1. La nozione di rifiuto. [20] 41

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1. La nozione di rifiuto. [20] 41
LA NOZIONE DI RIFIUTO
1. La nozione di rifiuto. [20]
E’ evidente come l’individuazione della nozione di rifiuto sia di fondamentale importanza per l’individuazione delle sostanze che devono sottostare alle disposizioni in materia. Come accennato in precedenza, infatti,
molto spesso si riscontra, nella pratica applicazione di tali disposizioni, la
tendenza a simulare la sussistenza di condizioni tali da sottrarre dal novero dei rifiuti determinate sostanze, per gestirle, pur essendo a tutti gli effetti rifiuti, al di fuori di ogni controllo.
Secondo la definizione datane nell’art. 1831, lettera a) deve ritenersi La definizione
rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate di rifiuto
nell’Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore [21]
si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”.
Dalla lettura della definizione si ricava che l’elemento centrale della
definizione di rifiuto è contenuta nell’ultima parte, laddove viene fatto riferimento alla condotta del detentore ed al significato da attribuire al termine “disfarsi”.
L’individuazione del significato e della portata di tale azione ha determinato, nel tempo, un acceso dibattito giurisprudenziale e dottrinario mai
sopito e destinato, anche in futuro, a suscitare analogo interesse.
In estrema sintesi, la norma riproduce il contenuto della Dir. CEE
442/75 già presente nel “decreto Ronchi” e, ancor prima, nel d.p.r. 915/82,
anche se diversamente tradotta con conseguente divergenza di interpretazione nella pratica applicazione.
✒ Le incertezze nell’individuazione dell’ambito di operatività della definizione di rifiuto
hanno determinato, come è noto, il formarsi di due diversi approcci interpretativi, il primo
dei quali privilegiava il dato soggettivo, mentre il secondo valorizzava quello oggettivo.
Secondo la teoria soggettiva della nozione di rifiuto viene, in un certo senso, attribuita
preminenza alla volontà del detentore del rifiuto circa la sua destinazione, mentre la nozione oggettiva si fonda su una valutazione obiettiva della condotta del detentore o di un obbligo cui lo stesso comunque è tenuto.
In pratica, secondo la prima teoria è rifiuto ciò che non è più di nessuna utilità per il
detentore in base ad una sua personale scelta mentre, per la seconda, l’individuazione di una
sostanza come rifiuto prescinde dalla volontà del singolo, ricavandosi da dati obiettivi.
La nozione oggettiva di rifiuto, in linea peraltro con la giurisprudenza comunitaria e
nazionale, propende quindi per un concetto ampio di rifiuto, fondato su risultanze oggettive
e non sull’intenzione del detentore (Cass. Sez. III n. 31011 del 18 giugno 2002, Zatti).
Teoria soggettiva
e oggettiva
[22]
La questione relativa alla corretta individuazione della nozione di rifiu- Concetto
to è stata oggetto di nuove polemiche dopo la promulgazione del decreto- di «disfarsi»
legge 8 luglio 2002, n. 138, recante: “Interventi urgenti in materia tributa- [23]
ria, di privatizzazioni, di contenimento della spesa farmaceutica e per il
sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate” e convertito nella
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Legge 8 agosto 2002, n. 178, dove, nell’art. 14, si è ritenuto di fornire la
interpretazione autentica dei termini “si disfi”, “abbia deciso” o “abbia
l’obbligo di disfarsi” contenuti nella definizione di rifiuto del “decreto
Ronchi”.
Lo scopo, ancora una volta, era quello di restringere la nozione di rifiuto ed ha portato, come è noto, ad una decisione della Corte di Giustizia
che, nel decidere su una domanda di pronuncia pregiudiziale, chiariva
nuovamente i termini della questione (Corte di Giustizia Sez. II sent. 11
novembre 2004, Niselli in www.lexambiente.it).
✒ La pronuncia ha avuto, da parte degli interpreti, letture diverse che hanno dato luogo ad
un vivace dibattito, specie riguardo alla questione sulla immediata, diretta e prevalente applicazione o meno, nell’ordinamento nazionale, dei principi fissati dai regolamenti comunitari
e dalle sentenze della Corte europea di giustizia, con conseguente inapplicabilità delle disposizioni sulla “interpretazione autentica della nozione di rifiuto” che con queste si ponevano in contrasto. Per un approfondimento sul dibattito dottrinario e giurisprudenziale sul
punto visto da posizioni diverse si vedano i contributi di F. NOVARESE, La “nuova” disciplina
“emergenziale” dei rifiuti, in Riv. Giur. Amb. 3-4/2003 pag. 443; L. BUTTI, Diritto europeo e
normativa italiana di fronte al problema della “definizione di rifiuto”, ibid. n. 6/2003 pag.
996; PAONE, Residui, sottoprodotti e rifiuti: quale futuro?, in Ambiente Consulenza e pratica
per l’impresa n. 6/2005 pag. 553; VERGINE, Quel «pasticciaccio brutto» dei rottami ferrosi, in
Ambiente & Sviluppo n. 10/2005 pag. 854 (prima parte) ed ibid. n. 11/2005 pag. 959 (seconda parte).
Infine, la Corte di cassazione sollevava d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14 citato in precedenza per violazione degli
artt. 11 e 117 della Costituzione, indicando tale soluzione come unico rimedio possibile per risolvere il vulnus perpetrato da una legge nazionale
contro una direttiva comunitaria non direttamente applicabile. Ciò in quanto la disposizione citata, escludendo dalla categoria dei rifiuti i residui di
produzione o di consumo che siano semplicemente abbandonati dal produttore o dal detentore, ovvero che siano riutilizzati in qualsiasi ciclo produttivo o di consumo senza trattamento recuperatorio, si poneva in contrasto con la nozione comunitaria di rifiuto (Cass. Sez. III ord. n. 1414 del
16 gennaio 2006, Rubino).
✒ La suprema Corte, nel sollevare d’ufficio la questione di legittimità costituzionale dell’art.
14 del D.L. 8 luglio 2002, affermava in principio di diritto che il predetto art. 14 non è direttamente disapplicabile dal giudice nazionale, pur essendo incontestabile, perché riconosciuto da giurisprudenza e dottrina pressoché unanimi, che la norma modifica in senso
restrittivo la nozione di rifiuto di cui all’art. 6 D.L.vo 22/1997 ed è incompatibile con la
nozione di rifiuto stabilita dalla normativa comunitaria. (Cass. Sez. III ord. n. 1414 del 16
gennaio 2006, Rubino).
I risultati dell’ampio dibattito sviluppatosi sotto la vigenza delle disposizioni richiamate in precedenza e non più in vigore e, in particolar modo,
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il contenuto delle numerose pronunce della Corte di giustizia, possono
essere comunque utilizzati per individuare correttamente, secondo i principi fissati dalla normativa comunitaria, la nozione di rifiuto anche in relazione al concetto di sottoprodotto di cui alla lettera n) dell’art. 183 destinata a creare nuovi problemi interpretativi.
Ancora una volta il cardine della questione è data dalla corretta lettura
del termine “disfarsi” e dalla rilevanza che si attribuisce alle risultanze
oggettive ovvero alle intenzioni del detentore.
Ciò posto, pare opportuno richiamare l’attenzione sulle seguenti indi- Giurisprudenza
cazioni fornite dalla Corte di Giustizia in quanto tracciano un percorso comunitaria
interpretativo sufficientemente lineare anche con riferimento alla disciplina [24]
attualmente in vigore:
- vi è un obbligo di interpretare in maniera estensiva la nozione di
rifiuto, per limitare gli inconvenienti o i danni inerenti alla loro natura
(Corte Giustizia 11 novembre 2004, Niselli);
- il verbo «disfarsi» deve essere interpretato considerando le finalità
della normativa comunitaria e, segnatamente, la tutela della salute umana
e dell’ambiente contro gli effetti nocivi della raccolta, del trasporto, del trattamento, dell’ammasso e del deposito dei rifiuti; un elevato livello di tutela e l’applicazione dei principi di precauzione e di azione preventiva (Corte
Giustizia 18 aprile 2002, Palin Granit);
- il fatto che una sostanza o un oggetto siano suscettibili di riutilizzazione economica non esclude necessariamente la loro natura di rifiuto
(Corte Giustizia 28 marzo 1990, Vessoso ed altro);
- l’applicazione delle direttive in tema di rifiuti non può dipendere dall’intenzione del detentore di escludere o meno una riutilizzazione economica da parte di altre persone delle sostanze o degli oggetti di cui si disfa
(Corte Giustizia 28 marzo 1990 cit.);
- la nozione di rifiuto non esclude, in via di principio, alcun tipo di
residui, di prodotti di scarto e di altri materiali derivanti da processi industriali (Corte Giustizia 18 dicembre 1997, Wallonie);
- il mero fatto che una sostanza sia inserita, direttamente o indirettamente, in un processo di produzione industriale non la esclude dalla
nozione di rifiuto (Corte Giustizia 18 dicembre 1997, cit.).
✒ Una migliore comprensione dei criteri di individuazione del rifiuto è data da un noto
esempio che evidenzia l’esigenza di determinare la diretta utilizzabilità della cosa alla sua
originaria conformazione, in mancanza della quale si può ragionevolmente ritenere l’intenzione di disfarsene, come nel caso dell’autoveicolo guasto ma riparabile o usato da vendere a terzi, che può ancora essere utilizzato come autoveicolo e non è pertanto rifiuto, mentre lo è nel caso in cui si trovi in condizioni tali da non conservare più tale caratteristica
anche se i suoi componenti possono essere recuperati e rivenduti. In tal senso si veda G.
AMENDOLA, Rifiuto, disfarsi, recupero e smaltimento: problemi vecchi e nuovi del recente
decreto sui rifiuti, in Riv. giur. ambiente, 1998, 193 ss.. Ancor più chiaramente, si è osserva-
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to che i vecchi giornali o un mobile usato sono rifiuti se, non essendo più di nessuna utilità
per il detentore, vengono conferiti ad un servizio di raccolta o alienati a terzi, mentre non lo
sono se ceduti ad un antiquario o ad un collezionista che continueranno ad utilizzarli secondo la loro originaria destinazione (PAONE, Residui, sottoprodotti e rifiuti: quale futuro?, in
Ambiente Consulenza e pratica per l’impresa n. 6/2005 pag. 553).
Ciò che rileva, in definitiva, è una corretta individuazione del rifiuto
come tale, prescindendo da ogni valutazione di comodo finalizzata a qualificare diversamente sostanze o materiali che devono invece sottostare alle
norme sulla gestione dei rifiuti.
La nozione di rifiuto riportata nel D.L.vo 152/06, tratto dall’articolo 1
Dir. 75/442/CEE come modificato dalla Direttiva 91/156/CEE, è stata riprodotta nella citata Direttiva 2006/12/CE del 5 aprile 2006 anche se il testo
presenta ora l’espressione “(...) si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di
disfarsi” in luogo di “si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi”. Si
tratta, però, di una differente traduzione che non sembra possa produrre
alcun effetto nella pratica applicazione, tanto è vero che, nelle altre lingue,
il testo risulta invariato rispetto all’originale.
2. I “sottoprodotti”.
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Complementare alla nozione di rifiuto è quella di “sottoprodotto” conIl «sottoprodotto»
nella giurisprudenziale tenuta nella lettera n) dell’art. 183 e precedentemente non contemplata dal
comunitaria D.L.vo 22/1997.
[26]
Nella relazione illustrativa che accompagna le disposizioni in esame
viene specificato che la definizione di “sottoprodotto” è stata adottata in
conformità ad una serie di sentenze comunitarie che fanno riferimento a
tale categoria di residui.
Tra queste, una prima ed accurata analisi della nozione di sottoprodotto viene effettuata nella nota sentenza “Palin Granit” (Corte Giustizia 18
aprile 2002, Palin Granit cit.) e riportata in altre successive (ad esempio,
Corte Giustizia 11 novembre 2004, Niselli, cit.).
✒ Osserva a tale proposito la Corte ai punti 45-46-47 della citata “sentenza Niselli”: “può tuttavia ammettersi un’analisi secondo la quale un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente destinato a
produrlo può costituire non un residuo, bensì un sottoprodotto, del quale l’impresa non ha
intenzione di «disfarsi», ai sensi dell’art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, ma
che essa intende sfruttare o commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo
successivo, senza operare trasformazioni preliminari. Un’analisi del genere non contrasta infatti con le finalità della direttiva 75/442 in quanto non vi è alcuna giustificazione per assoggettare alle disposizioni di quest’ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti (v. sentenza Palin Granit, cit., punti 34 e 35).
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