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La progressista Svezia si scopre sola e triste
Posted by Federico Cenci on 13 August, 2016
C’era una volta il mito della Scandinavia. Correvano gli anni ’70 e gli sguardi di
tutta Europa erano rivolti all’insù, verso quel lungo nastro di terra che sorge in
alto, sulla cartina geografica del Vecchio Continente.
Stato sociale, diritti, modernità, indipendenza degli individui. La Svezia, in
particolare, era una sorta di laboratorio progressista. Nel 1972, la sezione
femminile del Partito Socialdemocratico allora guidato dal primo ministro Olof
Palme, scrisse persino un manifesto, intitolato La famiglia del futuro.
A quarantanni di distanza, l’incantesimo sembra però svanire. La realtà dei fatti
presenta ad occhi ormai disillusi l’altra faccia della medaglia svedese. La tanto
agognata indipendenza si è trasformata dapprima in individualismo e poi in
solitudine. E il colore grigio del cielo scandinavo rischia di riflettere sempre di più
gli animi della popolazione.
La Svezia di oggi è raccontata nel docu-film La teoria svedese dell’amore di Erik
Gandini, regista italo-svedese già autore di Videocracy, una critica verso il ruolo
dei media in Italia. Andato in onda quest’estate sulla Rai, il suo ultimo lavoro ha
sollevato qui da noi giusto un flebile dibattito, soprattutto a seguito di un articolo
uscito su Vita.
Più che di famiglia del futuro, forse in quell’avveniristico manifesto si sarebbe
dovuto parlare di scomparsa della famiglia. La Svezia raccontata da Gandini,
infatti, ha la metà della popolazione che vive da sola e una persona su quattro
che muore senza nessuno accanto. Colpisce poi che sempre più donne optino
per la fecondazione fai-da-te: si collegano su internet al sito di un’agenzia,
scelgono il profilo genetico del bambino desiderato, acquistano e in pochi giorni
ricevono a casa il kit con il liquido seminale da iniettarsi da sole. Questa
immagine desolante è il simbolo della Svezia che emerge nel docu-film di
Gandini, che ZENIT ha intervistato.
***
Come è nata l’idea di girare un docu-film su questo tema?
Essendo cresciuto in una famiglia composta da madre svedese e padre italiano
e avendo poi vissuto tra Italia e Svezia tutta la mia vita, ho potuto constatare
come ogni società tenda a considerare assoluti i propri valori. Ma ciò che è
considerato normale in una società, può essere percepito come anormale in
un’altra. Ho sempre cercato di amalgamare il meglio della cultura italiana e
svedese. Il mio spirito curioso ed esistenzialista mi porta però a mettere in
discussione le ideologie che mi circondano, così come le idee tradizionali,
reazionarie, non al passo con i tempi. In questo caso ho voluto fare un film per
confrontarmi con le mie paure sul futuro. Il mio incubo di morire solo e
dimenticato. Vivendo in un Paese che ha fondato il proprio welfare proprio
sull’autonomia dell’individuo, ho sentito il bisogno di chiedere: e se stessimo
andando nella direzione sbagliata? Se l’ossessione per l’autosufficienza e
l’autonomia personale si rivelassero una strada a fondo chiuso?
La Svezia che Lei descrive potrebbe essere riassunta da una definizione
citata in un passaggio del docu-film: “Tutte le relazioni umane autentiche
devono basarsi su una fondamentale indipendenza tra le persone”.
Tuttavia l’uomo è un essere sociale, quali conseguenze comporta questo
isolamento diffuso?
Premetto che amo infinitamente la Svezia. Ho scelto di vivere qui, da ormai
trent’anni, e di far crescere i miei tre figli in questo Paese. Provo grande
ammirazione per l’enorme senso civico, etico e di responsabilità che il Paese ha
per i suoi cittadini, per il grande rispetto per la natura e per il senso di solidarietà
nei confronti dei popoli vittime di guerre e povertà (la Svezia ha accolto il
numero pro-capite più alto di profughi in Europa nel 2015 ed è l’unico Paese al
mondo a devolvere l’1% del PIL in aiuti internazionali). Come padre di due figlie
femmine credo anche che la Svezia dia loro le loro possibilità di realizzarsi e di
avere opportunità come donne realmente pari a quelle di un uomo. Infine è
anche il Paese che mi ha dato la possibilità di esercitare la mia professione di
documentarista indipendente in condizioni di libertà che la realtà mediatica
italiana non mi ha offerto.
Detto questo, mi ha sempre affascinato e inquietato la natura visionaria sulla
quale è basato il sistema di valori svedese. Motivato da una grande spirito di
modernità negli anni ’70, lo Stato ha voluto essere garante nel creare delle
condizioni ugualitarie per tutti, garante in particolare che ogni individuo sia libero
economicamente dalla famiglia e allo stesso tempo creando, involontariamente,
le condizioni per una sorta di individualismo e di isolamento esistenziale che
voglio mettere in luce con il mio film. Ritengo che l’egoismo e l’individualismo, la
falsa promessa di piacere nel non dipendere dagli altri, sia tendenza dominante
di tutto il mondo occidentale, Italia compresa.
Quando nasce la “teoria svedese dell’amore” che ha mutuato nel titolo del
docu-film?
È radicata in questa cultura. È stata coniata da due storici svedesi, Lars Trägård
e Henrik Berggren, per definire ciò che più caratterizza la cultura scandinava
quando si tratta di relazioni umane. Sostanzialmente questa teoria sostiene che
il vero amore, quello autentico, può esistere solo tra due persone che sono
indipendenti l’una dall’altra. Che non sono insieme per fini materiali o per
dipendenza economica, come succede invece spesso in società meno eque,
dove la ricchezza è distribuita in modo ingiusto e dove le donne sono per
definizione economicamente più deboli e in svantaggio nei confronti dell’uomo.
L’idea in teoria, da un punto di vista economico, non fa una piega ma può
trasformarsi, nella sua estensione esistenziale, in un’ossessione
all’autosufficienza. In una diffusa e radicata convinzione che le relazioni umane
debbano in primo luogo basarsi sull’essere liberi gli uni dagli altri. Il rischio è
evidente in Svezia come in molti Paesi occidentali: la dilagante solitudine, che
ha portato l’intellettuale inglese George Monbiot a definire quella attuale “L’era
della solitudine”.
Si dice che alcuni Paesi nordici – tra questi la Svezia – abbiano un alto
tasso di suicidi, specie tra i giovani. Ritiene che il fenomeno derivi anche
dal tipo di società individualista che Lei racconta?
Mi risulta che la storia dei suicidi sia un vecchio stereotipo. Sicuramente la
Svezia è il terzo Paese in Europa in quanto a consumo di antidepressivi (Islanda
prima). Credo che l’individualismo scandinavo si basi su una falsa promessa di
felicità. Paradossalmente il sistema nordico è un sistema a due facce. Da una
parte un forte senso di collettività, una volontà politica di garantire una vita
decente a tutti i cittadini, un’autonomia economica. Dall’altra questa volontà
collettiva crea forti presupposti di individualismo, in Svezia è più facile cavarsela
da soli e quindi anche rimanere soli. Una società che si può riassumere in una
frase che ha del paradossale: “Aiutiamoci, insieme, a liberarci l’uno dall’altro”.
Ciò si scontra con la natura sociale dell’essere umano e col fatto che la felicità,
se non condivisa con altri, non è vera felicità. Tutti gli studi su questo tema
dimostrano – contrariamente alla convinzione generale – che non sono i soldi,
né il successo o la carriera a renderci felici, quanto ciò che stiamo sempre più
trascurando, ossia le relazioni umane. Il film finisce con una profonda riflessione
del sociologo Zigmunt Bauman che promuove con enfasi proprio l’idea di
interdipendenza come opposta a quella di indipendenza.
Il manifesto da cui trae ispirazione questo modello di società si intitolava
La famiglia del futuro. Forse più che di famiglia del futuro avrebbero dovuto
parlare di scomparsa della famiglia…
L’obiettivo di questo manifesto non era di distruggere la famiglia ma al contrario
creare presupposti per una maggiore qualità dei rapporti familiari. Liberare le
donne dai limiti di una vita da casalinga o di tutrice non retribuita di bambini e
anziani. Liberare gli anziani, attraverso la riforma delle pensioni, dal dover
convivere in situazioni di sovraffollamento domestico e di dipendenza dalla
propria prole. Dare le possibilità ai giovani, attraverso un sistema democratico di
sussidi per lo studio, di emanciparsi, studiare, lavorare e crearsi una propria vita
senza finire a fare i mammoni trentacinquenni a casa. Chi aderì a questa idea
non aveva cattive intenzioni e non poteva prevedere l’avvento di ciò che arrivò
un decennio dopo: il neoliberismo degli anni ’80 e ’90 e la cultura individualista
del 2000 fomentata da tv e mass media, soprattutto tra i giovani, i quali oggi
sono bombardati dal culto della celebrità, ossessionati da personaggi che sono
ossessionati da se stessi, educati all’idea che la realizzazione personale sia
l’aspirazione massima. Una patologia narcisista sta dilagando tra intere
generazioni. Si può dire che il culto dell’autonomia personale si è sposato molto
bene con queste tendenze creando una sorta di cocktail pericoloso. Non è detto
che la Svezia non sarà la prima a rendersene conto e deciderà di creare un
nuovo manifesto per il futuro.
In Svezia come hanno reagito? Abituati ad esser considerati un modello,
specie per il welfare state, sono disposti a ricevere anche delle critiche?
La Svezia, grazie al cielo, ha una forte tradizione di autocritica. Il film è
finanziato dalla tv pubblica svedese, SVT, e dall’Istituto Cinematografico
Svedese. È uscito nelle sale a gennaio e andrà in onda quest’autunno in tv.
All’uscita al cinema ha sollevato un dibattito acceso sulla stampa che è andato
avanti a colpi di interventi, articoli e inserti su radio e tv per diversi mesi e che ha
diviso la critica tra chi non vuole riconoscere la Svezia così come è
rappresentata dal mio sguardo e chi invece riconosce l’importanza di notare con
preoccupazione i rischi, peraltro dimostrati dai dati, di una dilagante solitudine.
Ci sono stati tanti riscontri positivi, anche nell’ambiente politico. Il comune di
Trollhättan, vicino Göteborg, è riuscito a unire l’intera giunta per un progetto
municipale che vuole affrontare il problema della solitudine soprattutto fra gli
anziani, per il quale è stato stanziato un fondo speciale e mi ha invitato, insieme
al film, ad inaugurare l’iniziativa. La società perfetta non esiste. La mia unica
definizione di società perfetta è la società che non crede mai di esserlo, quella
che si mette costantemente in discussione, che ha il coraggio di mettersi sempre
alla prova, anche nelle idee più fondamentali sulla quale si basa.
In passato suscitò polemiche, in Italia, il suo lavoro Videocracy, sul ruolo
dei media e sulla figura di Silvio Berlusconi. Le ha creato più problemi quel
docu-film di The Swedish Teory of Love…
I due film hanno trovato riscontri simili nei due Paesi, nella misura in cui in tanti
non hanno voluto riconoscersi in quelle descrizioni. Spero sempre che i miei film
facciano discutere o perlomeno pensare, così come le tematiche che affronto
fanno riflettere me stesso. Giornalismo e cinema documentario sono ormai due
generi lontani l’uno dall’altro. Se al giornalismo viene richiesto un approccio
razionale, clinico e analitico alla realtà, dal documentario creativo ci si aspetta lo
sguardo personale, emotivo, soggettivo, ricco di temperamento dell’autore.
Essendo il documentario l’espressione cinematografica più a basso costo e
quindi accessibile, è una grande garanzia di libertà di espressione e quindi di
democrazia. Sicuramente lo sguardo del film-maker fa bene. Uno sguardo
curioso, critico, provocatorio e nel mio caso sempre comunque affettuoso, di chi
vede sia da dentro che da fuori.
Non so se Lei è credente. Le chiedo infine: c’è posto per la fede religiosa
in una società come questa?
Anche esponenti di rilievo della Chiesa svedese si sono posti questa domanda
vedendo il film. Secondo i dati, la Svezia è uno dei Paesi più secolarizzati al
mondo, dove la religione ha poca influenza sulla vita delle persone. Le religioni
si fanno garanti dei valori tradizionali rispetto alla famiglia, ma non credo che la
soluzione unica sia la fede. Non essendo credente ed essendo cresciuto in una
famiglia laica a tutti gli effetti, ho provato personalmente come il valore della
famiglia e dell’interdipendenza possano esistere in modo profondo e radicato
anche senza una fede religiosa. L’Italia è il Paese simbolo della famiglia,
nonostante questo nascono solo 1,37 bambini per donna mentre in Svezia 1,9. Il
mio film vuole essere un segnale d’allarme sul futuro, ma non per questo uno
sguardo nostalgico al passato.