camilla lazzati

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camilla lazzati
Così, dopo molti anni, mi ritrovai a casa. Sembrava quasi un’allucinazione, un’immagine surreale.
Alla fine c’ero arrivato. Allora, forse, anche dagli incubi ci si risveglia. Bello pensare che in realtà
fosse tutto un sogno. Che tutto fosse accaduto in una notte. Tutte quelle morti e quelle ingiustizie e
quella sofferenza. Tutto in una notte. Ma non era così. Erano trascorsi giorni, mesi, anni. Era
trascorsa un’infinità di tempo dall’inizio. Dall’inizio della guerra. Che piaga. Forse ciò che di più
inutile e stupido c’è al mondo. Cos’è la guerra? Ciò di cui non si vuole mai parlare. Ciò che ormai è
successo e che va dimenticato, nascosto in un cassetto. Prima non sapevo cosa fosse la guerra. Non
per davvero. Ma ora sì. La guerra è quel preciso istante in cui gli uomini perdono la loro umanità. E
non sono più uomini.
Il mio incubo iniziò nell’aprile del ‘42 quando venni arruolato nell’esercito come soldato semplice.
Non avevo ancora diciannove anni. Fui addestrato a Roma e partii con il mio battaglione il 1°
febbraio 1943, diretto in Africa Settentrionale. Fu qui che trascorsi i giorni più difficili della mia vita,
a fianco dei miei compagni. Tra commilitoni c’era un senso di affetto e fratellanza. Perché alla fine,
sì, eravamo fratelli. I fratelli condividono la stessa madre, ma noi condividevamo lo stesso destino.
Li ho visti morire. I miei fratelli. Uno dopo l’altro. Ho visto le loro vite spegnersi, senza quasi che
nessuno se ne accorgesse. Senza che nessuno piangesse per loro. Perché piangere è faticoso. E non
c’era tempo per piangere tutti. Ognuno di noi teme la morte. Solo in seguito mi accorsi che in realtà
non è affatto dolorosa. Per i defunti è semplicemente il passaggio in un mondo migliore, dove non
dovranno più sopportare i pesi della vita. E’ per i vivi, invece, che fa male. Presto, però, conobbi
cosa peggiore del perdere un amico. Ed era uccidere. Nella foga della battaglia, a stento te ne
accorgevi. Sparavi, ed uno dei tuoi proiettili colpiva una persona. Una persona esattamente come te.
Un uomo che ha una famiglia e degli amici. Che ha dei sentimenti, dei pregi e dei difetti. Che ha
delle passioni, dei sogni e delle speranze. E tu lo uccidi. Non lo conosci nemmeno. Non riesci
nemmeno a vedere i suoi occhi, prima che muoia. E con un semplice colpo metti fine alla sua vita, a
ciò che era e a ciò che sarebbe dovuto diventare. E ti chiedi chi sei tu per farlo. Che diritto hai. Sei
come lui, se non peggio di lui. E dopo averne ucciso uno ne uccidi un altro e un altro ancora. Arrivi
a uccidere dieci, venti, trenta uomini. E ogni volta è come se uccidessi te stesso. Continuai
comunque a combattere. Arrivai al momento in cui non avevo più ragione per vivere. Vivevo
solamente per non morire. Ma quando vivi per la morte, è come se fossi già morto. E poi accadde.
Fui fatto prigioniero nel maggio del ‘43 da truppe africane comandate dal generale De Gaulle. Venni
imbarcato nelle stive di una nave da carico. Mi ritrovai in Inghilterra, rinchiuso in un campo di
prigionia vicino a Nottingham. Vivevamo in baracche sorvegliati dai soldati inglesi, circondati dal
filo spinato. La mattina i camion passavano a prenderci e ci portavano a lavorare in campagna. In
ogni baracca c’erano più di quaranta uomini e, a causa delle scarse condizioni igieniche, contrassi la
pleurite. Così, nel febbraio del ‘44 venni rimpatriato. Dopo quasi due settimane di viaggio su una
nave ospedale sbarcai al porto di Brindisi. Da qui fui trasferito in ospedale a Mesagne, dove rimasi
per sei mesi. Poi, insieme ad altri due commilitoni romagnoli, iniziai il viaggio. Il viaggio per tornare
a casa. Procedevamo a piedi o con mezzi di fortuna. Lo scenario era sempre lo stesso. Macerie. Ed è
in quei momenti che ti accorgi di cos’è veramente la guerra. Distruzione, distruzione e ancora
distruzione. E io ne facevo parte. Ero uno dei tanti personaggi di quella storia. Questa non è però
una di quelle favole che piacciono ai bambini. E’ una storia scomoda, che non è piacevole né da
raccontare né da ascoltare. Ma la mia storia non è ancora finita. Iniziò a far freddo e, arrivati in
Umbria, cominciò a nevicare. Vicino a Pesaro fummo fermati da due militari anglo-americani.
Pensavano fossimo disertori e volevano portarci in un campo di prigionia. Mi fecero molte
domande. Infine, mi chiesero da quanto tempo fossi lontano da casa. Io risposi: “E’ da tre anni che
non vedo la mamma”. Non so davvero per quale motivo, forse per compassione o per fortuna, ma mi
lasciarono andare. Il 5 gennaio 1945 giunsi nella mia città natale. E fu così che, dopo molti anni, mi
ritrovai a casa.
Liberamente ispirato alla testimonianza di Giuseppe Celli, soldato in Africa