Il sogno strappato - 758466

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Il sogno strappato - 758466
LIBRO
IN
ASSAGGIO
IL SOGNO
STRAPPATO
DI BARBARA & STEPHANIE KEATING
IL SOGNO STRAPPATO
CAPITOLO 1
KENYA, 3 LUGLIO 1957
La campanella della scuola suonò, ma la ragazza rimase dov'era, a metà del viale. Presto
o tardi qualcuno si sarebbe accorto che non era rientrata. Di nuovo nei guai. Forse
l'automobile avrebbe varcato il cancello prima che la sua assenza venisse notata e tutto
sarebbe andato bene. Era stata di vedetta per l'intera mattinata dalla finestra della classe,
finche la suora l'aveva sgridata. Dopo le lezioni era sgusciata lungo il viale, appostandosi
dove non poteva essere vista dagli edifici scolastici. Era un pomeriggio radioso, con nuvole
alte che filavano nel cielo azzurro e terso, lavato dalle forti piogge del giorno prima. Forse il
fango sulle strade aveva rallentato il traffico.
Sarah Mackay fissò il nastro di terra rossiccia ancora umida. Attorno a lei la fila di alberi
della gomma ondeggiava e fremeva conversando col vento. Amava quelle alte sentinelle dalla
corteccia argentea che vigilavano sull' altopiano, crescendo lassù a oltre duemila metri sopra il
livello del mare. Di notte le ascoltava bisbigliare e sospirare dal suo stretto lettuccio nel
dormitorio, e immaginava di essere a casa, a Mombasa, sulla costa lontana quasi ottocento
chilometri da lì.
n cortile della scuola rimase deserto dopo il richiamo della campanella. Sarah si sentiva
avvolta da un curioso senso di abbandono, come se il mondo le fosse sfuggito, proseguendo
sulla sua orbita senza di lei. Sarebbe sopravvissuta per secoli in una distorsione temporale
aspettando una macchina che non sarebbe mai arrivata. Cominciò a cantare, cercando di
tenere a bada il disagio. Era una ragazza robusta con la faccia rotonda e gli occhi nocciola,
piccola di statura per i suoi tredici anni; aveva ereditato la corporatura tarchiata e l'aspetto
disordinato del padre, e malgrado ogni sforzo i suoi vestiti apparivano sempre sgualciti.
Cantare la aiutava a respingere l' ansia e la solitudine finche non le sentiva più. Sapeva di
avere un talento naturale per il canto: talvolta intonava canzoni conosciute, ma spesso
componeva parole e melodie segrete, soltanto per se stessa. Era come volare, senza sapere se
alla prossima strofa ti saresti librata in alto o lanciata in picchiata, oppure saresti planata su
una di quelle note lunghe e soddisfacenti che riconoscevi come la conclusione perfetta. Ma
questa particolare canzone, si rese conto Sarah, stava rifiutando di risolversi. Si interruppe per
imitare il richiamo di un oriolo appollaiato su un ramo dell'acacia al margine del viale. Fu
compiaciuta di udirlo rispondere con un fischio, poi però l'uccello non volle prolungare lo
scambio e volò via in cerca di insetti. Le piaceva parlare con gli animali. Sorridendo tra se,
emise diversi grugniti in un'immaginaria conversazione con un facocero.
Il sole calava, rinfrescando l'aria che portava l'odore dei fuochi accesi per la notte. Sarah
cominciava a sentire fame. La strada oltre la scuola si snodava attraverso chilometri di grano e
campi aperti fino alla fascia scura degli alberi sull'orlo della scarpata. Quando era fuori a
cavallo amava protendersi dalla sella a raccogliere manciate di semi e bacche che più tardi
avrebbe infilato su un pezzo di filo metallico per creare un braccialetto o un girocollo. Erano
molto richiesti quei suoi monili; al momento ne stava realizzando uno speciale che intendeva
donare come regalo di compleanno a Camilla Broughton-Smith. Era la sua migliore amica,
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sebbene fosse diametralmente il suo opposto, così impeccabile e organizzata, sempre la prima
della classe, e molto popolare. Anche suo padre era importante e popolare. Forse queste cose
erano nel patrimonio genetico. Le due ragazze avevano iniziato il collegio insieme, e la prima
sera Sarah aveva pianto sconsolata per ore dopo che l'auto dei genitori era scomparsa in
fondo allungo viale. Nei giorni seguenti la malinconia si era fatta sempre più acuta. Le altre
ragazze si prendevano gioco della sua nostalgia di casa, dell'orlo sbilenco della sua divisa, e
delle scarpe nuove comprate apposta per la scuola che erano troppo lucide. Ma Camilla era
venuta in suo soccorso, mettendo sprezzantemente alloro posto quelle bulle, offrendosi di
aiutarla con i compiti e di dividere con lei il suo sensazionale guardaroba da weekend. La
penna di Camilla non perdeva mai inchiostro, non le macchiava le dita o la gonna della divisa
scolastica. I suoi quaderni erano lindi e ordinati e lo stesso il suo armadietto. Risolveva con la
massima disinvoltura problemi che facevano piangere altre alunne. Le insegnanti talvolta
dicevano che la ragazza era innaturalmente dura per l' età, che un giorno la sua corazza si
sarebbe spezzata con conseguenze disastrose. Ma Sarah avrebbe tanto voluto avere la
medesima scorza.
Alzò lo sguardo al cielo che andava imbrunendo. Sarebbero stati guai seri se avessero
dovuto mandare qualcuno fuori a cercarla dopo la ricreazione. Forse addirittura seri quanto la
volta in cui aveva catturato una biscia nel prato, liberandola poi in classe durante la lezione.
Era stata Hannah van der Beer a tradirla, guardando direttamente verso di lei e coprendosi la
larga bocca ilare con una mano mentre suor Evangelis strillava e balzava via dalla sedia.
Hannah, con i suoi folti capelli color paglia, la voce stentorea e l'accento piatto. Sarah
invidiava segretamen- te i modi imperiosi della giovane afrikaner. Ti faceva sentire inadeguata, una debole. I boeri, le aveva spiegato sua madre, erano gente di origine olandese
proveniente dal Sudafrica. Erano arrivati agli inizi del secolo, arrancando sui loro carri coperti
per raggiungere gli altipiani del Kenya e strappare le loro fattorie alla savana.
I pensieri di Sarah si frantumarono alla vista della distante scia di polvere dietro
un'automobile in avvicinamento. L'eccitazione sbocciò in gioia straripante appena la macchina
comparve, incedendo come una cometa seguita dalla sua coda polverosa. Sì! Una Mercedes
grigia, e stava rallentando per imboccare il viale. li viso tondo della ragazza era raggiante, gli
occhi splendenti, le braccia tese in un festoso benvenuto mentre correva incontro a sua madre.
Aveva contato le ore che ci sarebbero volute per arrivare da Nairobi, dove Betty Mackay
aveva passato la notte. La scuola era a metà strada tra la loro casa sulla costa e la capitale
dell'Uganda, dove suo padre, Raphael, si trovava per una conferenza medica. Sarah aveva
avuto il permesso di stare al Country Club con la mamma per due notti, rientrando a scuola al
mattino per le lezioni come un' allieva esterna. Proprio come Hannah van der Beer.
"Mamma! Mamma!" gridò esultante. L'automobile si era fermata. La portiera si aprì e una
figura scese dalla macchina. Sarah si bloccò, confusa. Quella non era sua madre.
"Mamma?" Aveva il sole negli occhi. Non riusciva a vedere distintamente. La voce che le
rispose era caratterizzata dalle vocali aperte del Sudafrica.
"Temo di non essere la persona che aspettavi, cara. lo sono la madre di Hannah van der
Beer. Sai se è qui in giro? Ho fatto un po' tardi."
Sarah notò con imbarazzo che Hannah si stava già avvicinando alla macchina. Un'auto
esattamente uguale a quella dei Mackay, eccetto che questa aveva un altro numero di targa, e
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un'ammaccatura su un parafango. Che la ragazza boera fosse stata lì tutto il tempo mentre lei
cantava quelle sciocche melodie e faceva versi di animali? Sentì le guance diventare scarlatte.
Che figura! Si mise a farfugliare, sforzandosi di impedire che l'avvilimento si tramutasse in
lacrime.
"Mi scusi. Oggi deve venire mia madre. Dalla costa. Da casa. Ha lo stesso tipo di
macchina. Pensavo che lei fosse...voglio dire, che fosse lei..."
L'umiliazione la rendeva incapace di guardare in faccia sia la signora van der Beer sia
sua figlia. Tornò in fretta verso l'edificio scolastico. Nel cortile interno si fermò e stette lì
appoggiata contro il muro, il ritratto dell'infelicità. Hannah avrebbe raccontato a tutte quel che
era accaduto e l'intera classe avrebbe riso di lei. Ne era sicura. Ma la prima regola di
sopravvivenza era non far mai sapere a nessuno che poteva ferirti. All'improvviso si accorse
che qualcuno era accanto a lei, le stava parlando.
"Mi hai sentita? Ti ho cercata dappertutto", ripete Camilla Broughton-Smith. "Dove ti eri
cacciata?"
" Aspettavo..." Sarah cercò di riemergere dallo sconforto.
"Be', ha telefonato tua madre. Un sasso le ha incrinato il parabrezza della macchina. Lo
sta facendo riparare a Nakuru, e sarà qui domani per l'ora di pranzo. Dai, non è la fine del
mon- do, santo cielo."
Sarah abbozzò un pallido sorriso. Sarebbe stato impossibile spiegare il suo scoramento
quando non lo capiva bene nemmeno lei. Si era resa ridicola e il giorno dopo Hannah van der
Beer avrebbe dato in pasto le sue stramberie a tutte le compagne. Forse sarebbe stato meglio
che raccontasse lei stessa l'umiliante errore, cercando di riderci su. Fissò Camilla, impotente; si
strinse nelle spalle.
"Grazie del messaggio. Meglio che vada a fare i compiti."
La Mercedes grigia oltrepassò i cancelli del convento. Hannah van der Beer guardò
attraverso il finestrino i campi da gioco e gli alberi della gomma scorrere via tra vividi squarci
di luce e cielo e pensò a Sarah Mackay che poteva ballare e cantare davanti ad altre persone,
che era brava a disegnare e sapeva fare cose bellissime.
"E guarda me, invece", rimuginò. "Una grossa, sgraziata campagnola afrikaner con il
trentanove di piedi. Lo so che tutte mi chiamano yaapie dietro le spalle. Nessuno mi considera
mai un'italiana come mamma."
Carlotta van der Beer veniva da una famiglia italiana di Johannesburg; il marito era un
afrikaner che l'aveva sempre chiamata Lottie. Hannah si girò a lanciare un'occhiata al profilo
regolare della madre, i capelli scuri raccolti in un crocchia, le dita abbronzate e irruvidite
curve sul volante. La madre di Sarah Mackay era bionda e graziosa. Indossava bei vestiti e
aveva le mani lisce di chi non fa mai lavori di casa.
"Chi era quella ragazza?" domandò Lottie. "Una mia compagna di classe."
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" Abita lontano?"
"Mombasa. Hanno una casa sul mare", rispose Hannah. Potevano uscire dal giardino e
ritrovarsi direttamente su una spiaggia bianca ornata di palme. Hannah era stata alcune volte
in vacanza sulla costa con la famiglia e non se ne sarebbe mai voluta andare.
"È molto distante." Il tono di Lottie era pensoso. "Non dev'essere facile per lei stare così
lontana da casa. Non sarebbe carino invitarla a pranzo un fine settimana?"
"Alla fattoria, vuoi dire? A pranzare a casa nostra?" Hannah era un'allieva esterna. Una
outsider, in effetti. Sarah stava in convitto e i suoi genitori erano inglesi, o forse irlandesi;
europei, comunque. Appartenevano ad ambienti differenti. Gli agricoltori afrikaner non
familiarizzavano molto con la classe coloniale britannica o la comunità rurale inglese. E suo
fratello avrebbe potuto punzecchiare Sarah e farle qualche scherzo pesante, anche se sarebbe
rimasto colpito delle sue imitazioni di uccelli e animali. D'altra parte anche lei aveva un
fratello, quindi probabilmente c' era abituata. Ma se avesse trovato la fattoria troppo alla
buona per i suoi gusti, lo avrebbe spifferato a tutta la classe, e allora Hannah sarebbe stata
più emarginata che mai. Sospirò. Era una decisione difficile.
"Allora?" Lottie era sorpresa del lungo silenzio della figlia. "Che ne pensi?"
"Potremmo chiederglielo, immagino. Ma non so se verrebbe."
Tre settimane dopo Hannah non aveva ancora trovato il momento adatto per fare l'invito.
Sarah Mackay, per qualche ragione, le parlava a malapena e sembrava addirittura evitarla. In
realtà, sebbene Hannah frequentasse la scuola già da due anni, non aveva stretto una vera
amicizia con nessuna delle ragazze. Queste sembravano far parte di un mondo nel quale la
figlia di agricoltori afrikaner di terza generazione non aveva speranze di inserirsi. Le sue
compagne venivano da famiglie le cui radici affondavano in luoghi remoti come Londra o
Dublino, o qualche posto a lei ignoto che chiamavano le "Home Counties"; da eleganti case di
città o residenze di campagna alle quali un giorno sarebbero tornate.
Finalmente, un pomeriggio Hannah notò Sarah da sola nell'aula di educazione artistica;
era intenta a finire un disegno a carboncino.
"È bello, Sarah", commentò. "Vorrei saper disegnare come te."
"Non sta venendo come dovrebbe. " Sarah corrugò le sopracciglia senza alzare la testa
dal foglio. Aveva uno sbaffo nero sulla guancia e le sue mani erano impazienti mentre usava i
polpastrelli per ottenere una migliore ombreggiatura.
"Ti piace disegnare paesaggi? Dal vivo, intendo...nella prateria, con alberi e animali,
come alla nostra fattoria?"
"Non proprio." Sarah nemmeno la guardò. "Sto cercando di concentrarmi sui ritratti, per
ora. Come puoi vedere."
Hannah si sentì snobbata. Avrebbe dovuto trovare un'altra occasione per tirare fuori
l'invito. A volte si domandava perchè mai sua madre avesse voluto mandarla per forza a
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studiare al convento, quando tutte le altre figlie di agricoltori afrikaner andavano alla Kikoma
School, laica, e in cui c' erano classi miste. Suo padre era stato contrario. Hannah ricordava
di aver sentito i genitori discutere mentre stava seduta sulla sua panchetta preferita sotto la
finestra, nascosta dai pesanti tendaggi.
"No, Jan." La voce di Lottie era ferma. "Abbiamo fatto come volevi tu per l'istruzione di
Piet. È andato alla Kikoma e ci ha dato delle soddisfazioni. Lui ha un carattere forte, è sveglio
e molto indipendente. Ma Hannah non è così, nonostante le apparenze. E io non sono una
afrikaner come te. Voglio che nostra figlia frequenti tipi diversi di gente, che veda oltre i
paraocchi dei tuoi tetri riformisti luterani."
"Piet non ha i paraocchi. E non è tetro."
"Lui passa tutto il suo tempo libero con noi." Lottie aveva liquidato il commento con
impazienza. "Devi tenere presente che Piet è stato figlio unico per cinque anni, fin che è
arrivata Hannah. Ha avuto tutta la nostra attenzione, e noi siamo di mentalità più aperta della
maggior parte dei nostri vicini."
"Quindi, possiamo fare in modo che anche Hannah cresca con una mentalità aperta.
Senza spendere i risparmi di una vita per quella scuola."
"No, Janni. Per Hannah il convento è la scelta migliore. Le suore educano le ragazze con
una raffinatezza che la Kikoma di certo non le darebbe. Tutti chiamano quel posto un boma
per giovenche, e temo ci sia del vero."
"Meglio non farti sentire dalla tua amica Katja van Rensburg dire questo delle sue figlie",
aveva riso Jan. La moglie era bella quando si accalorava: la sua carnagione olivastra si
tingeva di rosa, il sangue italiano le lampeggiava negli occhi mentre gesticolava per
enfatizzare la propria opinione. "Quello è un collegio, Lottie. Di sicuro non vorrai che Hannah
viva lì, con la sua casa a pochi chilometri di strada?"
"No, certo che no. Prendono anche allieve esterne. Ce ne sono forse venti della zona
che..."
"Sono figlie di britisher...commissari distrettuali, medici, uomini d'affari e agricoltori
inglesi. Sì, lo so che hai amiche tra le loro mogli. Ma la nostra famiglia è differente." Jan
fumava la pipa. "Hannah avrà difficoltà a inserirsi. Tutti hanno bisogno di appartenere a un
ambiente, in particolare alla sua età. Lei non passerà la vita con i britisher, o con la tua
famiglia a Johannesburg. È una afrikaner e voglio che ne sia fiera."
"Dovrebbe sentirsi a proprio agio con entrambi i lati del suo retaggio, Janni, ed essere
libera di trarne vantaggio, ovunque lei vada a finire." Lottie si era chinata sulla sedia del
marito per dargli un bacio sulla fronte. "Voglio che vada al convento. Voglio che tu la iscriva
subito, e venga con me a un colloquio con la madre superiora. È deciso, per quel che mi
riguarda. "
"E da dove tireremo fuori il denaro?" era stata l'obiezione del marito. "In convento è molto
costoso. Dovremmo intaccare quel che abbiamo messo da parte. E se poi capitasse una
siccità, o un'epidemia di peste bovina tra il bestiame, che cosa faremo?"
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"Nostra figlia è più importante di un trattore nuovo", aveva ribattuto Lottie. "Non possiamo
privarla della migliore istruzione per paura di qualcosa che potrebbe non verificarsi mai."
Jan aveva ceduto. "Puoi prendere gli accordi tu stessa. lo non andrò a nessun colloquio
con nessuna madre superiora. E questo è tutto da parte mia."
Due anni più tardi, Hannah aveva la sensazione che suo padre potesse avere avuto
ragione. Era fuori posto al convento, e ancora non si era mai fatta una vera amicizia. Però
eccelleva nello sport, e il pomeriggio del campionato interscolastico di hockey fu il suo turno di
brillare quando mise a segno quattro dei cinque punti che portarono la sua squadra in testa
alla classifica. Al termine dell'incontro era accaldata per lo sforzo e il trionfo. Quando Sarah
Mackay si avvicinò per congratularsi Hannah ebbe un'impennata di coraggio e buttò fuori di
getto le parole che aveva provato così tante volte nella propria testa.
"Buon lavoro di squadra, Sarah. Oh, ecco mia madre. Vuole sapere se ti andrebbe di
venire a pranzo da noi un fine settimana." Mentre lo diceva, vide sopraggiungere Camilla
Broughton-Smith. "Anche tu, Camilla."
Fu sorpresa lei per prima di quel che stava dicendo, ma c'erano maggiori probabilità che
accettassero invitandole insieme.
"Anch'io... che cosa? A proposito, complimenti! Hai giocato magnificamente. Hai proprio
dato la biada alle giovenche del boma! " Camilla passò un braccio diafano intorno alle spalle
di Sarah.
"Mia madre avrebbe piacere che veniste entrambe a pranzo da noi il prossimo fine
settimana. O un altro, fa lo stesso. Se ne avete voglia, s'intende."
li coraggio evaporò rapidamente e lei cominciò a sentirsi imbarazzata. Non avrebbe mai
dovuto sollevare l'argomento. Sarah Mackay la stava fissando a bocca aperta.
"Che idea favolosa!" Camilla diede di gomito alla sua amica. "Certo, saremmo felici di
venire. Non è vero, Sarah? Non sono mai stata in una fattoria qui attorno. Avete vacche e
pecore? Magari anche cavalli?"
"Mamma, questa è Sarah Mackay." Hannah non ebbe altra scelta che andare avanti.
"L'hai già incontrata, ricordi? E lei è Camilla Broughton-Smith. Verrebbero entrambe volentieri
a pranzo. Come avevi suggerito."
"Bene. Prenderò subito accordi con suor Evangelis." Lottie sorrise alla figlia. "Si potrebbe
organizzare per il prossimo weekend, se per voi ragazze va bene. Possiamo fare un breiflies
se il tempo è buono. E sarà a casa anche Piet. Portatevi il costume da bagno se volete. C'è una
pozza dove si può nuotare, ma vi avverto, l'acqua è fredda."
Langani Farm era di proprietà dei van der Beer dal 1906, quando la famiglia era arrivata
in Kenya via mare dal Sudafrica, portando con se carri coperti carichi di masserizie.
Nell'agglomerato di baracche che un giorno sarebbe diventato la città di Nairobi avevano
comprato una coppia di buoi ancora da addestrare e alcuni generi di prima necessità, quindi
si erano messi in viaggio verso le foreste dell'altopiano, inerpicandosi a fatica con tutti i loro
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averi nell'aria sempre più rarefatta, arrancando attraverso chilometri di fango scivoloso che li
risucchiava indietro a ogni passo, a tratti costretti ad aprirsi un varco nel folto della
vegetazione, a tratti immersi nella nebbia, tremanti per il freddo pungente e l'umidità, per
raggiungere la nuova terra promessa e gli acri a loro assegnati. Per anni avevano lottato col
terreno ostile, per strappare nuovi germogli al suolo riluttante, patendo il tormento di veder
morire capi di bestiame, di scoprire spighe di grano attaccate dalla ruggine, di arsure
soffocanti e piogge torrenziali e invasioni di cavallette che distruggevano le messi quasi
mature, facendo sfumare il sogno del raccolto. Ma la perseveranza era il punto di forza degli
afrikaner. Un po' alla volta, con la caparbietà che li contraddistingueva, avevano domato
l'ambiente piegandolo alloro volere.
La prima immagine del giardino di Lottie a Langani Farm sarebbe rimasta per sempre
vivida nella mente di Sarah. La casa era lunga e bassa, costruita in pietra locale con muri
spessi e alti comignoli. Un tetto spiovente di ferro ondulato era sostenuto da colonne di sasso
rivestite di tralci aggrovigliati di caprifoglio e buganvillea. La profonda veranda si affacciava
su un prato di velluto e aiuole curvilinee di fiori variopinti; oltre gli alberi e i cespugli curati
amorevolmente si estendeva la prateria, punteggiata di acacie e abitata da branchi di zebre,
giraffe, gazzelle, elefanti e bufali. Una siepe ben potata era tutto ciò che separava il giardino
dalla landa incolta, un fragile baluardo contro l'invasiva vegetazione selvatica e le incursioni
degli animali da preda. In lontananza, al di là delle pianure, i picchi innevati del monte Kenya
si innalzavano scintillanti nella volta del cielo.
Per quella prima visita alla fattoria, Jan van der Beer preparò un barbecue; pranzarono
tutti insieme all’ aperto sotto gli alberi, poi Lottie accompagnò in macchina le ragazze giù al
fiume. L'acqua era davvero gelida: un torrente alimentato dallo scioglimento dei nevai
scendeva a precipizio dalla montagna e si gettava in una conca, dando origine a un laghetto.
Sarah saltò incautamente dalla sponda nella pozza ai piedi della cascata, e urlò per lo choc.
Hannah, al sicuro sulla riva, rise a crepapelle guardandola boccheggiare nello sforzo di
riprendere fiato e dibattere furiosamente braccia e gambe per riattivare la circolazione.
"Noi ti avevamo avvertita", le gridò. "Peggio per te che non ci hai dato retta."
"Be', non startene lì a ridere come un babbuino. Entra in acqua, se pensi sia così
divertente. E anche tu, Camilla. Non vorrai rimanere sdraiata sull'erba cercando di sembrare
una diva del cinema!”
Hannah scese sdruccioloni lungo la sponda.
Si udì un'altra voce. "Forza, donnicciole patetiche! Entrate, o vi aiuterò io!"
Piet van der Beer, alto e allampanato, apparve sull'argine e si sfilò la camicia kaki, gli
stivali, i calzettoni, quindi saltò in aria con un urlo, raccolse le ginocchia contro il petto e si
tuffò. Riemerse dopo qualche secondo accanto a Sarah, scrollandosi l' acqua di dosso,
lisciandosi all'indietro i capelli biondi con le dita abbronzate, gli occhi sorridenti tra le ciglia
imperIate di gocce d'acqua. All'improvviso un senso di calore pervase il corpo gelato della
ragazza. Per la prima volta in vita sua, Sarah fu consapevole dei suoi piccoli seni sotto il
semplice costume olimpionico della scuola, delle gambe e le braccia, leggermente paffute.
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Lui la sbirciò, strizzando gli occhi nella luce intensa, ammiccò, poi rise a gola spiegata
rovesciando indietro la testa, la faccia rivolta verso il sole caldo. Fu un momento di rivelazione
che le cambiò la vita per sempre.
© by Barbara & Stephanie Keating
© 2006, Sonzogno Edizioni
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
su licenza Sonzogno Edizioni
www.mondolibri.it
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