Dopo dodici anni negli Stati Uniti, il corrispondente del Guardian

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Dopo dodici anni negli Stati Uniti, il corrispondente del Guardian
La stagione delle rivolte
In copertina
Gary Younge, The Guardian, Regno Unito
Foto di Gareth Smit
Dopo dodici anni negli Stati Uniti, il corrispondente
del Guardian torna a casa. Nel suo ultimo articolo
racconta un paese lacerato dalle divisioni e dalle
disuguaglianze. E dove le tensioni razziali rischiano
di portare a una nuova estate di scontri
D
a qualche anno negli
Stati Uniti le estati, come gli uragani, hanno
un nome. Non nomi
semplici, come Katrina
o Floyd, ma nomi e cognomi come Travyon Martin e Michael
Brown (i due ragazzi neri uccisi da un vigilante di quartiere e da un poliziotto). Come
gli uragani, queste morti erano prevedibili
ed erano state previste. Eppure, quando sono arrivate, l’effetto è stato comunque devastante. Non sappiamo ancora quale nome
sarà associato a quest’estate. Prenderà il
nome di qualcuno che in questo momento
sta giocando a un videogioco, sta cercando
il modo di sfamare la sua famiglia o sta lavorando per ripagare il prestito universitario.
Lui (perché probabilmente sarà un lui) non
sa ancora che i suoi giorni sono contati, e
noi non abbiamo idea di quanti saranno
quei giorni.
Non è ancora chiara l’esatta alchimia
che rende una morte politicamente simbolica mentre tante altre vengono ignorate da
tutti tranne che dalle famiglie delle vittime
e dalla loro comunità. I video diffusi su internet aiutano, ma non sono fondamentali.
Le immagini di poliziotti che girano per le
strade come squadroni della morte e uccidono persone che non rappresentavano un
vero pericolo non accendono quasi mai la
fantasia popolare. Ma quando le autorità
non prestano attenzione al disagio di determinati gruppi sociali, non indagano sugli
abusi commessi dalla polizia e, meno che
mai, rimettono in riga gli agenti, la situazione può diventare esplosiva. In alcuni casi,
la continua e crescente tensione tra sorve-
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glianti e sorvegliati è stata un fattore determinante. In definitiva ancora non sappiamo perché la morte che scatenerà la prossima rivolta catturerà l’attenzione dell’opinione pubblica più di altre. Ma sappiamo,
con terribile certezza, che il suo momento
arriverà: presto negli Stati Uniti un uomo
sarà assassinato a sangue freddo da un poliziotto (anche in questo caso probabilmente sarà un uomo) che dovrebbe proteggere
lui e la sua comunità. Lo sappiamo perché è
statisticamente inevitabile e conosciamo i
precedenti storici. Lo sappiamo perché gli
Stati Uniti non solo funzionano così, ma è
così che sono stati costruiti. Come un uragano, sappiamo che sta per arrivare, ma
ancora non sappiamo quando e dove colpirà e quanti danni farà.
L’estate è una stagione di rivolte. Fu in
estate che negli anni sessanta scoppiarono
le proteste a Los Angeles, a Newark e a Detroit, innescate dagli abusi commessi dalla
polizia. È la stagione in cui le scuole sono
chiuse, si organizzano feste in piscina e la
vita quotidiana, soprattutto nei centri urbani, cambia completamente: si passa dal salotto alla veranda, dal divano alla strada. La
gente è più nervosa e il risentimento si gonfia come l’asfalto della strada. È la stagione
in cui, per parafrasare il poeta Langston
Hughes, i sogni differiti esplodono.
Il mio non è un augurio, è una previsione. Sento montare quel risentimento a
ogni nuovo post su Facebook, a ogni video
virale o commento rabbioso su Twitter. Lo
percepisco ogni volta che parlo con uno
sconosciuto all’ufficio postale, in un negozio di liquori o in un bar. È una previsione
spiacevole perché in fondo queste rivolte
mettono in evidenza un problema che, da
sole, non possono risolvere. Ed è una previsione facile da fare perché, come ha detto
una persona che all’inizio dell’anno ha assistito ai disordini scoppiati a Baltimora,
“se la riempi troppo, prima o poi la pentola
a pressione scoppia”.
Questa è l’estate in cui lascerò gli Stati
Uniti dopo dodici anni come corrispondente del Guardian. A spingermi a tornare a
Londra sono stati banali motivi personali
che non hanno niente a che vedere con la
situazione negli Stati Uniti. Se volessi fuggire dalla violenza della polizia e dal razzismo, di certo non tornerei ad Hackney, il
quartiere dove vivo a Londra. Ma anche se
non sono stati decisivi per la mia scelta, gli
eventi degli ultimi anni mi hanno rassicurato sulla decisione che ho preso. Ed è per
questo che non ho mai avuto ripensamenti.
Se dovevo scegliere un’estate per andarmene, questa è l’estate giusta. Un’altra stagione di genitori neri in lutto, di capi della polizia che provano a dare spiegazioni e di gior-
Le foto di queste pagine sono state
scattate a Staten Island, New York,
nell’ aprile del 2015, durante le
manifestazioni in ricordo di Eric
Garner, un afroamericano morto nel
luglio del 2014 durante un arresto.
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nalisti televisivi che esprimono opinioni
senza sapere di cosa stanno parlando.
Un’altra stagione in cui bisogna ricordare
agli statunitensi che anche la vita dei neri
conta e che non è normale che lo stato uccida le persone. Un’estate matura per la
rabbia.
Dodici anni intensi
Sono arrivato a New York qualche mese prima dell’inizio della guerra in Iraq nel 2003.
Gli statunitensi sembravano arrabbiati con
il resto del mondo e con se stessi. I cinque
libri in cima alla classifica dei best seller del
New York Times nel mese in cui ho cominciato a lavorare come corrispondente erano: La guerra di Bush, racconto agiografico
di Bob Woodward sulla reazione della Casa
Bianca agli attacchi dell’11 settembre; The
right man, in cui David Frum, ex autore dei
discorsi di Bush, raccontava il suo primo
anno al fianco del presidente; Ritratto di un
assassino di Patricia Cornwell, sul caso di
Jack lo squartatore; The savage nation, in cui
Michael Savage, conduttore di un programma radiofonico di destra, metteva in guardia gli americani “dall’assalto della sinistra
alle nostre frontiere, alla nostra lingua e alla
nostra cultura”; e Leadership. Una storia di
coraggio e di successo, dove Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York, raccontava la
sua risposta vincente agli attacchi delll’11
settembre.
Da allora non c’è praticamente mai stato
un momento di tranquillità: lo sciovinismo
alimentato dalla guerra in Iraq, la rielezione
di George W. Bush nel 2004, l’uragano
Katrina nel 2005, la delusione della guerra
in Iraq, le ronde contro i migranti al confine
con il Messico, le proteste del movimento
“Sí se puede!” per difendere i migranti, Barack Obama, Sarah Palin, la crisi economica, Occupy Wall street, il Tea party, la rielezione di Obama e l’attuale ondata di manifestazioni antirazziste. Da straniero trovavo
tutti questi fenomeni affascinanti. Tendevo
a prendere posizione, sia politicamente sia
moralmente. Ma quando scrivevo mi sentivo più che altro un antropologo. Pensavo
che il mio compito fosse cercare di capire
gli Stati Uniti: perché i bianchi poveri votavano contro i loro interessi economici?
Com’era possibile che i discendenti di immigrati fossero diventati xenofobi? Perché
Obama aveva deluso tante persone anche
se aveva promesso così poco? Cercare le risposte a queste domande è stato illuminante, anche quando non le ho trovate o non mi
sono piaciute.
Come inglese in un paese straniero, la
distanza culturale che avvertivo era un mi-
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sto di invincibilità e invisibilità. Mi consideravo più uno spettatore che un partecipante.
Nel 2003, mentre ero nelle campagne del
Mississippi per preparare un articolo, mi
sono fermato davanti alla casa di una coppia di anziani bianchi per chiedere indicazioni, e loro hanno minacciato di spararmi.
L’ho trovato divertente. Sono tornato in
gran fretta alla mia macchina e me ne sono
andato, ma non ho pensato neanche per un
attimo che mi avrebbero sparato davvero.
Sarebbe stata una follia. Quando sono tornato a casa ho raccontato l’episodio a mia
moglie e a mio cognato, che sono afroamericani. I loro genitori sono cresciuti nel sud
ai tempi della segregazione. Ancora oggi
mia suocera non si fermerebbe mai con la
L’ultima ondata di
proteste antirazziste
sta durando più delle
precedenti
macchina in Mississippi, se non per fare
benzina. Non pensavano affatto che fosse
divertente: come mi era venuto in mente di
chiedere indicazioni a due vecchi bianchi
nelle campagne del Mississippi?
Poi, a un certo punto, sono rimasto coinvolto. In parte è stata una questione di tempo: quando ho cominciato a conoscere le
persone, e non solo a intervistarle, mi sono sentito più partecipe.
Quando qualcuno che conosci
non può curarsi perché non ha
l’assistenza sanitaria, ha i vetri
della cucina bucati dai proiettili o
non può tornare nel suo paese perché non
ha i documenti in regola, il tuo rapporto con
problemi come la riforma sanitaria, il controllo delle armi e l’immigrazione cambia.
Ma il mio coinvolgimento era legato soprattutto a circostanze specifiche. Nel 2007, nel
weekend in cui Barack Obama ha annunciato la sua candidatura alla presidenza, è
nato mio figlio. Sei anni dopo abbiamo avuto una bambina.
Una sera d’estate, un paio di anni dopo
che ci eravamo trasferiti a Chicago, mia figlia non voleva calmarsi e così mia moglie
ha deciso di fare una passeggiata fino al supermercato per farla addormentare. Mentre tornava ha sentito degli spari nella strada e si è rifugiata con la bambina nel negozio di un barbiere. Tempo dopo, quando la
neve si è sciolta, hanno trovato una pistola
nella stradina dietro al parco del nostro
quartiere e un’altra dietro alla scuola di mio
figlio. Ormai non potevo più essere un os-
Erica Garner, la figlia di Eric Garner
servatore. Avevo a che fare con asili, centri
estivi, scuole, visite mediche, parchi e altri
genitori. Il giorno in cui abbiamo portato a
casa mio figlio appena nato, il New York Times ha pubblicato un articolo in cui spiegava che negli Stati Uniti “un ragazzo nero che
abbandona la scuola superiore ha sessanta
probabilità in più di ritrovarsi in carcere rispetto a uno che riesce a laurearsi”. Prima
avrei trovato quell’informazione interessante e preoccupante. Ora mi toccava da
vicino. Come nero rischiavo personalmente, e le carte erano truccate contro di me.
Come il presidente
Il successo di Barack Obama, mi dicevano
spesso durante la campagna elettorale per
le presidenziali del 2008, avrebbe cambiato
le cose. Ma quando chiedevo in che modo
sarebbe successo, nessuno sapeva dirmelo
con precisione. Con la sua stessa presenza,
sostenevano, Obama avrebbe segnato uno
spartiacque per mio figlio e per tutti quelli
come lui. Non ci ho mai creduto. Prima di
tutto perché il successo di una singola persona, per quanto importante dal punto di
vista simbolico, non può cancellare secoli
di discriminazioni. In secondo luogo, perché Obama avrebbe agito all’interno di istituzioni – il Partito democratico e la Casa
Bianca – dove non avrebbe potuto fare più
di tanto per cambiare le cose. Aspirava a
raggiungere il vertice di un sistema condizionato dalle lobby delle grandi
aziende, dove i collegi elettorali
sono ritagliati su misura per far
vincere determinati interessi e
dove il 41 per cento del senato
può praticamente bloccare qualsiasi progetto di legge. Obama era il candidato più progressista in gara, e questo era
già tanto, viste le alternative, ma non significava che sarebbe riuscito a spostare in modo significativo l’ago della bilancia delle
disuguaglianze e delle discriminazioni contro le minoranze.
A livello simbolico, i vantaggi dell’elezione di Obama erano evidenti. Per due
anni ho portato in giro mio figlio nel suo
passeggino circondato da immagini di un
nero associate a parole come “speranza” e
“cambiamento”. Circa un anno dopo la sua
elezione, mio figlio stava giocando con un
amichetto bianco di quattro anni che a un
certo punto ha alzato la testa dalle sue macchinine e gli ha detto: “Tu sei nero”. Era
un’osservazione comprensibile: non ne faceva una questione di razza, stava solo notando che erano diversi. Ma quando mio figlio mi ha guardato per capire cosa rispondere, mi sono reso conto che avevo una
nuova freccia al mio arco per allontanare
qualsiasi possibile imbarazzo. “Certo”, ho
detto. “Proprio come il presidente”.
Ma i vantaggi concreti erano più difficili
da definire. Obama aveva ereditato una crisi economica che aveva colpito gli afroamericani più di chiunque altro. Nei primi anni
della sua presidenza, il divario tra neri e
bianchi in termini di occupazione e benessere è aumentato, e dopo la fine della crisi
economica non è diminuito di molto. Nel
2010 ho raccontato l’aneddoto di mio figlio
e del suo amichetto in un articolo in cui sostenevo che il valore simbolico di avere un
presidente nero in fondo è limitato. “Una
volta rimesse a posto le macchinine e passato quel momento, capisci che non cambia
poi molto. Perché, nonostante tutto il chiasso che sta facendo il Tea party, sono stati i
neri a soffrire di più da quando Obama è
presidente. Negli ultimi 14 mesi il divario
tra le opportunità di vita di mio figlio e quelle del suo amichetto è aumentato”.
Questa affermazione era innegabilmente vera ma a quanto pare faceva discutere.
Non avevo detto che mio figlio se la sarebbe
cavata male nella vita, ma solo che le sue
possibilità di successo erano decisamente
inferiori a quelle del bambino con cui stava
giocando, e che il divario tra loro stava ulte-
riormente aumentando. Uno studio del
2014 ha dimostrato che un laureato nero ha
le stesse probabilità di trovare lavoro di un
ragazzo bianco che ha abbandonato la
scuola. “Con il prolungarsi della recessione”, aveva scritto il New York Times un paio
di mesi prima , la disparità tra il livello di occupazione dei neri e dei bianchi “sta diventando ancora più evidente nel caso delle
persone laureate. L’istruzione, a quanto pare, non livella il terreno di gioco. Al contrario, lo rende ancora più disuguale”. Ma insistere sul fatto che il razzismo avrebbe avuto
effetti concreti sulla vita di mio figlio aveva
indispettito alcuni lettori. “Sciocchezze”,
mi aveva scritto uno di loro. “Appartiene
alla classe media, quindi il suo futuro sarà
più simile a quello dei suo amici bianchi che
non a quello di qualsiasi nero povero”. Un
altro aveva detto: “È scorretto da parte sua
considerarsi una vittima solo a causa del
colore della sua pelle. Molto probabilmente
suo figlio se la caverà benissimo. Ha quasi
tutti i vantaggi del mondo”.
Queste reazioni dimostravano una totale ignoranza delle dinamiche razziali negli
Stati Uniti. Naturalmente la classe sociale
di appartenenza fa una grande differenza:
possiamo avere l’assistenza sanitaria, trovare lavoro, andare all’università e compra-
re una macchina; viviamo in una comunità
dove ci sono scuole, supermercati e ristoranti. Abbiamo tutte le risorse e quindi possiamo scegliere.
Ma non possiamo scegliere di non essere neri. E negli Stati Uniti, di questi tempi,
non è una cosa irrilevante. Non si tratta di
“considerarsi una vittima”, ma di riconoscere un fatto. L’appartenenza a una determinata classe sociale garantisce una serie
di privilegi, ma non protegge da tutto il resto. Se così fosse, le donne ricche non verrebbero mai violentate e in tutto il mondo le
coppie gay benestanti potrebbero sposarsi.
Per condurre la vita dorata a cui alludevano i miei lettori non basterebbe un grosso
conto in banca né un buon livello d’istruzione. Dovremmo anche vivere in una zona
dove ci sono pochi afroamericani, perché i
quartieri neri sono controllati da poliziotti
che hanno poco rispetto per la vita e per la
libertà delle persone; dovremmo mandare
i nostri figli in una scuola frequentata da pochi studenti afroamericani, perché gli istituti a maggioranza nera non ricevono finanziamenti; dovremmo dire ai nostri figli di
non indossare niente che possa essere associato alla nostra cultura, perché altrimenti
sarebbero subito etichettati; dovremmo
chiedergli di non mescolarsi con gli altri raInternazionale 1112 | 24 luglio 2015
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gazzi afroamericani, perché probabilmente
vivono proprio in quei quartieri e frequentano proprio quelle scuole da cui vorremmo
fuggire; e non dovremmo mai farli uscire di
casa di sera, perché spesso i ragazzi neri che
passeggiano per strada dopo il tramonto
sono visti dai poliziotti come dei potenziali
criminali. L’elenco potrebbe continuare.
Nessuno di questi comportamenti di autocensura, naturalmente, sarebbe una garanzia. Il razzismo è arbitrario nella scelta della
vittima quanto è sistematico nella sua applicazione. E anche se non opera mai da
solo (quasi sempre è associato alla classe o
ai pregiudizi sessuali), può agire in modo
indipendente. Nessuno va a controllare
quanti soldi ho in banca o che lavoro faccio
quando vede i miei figli. Travyon Martin
passeggiava in un quartiere residenziale
quando George Zimmerman, un vigilante
di quartiere, gli ha sparato pensando che
fosse un teppista, nel febbraio del 2012. Clementa Pinckney, un senatore del South Carolina, era in una delle più belle chiese di
Charleston quando Dylann Roof, un suprematista bianco, ha assassinato lui e altre
otto persone, nel giugno del 2015.
Non ho mai conosciuto un afroamericano che pensasse di potersi liberare degli
svantaggi dei neri semplicemente con i soldi. L’unica cosa che possiamo fare è cercare
di ridurre le probabilità. Ma se un ragazzo
nero su tre nato nel 2001 è destinato a finire
in prigione, le probabilità sono molto alte. E
il fatto che ci sia un nero alla Casa Bianca
non ha cambiato le cose.
Aria da teppisti
Per la maggior parte del tempo, il parco vicino a casa nostra è multicolore come una
puntata di Sesame street. Bambini bianchi,
neri e gialli si arrampicano, scivolano e salgono sulle altalene. Ogni tanto, soprattutto
nel tardo pomeriggio dei giorni feriali, arrivano dei ragazzi più grandi. Come tutti gli
adolescenti del mondo occidentale, sono
annoiati, squattrinati, arrapati e sperduti.
Non vogliono stare a casa, ma non hanno i
soldi per fare quello che vorrebbero, così se
ne vanno al parco, dove s’infilano a fatica in
altalene troppo piccole per loro, scherzano,
flirtano e si punzecchiano. Ogni tanto dicono qualche parolaccia e fanno un po’ di casino, ma non creano problemi che non si
possano risolvere chiedendogli di stare attenti perché in giro ci sono dei bambini piccoli. Questi ragazzi sono quasi sempre afroamericani. Naturalmente la loro presenza
cambia l’atmosfera. Ma la situazione diventa tesa solo quando arriva la polizia. Gli
agenti più ragionevoli chiacchierano con
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loro, quelli più aggressivi cominciano a interrogarli. In entrambi i casi, la presenza di
uomini armati in uniforme in uno spazio
per bambini è inquietante e inutile. I più
piccoli e quelli che sono arrivati da poco nel
quartiere immaginano che se c’è la polizia
dev’essere successo qualcosa di veramente
grave; i più grandi (significa che hanno almeno sette anni) e quelli che ci sono abituati non ci fanno troppo caso. Non saprei dire
qual è la reazione peggiore.
Un pomeriggio, mentre osservavo un
gruppetto di adolescenti abbastanza tranquillo, ho attaccato discorso con una signora bianca. Suo figlio aveva più o meno la
stessa età del mio, e anche loro vivevano a
due passi dal parco. Abbiamo cominciato a
chiederci a che età sarebbe stato opportuno
lasciarli venire da soli. “Il fatto è che non
possiamo sapere se sarà tutto tranquillo o ci
saranno in giro i teppisti”, ha detto lei indicando gli adolescenti sulle altalene. Sono
rimasto senza parole. Ogni volta che scrivo
degli omicidi della polizia almeno un lettore mi ricorda che è più probabile che un nero
sia ucciso da un altro nero. Questo è vero,
ma è anche irrilevante. Prima di tutto, perché qualunque statunitense ha più probabilità di essere ucciso da una persona che appartiene al suo stesso gruppo etnico. Ma
anche perché i neri non hanno il compito di
proteggere e servire la gente. È un compito
della polizia. Negli ultimi dieci anni il lavoro
mi ha portato a visitare molti quartieri poveri, abitati da persone di tutte le etnie, e
non sempre mi sono sentito al sicuro. Ma
non avevo paura dei neri o di qualsiasi altro
gruppo etnico: ero sconcertato dalla povertà e dalla cultura delle armi, perché è questa
pericolosa combinazione che genera la vio-
lenza e la rende letale. Io e quella donna
stavamo guardando gli stessi ragazzi ma
vedevamo qualcosa di molto diverso. “Cosa
le fa pensare che diventeranno teppisti?”, le
ho chiesto. Lei ha alzato le spalle. In quel
momento la conversazione si è spenta.
Fuori dai ghetti
Negli Stati Uniti c’è una fetta di società
bianca – una grossa fetta di cui fanno parte
le mamme gentili disposte a parlare con un
estraneo afroamericano al parco – che considera i ragazzi neri un pericolo in sé. Fuori
dai ghetti dove pochi bianchi hanno il coraggio di avventurarsi, la presenza di adolescenti afroamericani indica non la possibilità di guai ma il loro arrivo imminente.
Quando George Zimmerman ha incontrato
Travyon Martin non ha visto un ragazzo di
17 anni che tornava a casa. Ha visto una persona “sospetta”, “che stava combinando
qualcosa” e probabilmente era responsabile di alcuni furti avvenuti di recente nelle
case della zona. “Fottuti ladruncoli”, ha
detto alla polizia riferendosi al ragazzo.
“Quegli stronzetti se la cavano sempre”.
A dire la verità, i ragazzi neri spesso non
sono neanche considerati ragazzi. A Goose
Creek, in South Carolina, la polizia che cercava un indiziato di 32 anni ha chiesto i campioni di dna a due studenti afroamericani
delle scuole medie. Dopo la morte di Tamir
Rice – un ragazzo di 12 anni ucciso nel 2014
dalla polizia di Cleveland, che era intervenuta perché qualcuno aveva denunciato la
presenza di un ragazzo con una pistola
“probabilmente finta” – un portavoce delle
forze dell’ordine ha detto che era stata colpa sua. “Tamir Rice era pericoloso”, ha detto. “Aveva l’aria minacciosa. Era alto un
metro e settanta, pesava 80 chili. Non era
quel ragazzino che si vede nelle foto. Era un
dodicenne nel corpo di un adulto”. Quando
ha testimoniato davanti al gran giurì dopo
aver sparato a Michael Brown a Ferguson,
nel Missouri, il poliziotto Darren Wilson ha
descritto il suo aggressore come un animale. “Aveva un’espressione intensa, aggressiva. L’unico modo in cui posso descriverlo è
che sembrava un demone”. Anche se Brown
era disarmato, Wilson l’ha dipinto come un
uomo dalla forza sovrumana ma emotivamente subumano. “Sembrava quasi che si
esaltasse andando incontro alle pallottole.
Dall’espressione che aveva sembrava che
mi attraversasse con lo sguardo, come se
non fossi neanche lì”.
Testimonianze come questa sono abbastanza comuni. Nel 2014 l’American psychology association ha pubblicato uno studio secondo cui gli statunitensi bianchi
danno in media quattro anni e mezzo in più
ai ragazzi neri che hanno più di dieci anni.
Inoltre, è emerso che gli intervistati bianchi
davano per scontato che i ragazzi neri fossero più spesso colpevoli dei bianchi o degli
ispanici, soprattutto di reati gravi. “Nella
maggior parte dei paesi i ragazzi sono considerati una categoria a parte, caratterizzata
dall’innocenza e dal bisogno di protezione”, scrive Phillip Atiba Goff dell’università
della California a Los Angeles. “Ma dalla
nostra ricerca è emerso che i giovani neri
sono considerati responsabili delle loro
azioni a un’età in cui per i loro coetanei
bianchi si dà ancora per scontato che siano
fondamentalmente innocenti”. Mio figlio è
alto per la sua età: queste sono le cose di cui
comincio a preoccuparmi.
Io e mia moglie non ci abbiamo messo
molto ad accorgerci che alcuni adulti bianchi si sentivano autorizzati a sgridare i
bambini neri, per strada o durante le gite
scolastiche, per trasgressioni irrilevanti o
inesistenti. L’estate scorsa, il pomeriggio
in cui sono tornato a casa dopo aver seguito i disordini di Ferguson, nel parco davanti a casa avevano organizzato un barbecue.
C’era anche la musica, così ho deciso di
portare i bambini. Nel parco c’è una specie
di fontana che spruzza getti d’acqua dal
terreno sui bambini che giocano nelle vasche tutto intorno. I più piccoli si spogliano, mentre i più grandi ci entrano vestiti.
Era una giornata torrida e mio figlio stava
giocando nell’acqua con tanti altri bambini. A un certo punto, mentre inseguiva uno
dei suoi amici, ha schizzato la gamba di
una donna, che lo ha rimproverato come se
l’avesse colpita con un mattone.
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L’opinione
Obama al contrattacco
Dana Milbank, The Washinton Post, Stati Uniti
Gli ultimi episodi di razzismo
hanno spinto il presidente ad
affrontare con più convinzione
la questione dei diritti dei neri
I
l 15 luglio Barack Obama è arrivato a
Oklahoma City e ha trovato uno
spettacolo indecente: davanti all’ingresso del suo albergo nel centro
della città una decina di manifestanti agitava le bandiere confederate dell’esercito
sudista durante la guerra civile, considerate un simbolo razzista. Riservare una simile accoglienza al primo presidente nero
del paese sarebbe stato disgustoso in qualunque circostanza, ma è stato ancora più
ripugnante per via di quello che era successo tre settimane prima a Charleston
(dove un suprematista bianco aveva ucciso nove afroamericani in una chiesa) e per
quello che sarebbe successo il giorno dopo: la visita di Obama a un carcere federale di El Reno, in Oklahoma.
In quell’occasione il presidente ha denunciato il cattivo funzionamento della
giustizia, per colpa del quale i penitenziari del paese sono pieni di delinquenti comuni che non sono violenti e che nella
grande maggioranza dei casi sono afroamericani. “I neri corrono più rischi di essere fermati, perquisiti, interrogati, accusati e arrestati”, ha detto in seguito alla
convention dell’Naacp, l’associazione nazionale per la promozione dei diritti dei
neri. “Corrono più rischi di finire in prigione e di scontare pene più lunghe per lo
stesso reato”. Dal momento che un nero
su trentacinque si trova dietro le sbarre
(per gli uomini bianchi il rapporto è di
uno su 214), “circa un bambino afroamericano su nove ha un genitore in carcere”.
Quello dell’Oklahoma è stato solo l’ultimo segnale degli scarsi progressi compiuti in quelli che sette anni fa, dopo l’elezione di Obama, erano stati ingenuamente definiti gli “Stati Uniti postrazziali”. A
maggio Obama ha aperto un account su
Twitter ed è stato accolto da un’ondata di
messaggi razzisti. Dopo la strage di Charleston, quando il South Carolina ha finalmente deciso di rimuovere la bandiera
confederata dallo spiazzo davanti al par-
lamento dello stato, al congresso i repubblicani hanno proposto un emendamento
per garantire il diritto di esporre la bandiera confederata nei parchi e nei cimiteri. Intanto la popolarità di Donald Trump,
il miliardario che si è candidato alle presidenziali del 2016 con il Partito repubblicano, continua ad aumentare dopo i suoi
attacchi contro gli immigrati di origine
ispanica.
Riforma necessaria
L’ondata interminabile di abusi commessi dalla polizia contro neri disarmati è
sconcertante. Ma quegli eventi hanno anche coinciso con un cambiamento nel
modo in cui Obama affronta la questione
razziale. Per gran parte del suo mandato
il presidente è stato timido sull’argomento. Oggi, come ha scritto Janell Ross sul
Washington Post, Obama sembra essere
diventato “più simile al presidente nero
che alcuni statunitensi bianchi di tutti gli
schieramenti politici temevano (o speravano) di avere”.
Mettere fine al razzismo non è compito di Obama, ma è rassicurante vedere il
presidente che affronta l’argomento con
lo stesso slancio di chi alimenta l’odio. Il
22 giugno, nel corso di un’intervista radiofonica, Obama ha detto che porre fine
al razzismo “non è solo questione di considerare sgarbata la parola nigger”. Qualche settimana dopo, alla Naacp, il presidente ha parlato del “retaggio di centinaia di anni di schiavitù e segregazione, e di
disparità strutturali che si sono accumulate di generazione in generazione”. La
riforma del sistema penale di cui ha parlato Obama è fondamentale per fare dei
passi avanti. Il progetto ha il sostegno dei
repubblicani, e questo rende più probabile la sua realizzazione alla fine del mandato presidenziale.
Nessuno pensa che questa legge possa
far sparire il razzismo. Ma come ha dichiarato Obama, “se continuiamo a fare
passi verso un’unione più perfetta e colmiamo il divario fra quello che siamo e
quello che vorremmo essere, gli Stati
Uniti andranno avanti”. È stata la risposta
perfetta a quelli che sventolavano la bandiera confederata. u fp
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Avevo visto tutta la scena e mi sono avvicinato di corsa. “Che problema c’è?”, ho
chiesto. “Guardi. Mi ha bagnata tutta”, ha
urlato lei.
L’ho guardata. Non era affatto bagnata.
“Siamo in un parco dove i bambini giocano con l’acqua, è una giornata calda, e lei
è vicina alla fontana”, le ho detto. “Si rassegni e smetta di sgridarlo”.
“Non mi dica quello che devo fare”, ha
abbaiato lei.
“Adesso sta sgridando me, la smetta”.
“Chi diavolo è lei?”, ha urlato.
“Sono suo padre, ecco chi sono”.
“Lei non è nessuno, ecco chi è”, ha strillato. “Nessuno”.
Uno dei primi articoli che ho scritto come corrispondente dagli Stati Uniti era sul
funerale di Mamie Till Mobley, la madre di
Emmett Till. Nell’estate del 1955 Mamie
aveva mandato il figlio di 14 anni nelle campagne del Mississippi per passare le vacanze estive con i parenti. Prima che partisse lo
aveva avvertito: “Se devi metterti in ginocchio e inchinarti quando passa un bianco”,
gli aveva detto, “non fare storie”. Ma Emmett non aveva seguito il suo consiglio.
Mentre era nella cittadina di Money, nella
regione del delta, aveva detto “ciao bella” o
forse aveva fischiato a una donna bianca in
un negozio di alimentari. Tre giorni dopo il
suo corpo era stato trovato nel fiume Tallahatchie con una pallottola nel cranio, senza
un occhio e con una ferita alla tempia.
Crescere un figlio nero in una società
razzista comporta una serie di problemi
molto particolari. Da una parte, vorremmo
che fosse orgoglioso di essere nero. Dall’altra, dobbiamo spiegargli che è più vulnerabile degli altri proprio per via del colore della sua pelle, perché la consapevolezza di
questa vulnerabilità può salvargli la vita.
Cerchiamo di crescere ragazzi sicuri di sé
che riescano a vivere a lungo, non dei bersagli mobili. Spiegare i complessi fattori storici e sociali che rendono necessaria questa
consapevolezza non è facile, ma farli capire
a un bambino è quasi impossibile senza
semplificare e prendere qualche scorciatoia. Una volta, durante la nostra passeggiata
di dieci minuti per andare a scuola, mio figlio mi ha chiesto se potevamo fare un’altra
strada. “Perché?”, ho chiesto. “Perché lì
fermano tutti i ragazzi neri”, ha detto.
Aveva ragione. Circa due volte alla settimana ci capitava di assistere a scene in cui
un giovane nero era perquisito o arrestato,
di solito mentre tornava a casa. Mio figlio
aveva solo quattro anni, e fino a quel momento non mi ero accorto che lo avesse notato. Ho cercato di rassicurarlo.
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“Non ti preoccupare. Sei con me, nessuno ci fermerà”, gli ho detto.
“Perché no?”, mi ha chiesto.
“Perché non abbiamo fatto niente”, ho
risposto. “E loro che cosa hanno fatto?”.
Aveva vinto lui. Da quel giorno abbiamo
cambiato strada.
Nel 2002 ho intervistato Maya Angelou,
poetessa, attrice e ballerina statunitense.
Secondo lei, gli attacchi dell’11 settembre
hanno avuto un significato diverso per gli
afroamericani. “Per molti bianchi vivere
nel terrore era una novità”, mi ha detto. “Ma
in questo paese i neri vivono nel terrore da
più di quattrocento anni”. Ed è proprio questo stato di terrore che è stato messo a nudo
negli ultimi anni. Ogni tanto l’opinione
pubblica e i mezzi d’informazione “scoprono” questa realtà quotidiana più o meno
come gli adolescenti scoprono il sesso: in
modo ansioso, vorace e distratto, con molta
autoindulgenza e pochissima consapevolezza di sé. Hanno sempre saputo che il razzismo esiste, ma quando se lo trovano di
fronte sono sempre colti di sorpresa.
Dopo la strage di Charleston, in South
Carolina, in alcuni stati del sud si è cominciato a discutere se lasciar sventolare la
bandiera dell’esercito confederato nei luoghi pubblici: c’è voluta la morte di nove
afroamericani per ricordare a tutti le connotazioni razziste di quella bandiera. È come se la secolare storia della discriminazione razziale sia troppo noiosa e scontata per
essere affrontata. Fino a quando non si mostra in modo drammatico, come dopo l’uragano Katrina o dopo le proteste di Ferguson.
A quel punto la noia si trasforma in indignazione. In un paese che si vanta di andare
sempre avanti, l’idea di dover “ancora parlare di questo” è un affronto al carattere na-
Da sapere
Redditi a confronto
Ricchezza mediana netta dei nuclei familiari
negli Stati Uniti, in migliaia di dollari
Bianchi
192.500
2007
2010
138.600
2013
141.900
Neri
2007
19.200
2010
16.600
2013
11.000
Fonte: Pew research center
zionale. È per questo che la candidatura di
Obama ha esercitato tanto fascino sugli
americani. Come mi ha detto nel 2007 Angela Davis, l’icona intellettuale del radicalismo degli anni settanta, la vittoria di Obama rappresentava “la differenza che non fa
nessuna differenza, il cambiamento che
non porta nessun cambiamento”.
L’ultima ondata di proteste antirazziste
sta durando più delle precedenti. Negli ultimi due anni la brutale banalità della vita
quotidiana di alcuni cittadini di questo paese è diventata più visibile agli occhi di quelli che non la conoscono direttamente. Ma in
realtà non è successo niente di nuovo. Non
c’è stato un aumento degli abusi della polizia. L’unica novità è che ora le persone li
vedono con i loro occhi. E grazie alle tecnologie (soprattutto alla possibilità di registrare video e pubblicarli facilmente in rete),
hanno molto da vedere. Di conseguenza,
una fetta significativa dell’America bianca
si indigna alla vista di quello che finora ha
preferito ignorare, mentre un’altra fetta,
che sta diminuendo ma resta consistente, si
rifiuta ancora di credere ai suoi occhi.
Nella chiesa battista di Stapleton, a Staten Island
Non svenire
Ho più cugini negli Stati Uniti che nel Regno
Unito. Stanno tutti benissimo. A un certo
punto ho pensato di trasferirmi definitivamente qui. E anche se ormai ho messo completamente da parte quell’idea, ancora oggi
non mi sembra una follia. Da quando sono
negli Stati Uniti, nessuno mi ha sparato, arrestato o messo in prigione, e lo stato non
mi ha mai creato nessun grave problema.
Non vivo nelle zone depresse dalla disperazione economica urbana, dove molti afroamericani sono stati abbandonati. Sono stato aggredito verbalmente in un parco, ho
cambiato strada per andare a scuola con
mio figlio e a volte ho avuto a che fare con
funzionari pubblici fanatici. Mentre attraversavo in macchina il Mississippi per indagare sulle conseguenze dell’uragano Katrina, per esempio, sono arrivato a un posto di
blocco che tutti gli altri giornalisti avevano
superato facilmente. Il poliziotto ha messo
mano alla pistola e mi ha rimandato indietro. Ma, nonostante queste seccature, la
mia vita non è mai stata in pericolo.
Io non sono Michael Brown. Ma neanche lui era Michael Brown prima che gli sparassero e lasciassero a terra il suo corpo per
quattro ore. Prima che un poliziotto di Staten Island lo afferrasse al collo fino a farlo
soffocare, Eric Garner era solo un uomo che
cercava di vendere sigarette per strada. Tamir Rice era solo un ragazzo vivace che vagava per un parco prima che un agente arri-
vasse con la sua volante e gli sparasse nel
giro di pochi secondi.
Essere uccisi dalla polizia, o da chiunque altro, non fa parte dell’esperienza quotidiana dei neri statunitensi. Ma come è
emerso dall’inchiesta del dipartimento di
giustizia sulla polizia di Ferguson, i neri sono presi di mira in modo sproporzionato.
Per esempio: tra il 2007 e il 2014 una donna
di Ferguson è stata arrestata due volte, ha
passato sei giorni in prigione e si è ritrovata
con un debito di 550 dollari, il tutto a causa
di una multa per divieto di sosta che all’inizio era di 151 dollari. Aveva chiesto di poterla pagare a rate, 25 o 50 dollari alla volta, ma
il giudice aveva respinto la richiesta. Sette
anni dopo l’infrazione, aveva ancora un debito di 541 dollari. Quello era il metodo che
il comune usava per fare cassa. Non era un
difetto del sistema, era il sistema in azione.
Poi c’è il caso del nero trascinato fuori di
casa dalla polizia perché qualcuno aveva
detto che all’interno era in corso una rissa.
Secondo le testimonianze, mentre lo portavano fuori l’uomo ha detto: “Non avete nessuna ragione per sbattermi dentro”.
L’agente ha risposto: “Un motivo lo trovo, negro”. “Buona fortuna”, ha replicato
l’uomo. L’agente gli ha sbattuto la faccia
contro il muro e lui è caduto a terra. “Non
svenire, figlio di puttana, non ho nessuna
intenzione di portarti in macchina in braccio”, ha urlato l’agente. È successo ad agosto del 2014, lo stesso mese in cui è stato
ucciso Michael Brown. Se non fosse stato
per i disordini scoppiati dopo la sua morte,
non ci sarebbe stata nessuna inchiesta. Non
avremmo mai saputo quello che era successo, e i poliziotti di Ferguson avrebbero continuato a commettere abusi nella totale
impunità. Ferguson è una cittadina del
Mid­west di cui quasi nessuno aveva mai
sentito parlare. Non aveva niente di speciale, ed è proprio per questo che quell’episodio era particolarmente importante. Se è
successo lì, potrebbe succedere in qualsiasi
altra città statunitense.
È estenuante. Quando i video che mostrano gli abusi della polizia diventano virali non riesco a guardarli a meno che non
debba scrivere un articolo. Non ho bisogno
di essere sconvolto, e comunque ormai
quei video sono così frequenti che hanno
smesso di essere sconvolgenti. Se non fosse per la felicità di vedere che le nuove generazioni non si lasciano scoraggiare e
stanno riportando in vita le lotte antirazziste del passato, sarei disperato. I litigi al
parco, i cambi di percorso per andare a
scuola, le seccature della vita quotidiana
sono solo le note più basse di un rullo di
tamburo sordo e continuo che ogni tanto
aumenta di volume e si trasforma in uno
scontro violento o perfino in una conflagrazione sociale. Con l’arrivo dell’estate, il
volume continua a salire. “Il terrore”, scrive l’antropologo Arjun Appadurai nel libro
Fear of small numbers , “è essenzialmente
terrore del prossimo attacco”. Il terrorismo
non ci spaventa solo perché può succedere
qualcosa, ma perché dobbiamo essere preparati all’idea che possa succedere qualcosa in qualsiasi momento. Negli Stati Uniti
ogni giorno sono uccisi in media sette
bambini o adolescenti. Ho appena finito di
scrivere un libro in cui ho preso un giorno a
caso e ho intervistato i familiari e gli amici
delle vittime. Nel giorno che avevo scelto
le vittime erano state dieci. Otto erano nere. Tutti i genitori neri mi hanno confessato che davano per scontato che potesse
succedere al loro figlio. Un padre disperato
mi ha detto: “Non saresti un buon padre se
non ci pensassi”. u bt
l’autore
Gary Younge è un giornalista britannico,
corrispondente del Guardian dagli Stati
Uniti tra il 2003 e il 2015. Sarà al Festival di
Internazionale a Ferrara dal 2 al 4 ottobre.
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