La filosofia di Cavalcanti

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La filosofia di Cavalcanti
La filosofia di Cavalcanti
La fama o, meglio, l’habitus di filosofo Cavalcanti lo deve essenzialmente ad una sua
poesia: la canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la metrica che per i
contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di “amore” con gli strumenti della
filosofia naturale (“natural dimostramento”), conducendo un’analisi razionale volta a
spiegarne la natura e le cause.
Una prima importante informazione circa l’essere dell’amore Cavalcanti ce l’ha già
fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un accidente e
che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione, tuttavia, ha un significato
tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia di Aristotele. Occorre, pertanto, fare
una premessa. La sostanza, secondo il grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria,
ciò che cioè esiste autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di
essa; in altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una
caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza, mentre
l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido, paonazzo, ecc…) sono gli
accidenti. Tornando dunque a Cavalcanti, egli afferma che l’amore non è una sostanza
poiché non possiede un’esistenza autonoma come, ad esempio, gli uomini (l’amore,
infatti, non ha né corpo né figura); esso esiste piuttosto come qualità della sostanza,
ovvero come sentimento (qualità) dell’uomo (sostanza).
Innanzitutto, Cavalcanti ci dice che l’amore si insedia nella memoria. Anche qui, però,
occorre richiamare per sommi capi la psicologia di Aristotele, poiché essa è
indispensabile per intendere i versi del poeta. Nel De anima, Aristotele definisce l’anima
forma del corpo; egli, tuttavia, per forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa,
ma la sua natura propria, la struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima,
dunque, vivifica e dà al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo
Aristotele, pur essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in
tre parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima riguarda le
funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la riproduzione) degli esseri
viventi a cominciare dalle piante; la seconda, invece, comprende i sensi e il movimento
ed è propria solamente degli animali e dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero,
le funzioni intellettuali, ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi,
anche per Cavalcanti, appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o
estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo permette
all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette anche di avere di
questi ultimi delle immagini.
La passione amorosa, dunque, è creata da una sensazione: il diletto per la vista della
donna fa si che l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà
ad una operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto,
appartengono sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta, tuttavia, ci
dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche nell’intelletto possibile. Che
cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare brevemente alla psicologia aristotelica.
Abbiamo visto che l’anima, a seconda delle sue funzioni, può essere vegetativa,
sensitiva e intellettiva. L’ultima delle tre riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali
proprie dell’uomo. Secondo Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e
che l’immagine di esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto.
In che modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile, riceve
l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di un’altra componente
della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per fare un esempio, si potrebbero
paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno ancora intonso e l’intelletto agente
all’azione dello scrivere.
Dunque, mentre i sensi producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto
agente imprime nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine.
Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso la vista
della donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto questo avviene
nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un concetto astratto e
disincarnato.
L’amore non è una virtù morale (queste, infatti, sono un prodotto della ragione,
dell’anima intellettiva), ma è una virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva.
Cavalcanti ci dice che non l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione
dell’uomo, poiché essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta,
infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo arabo Averroè,
ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno separato dagli uomini, con
il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva di ciascun essere umano entrano in
contatto ogni qual volta si sviluppa il pensiero. In altre parole, egli, affermando
l’esistenza di un intelletto unico ed eterno, separa l’anima intellettiva, unica ed eterna,
dalle anime sensitive concrete e mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia
che Cavalcanti mutua da Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso.
La passione amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna
amata, ormai insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto
prevalere dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire, però, che
l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti, le facoltà
intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre, il poeta, seguendo
Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è separata dalle anime sensitive
degli uomini.
Quello che Cavalcanti intende, dunque, è questo: la passione amorosa, “se forte”,
impedisce all’uomo, dominato totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire
un contatto con l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla
dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più distinguere il
bene dal male (“discerne male”).
Ciononostante, Cavalcanti ci dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non
perché oppost’a naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione
amorosa sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi
sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione
apparentemente contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare
Aristotele. Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è felice quando
realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà felice quando realizzerà
oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non potrà certo essere quello di
assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà piuttosto vivere secondo
ragione; pertanto, secondo il filosofo greco, la felicità per l’uomo consiste nell’attività
razionale, nella vita secondo ragione. Cavalcanti, dunque, seguendo Aristotele, ci dice
che l’amore è deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo
di vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima sensitiva è una
non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa, l’amore che riesce ad essere
temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla vita razionale, è espressione di un
naturale bisogno della nostra sensualità.