tortura di stato in italia
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tortura di stato in italia
DUE CASI DI TORTURA DI STATO IN ITALIA SISINNIO BITTI CESARE DI LENARDO Dal G8 di Genova 2001, a Marcello Lonzi, a Stefano Cucchi e agli altri, dalle condizioni di detenzione nelle carceri (con la conseguente ininterrotta catena di suicidi) a quelle negli OPG e nei CIE, si può dire che la tortura di stato in Italia sia una pratica quotidiana. Essa tuttavia ha assunto una forma specifica e una specifica funzione politica essendo impiegata su larga scala negli anni 1975 – 85 ai danni di centinaia di militanti delle organizzazioni armate, allo scopo di estorcere “confessioni” e “pentimenti”. Allora quello stesso stato che non esitava a mettere le bombe nelle piazze pur di fermare le lotte dei lavoratori, non esitò a usare la tortura e le leggi speciali per piegare una generazione di militanti che si batteva per un mondo senza sfruttamento. Di tutto questo oggi gli esponenti delle istituzioni “democratiche” tendono ipocritamente a cancellare la memoria. 1.SISINNIO BITTI Nel pomeriggio del 16 febbraio 1979 a Milano, il gioielliere Pietro Torregiani viene affrontato da un nucleo armato. Reagisce sparando. Suo figlio Alberto, quattordicenne, trovatosi sulla linea di fuoco del padre, viene da questi ferito alla schiena e rimarrà paralizzato. Pietro Torregiani viene ucciso. Il 22 gennaio egli all’interno di un ristorante aveva sparato contro un uomo che aveva tentato una rapina e, nel conflitto a fuoco successivo, il rapinatore e un altro commensale erano rimasti uccisi. La notte successiva scatta un'operazione della Digos, coadiuvata dalla Squadra Mobile di Milano, che porta all'arresto di cinque membri del Collettivo Autonomo Barona (Sisinnio Bitti di 31 anni, Marco Masala di 18, Umberto Lucarelli di 18, Fabio Zoppi di 19, Roberto Villa di 18) mentre altri due, Sante Fatone e Sebastiano Masala, si rendono irreperibili. I giornali, inaugurando la tecnica del "processo a mezzo stampa" danno grande rilievo agli arresti e "sbattono i mostri in prima pagina": i titoli sono del tenore "sgominata la cellula degli autonomi che ha assassinato Torregiani"; si parla dei killers dell'autonomia, della "banda" politico-criminale della Barona. Riferendosi ai membri sardi del CAB, Sisinnio Bitti e i fratelli Masala, il Corriere della Sera titola il 21 febbraio: "Come un pastore sardo può diventare un killer degli autonomi". Mentre la stampa prosegue il suo linciaggio, il Presidente della Repubblica si congratula con il ministro Rognoni per la brillante operazione. Ma il 24 febbraio tre dei membri del Collettivo arrestati, Umberto Lucarelli, Fabio Zoppi e Roberto Villa, vengono scarcerati per assoluta mancanza di indizi. Gli altri due arrestati, Sisinnio Bitti e Marco Masala, indicati come gli esecutori materiali del delitto, hanno un alibi di ferro, confermato da molte persone: all'ora del delitto erano presenti sul posto di lavoro e in seguito verranno completamente scagionati dall'accusa. Sisinnio Bitti, testimonianza al “Progetto Memoria”, 1995 Era la notte del 16 febbraio 1979, rientrai a casa con Marco verso le due. Appena entrati ci trovammo davanti una squadra di poliziotti in borghese che ci ammanettarono subito. Essendo entrambi attivi nel Collettivo Autonomo Barona del quartiere, immaginavamo di essere controllati. Il giorno prima nel pomeriggio in Milano venne ucciso l’orefice Torregiani. Appena arrivati in questura mi portarono su e giù per le scale, dopodiché venni introdotto in un salone ai piani più alti. Lì venni assalito a calci e pugni alla schiena e dietro il collo, venni buttato a terra e picchiato; chiedevo il perché di tutto ciò e loro mi dicevano “lo sai benissimo perché. Ti conviene parlare altrimenti stanotte per te è finita; ti buttiamo giù dalla finestra.” Venni sollevato da terra e disteso su un tavolaccio, addosso avevo almeno 6 poliziotti in borghese che mi tenevano ben fermo per le mani e i piedi: i calci li alternavano al ventre e al basso ventre. Ricordo vicino al tavolo due lavandini, in uno dei due vi era inserita una canna di plastica; questa canna mi veniva infilata in bocca e veniva aperto il rubinetto con il massimo della pressione costringendomi ad ingoiare acqua fino a riempirmi lo stomaco come un pallone; un poliziotto mi saliva sulla pancia per farmi vomitare l’acqua. Mi fecero scendere dal tavolo e mi sedettero su una sedia, venni ammanettato e un poliziotto mi schiacciò i piedi per farmi stare fermo. Da notare che allora pesavo 52 Kg per un’altezza di 1.62, mentre i poliziotti erano quasi tutti il doppio di me. Continuarono le torture; volevano sapere dove avevamo lasciato le armi che, secondo loro, avevamo usato per uccidere Torregiani. Ad un certo punto fui costretto a inventare una scusa per sottrarmi alla violenza fisica, così dissi loro che li avrei portati nel luogo dove avrebbero trovato le armi. Li portai così in uno scantinato dove si riunivano i collettivi della zona. Io non avevo minima idea in quel momento dove si trovassero delle armi, tanto meno quelle usate per l’omicidio Torregiani; appena arrivati, in pochi minuti rivoltarono tutto, ma di armi non c’era traccia. A quel punto ebbi veramente paura, infatti due di loro tirarono fuori le pistole minacciando di uccidermi, ma altri due erano contrari al punto che litigarono tra loro, tanto da non poter capire se stessero facendo sul serio o se fosse una farsa. Ormai albeggiava, tornammo in questura e fui sbattuto in una cella senza niente, bagnato e gonfio. Mi accasciai dietro la porta; un poliziotto mi controllava continuamente. Venni prelevato dalla cella credo nel pomeriggio, mi trascinarono per un po’ su e giù per le scale, e dopo un po’ venni portato dentro una camera. Di quella esperienza ricordo solo un tavolo e tante coperte ammucchiate. Mi fecero spogliare completamente e mi sdraiarono supino sul tavolo; mi misero le manette alle caviglie e alle mani. Incominciò a picchiarmi il poliziotto Rea Eleuterio, mi avvolse la coperta sul torace e con un bastone mi percosse sul torace. Non so quanto stetti in quella stanza. Mi colpirono sulle tempie già gonfie, le fiammelle degli accendini sotto le piante dei piedi e sotto i testicoli, e il tentativo di introduzione del bastone nell’ano. Mi avevano convinto che dovevo andare dal magistrato e fare i nomi delle persone che avevano ucciso Torregiani. Mi portarono davanti a due persone in una stanza semi buia, solo in seguito seppi che quei due erano i giudici Deliguori e Spataro. Da dietro i poliziotti continuavano a suggerirmi di dire quello che avevo affermato davanti a loro, che era in parte ciò che loro mi dicevano che avrei dovuto dire ai giudici. Il pomeriggio che fu ucciso Torregiani mi trovavo in ospedale a lavorare in presenza di medici e infermieri che in seguito testimoniarono a mio favore. I poliziotti in parte avevano creduto e cercarono di convincermi ad accusare Sebastiano, Pietro Mutti e Franco Angelo, persone che loro conoscevano già. Dopo questo drammatico interrogatorio davanti ai giudici mi venne finalmente offerto un panino dopo ore e ore di digiuno senza mangiare né bere; in seguito venni trasferito al carcere di San Vittore. Accortisi che stavo molto male venni immediatamente sottoposto a visita medica. Mi riscontrarono varie lesioni, tra cui: otite traumatica, tachicardia, pressione arteriosa alta, tumefazione alle tempie, alle caviglie, tumefazione e lesione allo scroto, e in seguito venni ricoverato al centro clinico. Dopo qualche giorno mi venne data la possibilità di poter parlare con i giudici Spataro e Deliguori, i quali li vidi dopo qualche giorno, ed in seguito partirono le denunce per i poliziotti. Venni scarcerato per mancanza di indizi. 2.CESARE DI LENARDO Il 17 dicembre 1981 un nucleo delle Brigate Rosse sequestra nel suo appartamento a Verona il generale americano James Lee Dozier, comandante delle truppe NATO nell’Europa meridionale. Il 28 gennaio 1982, il generale viene liberato da un’incursione dei NOCS a Padova, e i cinque militanti presenti nell’appartamento (Giovanni Ciucci, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella, Emilia Libera, Antonio Savasta) vengono catturati. Cesare Di Lenardo rimane per quattro giorni (fino al 1 febbraio) nella caserma di polizia “Ilardi” di Padova. Cesare Di Lenardo, denuncia, 28 febbraio 1982 Al magistrato Guido Papalia, sostituto procuratore della Repubblica, al presidente del Tribunale che celebrerà il processo per la cattura del generale Dozier, alle eventuali autorità competenti Io sottoscritto Cesare Di Lenardo dichiaro e denuncio quanto segue. A seguito della denuncia già presentata al sostituto procuratore Guido Papalia al mio primo incontro con lui, il 2 febbraio 1982, come là preannunciato preciso la descrizione del trattamento o meglio dei maltrattamenti, delle sevizie e delle torture cui sono stato sottoposto nei giorni immediatamente successivi alla mia cattura nell'appartamento di via Pindemonte a Padova, dove stavo tenendo prigioniero (garantendogli peraltro un trattamento dignitoso) e sottoponendo a processo proletario, per la sua responsabilità nell'apparato imperialista multinazionale che opprime il proletariato internazionale, il generale USA James Lee Dozier del Quartier Generale Nato per le forze terrestri per il Sud Europa. La descrizione si riferisce al periodo che va dal momento della mia cattura, la mattina del 28 gennaio, alla mattina dell'1 febbraio. Mi sono state praticate ripetutamente delle scariche elettriche ai genitali, al pene e in diversi punti del bacino. Le scariche erano prolungate, praticate ritmicamente con uno strumento apposito che poteva variare d'intensità. Ritengo che il voltaggio fosse inferiore al 220. Mi sono state praticate ripetutamente bruciature simili a spegnimenti di sigarette, ma che ritengo provocate da strumenti appositi, nel bacino, nella zona del pube e alle mani, sul dorso di queste e tra le dita. Mi sono state praticate ripetutamente percussioni alle piante dei piedi costringendomi con la schiena a terra (nonostante le difficoltà per le mani ammanettate dietro la schiena), le gambe sollevate in modo da avere i polpacci su una sedia, un torturatore seduto sopra. La percussione era sistematica dall'alto in basso e viceversa, per una durata molto lunga e a ondate di circa una sessantina di colpi alla volta, durante i quali i torturatori si davano il cambio. I colpi erano inferti con una specie di assicella di materiale flessibile. Contemporaneamente mi venivano praticate botte ai fianchi con gli anfibi. Mi è stato ripetutamente praticato lo schiacciamento della testa, costretta nella posizione di un fianco a terra sulle piastrelle e l'anfibio del torturatore sull'altro fianco. Il torturatore saliva col peso del suo corpo aumentando e diminuendo la pressione, facendo, lui, una specie di flessione. A parte questo, preciso che le botte in testa sono state praticate quasi sempre con le mani o sbattendomi la testa contro il muro, tenendola per i capelli o per il collo; tranne che nell'episodio che chiamerò "la fucilazione" e due o tre episodi analoghi quando alla testa, al mento e al collo sono stato colpito con i calci e le canne delle pistole e delle mitragliette. Mi è stato ripetutamente praticato il tagliuzzamento dei polpacci e delle cosce con lamette o attrezzi equivalenti. Descrivo ora l'episodio della "fucilazione", termine usato dai torturatori. Questo è avvenuto il quarto giorno e richiede un racconto più dettagliato. Già precedentemente ero stato minacciato di morte e colpito al volto, o al mento o al collo con le armi. In questo episodio sono stato dapprima preavvisato che dopo otto ore, se non avessi "parlato" e "collaborato con le autorità" sarei stato fucilato. Mi è stato detto che la mia cattura non era stata resa pubblica; che io ero clandestino da tempo ma la mia appartenenza alle BR, già da loro conosciuta, non era stata resa pubblica e che quindi per loro "potevo benissimo scomparire". Poi la cosa si è ripetuta segnalandomi che mancavano cinque ore, poi tre, poi mezz'ora. In ognuno di questi preavvisi avveniva una seduta di pestaggio e tortura con le modalità che ho descritto. Poi, dopo un'ultima seduta particolarmente violenta sono stato legato alle mani con degli stracci dopo che mi erano state tolte le manette e applicate ai piedi. Sempre bendato, mi è stata posta una fasciatura strettissima sotto il naso fino a metà bocca, che non aveva altra funzione che di prepararmi, con l'inevitabile tagliuzzamento della mucosa interna della bocca a stretto contatto con la dentatura superiore, al trattamento successivo all'episodio della "fucilazione", che chiamerò per maggiore chiarezza "l'algerina", essendo un tipo di tortura molto simile a quello praticato dai francesi contro i rivoluzionari algerini due decenni fa. Posta dunque la fasciatura descritta sono stato trasportato di peso su un'auto nel portabagagli posteriore e qui rinchiuso. In quest'ultimo sono stato trasportato per circa mezz'ora o tre quarti d'ora per strade asfaltate e poi per strade di campagna. All'arrivo sono stato trascinato per le mani graffiandomi i piedi scalzi per un tratto. Ho potuto toccare erba e terra. Quindi è stata imbastita dai miei "sequestratori", come essi stessi si definivano, una messa in scena di fucilazione con relative minacce di gettare il futuro cadavere nella calce viva. C'è stato un ennesimo pestaggio anche con le armi e ritengo che la lesione che ho riportato al naso sia da attribuire a questo particolare pestaggio. Poi sono stato fatto segno di un colpo d'arma da fuoco. Nuovamente picchiato, sono stato caricato nello stesso bagagliaio d'auto e riportato via per un periodo di tempo più o meno uguale a quello precedente. Sono così stato riportato alla base di partenza. Mi è stato inoltre praticato ripetutamente lo schiacciamento verso l'interno degli occhi bendati con le dita dei torturatori. Mi è stato inoltre somministrato per via orale un liquido che aveva un sapore che ho riconosciuto molto simile al farmaco Hydergina Sandoz. Fra le piccole specialità segnalo anche lo strappo di barba e capelli in alcuni punti. Durante i quattro giorni del trattamento di tortura non mi è stato concesso di dormire e sono stato costretto a non rilassarmi da appositi guardiani che negli intervalli tra una seduta e l'altra mi picchiavano qualora cambiassi anche minimamente posizione o a loro sembrasse che fossi prossimo ad addormentarmi. Negli intervalli tra una seduta e l'altra, dapprima venivo lasciato per terra; successivamente su una sedia e più tardi su una branda. Durante i quattro giorni, tranne il primo periodo o l'episodio della "fucilazione" o "l'algerina", sono rimasto legato con le manette alla schiena e in un intervallo all'interno della manetta anche il legno di fianco della branda oltre al polso. Dopo ogni seduta, o quasi, venivo lasciato solo col torturatore "buono" che, dopo aver presenziato alla seduta, magari fingendo di cercare di trattenere i suoi collaboratori, spiegava negli intervalli che lui era contrario a quei metodi che definiva barbari ma che non poteva fare altro che consigliarmi di "collaborare" e, mi garantiva, il trattamento sarebbe cessato. Ora dulcis in fundo descriverò la tortura che ho definito "l'algerina" così come mi è stata praticata. Sono stato preso, parzialmente spogliato, costretto a distendermi su una tavola del tipo tavolo da cucina. Sono stato legato con i piedi a due gambe della tavola da una parte e le braccia a due gambe dall'altra. Per spiegare la posizione, preciso che le gambe erano piegate, al ginocchio corrispondeva il bordo del tavolo, le cosce erano sulla tavola ed i polpacci aderivano alle gambe della tavola; le braccia, invece, erano tutte aderenti alle altre due gambe della tavola; il collo e la testa invece sporgevano e pendevano in fuori da una parte. Le braccia e le gambe erano strette alla tavola da legacci leggermente elastici e saldamente stretti. Continuavo a essere bendato. Dopo le solite proposte di collaborazione e le solite botte preliminari mi è stata riempita la bocca di sale. Il naso mi era tenuto chiuso da un torturatore mentre la testa mi era tenuta ferma per i capelli. Sono stato costretto ad ingurgitare del sale e la bocca mi è stata riempita. A questo punto ho capito la funzione della fasciatura stretta sotto il naso in corrispondenza della dentatura superiore che ho descritta: il sale, a contatto con le ferite interne, provocava un forte bruciore, oltre a un senso di gonfiore generale della bocca e della gola. A quel punto sono stato costretto a inghiottire litri e litri d'acqua (inghiottire è un termine impreciso in questo caso perchè presuppone un controllo da parte del bevitore del ritmo e della quantità del liquido che ingerisce, cosa che nel caso che descrivo mi era impedita) che, a giudicare dalla quantità e dal ritmo e da quello che ho potuto vedere alla fine di questa seduta, mi veniva versata da grossi contenitori tipo bidoni delle immondizie, di plastica. I torturatori dimostravano notevole perizia nel ritmare, a loro parere ovviamente, i tempi di "bevuta" con quelli di "respiro", nonchè nel provocare manualmente lo spostamento della lingua, che mi avrebbe permesso di regolare "bevute" e "respiri", a loro discrezione. Durante i versamenti di acqua la bocca mi veniva tenuta aperta manualmente dai torturatori. Durante questo trattamento che provocava ovviamente sensazioni di soffocamento, di annegamento, notevoli difficoltà di respirazione e disperate contorsioni da parte mia, durante tutto ciò sono stato fatto segno di molti colpi ai fianchi. Questo trattamento ha avuto una durata molto lunga, nell'ordine delle ore, con brevissimi intervalli. Nella parte finale del trattamento, in un momento in cui non potevo respirare, avevo il naso chiuso e mi veniva immessa acqua, ho avuto una specie di forte compressione interna e a quel punto ho sentito un forte dolore alla testa, improvviso, che in un secondo istante ho individuato nell'orecchio sinistro. Al seguente intervallo, oltre a saltellare (ritengo di aver avuto una crisi di nervi a livello fisico o qualcosa di simile perchè tutto il corpo vibrava e saltellava seduto sul tavolo - mi erano stati tolti i legacci dalle mani - in maniera del tutto indipendente dal mio controllo e dalla mia volontà; comunque mantenevo piena coscienza di quanto succedeva attorno e ho potuto, essendomi stata tolta per un periodo la benda, avere uno sguardo d'insieme di quella camera di tortura e dei torturatori - dai quindici ai venti che avevano il volto coperto da passamontagna e sottocaschi) accusavo un acutissimo dolore all'orecchio sinistro da cui usciva del liquido che presto appariva misto a sangue, il quale diventava via via dominante rispetto al liquido. A quel punto sono stato rivestito e riportato alla branda. Sono stato nuovamente e definitivamente sbendato e mi è stato fatto bere del tè. Mi sono state ammanettate le mani davanti e non più dietro e dal quel momento ad oggi non ho subìto altri trattamenti di questo genere. Fino al pomeriggio del giorno 2 febbraio non ho potuto reggermi in piedi e quando dovevo spostarmi dovevo essere trascinato e sostenuto di peso da due guardie. Da tutta una serie di considerazioni, di dati e di fatti, che spiegherò e proverò senz'altro, qualora e quando l'Autorità competente lo riterrà opportuno, ritengo che tutti i maltrattamenti, le sevizie e le torture di cui sono stato fatto oggetto dopo la mia cattura siano avvenute all'interno (tranne l'episodio della "fucilazione") dei locali della caserma di polizia "Ilardi", sede del secondo reparto Celere, sito in via Acquapendente in Padova. Fiducioso che sia fatta giustizia, in attesa. fotocopiato in proprio via S.Ottavio 20 Torino – febbraio 2011