12 La Westerdals School of Communication è in

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12 La Westerdals School of Communication è in
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La Westerdals School of Communication è in ������������
Fredensborgveien, vicino a St. Hanshaugen. Come sempre quando si
trova in quella parte della città, pensa che qualcuno abbia
fatto un totale disastro nel piano urbanistico. A soli pochi
passi di distanza ci sono condomini degli anni Cinquanta
grigio asfalto e deliziose casette dai colori sgargianti. La salita di Damstredet gli ricorda le viuzze di Bergen, mentre
gli edifici sulla via che porta in centro lo fanno pensare alla
politica locale. C’è un brusio continuo e una perenne nube
di polvere e inquinamento nelle strade e nei pochi giardini
della zona.
Ma in quel preciso momento non gliene importa molto.
C’è una folla di studenti intorno al grande albero davanti
all’ingresso della scuola. Amici si stringono gli uni agli altri e
si abbracciano. Si piange. Si singhiozza. Henning si avvicina,
vede altri del suo ambiente che si trovano lì per i suoi stessi
motivi, ma li ignora. Sa come il tutto apparirà sui giornali
dell’indomani. Foto di quelli che piangono, molte foto, non
troppo testo. È il momento di crogiolarsi nella sofferenza, lasciare che i lettori prendano parte al dolore, all’elaborazione
del lutto, alle emozioni, facciano conoscenza della vittima e
dei suoi amici.
È un pacchetto standard che deve confezionare. Avrebbe
quasi potuto scrivere il pezzo prima ancora di venire qui, ma
è un po’ che non scrive, così decide di svuotarsi la testa per
pensare a qualche domanda che gli permetta di rendere il
pacchetto un po’ meno standard.
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Opta per un approccio morbido, osservare un po’ in silenzio prima di trovare qualcuno con cui venga spontaneo
parlare. Ha un ottimo naso per queste cose. Ma presto si
trova a nuotare in un fiume di lacrime, ed è travolto da un
sentimento che lo coglie di sorpresa:
È arrabbiato. È arrabbiato perché solo una minima parte
dei presenti sa che cosa sia il dolore vero, quanto faccia male
perdere qualcuno a cui si tiene, qualcuno che si ama, qualcuno per cui ci si butterebbe spontaneamente sotto un tram.
Vede che molti non soffrono normalmente, ma esagerano, si
atteggiano, contenti di aver occasione di mostrare che sono
sensibili. Nient’altro che plastica.
Cerca di scrollarsi di dosso la rabbia, tira fuori la macchina fotografica e scatta qualche foto, si avvicina, inquadra i
volti, gli occhi. Gli piacciono gli occhi. «Specchio dell’anima» e così via. Ma a lui piacciono perché è lì che si trova la
verità.
Fa un primo piano dell’altare che gli amici hanno costruito ai piedi del grande albero. Tre grossi tronchi vicini sono
cresciuti intrecciandosi e formando un broccolo gigante.
Rami e foglie traboccano. Le radici dell’albero sono recintate da pietre quadrangolari.
Un ritratto incorniciato di Henriette Hagerup è appoggiato a uno dei tronchi. È circondato di fiori, biglietti scritti a mano, saluti, lumini che tremolano al timido vento che
ha trovato la strada per Fredensborg, sue foto insieme ai
compagni di corso, ad amici, a una festa, su un set, dietro
una macchina da presa. È dolore. È dolore condensato, per
quanto finto. Una scena da manuale, non c’è dubbio.
Allontana la macchina fotografica dal viso pensando che
Henriette era una donna straordinariamente attraente. O
forse soltanto una bambina. C’era qualcosa di innocente
in lei, riccioli bianchi, non troppo lunghi, un largo sorriso
smagliante, pelle luminosa. Vede fascino. E vede qualcosa di
più importante, qualcosa di meglio. Intelligenza. Vede che
Henriette era una ragazza intelligente.
Chi può avercela avuta tanto con te?
Legge qualche biglietto che ha ricevuto:
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Non ti dimenticheremo mai, Henriette
Riposa in pace
Johanne, Turid e Susanne
Mi manchi, Henry
Mi manchi da morire
Tore
Ci sono tra i dieci e i venti biglietti o cartoncini sulla mancanza e il dolore, e i messaggi sono formulati più o meno
nello stesso modo. Li sta scorrendo distrattamente quando
gli vibra il cellulare nella tasca interna. Lo tira fuori, vede
che è un numero sconosciuto. Anche se è in servizio decide
di rispondere.
“Pronto?”
Si allontana un po’ dalla folla.
“Ciao Henning, sono Iver. Iver Gundersen.”
Prima ancora di avere il tempo di dire qualcosa, un’ondata di gelosia lo investe al diaframma. Mister Super Fottuta
Giacca di Velluto. Balbetta un “ciao”.
“Dove sei?” chiede Gundersen. Henning si schiarisce la
voce.
“Alla scuola della vittima.”
“Ok. Ti chiamo perché penso che tu debba saperlo: la
polizia ha già arrestato qualcuno.”
Per un istante riesce a dimenticare che sta parlando con
il nuovo amante della sua ex moglie. Di fatto sente di essere
curioso.
“Che rapidità. Chi è?”
“Secondo le mie fonti è il fidanzato della vittima. Non
ho ancora il nome. Ma forse riesci a saperlo da uno dei suoi
amici?”
Henning sente la sua voce, ma registra a malapena quello
che dice. Nel mare di biglietti, candele e occhi umidi, ha
visto un messaggio che si distingue un po’ dagli altri.
“Ci sei?”
“Eh, sì. I suoi amici. Ottimo.”
“Hanno fatto centro, da quanto ho capito.”
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“Hanno prove?”
“Penso di sì. Inizio a impostare un pezzo. E lo amplio a
mano a mano che ricevo nuove informazioni.”
“Ok.”
Gundersen riattacca. Henning rimette il cellulare nella
tasca interna senza spostare lo sguardo. I suoi occhi sono
ancora incollati al biglietto che ha visto. Alza di nuovo la
macchina fotografica e fa uno scatto, mette a fuoco il testo:
Continuerò il tuo lavoro
Ci rivediamo nell’eternità
Anette
Abbassa la macchina fotografica e la lascia ciondolare al collo. Legge il testo ancora una volta, prima di guardare gli studenti intorno a sé.
Dove sei, Anette? si chiede. E qual è il lavoro che intendi
continuare?
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