Apocrifi cristiani antichi

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Apocrifi cristiani antichi
Apocrifi cristiani antichi
Già pubblicato in M. SODI - A. M. TRIACCA (a cura di), Dizionario di omiletica, LDC, Leumann, 1998.
Nel secolo II certi scritti diffusi nei circoli gnostici cristiani si presentavano come apókryphoi, letteralmente
"nascosti", cioè segreti, celati al pubblico, riservati agli iniziati capaci d'intenderne la dottrina: è il caso dell'
Apocrifo di Giovanni, trasmesso in traduzione copta; e la Lettera di Giacomo, ritrovata a Nag Hammadi, allude
a due precedenti scritti contenenti rivelazioni ricevute da Giacomo, come ad "apocrifi".
Clemente di Alessandria menziona gnostici, seguaci di Prodico, che si richiamano a bybloi apókryphoi di
Zoroastro (Stromati 1,15,69,6). Il termine era inteso positivamente.
Quando nel corso del sec. II si precisò l'opposizione dottrinale tra gli gnostici e quella che si veniva costituendo
come "grande Chiesa", si pose anche il problema degli scritti che trasmettevano l'autentica tradizione di e su
Gesù e la genuina predicazione apostolica. Circolavano infatti diverse raccolte di detti e fatti di Gesù, come
pure numerosi scritti sotto il nome di apostoli o di loro discepoli, e gruppi gnostici si richiamavano a tradizioni
trasmesse segretamente a partire da questo o quell'apostolo. Contro di loro si fece valere la tradizione pubblica,
portata dalla successione episcopale nelle diverse Chiese, e si definì progressivamente un consenso intorno a
una raccolta di libri cristiani ammessi come autentici e ispirati. Le tradizioni e gli scritti segreti portati dai
gruppi le cui dottrine venivano respinte come eterodosse furono anch'essi rifiutati, e "apocrifo" divenne
sinonimo di falso. Così, secondo Ireneo di Lione, gli gnostici "insinuano una massa indescrivibile di scritti
apocrifi e spuri, forgiati da loro stessi" (Contro le eresie 1,20,1); l'autore romano della Confutazione di tutte le
eresie attribuita a Ippolito attacca la pretesa di Basilide di possedere discorsi apocrifi (lógous apokryphous) che
l'apostolo Mattia avrebbe ricevuto dal Signore (7,20). Questi due casi mostrano chiaramente l'attribuzione
ecclesiastica di una connotazione negativa al termine "apocrifo" usato dagli avversari stessi in senso positivo.
Tertulliano accoppia come equivalenti i concetti di apocrifo e falso (De pudicitia, 10,12). Origene può però
applicare il termine di apocrifi a scritti giudaici non canonici, senza con ciò condannarli (Lettera a Giulio
Africano, 9; Comm. a Mt 10,18; ecc. ), e afferma che non tutto ciò che si trova negli apocrifi è da respingere
(Comm. a Mt 23,27-28 = Commentariorum series 28). Origene (citato da Eusebio di Cesarea, St. eccl., 6,25)
distingue gli scritti cristiani ammessi da tutti (homologoúmena), quelli unanimemente rifiutati (pseudé) e quelli
discussi (amphiballómena); ma non parla in tale contesto di apocrifi, né lo fa Eusebio, che da lui riprende la
tripartizione (St. eccl., 3,25).
Viceversa, stabilendo nella sua Lettera festale 39, del 367, il canone degli scritti biblici, Atanasio di
Alessandria bolla gli apocrifi come invenzione di eretici, composti tardivamente e spacciati per antichi. Il
consolidamento dei canone in Occidente e in Oriente condusse alla definitiva svalutazione dei termine
"apocrifo" e alla sua associazione con "eretico", attestata intorno al 400 da Agostino (Contro Fausto, 11,2) e
Girolamo (apocryphorum deliramenta: Commentario a Isaia 17, su Is 64,4).
Questa accezione negativa si protrasse nelle liste di libri canonici e non canonici tramandateci da vari
manoscritti. Così il cosiddetto Decreto Gelasiano termina con una lista (non riconducibile al papa Gelasio I
[492-496], ma composta da un privato nella Gallia meridionale, all'inizio del sec. VI) di libri bollati come
apocrifi, e descritti come composti da eretici e scismatici, rifiutati dalla Chiesa cattolica e da evitarsi dai fedeli.
La recensione lunga della Cronografia di Niceforo patriarca di Costantinopoli (806-815) contiene un catalogo
(detto Sticometria perché indica la lunghezza di ciascun testo in linee; risale probabilmente al sec. IX) di scritti
dell'AT e del NT, seguiti da cataloghi separati, rispettivamente di scritti contestati (antilegómena) e "apocrifi",
separatamente per ciascun Testamento. Il Catalogo dei 60 libri, probabilmente dei sec. VII, enumera, dopo i 60
canonici, quelli "non inclusi" (i deuterocanonici dell'AT) e gli "apocrifi" (giudaici e cristiani di seguito). In tutti
questi casi il criterio determinante è il grado di riconoscimento ecclesiastico, e non la forma letteraria o altro:
così appaiono ripetutaniente, tra gli apocrifi, la Didaché, le Costituzioni apostoliche, e nel Decreto Gelasiano
una lunga lista di autori (Tertulliano, Lattanzio, Clemente Alessandrino...) le cui opere sono indistintamente
dichiarate apocrife. Questa accezione del termine è sicuramente troppo ampia e non è seguita in epoca moderna,
benché raccolte di apocrifi cristiani fino alla prima edizione di Hennecke (1904) abbiano incluso i "Padri
Apostolici", parte dei quali rimase per un certo tempo ai margini del canone.
Di fatto, la storia del termine non è determinante per l'accezione scientifica moderna di esso.
Definire gli apocrifi
Ma già il Codex apocryphus Novi Testamenti di J.-C. Thilo (vol. I, unico pubblicato, Leipzig 1832)
riorganizzava, e costringeva, la materia nell'ambito dei generi letterari del NT: vangeli, atti, lettere e apocalissi.
La tendenza alla rigorosa delimitazione del campo in riferimento alla struttura del NT, nonché
all'individuazione di una forma testuale ben definita per ciascuna opera, si precisò attraverso le due prime
edizioni della raccolta Neutestamentliche Apokryphen diretta da E. Hennecke (1904 e 1924) e soprattutto - e
consapevolmente - nella terza (2 voll., 1959-1964), pubblicata a cura di W. Schneemelcher. Questi definiva gli
apocrifi come "scritti non accolti nel canone, ma che, mediante il titolo o altri enunciati, avanzano la pretesa di
possedere un valore equivalente agli scritti dei canone, e che dal punto di vista della storia delle forme
prolungano e sviluppano i generi creati e accolti nel Nuovo Testamento, non senza peraltro la penetrazione
anche di elementi estranei" (I, 6). Questa definizione - ripresa nelle raccolte italiane di L. Moraldi e M. Erbetta è stata criticata da E. Junod per lo stretto legame da essa istituito tra apocrifi e canone, che limita tra l'altro
eccessivamente l'arco cronologico di produzione degli apocrifi (secc. I-Ill); Junod propone anche di sostituire
alla designazione "apocrifi dei Nuovo Testamento" quella di "apocrifi cristiani antichi". Nella quinta edizione
della raccolta (v. 1, 1987,21989, 50-52), W. Schneemelcher recepisce solo in parte le istanze di Junod, e difende
la designazione "apocrifi del Nuovo Testamento", proponendo una definizione più flessibile e più ampia,
nuovamente criticata da Junod nel 1992.
- il richiamo a figure o eventi delle origini (in primo luogo delle origini cristiane), come "sviluppo diversificato
delle tradizioni memoriali relative alle origini, indipendentemente da qualunque idea di una collezione
normativa in via di formazione" (p. 404);
- una trasmissione del testo disordinata, a seguito di un'assenza di autorità (viceversa, l'autorità canonica ha
fissato e protetto il testo degli scritti neotestamentari), attraverso traduzioni, abbreviazioni, ampliamenti,
rifacimenti e così via; di qui i problemi posti da un'edizione critica di tali testi;
- l'impossibilità di raggruppare questi testi, anonimi, per epoca, luogo, teologia o ideologia, genere letterario.
La posizione di Junod è, nella sostanza, quella adottata dall'Association pour l'étude de la littérature apocryphe
chrétienne, costituitasi per produrre nuove edizioni critiche degli apocrifi cristiani antichi (cf Bibliografia, 3).
Dall'interno della stessa Associazione vengono anche proposte più radicali, come quella di W. Rordorf che
suggerisce di sostituire "apocrifi" con "letteratura cristiana extra-biblica anonima o pseudepigrafa" (il termine
"extra-biblica" implica che si tratta di testi connessi con personaggi della tradizione biblica: ciò è chiaro dal
contesto di Rordorf, ma non ci sembra tale nella definizione).
Noi ci situiamo su posizioni analoghe a quelle di Junod, sottolineando i punti seguenti.
- La costituzione di un corpus di scritti apocrifi è un'iniziativa artificiale e tardiva, che nulla ha a che fare con le
intenzioni di ciascun testo, e non rende giustizia alle loro particolarità; più ingannevole ancora è lo sforzo di
circoscrivere rigorosamente il corpus. In effetti, raccolte che pur hanno adottato la definizione di
Schneemelcher, come quelle italiane di L. Moraldi e soprattutto di M. Erbetta, hanno di fatto, e giustamente,
"riaperto" il corpus, dilatandolo di molto rispetto a Schneemelcher.
- Di conseguenza, lo studio serio di un apocrifo non si fa confrontandolo in primo luogo con gli altri apocrifi,
ma con gli altri scritti antichi, cristiani ma anche non cristiani, che possono contribuire a illuminarne la
situazione storica e le idee, e da esso a loro volta essere illuminati, siano essi "canonici", "patristici", "apocrifi",
"eretici"; se possibile, si devono individuare le relazioni intertestuali, favorite nel nostro caso dalla già
menzionata tendenza a riscrivere e attualizzare senza posa gli apocrifi (si pensi solo alla letteratura sull'infanzia
di Maria e su quella di Gesù). Raccolte di apocrifi in traduzione, come quelle già menzionate, possono essere di
utilità pratica, ma non devono far dimenticare questo fatto fondamentale.
- Proprio a causa delle trasformazioni or ora menzionate, è spesso difficile "fissare" la forma testuale di un
apocrifo, come può farsi attraverso l'esame della tradizione manoscritta, per esempio, di un testo classico o
neotestamentario. Nella trasmissione di un apocrifo (che avviene di regola in una molteplicità di lingue) non
intervengono solo errori o leggere modifiche di copisti, ma consapevoli e complesse operazioni di
ipertestualità, al punto che in certi casi la nozione di testo deve lasciare posto a quella di un complesso testuale
irriducibile a unità: tipico il caso dei cosiddetti Atti di Pilato, in realtà vera e propria letteratura, distribuita su
più secoli, sulla passione di Gesù e sua discesa agli inferi.
- La dizione "apocrifi del Nuovo Testamento" (lo stesso vale per l'AT) è da abbandonare, in quanto veicola
un'idea del rapporto tra tali scritti e il canone biblico non solo scorretta per le ragioni già accennate, ma anche
inadeguata per statuire sulla pertinenza dei singoli testi al gruppo. Esempio: l'Ascensione di Isaia è senza
dubbio uno scritto cristiano, ma ha il genere letterario dei libri veterotestamentari:, non v'è da stupirsi se la si
trova inclusa nelle raccolte di apocrifi sia dell'AT, sia del NT, mentre la sua definizione come apocrifo cristiano
antico non lascia spazio ad ambiguità. La designazione di apocrifi cristiani antichi è da preferire, in quanto
legata all'origine del testo. Uno scritto può peraltro anche costituire la cristianizzazione, più o meno
superficiale, di un altro non cristiano: ciò è comunemente ammesso, p.e., per i Testamenti dei dodici patriarchi,
inclusi tra gli apocrifi cristiani fino al secolo scorso, in seguito invece tradotti nelle raccolte di "apocrifi
dell'Antico Testamento".
- Costitutivo per la classificazione di un testo come apocrifo ci sembra il suo riferimento a un momento
fondamentale del cristianesimo, cioè ai detti e ai fatti di Gesù e dei suoi apostoli e discepoli (ma anche di
personaggi biblici precristiani, in quanto vengano collegati con il cristianesimo: è il caso dell' Ascensione di
Isaia, dove il protagonista è valorizzato come profeta di Cristo); il fatto che una parte degli scritti così
caratterizzati sia divenuta canonica, acquisendo in tal modo una funzione assolutamente centrale nella storia e
nella coscienza di tutto il cristianesimo successivo, ha prodotto la specie di "illusione ottica" che comprende gli
apocrifi in primo luogo come prodotti secondari e inautentici rispetto ai testi canonici. Va tuttavia riconosciuto
che anche questo criterio ha i suoi limiti, e soprattutto s'interseca con altri in maniera non sempre coerente. Si
separano, p.e., testi affini per genere letterario: il Martirio di Pietro è apocrifo, quello di Policarpo no; le lettere
non canoniche di Paolo sono apocrife, quelle di Ignazio di Antiochia no (ma, come si è detto, erano incluse in
vecchie raccolte di apocrifi); oppure testi relativi al medesimo personaggio: gli Atti di Barnaba vengono inclusi
tra gli apocrifi, la Lettera di Barnaba in genere no (ma non sempre); in questo caso come nel precedente,
influisce probabilmente anche l'inclusione già tradizionale in altri corpora (qui i "Padri apostolici").
Non si dovranno dunque attribuire all'insieme degli apocrifi confini troppo rigidi: I'apocrificità è in parte
fenomeno di ricezione, in quanto tale legato alla sensibilità e alle problematiche di chi, nel tempo, ha preso in
considerazione questo materiale. Al riguardo, si dovrebbe probabilmente tener conto di un criterio elaborato
dalla teoria letteraria, e in genere non preso in considerazione nel nostro ambito: quello dei "contratto" implicito
tra emittente e ricevente del testo. Esso permette, per esempio, di distinguere Quo Vadis? (che pure s'ispira
precisamente a un testo apocrifo) sia da un antico apocrifo cristiano, sia da uno moderno: l'accoglienza che
l'autore chiede al lettore di fare al testo, e che il lettore accetta di fare, non è la stessa nei due casi; il romanzo è
proposto e accolto come finzione, mentre non a caso gli scritti che si sogliono designare come apocrifi moderni
sono falsi che tentano di farsi passare per documenti storici autentici. Anche il criterio dell'anonimato o della
pseudonimia, naturalmente, distingue Quo Vadis? da un apocrifo; ma tale criterio andrebbe appunto ricompreso
nella sfera dei "contratto".
Alcuni apocrifi di particolare importanza
Non è qui possibile neanche menzionare un gran numero di apocrifi; ci limitiamo a qualche cenno sui più
antichi e su quelli che hanno esercitato maggiore influenza, rinviando per i testi e le introduzioni alle raccolte di
traduzioni menzionate in Bibliografia.
Tradizione su Gesù e Maria.
Come si è accennato, gli apocrifi stanno stretti nei generi letterari del NT; è il caso di quelli classificati come
vangeli.
-Varie forme di vangeli e raccolte di detti. Così il Vangelo di Tommaso ritrovato in traduzione copta tra i testi
della biblioteca gnostica di Nag Hammadi (qualche frammento in greco, lingua originale, resta su papiri) reca, è
vero, questo titolo, ma non assomiglia affatto al modello dei Vangeli canonici: si tratta di una raccolta di 111
detti di Gesù, inquadrati talora in una tenue cornice narrativa. È "vangelo" solo in quanto il messaggio in essi
contenuto si propone come via di salvezza: quest'ultima può venire raggiunta mediante il distacco radicale dal
mondo e il ripiegamento nella propria interiorità, per conoscere se stessi come figli del Padre vivente. Molte
sentenze hanno paralleli nella tradizione canonica (alcune in parole di Gesù trasmesse al di fuori di questa); si
continua a discutere se lo scritto dipenda dai Vangeli canonici oppure rappresenti una tradizione parallela dei
detti di Gesù (questa seconda ipotesi appare non improbabile). Lo scritto proviene verosimilmente dalla Siria
orientale e può risalire alla metà del sec. II. Pure a Nag Hammadi si è ritrovato il Vangelo secondo Filippo
(forse della seconda metà del sec. III): esso contiene 17 detti di Gesù e alcune storie su di lui, in parte risalenti
al sec. II, ma nell'insieme appare come una raccolta di estratti di una catechesi sacramentale degli gnostici
valentiniani.
Parole isolate di Gesù (i cosiddetti àgrapha) sono trasmesse al di fuori dei vangeli, in scritti cristiani antichi (e
altre gliene sono attribuite nel Talmud e soprattutto nella tradizione islamica).
Analoghi per forma ai Vangeli canonici sono invece i vangeli in uso presso comunità giudeocristiane, di cui
diversi autori antichi hanno trasmesso frammenti, con attribuzione spesso confusa. Gli studiosi distinguono:
Vangelo dei Nazareni, probabilmente una versione aramaica del vangelo greco di Matteo; Vangelo degli
Ebioniti (sec. II) che insiste sull'umanità di Gesù, respinge la nascita dalla vergine, attribuisce a Gesù rifiuto del
culto sacrificale e vegetarianismo; Vangelo degli Ebrei, composto in greco prima del 180, probabilmente
indipendente dai nostri Vangeli canonici (a differenza dei due precedenti), fortemente legato all'autorità di
Giacomo, fratello del Signore. Del Vangelo degli Egiziani (sec. II) resta qualche frammento, che rivela uno
spiccato encratismo (rifiuto del matrimonio e della generazione).
Numerosi papiri trovati in Egitto (in particolare a Ossirinco) hanno restituito frammenti di scritti, per lo più non
identificabili, contenenti parole e atti di Gesù, in parte in comune coti i testi canonici, in parte estranei a questi;
il più celebre è il papiro Egerton 2, del sec. II, dove Gesù appare impegnato in dialoghi polemici e in un
miracolo (la dipendenza dai Vangeli canonici è discussa). Un frammento narrativo di un Vangelo segreto di
Marco, contenente l'iniziazione sessuale di un giovinetto da parte di Gesù come iniziazione al mistero del
Regno di Dio, è citato in una pagina di Clemente di Alessandria scoperta e pubblicata nel 1973 da M. Smith, la
cui autenticità è però in discussione.
- Passione e risurrezione. Si limitava forse alla passione e risurrezione di Gesù il Vangelo di Pietro, composto
probabilmente in Siria occidentale verso il 150 e di cui si possiede un largo frammento (dalla lavatura delle
mani di Pilato all'inizio della prima apparizione del Risorto in Galilea). Esso è caratterizzato da un ampio uso
implicito dell'AT, dalla tendenza a rigettare sui giudei la responsabilità della morte di Gesù, e da una
descrizione della risurrezione come uscita gloriosa di Gesù dal sepolcro, sorretto da due angeli. Lo scritto
presuppone certo tradizioni anteriori alla redazione dei Vangeli canonici. Anche questo vangelo non
corrisponde dunque precisamente alla struttura di quelli canonizzati.
L'attenzione si accentrò sulla passione anche nei testi composti a partire dal sec. IV, che si suole raggruppare
nel ciclo degli Atti di Pilato o "vangelo di Nicodemo". Narrano il processo a Gesù sotto forma di atti ufficiali,
trasmessi da membri del Sinedrio; in alcune delle versioni vi si aggiunge un dettagliato resoconto della discesa
di Gesù agli inferi, con vittoria sulla morte e su Satana e liberazione dei giusti defunti tenuti prigionieri da
quelli. Tradotti e riscritti in numerose lingue, attraverso versioni latine e nelle lingue volgari (tedesco, francese,
inglese, irlandese...) questi testi esercitarono una vasta influenza attraverso la tarda antichità e il Medio Evo,
con le loro vivide descrizioni dell'inferno e la loro plastica rappresentazione del mistero della redenzione.
Pure alle circostanze della passione, della discesa agli inferi e della risurrezione si riferiscono le Questioni di
Bartolomeo, il Libro della Resurrezione dell'apostolo Bartolomeo e il Vangelo di Ganialiele, difficilmente
databili (nello stato attuale, non anteriori al sec. V).
- Nascita e infanzia di Maria e di Gesù. L'attenzione si polarizzò pure sull'altra estremità della vita di Gesù. Già
nel sec. I si raccolsero pretese profezie bibliche della nascita dalla Vergine e si svilupparono, presso Matteo e
Luca, i primi racconti; fu poi probabilmente la polemica con i giudei (che rovesciavano in accusa di nascita
illegittima l'annunzio cristiano della nascita di Gesù da una vergine) a ispirare la Natività di Maria (metà del
sec. II), più nota come Protovangelo di Giacomo dal titolo assegnatole nella prima edizione a stampa (1552).
Narrava la nascita di Maria dalla coppia già anziana di Gioacchino e Anna, la sua infanzia trascorsa nel Tempio
dall'età di tre anni alla pubertà, il suo affidamento all'anziano vedovo Giuseppe perché ne proteggesse la
verginità; il concepimento miracoloso, la visita a Elisabetta, il viaggio da Nazaret a Betlemme, la nascita di
Gesù in una grotta mentre Giuseppe era andato a cercare una levatrice, la quale, giunta a cose fatte, non può che
constatare il prodigio del parto verginale; l'adorazione dei magi, la strage degli innocenti e la partenza per
l'Egitto. Il libro si presenta come scritto dal "fratello di Gesù" Giacomo, figlio del primo matrimonio di
Giuseppe e testimone oculare degli eventi. L'opera, imperniata più su Maria che su Gesù, ha l'evidente scopo di
documentare (richiamandosi ogni volta a testimonianze di giudei: i sacerdoti del Tempio, la levatrice) la
costante purezza di Maria.
Diversa l'intenzione che guida un altro scritto di grande fortuna, i Racconti dell'infanzia del Signore (Tà paidikà
toil Kvríou), serie di aneddoti sull'infanzia di Gesù tra i cinque e i dodici anni, spesso menzionata come
Vangelo dell'infanzia di Tommaso dal nome del sedicente autore, che compare però solo in recensioni tardive.
Il silenzio dei Vangeli canonici sull'infanzia di Gesù stimolava la curiosità su di essa, e si tendeva a riempirla
con manifestazioni anticipate del suo potere divino: l'opera raccoglie una serie di narrazioni, almeno in parte già
circolanti isolatamente, e rimaste poi nella fantasia popolare (Gesù che fa volare, battendo le mani, i passeri di
fango; che fa morire sul colpo un bambino che lo aveva urtato; che resuscita un compagno caduto dal tetto; che
confonde il maestro di scuola...). Il carattere stesso dell'opera favoriva le aggiunte e le modifiche, e in effetti se
ne possiede una straordinaria quantità di redazioni diverse, in varie lingue; l'originale può rimontare al sec. Il.
Le due ultime opere menzionate furono poi sommate e rielaborate per creare storie, sempre più ricche di
elementi straordinari, delle circostanze comprese tra il concepimento di Maria e l'episodio di Gesù nel Tempio
con i dottori (Lc 2,41-51): sono di tal genere il Vangelo dello Pseudo Matteo (in latino; prima del sec. IX) e il
De nativitate Mariae (sec. IX, in latino; abbreviazione della I parte del precedente). Questi due scritti
trasmisero al Medio Evo latino il ciclo di racconti sulla nascita e l'infanzia di Maria e di Gesù, così presenti
nell'arte figurativa.
Altri sviluppi successivi, più o meno ampliati, sono il Vangelo arabo dell'infanzia; il Vangelo armeno
dell'infanzia; la Storia di Giuseppe il falegname (versioni in copto e in arabo); e altre riscritture medievali in
latino e in lingue volgari d'Occidente.
- Assunzione di Maria. La narrazione apocrifa regna incontrastata nel campo della dormizione e dell'assunzione
di Maria, su cui tacciono gli scritti canonizzati. La vasta letteratura antica sul tema (una sessantina di opere in
otto lingue) è legata allo sviluppo della festa relativa e della sua liturgia e comprende un gran numero di omelie.
Tra i testi più antichi si situa il Libro della dormizione dello Pseudo Giovanni (sec. V o VI, in greco), che narra
la riunione degli apostoli dai loro luoghi di missione presso Maria, gli attacchi dei Giudei, la morte di Maria
con i miracoli connessi e il trasferimento del suo corpo in paradiso da parte degli angeli. Di una redazione latina
dello Pseudo-Giovanni restano frammenti.
Pure in latino, in due recensioni diverse, è il Transito (B) dello PseudoMelitone di Sardi (sec. V-VI), che
sviluppa ulteriormente il motivo dell'assunzione in cielo; è esso probabilmente a influire sulla trasformazione, a
Roma, della festa della Dormizione in festa dell'Assunzione (fine sec. VIII), ed è esso che ispira il racconto
influentissimo della Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (sec. XIII).
Importante è il panegirico sulla dormizione scritto da Giovanni arcivescovo di Tessalonica verso il 630. La
ricezione in Occidente di quest'ultimo scritto e dello Pseudo-Giovanni passa attraverso il tardivo Transito dello
Pseudo-Giuseppe di Arimatea, in latino. Numerose dormizioni e omelie sullo stesso argomento sono trasmesse
in siriaco, in copto, in arabo, in etiopico (tra cui particolarmente sviluppato il Libro del riposo, che aggiunge
visite di Maria e degli apostoli all'inferno e in paradiso), in georgiano e in armeno.
- Dialoghi del Risorto. Come ricordato sopra, il richiamo alla tradizione segreta di cui sarebbe stato primo
portatore uno degli apostoli svolse una funzione presso vari gruppi delle origini cristiane, in particolare
gnostici. Dal punto di vista letterario, esso generò tuttavia soprattutto scritti da ricollegarsi al tipo "evangelico"
e/o apocalittico, in particolare dialoghi di rivelazione tra il Risorto e i discepoli. In ambiente gnostico, sono da
annoverare tra questi l'Apocrifo di Giacomo (sec. Il?), le due Apocalissi di Giacomo (sec. II), il Libro di
Tommaso (sec. III?), tutti ritrovati a Nag Hammadi, e il Vangelo di Maria (Maddalena; sec. II); in campo
"ortodosso", il genere dei dialoghi col Risorto è piuttosto l'eccezione ed è rappresentalo essenzialmente
dall'Epistola degli apostoli (metà sec. II), colloquio tra i Dodici e Cristo, di orientamento antidoceta (insiste
sulla realtà dell'incarnazione e della risurrezione) e ispirato a tematiche cristologiche arcaiche (Cristo, disceso
attraverso i cieli assumendo la forma degli angeli, appare a Maria nell'aspetto dell'angelo Gabriele e quindi
entra in lei).
Tradizione sugli apostoli
- Lettere. Scarse sono invece le lettere apostoliche apocrife. Vanno ricordate innanzitutto la lettera dei Corinzi a
Paolo e la risposta di quest'ultimo (3 Corinzi), composte probabilmente in Siria nel sec. II in funzione
antignostica e in seguito inserite negli Atti di Paolo. Il Canone di Muratori (fine sec. II), che elenca e discute i
libri da accettare, menziona due false lettere di Paolo, ai Laodiceni e agli Alessandrini; una lettera ai Laodiceni
in latino è rimasta in alcuni manoscritti biblici. Si tratta di uno scialbo centone di espressioni di lettere paoline,
ispirato probabilmente dalla menzione di una lettera paolina a Laodicea in Col 4,16 e databile tra il sec. II e IV.
Un gruppo di 14 lettere in latino si presenta come una corrispondenza tra Paolo e il filosofo Seneca; il
contenuto è assai povero; lo scritto deve risalire al sec. IV. È di notevole interesse una lunga lettera di Tito,
discepolo di Paolo, sulla castità, conservata in latino in un solo manoscritto: si tratta di uno scritto ascetico che
esalta l'encratismo e proviene forse dai priscillianisti spagnoli dei sec. V. Contiene molte citazioni dalla
Scrittura, in parte apocrife.
- Atti. Assai ricca è invece la letteratura di atti apocrifi di apostoli, la quale veicola in generale proprio il
modello di apostolo che era stato combattuto da Paolo: l’ “uomo divino", che attraverso la potenza dei suoi
prodigi manifesta la presenza e la superiorità del Dio da lui annunziato. Mentre gli Atti di Luca divengono
canonici come "atti di tutti gli apostoli" (così li definisce il Canone di Muratori), fioriscono, nel sec. II, atti
imperniati su singoli apostoli, caratterizzati dalle loro gesta (genere delle prâxeis) e/o dai loro viaggi (genere
dei perìodoi). Essi sfruttano temi del romanzo ellenistico a fini di propaganda cristiana; diffusa in essi è la
valorizzazione dell'ascesi e, spesso, dell'encratismo sessuale. I primi cinque grandi Atti (ma il loro
raggruppamento è posteriore, e non rende giustizia alle caratteristiche proprie di ognuno) sono quelli di
Giovanni, di Pietro, di Andrea, di Paolo e di Tommaso, composti tutti tra il sec. II e III. Questi ultimi, composti
nella Siria orientale, contengono motivi gnostici, e in particolare includono un bellissimo componimento
poetico certo preesistente, il Canto della perla, allegoria dell'anima, elemento divino decaduto, imprigionato in
questo mondo e poi redento. Tematiche gnostiche hanno trovato ingresso anche in altri Atti (Giovanni,
Andrea); tra i testi gnostici copti (codice di Berlino e biblioteca di Nag Hammadi) sono stati ritrovati un
episodio degli Atti di Pietro, nonché Atti di Pietro e dei dodici apostoli, che potrebbero risalire al sec. II, testi
entrambi in sé non gnostici, ma che si prestavano a interpretazione gnostica. L'idea che l'insieme degli Atti
apocrifi più antichi sia di provenienza gnostica è però oggi abbandonata. A causa di motivi divenuti
dottrinalmente sospetti, come pure della loro adozione da parte di gruppi eterodossi, gli Atti vennero
ripetutamente condannati; si continuò a leggerli nei monasteri, ma la loro lunghezza fece sì che se ne
conservassero dei riassunti o degli estratti; tutti gli Atti menzionati, salvo quelli di Tommaso, ci restano dunque
in modo frammentario. Solo la parte finale, contenente il martirio dell'apostolo (eccezione: Atti di Giovanni),
veniva estratta e ampiamente ricopiata perché utilizzata per la festa liturgica relativa; i martiri ci restano dunque
in numerosi manoscritti. Numerosi sono gli Atti più tardivi, in parte derivati dai precedenti; ricordiamo quelli di
Filippo, di Bartolomeo, di Barnaba.
Apocalissi.
Chiamiamo "apocalissi" quegli scritti in cui a esseri umani vengono rivelate (in genere mediante visione) entità
proprie del mondo divino, comunemente nascoste agli occhi umani, e che hanno significato decisivo per la
salvezza da una situazione dominante in questo mondo e percepita come negativa. E comprensibile che alle
origini cristiane si adottasse tale forma per riflettere sul significato della persona e dell'opera del Salvatore; essa
permetteva infatti di accedere alla dimensione divina di colui che aveva agito in questo mondo come l'uomo
Gesù. In tale quadro, l'opera di Gesù si svelava come il punto di riferimento di tutta la storia del mondo, anche e
soprattutto dei conflitti tra le forze spirituali del bene e del male di cui si ammetteva che agissero dietro gli
eventi visibili. Così già l'Apocalisse di Giovanni, poi divenuta canonica, poteva mettere il presente della
comunità cristiana in relazione con gli ultimi tempi a partire dalla centralità della figura di Gesù.
L'Ascensione di Isaia, composta probabilmente in Siria ai primi del sec. II, sviluppando l'idea che il profeta in
questione avesse parlato di Cristo, gli attribuiva una visione relativa alla futura venuta in questo mondo del
Salvatore celeste, sotto forma di Gesù, per liberare gli umani dall'assoggettamento alle potenze malvagie del
firmamento; la tematica cristologica era dunque anche qui centrale. L'Apocalisse di Pietro, composta in
Palestina o in Siria durante la seconda guerra giudaica (132-135), non presuppone la preesistenza divina di
Gesù; il centro, e l'oggetto della rivelazione, è qui la costituzione dell'uomo Gesù, martire, come Figlio di Dio
in occasione della sua risurrezione e ascensione al cielo. I giusti potranno accedere al cielo proprio in virtù di
questa sua elevazione, la quale è anche la condizione della risurrezione dei morti e del giudizio finale. Lo
scritto contiene una rassegna di pene che saranno inflitte ai nemici di Cristo dopo il giudizio; in un ulteriore
rifacimento, che ci è in parte pervenuto, queste pene sono descritte come già presenti nell'aldilà, e costituiscono
l'oggetto di una visione concessa a Pietro, seguita da una visione del paradiso. Questo slittamento del
"paradiso" e dell’ “inferno" da condizioni escatologiche a entità già presenti "altrove" diviene determinante, a
scapito della centralità della tematica cristologica, nelle successive apocalissi, imperniate sul viaggio nell'altro
mondo: tra esse basterà qui ricordare l'Apocalisse di Paolo (sec. IV?), che ebbe enorme fortuna e che, attraverso
i suoi numerosi rifacimenti latini, influì su tutto il Medio Evo. Va ricordata per la sua grande fortuna nel Medio
Evo - anche nell'omiletica - l'Apocalisse di Tommaso (prima del sec. V), contenente i segni premonitori della
fine del mondo.
Apocrifi e predicazione
Nonostante le condanne ecclesiastiche, certi apocrifi servivano troppo bene alla riflessione teologica su
determinati temi, o alla devozione, per non conservare un durevole successo in ambito del tutto "ortodosso".
Per l'uso di apocrifi nell'omiletica ci limiteremo a pochi esempi, tratti per lo più dall'antichità.
Una delle più antiche omelie cristiane, trasmessa sotto il nome fuorviante di Seconda lettera di Clemente
Romano (metà del sec. II?), si riferisce (11,2-4) a un "discorso profetico" contro quanti disperavano del ritorno
del Signore (evocato anche in 1 Clemente 23,3-4; cf 2 Pt 3,4): si tratta forse di un testo cristiano provocato dal
ritardo della parusìa; inoltre cita e interpreta numerosi detti di Gesù di forma diversa da quella dei Vangeli
canonici o anche non contenuti in questi (cf 12,2-5: Vangelo degli Egiziani?; 5,2-4: Vangelo di Pietro?). È la
testimonianza di un tempo in cui non esisteva il canone del NT, e la tradizione dei detti di Gesù era ancora
largamente orale. Origene nelle sue omelie si riferisce occasionalmente, e in modo positivo, ad apocrifi giudaici
(Omelie su Giosuè 15,6: Testamenti dei dodici patriarchi; Omelie su Luca 35: Apocalisse di Abramo). In
Omelie su Luca 1, commentando Lc 1,1 secondo cui molti "hanno posto mano" a scrivere riguardo a Gesù,
annovera tra questi i vangeli degli Egiziani, dei Dodici, di Basilide, di Tommaso, di Mattia, affermando che non
sono stati scritti con la grazia dello Spirito, diversamente dai quattro canonici; secondo la versione dell'omelia
fatta da Girolamo, essi sono dichiarati francamente eretici, ma la frase non si trova nei frammenti greci.
Clemente di Alessandria aveva citato ancora il Vangelo degli Egiziani come autentica testimonianza delle
parole del Signore, rifiutandone solo l'interpretazione degli entratiti; nell'ambiente di Origene il rifiuto dei
gruppi che si richiamavano a quel vangelo si era rinforzato, e aveva finito col provocare il rifiuto del Vangelo
stesso, un processo osservabile in più casi di rigetto di apocrifi. D'altra parte, intorno al 200 il Canone di
Muratori riconosce, accanto all'Apocalisse di Giovanni, quella di Pietro, ammettendo però che "alcuni dei
nostri non vogliono che sia letta nell'assemblea" (lin. 72-73), il che evidentemente implicava divergenze sulla
liceità di predicare o meno a partire da tale testo.
Nonostante le vigorose condanne degli apocrifi (cf sopra, e Erbetta, Apocrifi 1/1,40; 11,11-16), e benché, data
la cura di evitarne la lettura da parte della massa dei fedeli, le omelie siano appunto uno dei luoghi dove meno è
da attendersene l'uso, alcuni temi provenienti dagli apocrifi divennero ben presto patrimonio comune della
religiosità popolare. Si tratta in particolare di materiali relativi alla nascita di Gesù e alla sua passione, morte e
discesa agli inferi. Così - per portare un solo esempio di temi che resteranno onnipresenti - lo stesso Agostino
che tuona a più riprese contro gli apocrifi non ha alcun problema a utilizzare, nelle sue omelie sul Natale,
motivi di origine apocrifa: non solo la verginità di Maria in partu (Serm. 184,1; 186,1; ecc.), ma l'asino e il bue
alla mangiatoia, con la citazione di Is 1,3, come nel vangelo dello Ps. Matteo 14 (Serm. 189,4; 204,2; anche
Girolamo, fierissimo avversario degli apocrifi, insiste sul motivo, Epist. 108,10). La discesa agli inferi poteva
appoggiarsi su di un'interpretazione di 1 Pt 3,19-20, ma traeva in realtà il suo materiale da tradizioni apocrife,
relative sia alla predicazione di Cristo agli inferi (attestata agli inizi da Marcione, dal Vangelo di Pietro 41-42 e
da un testimonium apocrifo citato da Giustino e Ireneo), sia alla sua vittoria sul diavolo (ciclo degli Atti di
Pilato). L'accento su quest'ultimo punto conduce anche a insistere sullo svuotamento totale degli inferi, un
quadro simile a quello degli Atti di Pilato (così Cirillo di Alessandria, Lettera festale 7 = PG 77, 552). Cirillo di
Gerusalemme, Catechesi 14,19, rappresentava plasticamente lo sbigottimento della morte e dell'Ade in maniera
prossima agli Atti di Pilato (cf anche Giovanni Crisostomo, Omelia 36,3 su Matteo = PG 57,416, che evoca le
porte di bronzo dell'Ade calpestate, e i chiavistelli divelti). Ben più sviluppata, in forma di dialogo tra il diavolo
e l'Ade come negli Atti di Pilato, la versione delle tre omelie dello Pseudo Eusebio di Emesa (PG 86,403-406);
variazioni drammatiche si riscontrano in un'omelia dello Pseudo-Epifanio (PG 43,452-464); in una di Cesario di
Arles (PL 67,1043); in una dello Pseudo-Agostino (PL 39,2059-2061). Abbiamo accennato nel testo al gran
numero di antiche omelie conservate, in varie lingue, sul transito di Maria (cf la lista in S. Mimouni, Transitus
Mariae, in DdS XV, 1160-1174, con copiosa bibliografia).
Per il vasto uso di apocrifi nella letteratura e nell'omt. medievale si veda l'articolo Apokryphen, di vari
specialisti, in Lexikon des Mittelalters I, München-Zürich 1980, 759-770. Particolarmente diffuse e influenti, in
tutte le aree linguistiche, furono versioni del Vangelo di Nicodemo, dello Pseudo Matteo e del De nativitate
Mariae, dei Transitus Mariae, dell'Apocalisse di Paolo e anche dell'Apocalisse di Tommaso, oltre che della
Vita di Adamo ed Eva, cristianizzazione di uno scritto giudaico, contenente leggende sul legno della croce.
Numerose omelie in antico inglese, p.e., non sono praticamente che la ripresa di parti di apocrifi: è così che
possediamo parti dell'Apocalisse di Tommaso. Il fenomeno era così diffuso che l'omileta Aelfric (fine X - inizio
XI sec.) si sentì obbligato a intervenire decisamente contro di esso, tacciando di eresia gli apocrifi e in
particolare il tema dell'intercessione di Maria e dei santi in occasione del giudizio finale (Omelia per il Natale
della Vergine). Con la Riforma protestante, in Occidente ci si limitò maggiormente alla Scrittura (altro discorso
andrebbe fatto per la tradizione ortodossa); ma proprio a opera di protestanti, gli apocrifi cominciarono a
diventare oggetto di studio e non più solo di credenza religiosa o di esecrazione. Si cominciava a essere
consapevoli della distanza che separava il presente da tali testi, e ad accostarsi ad essi con metodo filologico e
storico: le prime raccolte furono quelle di F. Nausea nel 1531 (vite di apostoli in latino), di W. Lazius nel 1551
(edizione del rifacimento latino di atti apocrifi di Apostoli, detto dello Pseudo-Abdia) e di F. Neander nel 1564,
aggiunta a una elaborazione greca e latina del Piccolo Catechismo di Lutero, per la formazione umanistica dei
propri allievi della scuola di Ilfeld.
Ma l'omiletica ha continuato a nutrirsi, più o meno coscientemente, di elementi ricavati dalla tradizione
apocrifa. Come è successo di recente all'autore di queste righe, basta recarsi a messa in Bretagna per la festa di
S. Anna (tradizionalmente veneratissima in quella regione) per ascoltare una predica interamente (e
tacitamente) basata sugli apocrifi dell'infanzia di Maria, che soli menzionano i genitori della madre di Gesù. Se
sia lecito predicare a partire da apocrifi, non spetta allo storico decidere; ma gli sarà consentito notare che
caratteristica degli apocrifi è la capacità di continuare a sviluppare teologia, e talora densa teologia, in forma
narrativa - un modo di fare teologia cui oggi si presta notevole attenzione -. Non è escluso che questa forma in
certo senso midrashica possa - per il metodo se non per i contenuti - anche rappresentare un modello per la
comunicazione della fede nell'omiletica dei nostri tempi.
Bibliografia
Informazioni sulla storia del termine nelle introduzioni alle raccolte di apocrifi cristiani in traduzione, tra le
quali segnaliamo:
M. ERBETTA, Gli apocrifi del Nuovo Testamento, 4 voll., Casale Monferrato 1966-1981 (la raccolta più
ampia, con buone introduzioni e note ai vari testi);
L. MORALDI, Apocrifi del Nuovo Testamento, 4 voll, Casale Monferrato, 1994;
W. SCHNEEMELCHER, Neutestamentliche Apokryphen in deutscher Übersetzung (5. ed. della raccolta di E.
Hennecke), 2 voll., Tübingen 1987-1989 (introduzioni indispensabili ai singoli scritti); trad. ingl. New
Testament Apocrypha, Cambridge, James Clarke & Co, 1991-1992.
F. BOVON -P. Geoltrain, Écrits apocryphes chrétiens, Paris, Gallimard, 1997 ss. (traduzioni francesi con
introduzioni aggiornate).
Sul dibattito, oltre alle introduzioni generali di W. Schneemelcher alla tr. cit. qui sopra (I, 1-61) e alla
precedente edizione della stessa (1, 1959,1-38), cf
J.-C. PiCARD, L'apocryphe à l' étroit. Notes historiographiques sur le corpus d'apocryphes bibliques, in
Apocrypha 1 (1990) 69-117;
E. JUNOD, La littérature apocryphe chrétienne consti tue-t-elle un objet d'études?, in Revue des Etudes
Anciennes 93 (1991) 397-414; ID., "Apocryphes du Nouveau Testament" : une appellation erronée et une
collection artificielle, in Apocrypha 3 (1992) 17-46;
W. RORDORF, Terra Incognita. Recent Research on Christian Apocryphal Literature, especially on some Acts
of Apostles, in ID., Lex Grandi, Lex Credendi. Gesammelte Aufsdtze zum 60. Geburtstag, Freiburg/Schweiz
1993, 432-448.
Per i testi in traduzione, e la bibliografia relativa (comprese le edizioni critiche), si rimanda alle raccolte citate
sopra. Strumento di lavoro imprescindibile per l'identificazione dei testi e la situazione delle edizioni è
M. GEERARD, Clavis Apocryphorum Novi Testamenti, Tumhout 1992. Una nuova ed. critica degli apocrifi
cristiani antichi, con traduzione e ampio commento, intrapresa dall'Association pour l’étude de la littérature
apocryphe chretienne, esce dal 1983 come Series apocryphorum del CCL. Singoli testi o gruppi di testi affini,
in tr. franc. con ampie introduzioni e note, destinati a un pubblico di non specialisti, escono dal 1993 nella
collezione Apocryphes, Turnhout.
Per una prima introduzione in italiano, con bibliografia, cf anche A. Di BERARDINO, Gli apocrifi cristiani e il
loro significato, in A. Di BERARDINO - B. STUDER (ed.), Storia della teologia I. Epoca patristica, Casale
Monferrato 199:3, 273-303.
Per gli apocrifi nell'omiletica, vedi la bibliografia fornita nel testo. Diversi spunti, e ulteriore bibliografia, nel n.
4 (1993) della rivista Apocrypha, in particolare nei contributi di C. PAUPERT, R. FAERBER, R.
BAUCKHAM.
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