il suo rapitore l’ha accoltellata, ma non a
morte. Un’aggressione a scopo sessuale. Poi lui, forse, è stato colto
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di sorpresa da una reazione inaspettata e si deve essere fatto prendere dal panico. Le ferite da taglio, dicono, sono imprecise e poco
profonde. È scappato e l’ha lasciata lì a morire, senza fnire il lavoro. Un dilettante anche lui.
«Bisogna essere malati per voler fare sesso con una ragazzina di
tredici anni!» ha commentato Stefania, mentre si stava struccando.
La guardo rifessa nello specchio del suo boudoir, sbirciando da
sopra il giornale, facendo fnta di leggere a letto.
Com’è diversa dalla splendida ragazza che ho conosciuto vent’anni fa. Non che sia particolarmente invecchiata. Anzi, direi che
per essere una donna matura ha un fsico invidiabile. Non so, è
qualcos’altro. È come se nel suo volto si sia spenta la luce che lo illuminava quando eravamo giovani.
Forse era la purezza di quello sguardo che l’uomo ha cercato in
Sara.
«Non lo so.» le rispondo. «Alla fne, in questi casi, salta sempre
fuori che è stato il vicino di casa, un amico di famiglia, o addirittura un parente stretto.»
«Quindi tu non pensi che ci sia in giro un mostro?»
«Io penso che se c’è in giro un mostro, di certo non sapremmo
riconoscerlo.»
«Non sei molto consolante.»
«Neanche volevo esserlo.»
«E alle nostre fglie non ci pensi?»
«Certo che ci penso. Proprio per questo non voglio crogiolarmi
in nessun pensiero consolatorio.»
«Fai dei discorsi strani stasera, Mario. Non mi sembri nemmeno
tu.»
«È stata una giornata strana, in efetti.»
«Forse è meglio dormirci sopra. Notte.»
«Notte.»
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Stefania spegne la luce. La sento rigirarsi nel letto per un po’,
poi più niente. Solo un respiro appena più pesante mi segnala che,
alla fne, si è addormentata.
Io invece non riesco a chiudere occhio per tutta notte.
Continuo a pensare a cosa dovrò dire ai carabinieri, e al modo in
cui dovrò dirlo. Se sono troppo stringato potrei sembrare elusivo.
Se mi dilungo, potrebbe sembrare che stia dando spiegazioni non
richieste. Com’è che dicevano all’università? Excusatio non petita,
accusatio manifesta: una spiegazione troppo dettagliata è sempre un
chiaro indizio di colpevolezza.
«In che occasione ha visto Sara Gamberini giovedì pomeriggio?»
«Ero andato a prendere mia fglia Monica in piscina. Frequentano lo stesso corso di nuoto, ogni martedì e giovedì.»
«Ci hanno riferito che l’ha anche salutata. Come mai?»
«Certo che l’ho salutata, la conoscevo. Era amica di mia fglia.»
«È vero che a volte la accompagnava a casa?»
«Sì. I Gamberini abitano in fondo al paese e... non è di strada,
allora... no, però è nella stessa direzione e si allunga di poco... e poi
gliel’ho detto, era amica di mia f...»
Ecco, no. Questa ripetizione non va bene. Questo insistere su
un dettaglio già noto potrebbe dare l’impressione della famosa excusatio. Perché ribadirlo se non ho niente da nascondere?
«L’hanno vista spesso girare a piedi nella zona dove abitava la
vittima... Come mai?»
«Guardi, come le dicevo non abitiamo lontano...»
Accidenti, ci stavo ricascando. No, così non va bene. Come posso metterla giù? Ah, sì: la zona industriale fuori dal paese.
«Mi reco...» Mi reco andrà bene o suonerà afettato? Meglio dire
solo Vado? «Mi reco spesso presso certe aziende clienti della nostra
fliale. Imprese con conti consistenti, società di riguardo, che richiedono di essere visitate direttamente dal direttore. Per arrivarci
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faccio la strada che scende a valle e passo davanti alla villetta dei
Gamberini. A me piace camminare.»
Se dico che glielo possono confermare tutti qua in paese, che
giro continuamente a piedi, sarà troppo specifcare anche questo?
A me sembra plausibile.
La domanda a trabocchetto potrebbe sempre arrivare, ma mi
sento abbastanza pronto.
Sono esausto.
Otto ore di interrogatorio flato. Qualche bicchiere d’acqua e
dieci minuti per un panino di gomma, verso le due, sono state le
uniche interruzioni.
Mi aspettavo di avere a che fare ancora con il maresciallo. Lui
era presente ma non ha aperto bocca. C’erano due in abiti civili.
Durante una pausa sigaretta, l’appuntato, quello della penna a sfera, mi ha detto che sono due sostituti procuratori mandati dal capoluogo. Due esperti in crimini a sfondo sessuale.
La donna era la più agguerrita dei due, mentre lui sembrava
mantenere un basso proflo. Non so se stessero giocando a poliziotto buono e poliziotto cattivo o se volesse semplicemente dimostrare
di avere più palle di un uomo, ma lei mi ha fatto molte delle domande che avevo immaginato.
Sono stato bravo. Ho risposto in modo esauriente, sempre limitandomi esattamente a quello che mi veniva domandato. Nessun
dettaglio aggiuntivo.
Mi hanno chiesto l'autorizzazione a fare il tampone per il Dna.
È volontario, hanno detto, perché non sono indagato. Sono solo
una persona informata sui fatti.
Se avessi voluto, avrei potuto anche rifutare o chiedere l’assistenza di un legale.
Ho risposto senza esitazioni che per me non c’era alcun problema. Credo che fosse questo il tranello che mi aspettavo.
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Se mi fossi rifutato, o se avessi anche solo detto di volerne parlare prima con il mio avvocato... tac! Avrebbero avuto l’indizio che
volevano. L’avrebbero collegato al fatto che sono stato l’ultimo a
vedere Sara in vita, e magari adesso sarei ancora alla stazione dei carabinieri. In stato di fermo.
Potevano tenermi lì fno a quarantott’ore, in attesa della convalida del giudice.
Ma io li ho fregati. Ho detto subito di sì.
Questo deve avere fatto per forza una buona impressione.
Anche se non sono sicuro di averli convinti del tutto. Altrimenti
non mi avrebbero detto di non allontanarmi dalla provincia, fno a
nuova comunicazione.
Questo, però, non si sono abbassati a dirmelo loro. Un’informazione di servizio troppo banale per i signori detective. Me l’hanno
fatto dire dal maresciallo.
È un brav’uomo, il maresciallo. Un veneto che è entrato nell’Arma per vocazione, così come chi sceglie la vita clericale. Non come
certi meridionali che hanno tentato il concorso perché al sud non
trovano lavoro.
Ah, l’appuntato. È meridionale anche lui, siciliano di Catania.
Ma di quelli bravi. Non ha la vocazione come il maresciallo di Treviso, si vede, ma ce la mette tutta. Sarà per questo che picchietta
con la penna sui fogli, e spiega agli interrogati chi fa cosa. Dev’essere il suo modo di sentirsi almeno utile, se non proprio importante.
Mi ricordo che, da bambino, una volta ho visto alla tv quel flm
con Alberto Sordi che veniva arrestato alla frontiera, mentre tornava in vacanza in Italia con la moglie svedese. Detenuto in attesa di
giudizio, mi sembra si intitolasse. Per mesi lo sbatacchiavano da un
carcere all’altro senza dirgli di cos’era accusato e alla fne saltava
fuori che era stato tutto uno sbaglio.
Mi aveva scioccato a tal punto che per anni ho vissuto nel terro86
re di fnire vittima di un errore giudiziario.
Ancora quand’ero grandicello, appena presa la patente, ogni volta che incrociavo una pattuglia che faceva qualche normale controllo stradale, tremavo come una foglia all’idea che mi potessero fermare.
Chissà cos’avranno pensato quelle volte che mi hanno fermato
per davvero. Forse che mi comportavo in modo strano perché avevo qualcosa da nascondere? O solo perché ero un ragazzino timido
e imbranato?
Oggi, dopo tanti anni, mi sono sentito ancora così.
Non ho fatto niente, eppure mi sento in colpa.
Perché io so, come lo sapevo anche allora.
So quello che non sa il maresciallo di Treviso, né l’appuntato di
Catania.
Che non sa la sostituto procuratore con le palle, né il suo collega
di basso proflo.
Che non sanno i miei impiegati e i miei clienti.
Che non sa Stefania, né Monica, né la piccola Maddalena.
Io so che Sara la seguivo da mesi.
La spiavo dalle fnestre di casa.
Conoscevo tutte le sue mosse, i suoi orari e le sue abitudini.
Aspettavo solo l’occasione di darle un passaggio, senza mia fglia.
So che la desideravo.
So che per averla avrei fatto qualsiasi cosa.
Io so che, se non ho fatto niente, è solo perché l’assassino è arrivato prima di me.
87
Il gioco di Lazzaro
di Mattia Insolia
«È una casa spaziosa, ha tutti i comfort di cui potrebbe aver
bisogno e qualcosa di tanto inutile da essere indispensabile.» dice
l'agente immobiliare, sfoderando un sorriso accattivante.
Mi guardo attorno, sofermandomi sul linoleum scintillante e
sul bancone della cucina bianco panna.
«È una bella casa.» commento. «Un po' cara, confrontata alle
altre della zona ma una gran bella casa.»
L'agente immobiliare, una bionda ossigenata con un piede nella
menopausa e labbra rimpinzate di botox, si gratta il naso rifatto
con le unghie laccate e dice «Ho parlato con i proprietari e se la
comprasse entro sabato sarebbero disposti a trattare sul prezzo.»
Fa schioccare la gomma da masticare in un gesto che, nel suo
immaginario, dovrebbe essere sexy ma che ha l'efetto opposto.
«Mi parli di nuovo della cantina.»
«Il fglio dei proprietari suona il sax e i vicini si sono lamentati
del rumore così tante volte che alla fne è intervenuta la polizia.»
spiega. «Hanno deciso di insonorizzarla, lì sotto potrebbe esplodere
una bomba e non lo sentirebbe dal piano di sopra.»
Annuisco, mi guarda sospettosa e chiede «Perchè le interessa
tanto? Non sarà un matto?» prorompe in una risata acuta e sento
l'impulso di fccarle un braccio in gola e strapparle le corde vocali.
«No, certo che no. Suono la batteria. È uno dei motivi per cui
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devo lasciare la vecchia casa.»
«Non mi dica, adoro le percussioni!»
Si avvicina a me facendo mulinare la chioma e si alza un
profumo acre di lacca e cipria che mi fa starnutire.
Mi porge un clinex e mi sfora la spalla. Sarà anche avanti con
l'eta ma è ancora famelica; una di quelle puledre che non hanno
trovato marito e sopperiscono alla mancanza di una famiglia
tufandosi nel lavoro e in più di qualche scopata saltuaria. Una
bomba sexy con un gran bel culo, ma ha un fare altezzoso che non
sopporto.
«Mi divertirei da pazzi, a giocare con te.» penso.
Annuisco e mi volto. La televisione giace sopra il caminetto, vasi
di fori fnti ornano la stanza, le pareti sono tappezzate di quadri
insieme anonimi e familiari.
Stampa 7, Van Gogh: Iris, Catalogo Ikea 2013. Diciannove euro.
Stampa 25, Klimt: Il bacio, Catalogo Ikea 2013. Sedici euro.
Continuo a ispezionare il posto con occhio attento, considerata
la somma da sborsare devo fare qualche considerazione prima di far
uscire i quattrini, e penso che sebbene sembri una follia spendere
tanto per quattro mura e un tetto è una signora casa.
“È arrivato il momento di lasciare questa merdosa baraccopoli.
Non puoi continuare a vivere qui.” mi ha detto mio fratello due
settimana fa; è stato uno schiafo morale, cerco casa da allora.
«Al telefono è stato vago, temo di non aver capito. Cosa ha detto
di fare, per vivere?» domanda l'agente immobiliare puledra.
«Disoccupato.»
Il viso mal rifatto della donna si piega in un'espressione sorpresa
e preoccupata.
«Mi scusi, ma devo chiederlo. Come pensa...»
«Di pagare?» l'anticipo. «Mio padre è morto l'anno scorso, era
un magnate di non so quali cazzi, che mi ha cacciato di casa a
diciott'anni, ma si è ricordato di citarmi nel testamento. Dulcis in
89
fundo, mi hanno licenziato il mese scorso e la liquidazione era
succosa.»
Si zittisce, l'espressione adesso è solo sorpresa.
«Babbuino male ammaestrato.»
La odio.
Alla fne, decido di comprarla.
La puledra mi indirizza un sorriso tanto largo da sembrare un
ghigno, frmo una quantità di scartofe, compilo Dio solo sa quanti
moduli e alleggerisco il conto in banca. Tre giorni dopo porto i
miei pochi averi alla nuova casa, disponendoli alla bell'e meglio. Il
risultato dell'accoppiamento tra il vecchio mobilio e il nuovo è
tremendo: la poltrona dall'imbottitura foscia stona con i sofà
candidi, la collezione di modellini sbiaditi d'auto d'epoca con
l'inestimabile orologio a pendolo Chateau D'ax, il poster de Il
trono di spade autografato da Lord Martin in persona con le
stampe Ikea.
Potrei buttare tutto ciò che ho trovato in casa, lo so, ma una
parte di me vuole tenerli per un motivo che non capisco.
Il giorno del trasferimento vero e proprio al numero dieci del
viale alberato, quando la puledra e i due ex proprietari, malfermi
sui loro ottant'anni, mi consegnano le chiavi, è una domenica
pomeriggio. Il quartiere è un largo e lungo viale, le case sono
uguali fatta eccezione per qualche vaso forito che puntella un
giardino meglio curato o una siepe ftta che protegge i residenti da
occhi indiscreti. Il sole sta calando, le ombre di un gruppo di
bambini in bici si allungano sull'asfalto, il solo rumore è quello
degli irrigatori che dissetano i giardini.
Mi godo una birra in veranda, in frigo ho solo quelle e una
confezione di yogurt assortiti. Osservo compiaciuto la mia nuova
residenza e, quando ormai il sole ha lasciato il posto a una coperta
tiepida dai colori spenti e i lampioni hanno rimpiazzato la sua luce
calda, decido di entrare. Noto una Mercedes Slk in avvicinamento,
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procede rombando e accosta sul marciapiedi di fronte la casa a
destra. Il tipo che smonta indossa un completo che gli sarà costato
un occhio della testa. Magro, alto, slanciato, ha i capelli
impomatati e un sorriso smagliante. Sta per inflare le chiavi nella
toppa quando la porta si apre, lo accoglie una donna sui venti, tette
sbrodolanti e gambe che non fniscono più. Entrano in casa e solo
allora mi accorgo di quanto sia ben tenuta la villa dei vicini, a
confronto la mia è una topaia.
«Stronzo. Figlio di una vacca troia.»
Invidio e odio quell'uomo.
All'una inoltrata vado a letto fantasticando su quanto mi
divertirei a guardare la casa del vicino con Mercedes e Moglie
Trofeo divorata dalle famme.
Il giorno dopo sullo zerbino trovo una copia del quotidiano, lo
raccolgo e cafè alla mano lo sfoglio in veranda.
La prima pagina titola:
Assassinato giovane imprenditore
Lazzaro risuscitato
È il terzo omicidio questo mese. Le vittime: uomini sui trenta.
Prima di essere uccisi sono stati torturati, forse dal giorno del
rapimento.
Fonti al dipartimento di polizia informano che è opera di Lazzaro,
l'omicida che segue un ciclo di quattro mesi.
Scarto l'articolo e mi dedico alla pagina sportiva.
Stamattina l'aria è frizzante, Mr. Mercedes è già uscito, la strada
è deserta. Sono di buon umore e decido di prendermi la giornata
libera, devo trovare un lavoro ma è un'occupazione che può
aspettare. L'anziana della casa di fronte, curva e con una massa di
capelli bianchi intricati come rovi, attraversa il viale trascinando un
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trolley di stofa malconcio. Mi sorride gioviale, io rispondo
educatamente e lei lo interpreta come un invito ad attaccar
bottone.
«Buongiorno.»
«Non perdere le stafe.»
Dice una voce nella mia testa.
«Ma voglio giocare!»
Esclama un'altra.
«Sta' calmo.»
Voglio giocare.
«Sta' calmo!»
«Ti sei appena trasferito?» domanda attraversando il viale di casa,
raggiungendo la veranda.
Ha rughe su rughe e un sorriso dolce, sprizza tenerezza da tutti i
pori, insieme a odore di naftalina e piscia di gatto.
«Calmo, santo Dio, calmo.»
«Voglio giocare!»
«Non ora!.»
«Vedrai, questo quartiere ti piacerà.» dice la vecchia.
«Questo è troppo.»
Mi alzo lentamente e mi posiziono tra la porta e il giardino,
studio l'anziana per qualche secondo, inspirò ed espiro poi
rispondo cordialmente.
«Fatti i cazzi tuoi, troia stagionata.»
Rimane interdetta, cerca di spiccicare parola ma riesce solo a
sbufare il suo disappunto. Si volta borbottando con la voce rotta
dalle lacrime e si allontana zoppicando.
È passata una settimana dall'incontro con la vecchia della porta
accanto, da allora si tiene alla larga e quando esco con la mia
Toyota mi spia dalle fnestre della sua villa. Le mostro il dito
medio tutte le volte. Non ho praticamente messo naso fuori per
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dieci giorni e c'è qualcosa dentro di me che vuole uscire, un drago
pronto a sputare fuoco. Basta un dettaglio a farlo gorgogliare di
rabbia: una telefonata pubblicitaria, il wi-f che non funziona
quando carico un porno, il cane del vicino che abbaia all'alba.
Almeno quel problema l'ho risolto.
Era uno Yorkshire. Grandezza: l'elenco telefonico. Potenza
vocale: il grido di un'aquila. Non volevo farlo stavolta, con gli
animali ho chiuso, ma quella bestia infernale non la smetteva di
abbaiare. Ho scavalcato lo steccato che separa il mio giardino da
quello di Mr. Mercedes, ho accarezzato il cagnolino, gli ho fccato
un paio di calze in bocca, l'ho chiuso in una scatola di Nike, ho
scavato in giardino una fossa profonda, vi ho depositato la scatola e
ho ricoperto la buca. Il bastardo si è dimenato per mezz'ora prima
di crepare, ma adesso dormo tra due guanciali. La fglia di Mr.
Mercedes, un bombolone alla crema dai capelli unti, ha pianto per
tre giorni ma, come ho detto, adesso dormo tra due guanciali.
C'è un pub non lontano da casa, La botte piena e la moglie
ubriaca. È sempre pieno come un uovo e decido di farci un salto,
scelta azzeccata: la clientela è variegata, i calici colmi fno all'orlo, le
ragazze passabili e con un tasso alcolemico che sfora il softto.
Siedo al bancone e ordino una Vodka, poi una seconda e una terza;
il barista non fa una piega, i drink sono annacquati ma il prezzo è
adeguato. Non passa molto prima che una squinternata si avvicini;
non sono di bell'aspetto, ho il viso butterato dallo spettro dell'acne
che ha distrutto la mia adolescenza, ma lei è ubriaca oltre ogni
limite. Sto per dirle di allontanarsi, se non vuole un cacciavite tra le
costole, ma si rivela una tonica con un bel paio di tette. Capelli
biondo-troia, trucco pesante e shorts esageratamente corti.
Ride sguaiata e si lancia in un firt selvaggio, io l'assecondo. Non
voglio che mi vomiti in giro per casa ma quando mi si struscia sulla
schiena non resisto e decido di caricarla in macchia.
«Casa mia?» urlo sovrastando la musica.
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In risposta mi stampa un bacio in bocca e mi agguanta il pacco.
È un sì.
Raggiungo casa in dieci minuti, brucio i semafori e supero i
limiti di velocità perchè ho paura che si addormenti, una volta lì si
desta dall'incoscienza dovuta all'alcol e in camera da letto siamo già
come mamma ci ha fatto. La sua, tra parentesi, ha fatto un lavoro
niente male. Ci diamo dentro per un'ora, niente preliminari, e
quando abbiamo fnito si addormenta. Emana una puzza di rum
tremenda e sono sicuro che domani non ricorderà niente, così la
porto fuori in braccio e la lascio nel cassonetto dei rifuti della
vecchia vicina.
«Stasera ti grazio, bambina mia.»
La bacio sulla fronte e le spillo un post-it al reggiseno: domani
prendi la pillola, o sono cazzi. Ho usato precauzioni, certo, l'ultima
cosa che voglio è ingravidare un mulo da soma come questa
ubriacona, ma mi diverte il pensiero di come si agiterà nel leggerlo.
Torno a casa, cambio le lenzuola e mi addormento.
A quattro giorni dalla scopata, il drago dentro di me è
incontrollabile, non posso più saziarlo uccidendo un cazzo di cane
o sbattendomi la prima buona a nulla che trovo. Decido di
procurarmi un po' di sano divertimento, è arrivato il momento di
giocare.
«Voglio giocare.»
«Giocare.»
«Giocare.»
Mia madre e mio fratello verranno a pranzo qui domani ma non
dovrebbero esserci intoppi, se la cantina è insonorizzata come ha
detto la puledra non corro rischi.
Decido di tornare al Watson, un lounge bar dove scelgo i miei
amici, così mi inflo la giacca, applico del gel per capelli ed esco.
Il Watson è popolato di giovani di belle speranze che si
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muovono nel mondo della fnanza con l'eleganza di un elefante in
una cristalleria, più preoccupati dell'apparenza che della sostanza.
Potrebbero guadagnare una miseria fottuta ma non rinuncerebbero
a indossare Omega, vestire Gucci e guidare Audi. È come se Dio
avesse deciso di concentrare la peggior feccia in determinati punti,
così da poterli tenere d'occhio meglio.
E Dio creò i borsisti e i rappresentanti farmaceutici e vide che non
erano cosa buona, allora creò i lounge bar dove confnarli come pecore
in un ovile.
Siedo a un tavolo e ispeziono il posto:
«Troppo magro.»
«Troppo grasso.»
«Troppo vecchio.»
«Troppo giovane.»
«Troppo intelligente.»
«Troppo stupido.»
«Trovato.»
Un uomo sui trenta sorseggia un Daiquiri al banco. Capelli
raccolti in uno strato eccessivo di gel, viso tirato a lucido, denti
perfetti; emana quell'aria di detestabile sicurezza che sfora il
narcisismo sfrontato e che mi fa sentire una nullità a primo
acchitto. È il mio compagno di giochi ideale.
Ordino una Vodka, intimo al cameriere di portarla dalle scorte
non ancora annacquate e gli allungo una banconota da venti, poi
mi metto comodo e aspetto.
Due ore dopo, il tipo, un fglio di troia cocciuto, capisce che la
ragazza con cui ci prova dall'inizio della serata non è interessata e
decide di battere in ritirata. Saluta ed esce, lo seguo.
Attraversa il parcheggio desolato, lo tampino evitando di far
rumore, e quando sta per inflare le chiavi nella toppa della sua A7
mi avvicino e accosto la lama del coltello alla gola perfettamente
rasata.
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Coltello Slitbar, Catalogo Ikea 2013. Dodici euro.
Si immobilizza all'istante.
«Ecco, prendi... chiavi... portafogli... cellulare.» balbetta.
Rido.
Faccio pressione col coltello e gli ordino di seguirmi, se non
vuole essere sgozzato come un maiale. Obbedisce.
Facendo attenzione che nessuno mi noti lo guido fno alla
Toyota, lo faccio sdraiare sul cofano, lego mani e piedi, gli frugo
nelle tasche e prendo cellulare e portafogli, gli tappo la bocca con
del nastro adesivo e gli inflo in testa un sacco di juta imbevuto di
Etere Dietilico.
Finora si è limitato a chiedermi cosa voglio, adesso piagnucola.
Controllo l'orologio: ha resistito cinquantasette secondi; nè il più
coraggioso nè il più codardo, giocare con lui sarà divertente.
«Voglio giocare.»
«Giocare.»
«Giocare.»
Guido lentamente, per evitare d'essere fermato per eccesso di
velocità con un uomo nel bagagliaio, lancio fuori dal fnestrino gli
efetti del mio amico e arrivo a casa in mezz'ora. Posteggio sul retro
e lo trascino fno alla cantina, è stordito ma si dimena come un
pesce all'amo. Lo spoglio, lo lego a una sedia sdraio con nodi su
nodi foderandoli con nastro adesivo, infne gli tolgo il sacco dalla
testa e il nastro dalla bocca, per evitare che sofochi prima di
cominciare. Salgo al piano di sopra, chiudo la cantina e mi inflo
sotto le coperte.
La mattina dopo sono sveglio alle sette, di buon umore. Faccio
colazione in veranda, saluto la moglie di Mr. Mercedes e alzo il
medio all'anziana della porta accanto, che mi spia nella speranza di
vedere chissà cosa.
«Sono un bravo ragazzo, io.»
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Un po' di tv, doccia e sono pronto.
In cantina trovo il mio amico chiuso nel silenzio.
«Buongiorno.» saluto educatamente.
Mi guarda di traverso, spaventato, e mi chiede con un flo di
voce «Cosa vuoi?»
«Voglio giocare.»
«Giocare.»
«Giocare.»
Sorrido e rispondo «Niente che tu possa darmi spontaneamente.»
Una lacrima solitaria gli solca gli zigomi alti, le labbra tremano
in modo patetico, una striscia di moccio arriva ai denti perfetti.
«Ti prego...» farfuglia. «Ti prego...»
Gli dò una pacca sulla spalla e qualche rassicurazione inutile.
Piange senza freni.
Prendo una sedia dal piano di sopra, la posiziono accanto a lui e
tiro fuori il mio baule dei giochi. Riempio una sacca di soluzione
fsiologica e con una canula rimpinzo il mio amico di sali minerali,
afnchè non svenga all'inizio dei giochi. Applico delle pinze
chirurgiche alle palpebre così che non possa chiuderle e una sacro
santa dose di lacrime artifciali. Ribalto la sdraio in verticale,
posiziono un sostegno rotante sulla parte posteriore e trascino uno
specchio incrinato di fronte al mio amico, così che anche lui si
goda lo spettacolo.
«Voglio giocare.»
«Giocare.»
«Giocare.»
«No... no, no.» continua a borbottare, anche se piano piano sta
diventato un grido.
«Io amo le grida.»
«So che non vi divertite a giocare con me.» dico. «Ma con
qualcuno dovrò pur farlo, no?» sorrido. «Scelgo i tipi come te
perchè mi fate sentire una vera merda, una nullità. Non che
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abbiate fatto qualcosa di male, no. È solo che, come disse un
grand'uomo, il vostro essere qualcuno si scontra tremendamente
col mio essere nessuno.»
Apro il baule e prendo una pinza, scelgo la mano destra e
comincio a strappare l'unghia del pollice.
Lentamente.
Inesorabilmente.
Lui urla come un dannato.
Le sue grida mi riempiono le orecchie e scorrono come zucchero
flato che addolcisce e rinfresca. A ogni lamento, rantolo, preghiera
e grido mi sento più leggero. Arrivato al mignolo della sinistra,
quando si sono formate pozze porpora sul pezzo di pavimento
sotto le mani del mio amico, sento di poter volare.
Fischietto il motivetto di Kill Bill, lui piange come un disperato;
è svenuto solo due volte nelle ultime ore.
«Adesso.» dico. «Un po' di silenzio.. ma non abbiamo ancora
fnito di giocare.»
«Perché? Perchè?» piagnucola pateticamente. «Non ho fatto
niente.»
Sbufo d'impazienza. Credo d'essere stato abbastanza chiaro ma
nella sua situazione merita qualche attenuante.
«Non sono mai stato niente, se non il fglio di Tal Cazzo o
l'impiegato a Tal Cazzi.» spiego, prendo il rasoio dal baule e gli
raso i capelli. «Ma voi... voi avete il mondo ai piedi, lì fuori avete il
comando. Siete belli, ricchi e avete tutto quello che desiderate.»
Faccio scivolare due dita alla base del collo del mio amico,
carezzandogli la nuca. «Quando vi riduco a un ammasso
sanguinolento di pus e frattaglie però, di voi non rimane altro che
ciò che siete veramente: putrescenza calata in una bella confezione.
Non ho avuto il dono di un bel rivestimento, sono sempre stato
merda secca agli occhi di tutti, non sono mai stato meglio di voi,
ma posso rendervi peggio di me. Qui, io sono Dio.»
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Faccio ruotare il supporto e la sdraio con esso, diminuisco
l'inclinazione e il mio amico si trova sottosopra. Prendo una tanica
d'acqua, copro la sua faccia con uno straccio e comincio a versare
lentamente, mentre lui annaspa alla ricerca disperata d'aria.
Quando il waterboarding mi ha stufato gli strappo incisivi e canini,
due ore dopo sono stremato. Sistemo il mio amico sulla sdraio,
ricarico la febo e lo ringrazio per la bella mattinata passata a
giocare, promettendo altro divertimento; staremo assieme per
un'intera settimana, in fondo. Domani gli romperò le dita di mani
e piedi, dopodomani gli cucirò le labbra e una delle narici, poi se
sopravviverà toccherà ai genitali.
«Voglio giocare.»
«Giocare.»
«Giocare.»
Mi guarda come fossi pazzo, piangendo, ma io non sono pazzo.
«Sono il risultato di ciò che mi avete fatto voi. Cosa cazzo abbiate
combinato per ridurmi così non lo so, ma non è colpa mia. Non può
essere colpa mia.»
Faccio una seconda doccia, mi calo in abiti puliti, arrostisco
delle salsicce e quando arrivano i miei ospiti sono pronto ad
accoglierli.
Mamma guarda ammirata la casa e commenta «Sono contenta
che hai messo la testa a posto.»
Si avvicina alla credenza del soggiorno, studia il modellino
incompleto della Torre Eifel, fatto coi denti dei miei vecchi amici,
e domanda «Cosa aspetti a fnirlo? È così bello. Hai usato l'avorio,
questa volta?»
«Qualcosa del genere. Giusto stamattina mi sono procurato gli
ultimi pezzi, dovrei completarlo nel pomeriggio.» rispondo. «Hai
ancora quello del Colosseo che ti ho regalato a Natale?»
Quello è fatto con le unghie dei miei vecchi amici; sono più
complicate da lavorare, si spezzano facilmente, ma ne ho fatti così
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tanti da essere diventato un esperto. Scalpello elettrico e famma
ossidrica sono prolungamenti delle mie mani, ormai. Con un
modellino della Statua Della Libertà, scolpito nel femore di un mio
amico, ho addirittura vinto una fera di paese.
100
Mosca cieca
di Samuele Fabbrizzi
Quando parcheggio l'auto, i miei colleghi son già sul luogo del
delitto. Le sirene rossoblu delle pattuglie lampeggiano silenziose
sulla facciata dell'abitazione in decadenza. Dalle mura piovono
pezzi d'intonaco e la porta non è altro che una vecchia tavola marcia e verniciata male. Il classico ritrovo per prostitute, tossici e papponi. Un gran posto del cazzo.
Spengo la radio, mi abbasso fno a sforare il cambio, prendo
una bustina di coca e mi faccio una striscia. Ci vuole una bomba
per iniziare la giornata. Le narici mi frizzano, irritate, come un pugno di sale su una ferita aperta, ma niente da dire sull'efetto. È
roba buona. Il Paradiso è tutto lì, in pochi grammi schizzati dritti
al cervello.
Lo specchietto retrovisore rifette le mie occhiaie, i capelli senza
piega, il naso rosso da clown. La colpa è sempre del rafreddore,
giusto? La neve piace ad adulti e bambini. Scendo dall'auto. Il nastro giallo della polizia taglia a metà la boscaglia lasciata allo stato
selvaggio. Sopra di me un cielo simile a una tela vuota.
Un damerino dall'aria spaurita mi guarda storto.
«Detective Marshall» gli dico, sventolandogli davanti il tesserino.
Lui abbassa gli occhi e si fa da parte.
«Rispetta i superiori, bimbo.»
Varcata la soglia di casa, mi trovo immerso in un corridoio dis101
seminato di spazzatura: cartacce, siringhe, cocci di bottiglie e preservativi usati. Il vero miracolo sarebbe tornarsene a casa senza epatite. Le pareti scalcinate sono imbrattate di grafti, promesse d'amore a lunga conservazione ma di breve durata. Il fash d'una macchina fotografca mi chiama dalla stanza in fondo, preceduta dalla
sagoma compatta del sergente Szhor.
«Buongiorno principessa.» mi fa, non appena percepiti i miei passi scricchiolare sui rifuti.
Il suo alito al cafè è un misero modo per insabbiare la sbronza
di ieri sera.
Lo raggiungo, accendo una Lucky Strike e gliene ofro una.
La prassi.
Lui rifuta.
La prassi.
«Che abbiamo?»
«Il nostro uomo ne ha ammazzata un'altra.» dice. «Erika Lancaster, ventitré anni, tossica.»
«Merda, è la quinta vittima quest'anno.»
Entro nella stanza invasa dai membri della scientifca. La ragazza
è distesa su un fanco, polsi legati alla testa con del nastro adesivo,
mani incollate agli occhi. Come al solito.
Mosca cieca.
Così l'hanno soprannominato i media. Un serial killer sadico
che si diverte a tappare gli occhi delle sue prede come se non dovessero assistere al proprio massacro.
Stesso modus operandi, stessa frma, stessa messa in posa.
È decisamente lui.
Pavimento e pareti son chiazzati di sangue. L'assassino deve aver
usato un martello o una chiave inglese per colpire la vittima. Nonostante le mani sulla faccia, intravedo gli ematomi che le deformano il volto. Il mascara le è colato sugli zigomi bitorzoluti.
La voce di Szhor m'investe le spalle «Che bastardo, prima l'ha
102
colpita in testa e poi l'ha massacrata di botte.»
Il coroner si fa il segno della croce.
«La temperatura del fegato è di venti gradi, il che signifca che la
morte è sopraggiunta circa quindici ore fa.» c'informa, mentre trotterella le dita al lattice sulle nudità di Erika. «Le chiazze di sangue e
le ipostasi sulla metà destra del cadavere indicano che l'omicidio è
avvenuto qui.»
«Tracce di liquido seminale?» chiedo.
Lui annuisce.
Violenza, nudità e stupro sono afermazioni di potere. L'umiliazione è un mezzo per imporre il proprio Io debole e frustrato.
«La vittima deve aver lottato.» commenta il sergente. «Ha lividi
e ferite da difesa su tutto il corpo.»
Il coroner maneggia le pinzette, aferra la mano di Erika e le toglie delle scaglie da sotto le unghie laccate di nero.
«Sapete cos'è questa?»
«La pelle di Mosca cieca» rispondiamo io e Tom Szhor, quasi all'unisono.
Peccato che il bastardo non sia in archivio.
*
«Sei stato cattivo.»
L'uomo singhiozza mentre si spoglia. Su di sé i graf della lotta.
I vestiti scivolano sulle mattonelle del bagno, mentre l'acqua calda
riempie la vasca. Dio, puzza ancora del sangue di quella tossica.
Trema.
«Non volevo, è stato un incidente.» si giustifca, stretto in un auto-abbraccio.
«Lo è sempre.»
«No, io sono buono. Loro, sono loro che mi fanno perdere la pazienza. Non vedi come mi guardano? Mi deridono.»
103
La superfcie dell'acqua accarezza i bordi in porcellana. Fiocchi
di schiuma galleggiano racchiudendo rifessi color arcobaleno.
«La tossica però ti voleva bene.»
Lui scuote il capo da una parte all'altra.
«No, mentiva. Era una lurida bugiarda.»
«Solo perché ti ha rifutato?»
L'uomo stringe le labbra e annuisce.
«Mi ha fatto sentire un mostro.»
La lampadina nuda gli oscura parte del volto. Visto così sembrerebbe una persona normale. Dalla fnestra sbarrata fltrano a malapena le luci della cittadina. La gente non deve vederlo.
L'assassino chiude la cannella e immerge una mano. Le nocche
spaccate frizzano a contatto col sapone.
«È bollente.» si lamenta.
«È giusto che lo sia. Devi chiedere perdono, purifcarti. Non lo
sai che i violenti non erediteranno il Regno di Dio?»
L'uomo tituba, poi però alza una gamba ed entra nella vasca. La
sensazione è la stessa del nuotare in un mare di lava incandescente.
La carne gli si arrossa fno a divenire violacea, ma non può opporsi.
La fagellazione è la punizione più giusta. Si piega sulle ginocchia e
spalma le natiche sul fondo. È il fuoco della dannazione che divora
l'anima, il resto sono solo scottature.
«E adesso gratta via da te il peccato.»
Prende la spugna, la impregna e comincia a strofnarsela sul collo, mentre le lacrime continuano a rigargli il volto gravemente
asimmetrico. Sotto le unghie, mezzelune di sporcizia e sangue secco, le mani pervase da ftte, i polsi lacerati dai graf dell'ultima vittima. Si era ripromesso di utilizzare il martello per uccidere, ma il
contatto fsico è la più irresistibile delle sensazioni. Sentire le ossa
delle ragazze che si sbriciolano, le lacrime sui palmi, le loro forme a
sua disposizione. In fondo quello è l'unico modo per averle.
«C'è qualcosa che non va in te, e non è la tua faccia.»
104
«Lo so, ma giuro ch'è stata l'ultima volta.» piagnucola.
«Certo, come no. Mosca cieca.»
«Smettila, odio quel soprannome.»
«Perché? In fondo è quel che fai: volare fra la merda e impedirle
di osservarti.»
L'uomo cessa di frignare e la sua espressione si fa dura. Le croste
sulle mani hanno smesso di dolergli e adesso si tampona i lineamenti deformi. Nella sua mente si materializzano le immagini dell'omicidio, il sorrisetto denigratorio di Erika, il sangue sulle pareti
e, senza rendersene conto, dalla capanna di schiuma spunta il suo
pene eretto e pulsante.
Quella tossica del cazzo non potrà più prenderlo in giro.
Sono fniti i tempi dei soprusi.
«Andiamo, non mentire a te stesso. Ti piace uccidere. Sei cattivo.»
Il killer però non risponde.
Finisce di ripulirsi, dopodiché si alza in piedi e si asciuga. Lo
specchio del bagno è coperto da un telo, ed è dietro quel telo che si
cela il mostro. È da lì che proviene la voce.
E non c'è niente di peggio che scavare dentro se stesso.
*
Il funerale è stato carino, cioè per quanto possa esser carino un
cazzo di funerale. La madre della vittima ha scelto una bara in mogano come eterna dimora per il sangue del suo sangue. Pochi invitati, per lo più parenti, nonostante Erika stesse cercando di ripulirsi. A metà del sermone – la solita tiritera sul cenere alla cenere, polvere alla polvere – ho dovuto allontanarmi qualche minuto per farmi due strisce in macchina. Cristo, non ce la facevo a sopportare
così tante stronzate in un'unica portata.
Io e Tom abbiamo deciso d'assistere alla cerimonia per un moti105
vo ben preciso; spesso i serial killer cercano di entrare nella quotidianità delle vittime, così da prolungare il piacere post-omicidio e
il senso d'onnipotenza che sentono per averla fatta franca. Sfdare
la Legge signifca sputare in faccia alla società, la stessa società che
li ha esclusi, feriti. Quale miglior modo per riafermare se stessi?
Il serpentello di facce tristi si esaurisce con le lacrime del papà.
Un cumulo di rose bianche accompagna la discesa della vittima
nella fossa, tre metri sotto terra alla mercé delle larve.
«Possiamo tornarcene a casa.» propone il sergente, deluso.
«Ci facciamo una birra?»
Non sono un tipo socievole, ma non voglio neanche dar l'idea di
non avere una vita all'infuori del dipartimento. E occhio che le
puttane non contano. Cioè alcune di loro son ragazze tranquille,
sanno come farmi divertire, ma col cazzo che mi terrebbero compagnia senza grana.
«No amico, torno a casa dalla mia bimba.»
«La moglie o la tequila?»
Lui ci pensa su.
«Entrambe.»
Tom Szhor è un brav'uomo, ma la morte del suo migliore amico
è stata un duro colpo.
Stiamo per girare i tacchi, quando sento una mano aggrapparsi
all'impermeabile. È la madre di Erika in compagnia del prete.
«A saperlo mi sarei fatto un'altra striscia.»
«Buongiorno agenti.» ci dice, con gli occhi velati di cellofan.
Noi tendiamo le labbra in un sorriso di cortesia dal retrogusto
amaro.
«Vi ringrazio per essere venuti. Come procedono le indagini?»
«Stiamo facendo il possibile.» risponde il sergente, da prassi.
Il prete mi squadra dalla testa ai piedi. La sua parrocchia gestisce
vari gruppi di recupero che aiutano tossici, alcolisti e prostitute a
tornare in carreggiata, quindi sicuro come la morte che lo stronzo
106
futa la coca che ho in circolo. In fondo basta fssarmi le narici.
Ah dimenticavo, il rafreddore...
«La mia bambina non era una persona cattiva.» singhiozza la
donna «Non meritava quella fne.»
«Mi spiace.»
Il prete accoglie il capo della fedele fra le braccia, dopodiché ci
saluta e la riaccompagna dai parenti radunati sotto al gazebo.
Mi accendo una sigaretta e resto a fssare il becchino impegnato
a ricoprire la fossa. La vanga stretta fra i guanti da giardiniere, la
fronte lucida, i pantaloni sporchi. Si asciuga il sudore alla manica
della giacca.
«Cinque omicidi, dodici in totale.» commenta il sergente. «E
pensare che Mosca cieca è pure un serial killer disorganizzato.»
Ha ragione, il bastardo lascia tracce di sé, DNA e cagate varie,
eppure non riusciamo a prenderlo. I suoi delitti sono motivati da
una sorta di vendetta simbolica verso l'autorità femminile, colpevole di averlo deriso e rifutato a causa dell'aspetto fsico (lo si capisce
dalla messa in posa: braccia scocciate al cranio e mani sugli occhi).
È discretamente probabile che il nostro uomo sia deforme o abbia una qualche menomazione.
«Si è dato da fare in questi tre anni e mezzo.»
«Già, e sempre in questa città.»
«Per i serial killer vale la regola del minimo sforzo, non scelgono
mai di uccidere in zone sconosciute, soprattutto se sedentari. Mosca cieca risiede qui, o se non altro ci ha vissuto, perché conosce
ogni strada, angolo o vicolo di questa cittadina del cazzo.»
Il sergente guarda l'orologio e fa cenno di andare. Potrei fare
una capatina sul luogo del delitto, interrogare qualcuno, camminare nella mente del bastardo, ma è domenica e la domenica è l'unico
giorno che ho per coccolarmi. Devo chiamare Jessica, dirle di raggiungermi al Lust Motel e farle trovare qualche striscia di benvenuto. Cristo, ho voglia di donarle un po' d'amore per cinquanta dol107
lari a botta.
*
Mosca cieca si ferma sul ciglio della strada. I lampioni illuminano
d'arancione l'asfalto annerito dalle frenate. Una prostituta gli sventola davanti la mercanzia. Carne in esposizione. Gli basta sceglierne
una, fotterle la testa e poi il corpo, ma è meglio aspettare. Il periodo è caldo, troppo caldo per uccidere una sesta vittima.
Le nocche son guarite ma stringere il volante continua a procurargli delle ftte. Incrocia il proprio rifesso nello specchietto retrovisore. Un essere deforme, ecco che cos'è.
Quando era piccolo, gli altri bambini lo lasciavano chiuso nello
scantinato dopodiché se ne andavano a giocare, e lui li sentiva ridere e scherzare, spensierati, mentre le lacrime gli tagliavano la faccia
sfgurata.
«Il sole bacia i belli.» gli ripetevano le femminucce.
Ma non era colpa sua.
L'incidente.
Non ricorda niente di quella sera, non l'ha mai ricordato, tranne
gli efetti.
Sua madre aveva esagerato con la vodka ma si era messa comunque alla guida. Un colpo di sonno. Sì, un colpo di sonno e l'auto
aveva sbandato per poi schiantarsi contro un muro a più di ottanta
chilometri orari. Lei era morta, lui no, ma in un certo senso ci avevano rimesso la vita entrambi.
I medici lo avevano salvato in extremis, gli avevano inserito degli
innesti cutanei e ricucito, rendendolo simile a un Arlecchino di
carne umana. Dieci, quindici, vent'anni di ritocchi chirurgici per
smussare le deformità, rimettere a posto le ossa, cancellare le tracce
dell'incidente. Fino a renderlo l'uomo ch'è adesso. Mosca cieca.
I bambini però sanno essere crudeli.
108
Quanti compleanni senza regali, quanti San Valentino passati in
solitudine, quante esclusioni! Per non parlare dei soprannomi, degli insulti e delle sassate. Era troppo chiedere di essere un ragazzino
normale.
Il rombo di una Mercedes lo distoglie dalle memorie. A bordo
c'è una coppietta che si bacia davanti al rosso del semaforo. Lei è
bionda e avvenente, lui moro, abbronzato e afascinante. I loro
profli sono perfetti, da stelle di Hollywood. Entrambi sono la
somma di tutto ciò che lui non è mai stato.
Mosca cieca scende dall'auto e si dirige verso di loro. Il vento della notte gli punge la calvizia. Nella manica sinistra tiene nascosto il
martello, nell'altra il crocifsso. Alcune delle prostitute lo salutano,
altre gli fschiano dietro per attirare l'attenzione. Quelli come lui
pagano bene di solito. Niente è più costoso dei segreti.
Dal cielo scuro cadono le prime gocce di pioggia.
«Certe persone dovrebbero uscire solo di giorno,» si dice, ormai a
pochi passi dalla targa «in fondo il sole bacia i belli.»
Non gli esseri orripilanti come lui.
Scatta il verde e la Mercedes schizza via, lasciandolo solo in mezzo alla strada. L'uomo si guarda intorno, spaesato. Un'occasione
persa, o forse guadagnata.
In un certo senso gli è rimasto il colpo d'odio in canna.
«Cos'è quella faccia?» gli grida una prostituta dall'aspetto familiare.
«Speravo tu lo dicessi.» sorride lui, puntando verso di lei.
*
«Voglio smetterla con questa vita, Frank.»
Ecco spiegata la sua passività. Di solito Jessica è tutta baci e abbracci, ma oggi...
Si riveste. Ha i seni ancora sporchi di coca e morsi, i piedi umidi
109
d'alcool. È stata una chiavata da trenta dollari, altro che cinquanta.
Peccato.
«Come mai?»
Lei abbassa gli occhi sulla moquette della stanza numero ventitré.
«Ho conosciuto una persona.»
«Cristo, l'ennesima Pretty Woman del cazzo.»
«Chi è il riccone?»
«Oh merda, il solito cliché.» ribatte stizzita, ma ehi, ogni cosa ha
il suo nome. «Non è un cliente, ma un uomo dall'immensa spiritualità. Mi ha pagata solo per scambiare quattro chiacchiere. Mi ha
parlato di Cristo, della mia anima e...»
«Stronzate.»
Mi accendo una sigaretta nonostante il divieto.
«No Frank, non sono stronzate. Almeno lui tenta di salvarle
quelle come noi, invece di fottersele e basta.»
La stronza sputa sul piatto dove ha mangiato per mesi.
«Mi ha pure invitata a un gruppo di recupero. Io e altre due ragazze avremmo dovuto andarci qualche giorno fa, ma poi c'è stato
l'omicidio della tossica e allora è saltato tutto. Sai, anche lei frequentava lo stesso gruppo.»
«Senti, senti. Interessante.»
«Lo avevi mai visto prima?»
«Sì, anche se ormai era da un po' che non bazzicava dalla mie
parti. Con me però non si era mai fermato. Ma perché ti interessa
tanto?»
Faccio spallucce.
Sa che sono un poliziotto, e le puttane hanno futo, quindi è
meglio ignorarla.
«Descrivimelo.» le chiedo. «Alto, basso, sfregiato, deforme?»
«Oddio, no.» scoppia a ridere, come fosse uno scherzo.
Il mio istinto pulsa.
110
«Però devo ammettere che ha due stranezze; odia gli specchi e
soprattutto odia essere fssato, dice che lo imbarazza.»
«Merda.»
Tre anni e mezzo di indagini.
Le vittime di Mosca cieca vengono rinvenute con gli occhi coperti. Il bastardo è un complessato cronico che prima accalappia le
prede spacciandosi per innocuo, le rimpinza di stronzate religiose,
si guadagna la loro fducia e poi...
Ma perché vergognarsi del proprio aspetto? A sentir Jessica non
ha menomazioni.
In testa mi si accende una cazzo di lampadina, mentre la rincoglionita continua a elogiare le doti del lupo vestito da pecorella.
«E se “Mosca cieca” fosse afetto da schizofrenia? “Firma e messa in
posa” lasciano presumere deliri di persecuzione – la mania di essere deriso per esempio – e di negazione depressiva di tipo somatico, ovvero
l'erronea convinzione di avere un aspetto repellente o parti del corpo
deformi. Forse l'assassino ha subito un incidente da piccolo, oppure
delle operazioni chirurgiche dalle quali non si è mai ripreso, almeno
psicologicamente parlando.»
La mia faccia si fa grave.
«Okay, è importante che tu mi dica come si chiama.»
«Spiacente tesoro, segreto professionale.» mi liquida.
«Un cazzo, devo sapere il suo nome. Potresti essere in pericolo.»
Lei alza un sopracciglio, difdente.
«Sei solo curioso.» sorride, credendomi geloso. «Lo conosci.
Tutti lo conoscono.»
Neanche fosse una stella del cinema.
«Non ho tempo per le stronzate.»
Mi fondo su di lei, le aferro le braccia, gliele storco dietro la
schiena e la sbatto faccia a terra, con il mio ginocchio a premerle
sulla spina dorsale.
«Che cazzo fai, stronzo? Mi stai facendo male.» strilla, assaggian111
do il pelo sudicio della moquette.
«Parla o ti sfondo, e credimi, non nel modo in cui ti piace.»
«Fottiti porco.»
Con la mano libera le stringo i capelli e tiro indietro, tanto che
la sua schiena comincia a scricchiolare, inarcata a novanta. Lei
guaisce come un cane maltrattato, e a me quasi torna duro. Sarei
disposto a spezzarla in due per avere delle informazioni.
«È padre Ivan.» esplode, sfnita. «È padre Ivan che bazzica questi
posti in cerca di anime da salvare.»
«Salvare... come no.»
Io la lascio andare, e lei rotola via a lamentarsi.
Mosca cieca.
Lo abbiamo avuto sempre davanti, ci ha preso in giro per anni.
Figlio di puttana. Colletto bianco e rosario sono i suoi lasciapassare, lo sono sempre stati, in fondo chi mai dubiterebbe di un prete?
I gruppi di recupero sono la sua tela, il modo più innocente ed efcace per attirare possibili vittime. Avevo ragione, prima fotte loro la
mente e poi il corpo. I funerali poi gli servono per prolungare il
piacere, ingozzare l'ego e godere della nostra inefcienza. Per tre
anni e mezzo siamo stati noi le sue mosche cieche, mentre lui è
sempre stato lì.
Mi rivesto, carico la pistola e mi avvio verso l'uscita.
«E adesso dove vai, stronzo?» piagnucola, con le guance sporche
di mascara.
«A schiacciare una mosca del cazzo.»
Prima di levare le tende, le lascio cinquanta dollari nonostante la
botta da trenta scarsi. Male che vada si rifarà con un pompino gratis. Sono un gentleman, io.
Monto in macchina, metto in moto e faccio il numero del sergente Szhor.
«Lo abbiamo trovato.» gli dico. «Becchiamoci in chiesa fra cinque minuti. Mosca cieca è padre Ivan.»
112
Riattacco.
Sicuro come la morte che staserà scoppierà un gran casino nella
casa del Signore.
Non vedo l'ora.
A saperlo mi sarei fatto un'altra striscia.
113
Bloody siren
di Daniele Passera
Luce bianca come neve. Una stanza sfumata di grigio e bianco
sbiadito. L'aria stessa sembra desaturata. Le tendine evanescenti del
baldacchino oscillano come sudari. Trasparenze sfumate su un materasso avvolto da un lenzuolo.
Bianco.
La donna si muove facendo mutare il proflo orizzontale del
grande letto. È sola, si scuote dal sonno stirandosi e scivolando
come seta fra le dita della notte. Il lenzuolo cade lasciando scoperte
le spalle, la schiena e i glutei. Due lembi rimangono avvinghiati a
lei, mani tessute di fantasmi sui seni alti, proporzionati. E sulla
morbida collina boscosa della vulva.
La donna sorride.
Il pesante SUV blindato corre nella notte. Una nube di semi
candidi investe il parabrezza e si disperde. La radio pigola e gracchia una confusa ridda di vocali e consonanti.
Peter Venice, profler e psicologo, torna a guardare lo schermo
del portatile. Una notifca pop-up lo avvisa che la batteria è al trenta percento. Peter se ne infschia. Sta leggendo il fle di testo dove
ha annotato tutti i dati della sua analisi.
Rabbrividisce.
La donna scivola fuori dal letto leggera come una silfde, lenta e
114
sensuale come una gatta.
Il lenzuolo non copre più nulla. La pelle è abbronzata di un mieloso color grigio scuro. Il corpo urla bellezza e proporzioni perfette.
Le mani corrono alla testa, alzano i capelli lunghi, fermati in una
crocchia lassa grande come due pugni. Le dita slacciano l'elastico.
Una lunga treccia cade sotto le reni, fra due fossette simmetriche ai
lati del coccige.
La donna attraversa la stanza e prende una camicia da uomo senza bottoni. Anche questa è trasparente, bianca come nebbia. La indossa, lasciando che i lembi inciampino sui capezzoli eretti. Lo
specchio appeso di fronte al letto rimanda il suo rifesso.
La donna sorride ancora, rilassata e riposata.
Eccitata.
Infla la porta ed esce.
I suoi passi si incrociano con consumata grazia, facendo gonfare
e ondeggiare i glutei perfetti.
L'autista imbocca la curva a una velocità leggermente sopra la
soglia consigliata. Peter chiude gli occhi sentendo i pneumatici
grafare l'asfalto.
Femmina. Fra i trenta e i quaranta. Single.
Il fle scorre sullo schermo LCD.
Foto di identikit, schizzi di testimoni e istantanee dei luoghi dei
delitti: case coloniali, condomini di lusso, villette circondate da
parchi verdi.
Sotto, un'aggiunta posteriore. Violenza sessuale, percosse.
La riga sottostante indugia sul rifesso umido delle lenti a contatto di Peter.
La donna scende i tre gradini che portano nell'ampio salotto.
Su due divani attorno a un tavolino di vetro dormono sei persone, quattro uomini e due donne. Vestiti sparsi e scarpe abbandona115
te ovunque. I nudi emergono come ombre grige sui divani neri. Le
impronte di due palmi spiccano sulle enormi porte fnestre che illuminano la stanza.
La donna sorride e passa oltre l'orgia di dormienti. Un paio degli ospiti stanno dormendo abbracciati. La donna sbircia i sessi ancora uniti. Rade gocce di liquidi corporei indugiano sui lembi di
pelle e i peli inguinali.
La donna sente calore dentro di lei.
Si avvicina alla porta fnestra più prossima. La luce nera della
notte sta sbiadendo, braccata da quella bianca dell'alba.
La donna appoggia petto e ventre contro il vetro. I seni si comprimono e si allargano. La donna sospira a occhi chiusi.
Il suo alito appanna il vetro, nascondendo gli alberi secolari e i
cespugli curati che riempiono l'ampio giardino forito.
«Quarantacinque minuti all'arrivo».
La voce alla radio è fredda come l'inverno.
Peter spegne il portatile. Il resto della storia lo sa a memoria.
Non ha bisogno delle foto. Non ha bisogno degli appunti che ha
scritto. Non ora che sa chi è la persona che stanno cercando.
Guarda gli uomini sul sedile posteriore. Giubbotti tattici, fucili
automatici, elmetti e pistole. Le patches sui pettorali proclamano
F.B.I. Gli occhi calmi e concentrati trasudano determinazione.
Tutti vogliono fermare l'incubo. Tutti vogliono fermare la scia
di sangue.
Peter ricorda la favola che gli raccontava sua madre prima di
dormire, la sua preferita. Hansel e Gretel. Le briciole di pane lasciate nella foresta per ritrovare la strada di casa e sfuggire alla strega. Solo che adesso le briciole sono di carne umana. E conducono
alla strega, nel folto della foresta.
La piscina è illuminata da faretti sommersi. La luce è azzurra
116
come ghiaccio. La donna lascia cadere la camicia. È di nuovo nuda.
Il calore sale, la temperatura cresce.
Sospira ancora e si accarezza il ventre piatto e levigato. L'acqua
schiuma contro il softto del piano interrato. I rifessi dei faretti
sono circolari, mobili come sopracciglia arcuate all'infnito.
La donna si tufa, infrangendo la perfezione dell'acqua fredda. Si
immerge e nuota fno all'estremità opposta della piscina. Emerge
con uno scroscio, si puntella al bordo ed esce, grondando acqua
sulla grata di scolo a sforo. I capelli sono ancora acconciati nella
treccia e lasciano cadere un lungo rivolo fra le natiche e nell'interno
cosce.
Estrae la chiave da sotto la grata di scolo, chinandosi con grazia.
La donna si alza e raggiunge la porta che da accesso al locale caldaia. Una porta massiccia, tagliafuoco. Il calore cresce ancora e ancora. La donna ansima. Non resiste.
La chiave scatta, la porta si apre e lei entra.
Un gemito accorato, dilavato dal desiderio, risuona sopra le
onde che increspano appena la superfcie della piscina.
«Il soggetto è pericoloso. Non sappiamo se armato. Regole di ingaggio: fuoco di ritorno. Non sparate se prima non vi sparano.
Sangue freddo e concentrazione. Non sappiamo cosa ci aspetta là
dentro.»
Il tono del caposquadra è drammaticamente serio.
Peter vorrebbe dirgli che probabilmente non vi sarà resistenza.
Vorrebbe dirgli anche che, piuttosto che farsi catturare, il killer si
potrebbe suicidare. Desiste. Lo ha già ripetuto durante il briefng in
ufcio. Appoggia la testa al fnestrino e aspetta.
La strada corre sotto di lui e sotto gli altri tre SUV blindati che
seguono il suo.
Il locale caldaia è nero. La luce illumina solo un quadrato di pia117
strelle candide, piovendo da due potenti lampade chirurgiche da
sala operatoria.
La caldaia è in un angolo, silenziosa e dormiente. Le pareti sono
ricoperte di materiale fonoisolante applicato da una mano esperta.
La donna procede quasi piegata in due, le mani intrecciate sull'ombelico.
Ansima.
Di fronte alla porta, al margine del quadrato di piastrelle, c'è un
pannello di cemento spesso due palmi. Sul lato che dà verso la porta, un uomo nudo è appeso con catene e lacci. Rada peluria grigia
circonda i genitali pendenti, spruzza il petto foscio e l'addome
prominente. Due ciuf crescono sotto le ascelle. Capelli e barba
sono invisibili, nascosti dietro un cappuccio di latex nero che lascia
libera solo la bocca e le narici. Un ftto tratteggio percorre la pelle
pallida, disegnando porzioni e aree troppo simili a quelle fatte da
un macellaio sulla sua prossima vittima.
La donna si avvicina.
Davanti all'uomo appeso, appoggiato sul pavimento c'è un Sybian, una sella di cuoio con un vibratore incorporato. Il pene di
plastica bianca, sulla sua curva sommità, svetta potente. La scatola
di controllo giace di fanco, pronta a trasmettere l'ordine al motore
elettrico cucito all'interno del sedile.
La donna si avvicina di più.
Accarezza il petto dell'uomo seguendo il tratteggio di pennarello, scende fno ai testicoli e risale. Lo colpisce al volto con uno
schiafo. Nessuna risposta.
La donna lo abbraccia, strusciandosi e gemendo. I suoi occhi
sono fssi su un piccolo tavolo immerso nelle ombre.
La luce gioca sulla superfcie metallica di svariati bisturi e di
strumenti meno chirurgici.
La donna geme.
118
Peter allunga la mano e preme l'interruttore.
Un click sommesso annuncia che il canale radio con le altre auto
è stato aperto.
«Il soggetto è femmina, altezza un metro e ottanta, sessantacinque chilogrammi di peso, caucasica o slava. È responsabile del rapimento e dell'omicidio di trenta persone in questo Stato. Se la
scomparsa dell'ultima persona viene confermata, il totale salirebbe
a trentuno. Le indagini ci hanno portato a Ivana Stoyesky.»
«La modella?»
Peter guarda l'agente che ha parlato. È un giovanotto sui trenta,
con un paio di occhi castani sgranati e le mani strette attorno alla
canna della sua carabina.
«Esatto. Ci stiamo recando alla sua villa, dove sospettiamo abbia
portato la sua ultima vittima.» conferma Peter.
«C'è rischio di fuga?» domanda il caposquadra, un agente dalla
barba corta e bianca con la corporatura di un toro. Un tatuaggio
sbiadito campeggia sull'avambraccio destro. Peter lo legge senza
difcoltà. Semper Fidelis.
L'uomo lo fssa con i suoi occhi di ghiaccio da dietro gli occhiali
balistici.
«Potrebbe esserci un rischio di fuga. Vi consiglio di bloccare tutte le possibili vie di accesso o uscita dal complesso.»
«Rischio che prenda ostaggi?»
Peter scuote la testa.
«Non rientra nel suo modus operandi. Stiamo parlando di
un'assassina seriale che è riuscita a mantenere un bassissimo proflo
per cinque anni consecutivi, senza destare sospetti. È molto più facile che tenti una fuga nel momento in cui si accorga della nostra
presenza.»
«Alla villa si è appena tenuto un party. Cosa facciamo con eventuali ospiti?» chiede l'agente giovane.
«Metteteli in stato di fermo. Dobbiamo verifcare che non vi sia119
no complici.»
«Perché l'avete chiamata Sirena Rossa?» chiede l'agente anziano.
Peter rimane in silenzio per qualche secondo. Non vorrebbe
pensarci, ma deve rispondere.
«Ivana ha rapito trenta persone fra uomini e donne, quasi tutti
senzatetto. Dopo averli sedotti con una promessa di denaro, li ha
attirati in luoghi isolati o abbandonati che aveva precedentemente
preparato; li ha narcotizzati, denudati e immobilizzati. Poi li ha vivisezionati.»
Silenzio di piombo.
L'unico suono che riempie il vuoto è il rumore del motore e della frizione che scala le marce.
«Vivisezionati?» chiede l'agente giovane.
Peter annuisce.
«Aperti dalla tiroide ai genitali mentre sono ancora vivi e sotto
anestesia.» dice, mimando con la mano un taglio longitudinale dall'incavo della gola fno all'inguine.
Gli agenti si muovono a disagio.
«Non solo: una volta aperti, separa e asporta uno o più organi lasciando la sua vittima in vita quanto basta per potersi poi masturbare di fronte a lei. A volte impiega ore, e si masturba a più ripre se.»
La donna geme e si contorce. Il Sybian vibra e ronza come un
grosso calabrone. Il pene artifciale afonda nelle viscere di lei. La
donna si strofna le mani sporche di sangue sui seni, strizza i capezzoli, geme ancora più forte, sempre più rapidamente.
Sudore e olio colano sulla gola, sulle cosce, sul torace e sul ventre. Sangue cola lungo gli avambracci fno ai gomiti. Ivana spalanca
gli occhi e la bocca.
Un ansito roco, profondo.
Trema.
120
Il ventre si contrae ritmicamente, piegandola in due e facendola
oscillare come un bambino autistico.
Le mani corrono ad aferrare la sella di cuoio del Sybian, lasciando un paio di impronte vermiglie.
Sorride beata.
Terzo orgasmo.
Con occhi vacui guarda la scena davanti a sé. Il pavimento bianco è diventato rosso. L'uomo si dibatte debolmente senza lamentarsi. L'anestetico sta fnendo l'efetto.
Ivana preme il regolatore e ferma la macchina. Non vuole avere
un altro orgasmo prima di aver fatto una cosa. Con passo malfermo si alza in piedi. Il pene di gomma esce con un viscido risucchio
dalla sua vagina che lascia colare un lungo flamento di lubrifcante
e secrezioni. Si appoggia al tavolo ingombro di lame, divaricatori,
seghe per ossa, pinze e fascette. Aferra un bisturi del dieci, pulito e
sterilizzato.
Guarda l'uomo sventrato.
Peter sgancia la cintura mentre gli agenti scendono rapidi come
segugi. I rumori si sovrappongono: sbattere di portiere, scatti metallici degli otturatori, passi pesanti schiacciano i minuti sassolini
che disegnano la strada che li ha condotti alla villa.
Peter scende dall'auto, mescolandosi alle fgure nere degli agenti
in corsa. Sul suo giubbotto campeggia la sigla F.B.I. e non ha armi.
Osserva gli uomini del Bureau dividersi, seguendo le pareti della
grande villa in stile moderno. La squadra con cui ha viaggiato si dirige alla porta principale, la spalanca ed entra.
Peter li segue.
Si ritrova in un salotto ingombro dei resti di un bufet e vestiti
vari abbandonati. Gli agenti stanno immobilizzando e ammanettando sei persone fra uomini e donne, tutti privi di indumenti e
con l'aria di chi sta smaltendo una sbornia secolare. Su un tavolino
121
Peter intravede bustine di plastica e tracce di polvere bianca.
«Stanza sicura!» grida qualcuno.
La squadra si sposta verso una rampa di scale a chiocciola che
scende nel seminterrato. Dal piano superiore giungono rumori di
passi, urti di corpi spinti a terra e gemiti spaventati. La seconda
unità ha fatto irruzione.
Passi e voci.
Ivana è esausta. Si asciuga la fronte con l'avambraccio cercando
di non sporcarla con il sangue che lo imbratta fno a metà lunghezza. L'uomo geme debolmente. Il divertimento è fnito. Lei è fnita.
Si avvicina al tavolo. Prende l'ultimo strumento. Una Colt Python con canna da tre pollici. Torna di fronte all'uomo sezionato,
grondante sangue e liquidi organici. Appoggia la volata alla fronte
rivestita di latex.
«Avete sentito?» chiede l'agente anziano, allarmato.
«Nel seminterrato. Colpi di arma da fuoco.» risponde un altro
agente.
Peter guarda gli agenti disporsi di fanco alle scale.
A un cenno della testa del caposquadra, gli uomini scendono ordinatamente i gradini, rapidi e pronti al fuoco.
Peter si accoda.
È a metà della discesa quando sente gli agenti che cominciano a
sbraitare.
«F.B.I.! Getta quell'arma!»
Quando sbuca nel seminterrato, Peter si immobilizza di fronte
alla scena che gli si presenta.
Una grande piscina occupa quasi interamente la sala illuminata
da faretti alogeni, sul softto e sott'acqua. In un angolo è stato ricavato un piccolo salotto con sedie a sdraio e divanetti foderati di
bianco.
122
Fra il bordo della piscina e le scale c'è lei. La donna che stanno
braccando da mesi.
Peter deve ammetterlo: il male non è mai stato tanto splendido.
Ivana Stoyesky è in piedi e indossa una sorta di corta camicia da
notte di seta trasparente che non lascia nulla all'immaginazione. Il
suo corpo è statuario, bellissimo. I seni orgogliosi lasciano aperta la
camicia mettendo in mostra il ventre piatto e ogni dettaglio dal
petto alla coscia. Il sudore e l'umidità rendono lucida la sua pelle
abbronzata. Poi Peter vede il sangue. Sulle braccia, fno al gomito.
E sui piedi, che hanno lasciato una lunga linea di impronte scarlatte. Gli sbaf rossi escono da una porta sul lato opposto della stanza.
Ivana lo fssa.
Peter la fssa.
Non un'ombra in quegli occhi magnifci. Nonostante le vuote
occhiaie delle armi automatiche puntate al suo petto, la donna non
mostra segno di paura o cedimento.
È in posa, in attesa dello scatto del fotografo invisibile che ha difronte. Tiene le gambe una davanti all'altra e il bacino leggermente
asimmetrico, la mano sinistra dietro la schiena, allacciata al gomito
destro. La mano destra stringe una revolver.
«Getta l'arma!» intima nuovamente Semper Fidelis.
Ivana non reagisce. Continua a fssare Peter.
«Sei arrivato, fnalmente...» sussurra la donna.
La sua voce è morbida e calda.
Peter alza la mano aperta. Lo sa cosa succederà. E sa anche che
non potrà fermarla.
«Ivana...»
La donna alza la pistola e appoggia la canna sotto la mandibola,
nella parte molle di muscolo e lingua. Il dito sul grilletto si contrae.
Il cane arretra e scatta con lentezza esasperante.
«Ferma!»
Sempre Fidelis avanza di un passo.
123
Ivana lo fulmina con uno sguardo, poi torna a fssare Peter.
«Grazie...» sofa a for di labbra.
Il cane scatta.
Lo sparo è secco e breve. Una nuvola rosa schizza nell'aria. Per
un momento, Ivana possiede un'aureola liquida costellata di frammenti neri e rossi. La modella, la donna, il mostro cade come una
marionetta a cui sono stati recisi i fli: si accascia sulle ginocchia, si
piega all'indietro e viene accolta dall'azzurro della piscina. L'acqua
scioglie il sangue sugli arti, generando nubi rosate che si dissolvono
lentamente.
Dal foro di uscita, al vertice superiore della sutura coronale, cola
invece sangue fresco, vermiglio e sinuoso. L'acqua impregna la camicia, mostrando infne i capezzoli marroni ed eretti.
Il silenzio cala assieme alle canne dei fucili. L'unico lamento per
Ivana è il risucchio irregolare delle grate di scolo che accolgono indiferenti le onde generate dalla sua caduta.
Peter si riscuote. Si gira. Sale le scale.
Dall'esterno giunge l'urlo delle sirene. È arrivata l'ambulanza.
Peter lascia cadere il diario di Ivana sulla scrivania. Intreccia le
mani, poi si sfrega gli occhi. È una di quelle volte che odia il suo lavoro. Non voleva leggerlo, ma il suo compito lo impone. Scavare,
scoprire.
Peter guarda di nuovo il diario, il diciottesimo. Pensa a tutti gli
altri, trovati nello studio al piano superiore della villa. I diari del
mostro.
I l male genera male. E combattere il fuoco con il fuoco spesso
serve solo ad allargare l'incendio. L'incendio che ha divorato Ivana
è documentato giorno dopo giorno, da diciotto anni. È descritto
con minuzia, sinteticità e spietata chiarezza.
Ivana non si chiama Ivana. Il suo nome reale è Charity McRid124
ge, fglia del macellaio Ralph McRidge.
La madre è morta quando lei aveva due anni. Riceve il suo primo diario a dieci. Inizia a scrivere e da allora non si ferma più.
È intelligente, parecchio intelligente. È sensibile, precoce.
A undici anni, Ralph la porta nel mattatoio, le abbassa calzoni e
mutandine e la violenta sul tavolo di metallo disinfettato, dove di
solito posa i pezzi già tagliati delle varie bestie. Da allora, due o tre
volte la settimana Ralph la porta nel mattatoio e si accoppia con
lei, spesso senza precauzioni.
Preferisce il doggystyle.
Charity descrive i grugniti e il sudore, poi lo sperma e i suoi
odori. Dopo due settimane, Charity ha il suo primo orgasmo.
A dodici anni, dorme nel letto matrimoniale con suo padre. Va
in giro per casa senza biancheria. Ralph in casa tiene sempre la patta abbassata.
A quattordici anni è incinta. Il padre la fa abortire di nascosto.
A quindici anni, è lei a condurre il gioco. Dal doggystyle passa
alla cowgirl. Adesso è Charity a dominarlo.
A sedici anni è di nuovo incinta. Altro aborto. Charity sviluppa
sentimenti contrastanti. Odia suo padre per l'abuso e lo ama per il
piacere che gli da. Spesso fanno sesso nel mattatoio. Charity ama
l'odore e la vista del sangue.
Intanto sboccia, matura, diventa una bellissima ragazza, con ottimi voti a scuola e uno stuolo di ammiratori di ogni età.
A diciotto anni fugge di casa e si presenta da un produttore fotografco. Lo convince a farla posare come modella. In cinque anni
scala tutti gradini della fama e diventa una super modella richiestissima. Un anno dopo la consacrazione, il padre si impicca nel suo
mattatoio. Un vicino lo ha sorpreso a molestare una bambina della
limitrofa scuola.
Charity non ha nessun moto di dolore o compassione.
Adesso è Ivana, la super modella.
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Scopre che però non può avere orgasmi senza vedere il sangue.
Una sera, un balordo cerca di violentarla in un vicolo. Ivana lo
accoltella più volte. E arriva all'orgasmo mentre lo fa. Comincia a
sedurre, narcotizzare e vivisezionare senzatetto. Scrive testualmente
“A ogni taglio e ogni asportazione immagino il viso di mio padre.”
Continua a uccidere e far carriera. Ma una parte di lei è stanca.
Lo annota, dopo aver fatto il bagno nel sangue della sua vittima
numero ventitré.
Non ha amanti né fdanzati. L'accoppiarsi per amore le è precluso, è impossibile. Così uccide, gode e poi nasconde i cadaveri. Ma
commette un errore: un cadavere viene ripescato dal fume dove
era stato gettato a brandelli. Gli investigatori compiono le loro magie e una traccia organica viene alla luce. Assieme a un nome.
Il Bureau sguinzaglia i cani.
L'ultimo atto giunge a conclusione.
Ora il caso è chiuso.
Il mostro è morto.
Peter scuote la testa mentre attraversa gli ufci del Bureau immersi nella penombra, diretto all'uscita.
Il male genera male.
Le tenebre accolgono i suoi pensieri.
Le luci si spengono.
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Finito di stampare
nel mese di Settembre 2015
UniversalBook srl
Stampato in Italia