le cave dismesse sulla costa sorrentina tra storia locale, danni

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le cave dismesse sulla costa sorrentina tra storia locale, danni
BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ GEOGRAFICA ITALIANA
ROMA - Serie XIII, vol. VII (2014), pp. 593-610
GIUSEPPE PIGNATELLI
LE CAVE DISMESSE SULLA COSTA SORRENTINA
TRA STORIA LOCALE,
DANNI AMBIENTALI E FORME DI RIUSO
[…] quante ignobili cicatrici sulla costiera stanno a
testimoniar lo sfregio! La serie comincia con la Conca,
alla Marina d’Alimuri, continua con le cave del Capo
di Sorrento, della Marina di Puolo; ora è la volta di
Jeranto, oltre la quale sono ancora due gemme – la
Marina del Cantone e la Marina di Crapolla – alle quali
i cavatori di pietra non hanno ancora pensato. Ma ci
penseranno certamente, se non ci pensa qualche altro
prima a sottrarle alla sorte cui sembrano destinati i
luoghi più incantevoli della leggendaria contrada
(Cerio, 1937, p. 5).
Premessa. – Dalla metà del secolo scorso, di fronte alla progressiva affermazione di nuovi modelli di sviluppo indotti dai processi di industrializzazione e di
urbanizzazione e dai fenomeni territoriali a essi connessi, oltre che dall’assenza
di un’adeguata legislazione, l’Italia è stata interessata da un inarrestabile processo di degrado in cui il paesaggio ha finito con l’essere irrimediabilmente danneggiato non solo nelle sue forme visibili, ma anche nelle sue più intime valenze identitarie (Mautone, 2001, p. 12).
Tra le attività economiche maggiormente responsabili delle trasformazioni del
territorio, quelle estrattive occupano un ruolo rilevante soprattutto quando operano a cielo aperto, incidendo direttamente sulla stessa struttura morfologica che del
paesaggio costituisce il supporto essenziale. Ciò avviene in particolare nel nostro
Paese, ricco di materiali lapidei utilizzati prevalentemente nel settore delle costruzioni, dove la coltivazione di grandi e piccole cave ha – e in alcune zone ancor di
più ha avuto nel passato – una larghissima diffusione e un ruolo spesso trainante
per la crescita socio-economica (Laureti, 1988, p. 330). La pressione che tali attività
hanno generato sul territorio ha già d’altra parte provocato danni assai evidenti,
spesso insanabili, rischiando di produrne di ulteriori se il delicato tema della postdismissione non dovesse essere finalmente affrontato e regolamentato con interventi tesi a cancellare situazioni di degrado e, molte volte, di illegalità e di specu-
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lazione (1). Si tratta di un percorso che molti paesi europei hanno intrapreso già da
tempo; appare perciò evidente che anche l’Italia deve necessariamente adeguarsi
per offrire un’opportunità di riscatto a troppe aree altrimenti condannate alla progressiva umiliazione della propria identità, e per costruire un futuro che tenga insieme attività largamente storicizzate con pratiche innovative al centro di interventi di recupero e di rivalorizzazione che sappiano coniugare risanamento ambientale e utilità economica e sociale nell’ottica di uno sviluppo realmente sostenibile.
L’attività estrattiva nell’economia sorrentina. – Gran parte degli effetti sul
paesaggio appena ricordati appaiono in tutta evidenza nella penisola sorrentina (2), propaggine orientale del Golfo di Napoli che, dopo essere a lungo riuscita a mantenere pressoché intatte le proprie peculiarità paesistico-ambientali, è
stata mortificata sin dagli inizi del secolo scorso dall’irresponsabile azione dell’uomo soprattutto lungo la costa, interessata, prima ancora che dallo scempio
edilizio, dall’apertura di numerose cave – concentrate soprattutto nel territorio di
Massa Lubrense – che hanno irrimediabilmente modificato un paesaggio di
straordinaria valenza ambientale (3). Dal punto di vista geologico, nell’area dominano formazioni calcareo-dolomitiche sulle quali appoggiano alternanze arenaceo-argillose, depositi detritici (ghiaie e conglomerati) e vulcanici (tufi e materiali piroclastici di origine flegrea e vesuviana). Ai margini dei rilievi e lungo la costa sono in particolare presenti vaste brecce calcaree stratificate e detriti di falda
con differenti gradi di cementificazione (Dainelli, 1930; Castaldi, 1968, p. 11).
Considerati i molteplici impieghi dei materiali che costituiscono l’impalcatura
rocciosa del territorio, è ben comprensibile il ruolo che questi hanno ricoperto
fin dall’antichità, generando un fiorente mercato legato alla loro estrazione e alla
loro successiva lavorazione (4). Le diverse fasi della coltivazione delle cave sono
(1) Appare opportuno riportare alcune sintetiche informazioni sulla situazione delle cave in Italia (Legambiente, 2014). Nonostante negli ultimi anni la crisi del settore edilizio abbia notevolmente
ridotto l’attività estrattiva, sono 5.592 i siti attualmente (2012) attivi, ai quali vanno aggiunte le oltre
16.000 cave abbandonate, dato, quest’ultimo, che non include quelle situate in Calabria e in FriuliVenezia Giulia. A governare un settore così delicato è il RDL 1443/1927, redatto in un momento in
cui il Paese necessitava di ingenti prelievi per la realizzazione di opere pubbliche senza tener conto
degli impatti sul territorio. Solo dopo cinquanta anni (DPR 616/1977) le competenze in materia mineraria sono state trasferite alle Regioni, anche se in molte di esse il quadro normativo è tuttora inadeguato. L’assenza di «piani cava» e, laddove ci sono, leggi e regolamenti farraginosi e incompleti
non fanno che favorire, tra l’altro, appetiti speculativi che finiscono con l’alterare il già precario equilibrio idrogeologico del territorio, apportando ulteriori danni al paesaggio.
(2) Per un inquadramento geografico dell’area, si rimanda all’ampia bibliografia esistente e in
particolare a Castaldi (1968) e Ruocco (1982).
(3) Per le peculiarità del paesaggio sorrentino, si rimanda a de Seta (1977) e Manzi (2001).
(4) Toponimi quali Cava, Cavone, Cavoncello, Cementaro e Petriere (così come Calcara, Calcarella, Forno) sono molto diffusi lungo la costa, indicando i luoghi deputati all’estrazione e alla lavorazione dei materiali utilizzati nell’edilizia, nella pavimentazione stradale e nella realizzazione dei
muri di contenimento che ancora oggi contribuiscono alla difesa del suolo.
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infatti state a lungo tra le principali fonti dell’economia locale, certamente meno
rilevanti delle attività legate alla marineria, all’agricoltura, alla pesca e alla produzione casearia, ma comunque in grado di offrire un sia pur modesto guadagno
alle famiglie dei cavatori, considerato che in un sito anche di piccole dimensioni
potevano trovare occupazione diversi tagliamonte, cavapietre, carcarari e pipernieri (Pignatelli, 2006, p. 33).
In quest’ottica, lo sfruttamento intensivo dei più estesi giacimenti calcarei
della provincia di Napoli, avviato tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio
del Novecento, avrebbe portato alla progressiva scomparsa delle attività estrattive tradizionali, costituendo nel contempo, e per oltre cinquant’anni, un importante settore nell’economia sorrentina. Per contro, i danni irreparabili al
paesaggio costiero, più evidenti nelle zone meno antropizzate (come nel caso
della baia di Jeranto), rappresentano l’altra faccia della medaglia, avendo innescato una lunga serie di problemi di gestione territoriale ulteriormente aggravati dalla definitiva chiusura dell’intero sistema estrattivo entro gli anni Settanta
del secolo scorso.
Le cave costiere tra Castellammare di Stabia e Sorrento. – «Per la via di Stabia
ed Equa […] il Monte dalla parte del Mare è ferace di pietre, che servon per calce, e cimenti, onde si suol dire da questo Monte esser nata Napoli, portandosene continuamente in quella città per le fabbriche e per imbiancare» (Parrino,
1709, p. 245). Così si presentava, agli inizi del XVIII secolo, il tratto iniziale della
costa sorrentina, caratterizzato da numerosi siti per l’estrazione e la cottura della
pietra calcarea. Fino ai primi decenni del Novecento, continuarono infatti a essere commercializzate nel Napoletano la calce forte delle fornaci sorrentine e
amalfitane (5), e quella dolce di Stabia, entrambe apprezzate per qualità e resistenza. Dagli anni Trenta, questa produzione avrebbe subito un rapido declino
determinato dagli elevati costi di produzione e dalla scarsa qualità del materiale
rispetto a quello industriale.
Tra i promontori di Pozzano e dello Scrajo, lungo la Strada Statale Sorrentina,
fino agli anni Settanta si sfruttavano un gran numero di cave per l’estrazione di
massi utilizzati nelle barriere portuali, oltre che di pietrisco adoperato per alimentare i forni del vicino stabilimento della Calce e Cementi (6). Oggi i diversi piazzali di cava giacciono in uno stato di totale abbandono, occupati da paramassi per
contenere le frequenti cadute di rocce; solamente gli edifici della Calce e Cementi sono stati riconvertiti in un complesso turistico nell’ambito di un programma di
(5) Antiche fornaci (o calcare) lungo la costa amalfitana sono ancora visibili presso Punta Germano, a Vettica Maggiore e nei dintorni di Capo d’Orso (Visetti, 1991, pp. 158 e 174).
(6) Oltre alla Scrajo, dotata di quattro forni per la produzione di calce, si ricorda la Pozzano Reale per l’estrazione di pietrisco. La Calce e Cementi, dismessa nel 1975, ebbe la sua massima espansione alla fine degli anni Cinquanta, quando occupava circa 180 addetti (Mastrogiacomo, 2000, p. 49).
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recupero archeologico-industriale avviato una quindicina di anni orsono in deroga al Piano Urbanistico Territoriale dell’Area Sorrentino-Amalfitana.
Anche il costone della Marina di Equa è stato oggetto, dagli anni Venti del
secolo scorso, di un’intensa attività per la produzione di pietrisco destinato al
mercato edile di Napoli e dei comuni vesuviani e flegrei (Bianchini, Pecora e Albertini, 1957, p. 52). Più avanti, sul promontorio di Punta Gradelle, sono poi
concentrati numerosi altri siti aperti negli anni Cinquanta, e rimasti in attività sino a pochi decenni orsono per continuare a soddisfare il fabbisogno locale di
pietre e di brecciolino dopo la chiusura delle cave di Massa Lubrense, di Alimuri e di Equa (Ruocco, 1982, p. 319); anche in questo caso il costone ha in più
punti ceduto ed è ingabbiato da reti e ancoraggi metallici per garantirne la tenuta (7). Fino alla metà degli anni Sessanta, lungo la costa sottostante era attiva la
cava di Alimuri, che alimentava un fiorente commercio di calce (Cerio, 1937; Pane, 1955, p. 49); dopo la dismissione, sul piazzale è stata realizzata una grande
struttura con destinazione alberghiera che giace tuttora incompiuta a pochi metri dal mare nonostante ne sia stata più volte ordinata la demolizione (8).
Le cave costiere in territorio lubrense. – Nel territorio lubrense, parte estrema
della penisola sorrentina, la coltivazione del calcare è rimasta per lungo tempo
circoscritta a siti di modesta estensione, e affidata a pochi spaccapietre altamente
specializzati (9). Come ricordato dal Filangieri di Candida (1910, p. 555), «di ben
poca importanza nelle industrie è stata nei tempi passati la roccia calcarea […].
Ora, una colossale cava sulla solitaria marina di Marcigliano estrae a migliaia le
tonnellate di pietre sulla grande frattura trasversale del Monte Corbo, per costruir
dighe all’entrata del porto di Napoli». Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del
Novecento fecero infatti la loro comparsa le compagnie nazionali per lo sfruttamento intensivo di vasti giacimenti costieri, strategicamente posti tra i golfi di
Napoli e Salerno in insenature ben riparate e facilmente raggiungibili dalle imbarcazioni da carico. Dalla baia di Puolo a quella di Crapolla (estremi amministrativi della costa lubrense), entro gli anni Venti furono aperti ben sette stabilimenti – la Merlino a Puolo, la Chianella al Capo Massa, la Vitale a Marcigliano, le
cave del Cenito e di Mitigliano e, nel versante salernitano, quelle di Jeranto e Recommone – alcuni dei quali in luoghi fino ad allora esclusi da questo tipo di attività. Le più piccole cave nell’entroterra, a gestione familiare e caratterizzate an-
(7) Nel PRG di Meta era stato previsto di utilizzare i piazzali di cava come parcheggi di interscambio al fine di snellire il traffico di autoveicoli e bus turistici, ipotesi bocciata dalla Provincia di
Napoli che, nel 2002, ha ritenuto inconciliabile questa destinazione d’uso con lo stato dei luoghi.
(8) Nel 2014 il Comune di Vico Equense ha definitivamente approvato il progetto preliminare di
demolizione.
(9) Numerosi e ben organizzati erano invece i siti per l’estrazione del tufo grigio (Pastena e Cimentaro presso Monticchio) e della pietra di Massa, arenaria locale cavata alla Chiaja della Marina
della Lobra, alle Petriere di Monte San Nicola e alle Tore (Pignatelli, 2006, pp. 31-35).
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Fig. 1 – Le cave di calcare lungo la costa sorrentina e amalfitana
Fonte: elaborazione dell’autore
cora da metodi estrattivi tradizionali, subirono di conseguenza un inevitabile declino, e furono destinate a chiudere nel giro di pochi decenni (10).
Negli stabilimenti delle grandi compagnie minerarie, che potevano viceversa
contare su numerosi occupati, l’estrazione del materiale avveniva tramite il posizionamento di dinamite o di tritolo misto a polvere da sparo, operazione agevolata ogni due o tre anni dall’esplosione di cariche più potenti. Sul piazzale poteva così essere organizzata la vita dello stabilimento: in posizione defilata trovavano sistemazione le baracche dei minatori, dei manovali e dei tecnici, oltre ai
servizi, agli uffici dell’amministrazione, alla mensa, alla santabarbara e alla centrale elettrica; al di sotto del costone erano invece poste le gru a vapore per il
carico dei massi, la forgia e, verso il mare, i frantoi per la produzione di breccia
e brecciolino. Tutt’intorno si snodava poi un fitto reticolo di binari sui quali
scorrevano i carrelli sino ai moli di imbarco, dotati di alte forche per il carico del
materiale sulle chiatte o su più piccole imbarcazioni.
La cava Merlino a Puolo. – Lo sfruttamento del giacimento di Puolo iniziò alla fine dell’Ottocento con l’apertura di due moderni forni per la produzione di
(10) Le cave di calcare lungo la costa alla fine dell’Ottocento erano alla Calcarella di Puolo, alle
Fontane, a Mitigliano e alle Mortelle della Marina del Cantone, quest’ultima rimasta in attività sino agli anni Cinquanta (Bianchini, Pecora e Albertini, 1957, p. 56). Più numerose erano invece quelle
nell’entroterra, concentrate nei pressi dei casali di Monticchio, di Torca e di Sant’Agata.
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Fig. 2 – La cava di Puolo agli inizi degli anni Cinquanta del secolo scorso
Fonte: collezione privata famiglia di Leva
calce; a questa attività, cessata intorno al 1920, si affiancò qualche anno più tardi quella, ben più redditizia, dell’estrazione del calcare anche lungo i costoni
della Montagna e della Calcarella. Dal 1927, con l’acquisizione del sito da parte
della ditta Merlino, l’attività riguardò principalmente la lavorazione di blocchi di
grandi dimensioni da utilizzare per le barriere portuali (Esposito, Cuomo e Moffa, 1986, p. 35). Nel modesto borgo, la cui sussistenza era stata fino ad allora garantita dalla pesca e dal commercio marittimo, la presenza della cava avrebbe
offerto una grande opportunità di crescita economica, anche perché alla manovalanza locale si aggiunsero numerosi cavatori e artificieri provenienti dalla Sardegna, assunti per la loro riconosciuta esperienza in campo minerario. Anche il
piccolo porto fu ben presto sacrificato alle necessità dell’industria, perennemente impegnato dalle chiatte (Campania, Asti, Savoia, Torino e Teresa) che prendevano poi il largo trainati da potenti rimorchiatori (11).
(11) Le notizie sull’attività della cava, unitamente all’ampia documentazione fotografica inedita,
sono state fornite da Francesco di Leva, che a partire dagli anni Quaranta è stato manovratore dei rimorchiatori Pietro Micca, Andrea Doria, Utile e Santos.
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Già nel 1929 veniva denunciato lo snaturamento della baia e la perdita della
domus romana di Pollio Felice al Portiglione, che «soccombe alla devastazione
della dinamite, che fa del bel paesaggio litorale un orribile cumulo di rovine!»
(Filangieri di Candida, 1929, p. 55). Così come l’archeologo Amedeo Maiuri
(1990, p. 9), che aveva lanciato il suo grido di dolore per lo scempio perpetrato
al lido della Calcarella, «squarciato, ahimè, da una immensa cava di pietra», anche Roberto Pane (12) (1955, p. 74), testimone attento del momento più fecondo
dell’attività estrattiva, ne avrebbe descritta qualche decennio più tardi la totale
distruzione, denunciando in particolare che «nessun impedimento si è saputo, o
voluto, opporre ad una simile barbarie».
Dopo la chiusura della cava alla metà degli anni Settanta, tutta l’area è stata
oggetto di un tentativo di speculazione edilizia, e poi abbandonata. Come in un
villaggio fantasma, la centrale elettrica è oggi ridotta a deposito di materiali di
ogni tipo; i moli, spogliati delle forche e dei pontili, sono in rovina così come il vicino frantoio, anch’esso destinato a soccombere sotto l’azione del mare. La vasta
spianata sottostante il costone roccioso, mai messo in sicurezza, ospita attualmente un ricovero di imbarcazioni da diporto e un parcheggio; soltanto la forgia, una
bassa costruzione in tufo grigio, è stata recuperata nelle sue strutture originarie.
Proseguendo lungo la costa si apre poi la piccola insenatura della Chianella,
che un tempo ospitava una serie di modeste cave per la produzione di brecciolino, direttamente collegate al Portiglione tramite un lungo tunnel scavato nella
roccia. A testimonianza di questa remota attività è ancor oggi ben visibile una
tramoggia, anche in questo caso innalzata sui resti di una villa marittima di epoca imperiale (Pane, 1955, p. 76).
Le Vitale di Marcigliano e le cave del Cenito e di Mitigliano. – Poco più avanti,
nella cala di Marcigliano, nei primi anni del Novecento sono state aperte le Cave
Vitale, utilizzate fino agli anni Sessanta per la fornitura di blocchi in opere portuali. Lo sfruttamento intensivo dei costoni calcarei iniziò con qualche anno di anticipo rispetto a Puolo, tanto che già nel 1910 ne veniva denunciata la progressiva distruzione (Filangieri di Candida, 1910, p. 555). Tutta la zona è attualmente occupata da un complesso turistico; edifici di scarso valore architettonico ma di notevole impatto ambientale fanno da sfondo a uno stabilimento balneare realizzato
sui pontili di carico ancora occupati dalle forche e da altre strutture di vario tipo.
Nella cala del Cenito, sono ben visibili i resti di una cava chiusa negli anni Sessanta e trasformata, come la precedente, in una struttura turistica da poco recuperata dopo anni di abbandono. Doppiata la punta di Baccoli, si apre infine la solita(12) Storico dell’architettura, fu convinto sostenitore della salvaguardia del paesaggio e della
città storica. Nel 1955 pubblicò Sorrento e la costa, in cui confluiscono tutti i temi riesposti venti anni
più tardi nella proposta di Piano Territoriale di Coordinamento e di Piano Paesistico dell’Area Sorrentino-Amalfitana, redatto tra il 1974 e il 1977 (Regione Campania, 1977).
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Fig. 3 – L’ex cava Vitale di Marcigliano e, al centro, il complesso turistico Conca
Azzurra
Fonte: foto dell’autore
ria cala di Mitigliano, dove sino alla metà del secolo scorso era attiva una modesta
cava per l’estrazione e la lavorazione della breccia, come testimoniato dai resti di
una calcara e di un piccolo pontile di carico.
Le cave di Jeranto e di Recommone. – Sul versante salernitano della penisola
si staglia la vasta baia di Jeranto, deturpata dalla profonda ferita infertale dallo
stabilimento aperto dall’ILVA nei primi anni del Novecento. A differenza degli
altri siti, legati essenzialmente alla produzione di materiale edile o di massi per
dighe foranee, la pur breve vita di questa cava è stata caratterizzata da un’attività
estrattiva assai intensa, dovendo ininterrottamente rifornire gli altiforni degli impianti siderurgici di Bagnoli (13). Centinaia di migliaia di metri cubi di roccia calcarea sono così saltati con inaudita violenza, e caricati con cadenza quasi giornaliera su grandi navi da trasporto attraverso le sei grandi tramogge ancora oggi
ben visibili ai margini della spianata.
Solo in occasione del primo Convegno del Paesaggio, tenutosi a Capri nell’estate del 1922, il sindaco di Massa Lubrense avrebbe denunciato lo scempio che
(13) I lavori per la realizzazione dell’impianto dell’ILVA di Bagnoli, avviati grazie alla legge speciale 351/1904 (Provvedimenti per il risorgimento economico della città di Napoli), terminarono intorno al 1910 (Cardone, 1993, pp. 226-234; Mazzetti, 2001, pp. 253-261). L’attività della cava di Jeranto, che rifornì fin da subito gli altiforni, iniziò verosimilmente in quegli stessi anni.
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Fig. 4 – Il costone sventrato dalla cava dell’ILVA nella baia di Jeranto
Fonte: foto dell’autore
si andava consumando nella baia (Cerio, 1923, p. 72); all’accorata protesta si associò anche Norman Douglas (14), stupito «nel vedere come a causa di certe
odiose attività estrattive sulla collina vicina, l’incanto di questo luogo, un tempo
appartato, è stato completamente distrutto» (De Angelis, 2003, p. 183). Molti anni più tardi Edwin Cerio (15) ribadì d’altra parte la necessità di preservare quel
che ancora restava del luogo, «sommerso dal rimbombo delle mine esplodenti
per lacerare il promontorio […], devastato più che dalla furia degli elementi, dalla rabbia distruttrice degli uomini» (Cerio, 1937, p. 5) (16). Ciò nonostante, la cava
(14) Scrittore austriaco di origini scozzesi, si stabilì per la prima volta a Capri nel 1903, ritornandovi poi per lunghi periodi nel 1914 e nel 1946, quando ricevette la cittadinanza onoraria per i numerosi scritti in difesa del paesaggio caprese e sorrentino (fra tutti, Siren Land, 1911).
(15) Sindaco di Capri tra il 1920 e il 1923, combatté una personalissima battaglia in difesa del
paesaggio, in particolare contro l’espansione edilizia e il diffondersi di «modi architettonici» estranei
alla tradizione dell’isola.
(16) «[…] la montagna si deve lacerare, perché occorre il pietrame per le massicciate delle strade,
occorrono i blocchi per le opere portuali. Sono necessarissime le cave di pietra; ma quando una regione di tanta incantevole bellezza come la Penisola Sorrentina è stata così ripetutamente sfregiata
[…], non si potrebbe domandare a queste imprese – o meglio imporre loro – il rispetto per le vestigia di quel paesaggio classico che è pure una ricchezza incomparabile del nostro paese?» («Il Mattino», 5 marzo 1937). Gli risponderà, qualche giorno più tardi, Norman Douglas: «Mio caro Cerio, la
ringrazio […] per la sua meritevole denuncia contro lo sfacelo di Jeranto. Spero che porterà i suoi
frutti! Temo, però, il contrario, poiché ci sono già state simili rimostranze sulla stampa locale, senza
alcun risultato» (Centro Caprese Ignazio Cerio, 2003, p. 40).
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Fig. 5 – Strutture di cava abbandonate nella baia di Jeranto
Fonte: foto dell’autore
continuerà a operare a pieno ritmo fino agli anni post-bellici, occupando oltre
duecento addetti; incapace di reggere la crescente domanda di calcare (17), e di
garantire nel contempo il rifornimento agli altiforni anche durante le mareggiate
invernali, sarà definitivamente chiusa nel 1952 (Ruocco, 1964, p. 54). Sul promontorio, a ricordo di mezzo secolo di attività, rimangono oggi i fabbricati destinati alla cucina, alla direzione, alla forgia, alla centrale elettrica e alla santabarbara, oltre naturalmente al molo, alle vasche per il gasolio e, soprattutto, alle
grandi tramogge, tutte «brutture di un cantiere fuori uso che, non facendosi obbligo a nessuno di portar via, sono testimonianza della irresponsabilità civile del
nostro Paese» (Pane, 1955, p. 49).
Oltrepassata la rada di Marina del Cantone, si apre infine la riparata cala di Recommone, dove fino agli anni Cinquanta ha operato una piccola cava che ha
sventrato la punta della Sciuscelluzza; anche in questo caso tutta l’area di lavoro è
stata occupata da uno stabilimento balneare di pertinenza di una struttura ricettiva.
Crisi e dismissione delle cave sorrentine. Le attuali forme di riuso. – Dalla
metà del secolo scorso, parallelamente alla crisi del settore primario che avrebbe
portato all’inesorabile ridimensionamento dell’agricoltura e della pesca, da sempre attività trainanti dell’economia sorrentina (Manzi, 2001, p. 485), anche la coltivazione delle cave iniziò ad avvertire il peso di un’organizzazione troppo farraginosa e che già da tempo ne rendeva poco conveniente la gestione. Il traspor-
(17) Nel dopoguerra lo stabilimento di Bagnoli subì un notevole aumento di produzione, e nel
1951 si affiancò a esso la Cementir per la produzione di cemento d’altoforno (Cardone, 1993, p. 233;
Andriello, Belli e Lepore, 1991, p. 93).
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Fig. 6 – L’ex cava di Recommone alla fine degli anni Sessanta del Novecento
Fonte: cartolina postale, collezione privata
to del materiale via terra, in grado di offrire un notevole risparmio di tempo e
un’indiscutibile elasticità di utilizzo, avrebbe inoltre soppiantato i tradizionali
viaggi per mare, troppo legati alle condizioni atmosferiche. Già alla fine degli
anni Quaranta, i cementifici e gli impianti siderurgici napoletani avevano d’altra
parte iniziato a servirsi, seppur ancora occasionalmente, delle cave site in prossimità delle aree di consumo e dei principali assi di comunicazione, riattivate
per far fronte alle crescenti necessità della ricostruzione post-bellica (18). Se per
poche cave sorrentine (Pozzano, Scrajo e Gradelle) la sopravvivenza fu solo momentaneamente garantita dal fabbisogno locale di materiale minuto (Ruocco,
1982, p. 319), per tutte le altre (da quella di Jeranto a quella di Puolo, rimasta tenacemente aperta sino alla metà degli anni Settanta) si sarebbe così prospettato
un inevitabile quanto rapido declino, portando a una lunga serie di problemi di
gestione territoriale particolarmente evidenti nel comune di Massa Lubrense.
Al di là di modeste attività legate alla produzione e al commercio di prodotti
tipici (liquori di agrumi, olio d’oliva e latticini), l’economia lubrense è oggi basata su un turismo prevalentemente elitario. Diversamente dal resto della penisola
(18) Ci si riferisce, in particolare, agli impianti del Basso Casertano (concentrati prevalentemente
tra Caianello, il monte Tifata e Maddaloni), aperti tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento ma potenziati, a differenza di quelli sorrentini, a partire dagli anni Cinquanta.
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sorrentina, le numerose seconde case, il numero esiguo di strutture ricettive e la
mancanza di un moderno porto turistico (19) fanno dell’estrema propaggine della
penisola un unicum; a dispetto di una costa di straordinaria suggestione, è proprio nell’accessibilità al mare e nella scarsa offerta di stabilimenti balneari che il
territorio lubrense mostra, paradossalmente, le carenze maggiori. Ripidi pendii
caratterizzano infatti la quasi totalità della linea costiera, senza dimenticare che
anche i pochi tratti di costa bassa sono di fatto preclusi alla balneazione di massa
perché difficilmente raggiungibili. Tutto ciò comporta, come è prevedibile, il sovraffollamento delle poche aree attrezzate (marine di Puolo, della Lobra e del
Cantone in primis), con il conseguente decadimento della qualità dell’offerta.
Proprio in quest’ottica, i vasti piazzali di cava dismessi (e con questi i moli di
carico e tutti gli edifici che ne costituivano l’ossatura) rappresentano i luoghi
ideali dove impiantare attività turistiche, in zone di assoluto pregio paesaggistico. Se, tuttavia, il destino di gran parte di queste strutture (Puolo, Marcigliano,
Cenito e Recommone) è già da tempo orientato verso il riutilizzo a fini ricettivi,
è opportuno sottolineare come tutto questo sia stato portato avanti in maniera
spontanea se non addirittura abusiva, in totale assenza di una pianificazione di
base in grado di sfruttarne appieno le molteplici potenzialità.
Fino all’entrata in vigore, alla fine degli anni Settanta, delle diverse normative
regionali (20), l’apertura delle cave non contemplava in effetti alcun parere tecnico
preventivo sui danni prodotti dall’inquinamento dei terreni e delle acque, nonché
dall’alterazione dell’assetto idrogeologico; il già citato RDL 1443/1927 prevedeva
anzi, da parte dei gestori, solo un generico risarcimento ai proprietari dei suoli
nel totale spregio dei valori storici e paesaggistici delle aree interessate.
È proprio in un panorama normativo del tutto inadeguato che è stata d’altra
parte consentita, per quasi un secolo, la sistematica devastazione di vaste porzioni della costa sorrentina, permettendo che si continuasse a speculare impunemente su quegli stessi luoghi con l’apertura di nuove attività che ne hanno ulteriormente mortificato l’aspetto, laddove sarebbero stati opportuni interventi
volti, se non al ripristino ambientale integrale, quantomeno al contenimento di
un impatto paesaggistico fortemente negativo.
La localizzazione di strutture ricettive negli ambienti di cava, spesso in totale
inosservanza delle norme urbanistiche, si configura d’altra parte come una scelta assai discutibile, senza dimenticare che i costoni artificiali, se non bonificati,
sono frequentemente soggetti a frane e distacchi di materiale roccioso con grave
(19) Al termine di un lungo iter burocratico, nel marzo del 2014 il Consiglio di Stato ha definitivamente bocciato il progetto per il nuovo porto di Marina della Lobra, giudicando le opere previste
dal Comune incompatibili con l’assetto idrogeologico della zona.
(20) In Campania, in particolare, la coltivazione delle cave e torbiere è attualmente regolamentata dalla LR 54/1985; con la LR 13/1995 è stato istituito il PRAE (Piano Regionale delle Attività Estrattive), la cui proposta, approvata nel 2001, è orientata alla «salvaguardia dell’ambiente e il rilancio dello sviluppo, in modo compatibile con esso, del settore estrattivo e delle imprese ad esso collegate»
(Del Gaudio e Vallario, 2007, pp. 225-253).
Le cave dismesse sulla costa sorrentina 605
rischio per l’utenza. Il recupero a fini ricreativi delle aree da tempo dismesse,
pratica ormai consolidata anche in Italia attraverso interventi sia pubblici sia privati, riguarda siti morfologicamente diversi, trattandosi il più delle volte di zone
pianeggianti o comunque caratterizzate da minori acclività (21). Nel caso, infatti,
di cave impiantate su pendii molto accentuati, il ripristino e il successivo riutilizzo risultano estremamente complessi per l’impatto che quasi sempre queste
operazioni esercitano sull’ambiente circostante (Legambiente, 2014, p. 86).
Proprio in quest’ottica – nonostante negli anni immediatamente successivi alla chiusura degli ultimi impianti sulla costa sorrentina la necessità di ridurre i rischi idrogeologici per favorirne nel contempo un riutilizzo sostenibile fosse stata ribadita con forza nella proposta di Piano Territoriale di Coordinamento e di
Piano Paesistico dell’Area Sorrentino-Amalfitana (Regione Campania, 1977, p.
46) – non è mai stato in realtà attuato alcun provvedimento specifico (22).
Parchi minerari e rinaturalizzazione. – Nel 1986, dopo un trentennio di totale abbandono, gli oltre 45 ettari della cava di Jeranto sono stati donati dall’IRI
(ultima società proprietaria del sito) al Fondo per l’Ambiente Italiano, che nel
2001 ha avviato una serie di interventi per il recupero dell’area. Il ritracciamento
degli antichi sentieri, il ripristino delle zone coltivate e il restauro della cinquecentesca torre di Montalto hanno rappresentato i primi passi verso la definizione
di un vero e proprio parco minerario; all’interno del centro di accoglienza, attrezzato in un antico frantoio poco distante dall’area di lavoro, sono stati infatti
sistemati vecchi macchinari e documenti relativi all’attività della cava, il tutto integrato da un agile sistema di percorsi che si snoda fra gli edifici dismessi in modo da raccontare ai visitatori la vita quotidiana di quello che è stato il più importante sito industriale della penisola sorrentina. Appare dunque evidente la
volontà di puntare, oltre che sugli aspetti squisitamente naturalistici della baia,
(21) Ci si riferisce, ad esempio, al ripristino delle cave di Merone, in provincia di Como, e di Robilante-Roccavione presso Cuneo, entrambe riconvertite in oasi naturali attraverso interventi di rimboschimento e la creazione di specchi d’acqua artificiali (Legambiente, 2014). Interessante è invece
il riuso a destinazione turistica della cava belga di Blegny-Trembleur, affidata a un’associazione privata e riconvertita in museo con hotel annesso (APAT, 2007, p. 30).
(22) L’art. 17 del Piano Urbanistico Territoriale dell’Area Sorrentino-Amalfitana (LR 35/1987), relativamente all’individuazione delle «zone territoriali prescrittive per la formazione dei piani regolatori generali», prevede per la Zona Territoriale I («emergenze tettoniche e morfologiche che si presentano prevalentemente con roccia affiorante o talvolta a vegetazione spontanea») la tutela integrale
dell’ambiente naturale e, ove necessario, una serie di interventi di restauro del paesaggio. La Campania è ancora priva del Piano Paesistico Regionale, indispensabile strumento di pianificazione in linea
con le disposizioni del Piano Territoriale Regionale, LR 13/2008 (Regione Campania, 2008), che oltre
a costituire il quadro di riferimento per lo sviluppo sostenibile del territorio regionale, ha fra i suoi obiettivi principali riqualificare gli ambiti deteriorati. Approvato dalla Giunta Regionale nel 2012 (Regione Campania, 2012), ma duramente osteggiato da diverse associazioni ambientaliste (Italia Nostra, Legambiente, WWF, FAI), il PPR non è infatti operativo perché non ancora (agosto 2014) ratificato dal Consiglio Regionale.
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sulla presenza stessa delle strutture superstiti, in un’ottica che vede nell’archeologia industriale un modo per preservare la storia e la memoria dei luoghi. In
particolare, il FAI e il Comune di Massa Lubrense hanno congiuntamente promosso una serie di ulteriori iniziative finalizzate alla valorizzazione dell’ex cava
unitamente alla riserva protetta di Punta Campanella, che proprio nella baia di
Jeranto ha uno dei punti di maggiore attrattività (23).
L’utilizzo a fini culturali e didattici delle aree dismesse, sull’esempio dei parchi sorti da tempo nei principali distretti minerari europei e italiani (24), appare
quindi il più appropriato, soprattutto per le cave sorrentine (e lubrensi in particolare) che conservano ancora in situ molti degli impianti e delle attrezzature di
supporto, testimonianze di un importante, seppure poco noto, aspetto della locale storia economica e sociale.
Proprio in quest’ottica va ricordato il progetto «Miglio Blu», nato una decina
di anni orsono nell’ambito della partecipazione del Comune di Massa Lubrense
alla formazione del Progetto Integrato Territoriale della Penisola SorrentinaAmalfitana, che ha previsto la riqualificazione dell’offerta turistica attraverso l’individuazione di un itinerario sostenibile lungo la costa tra le marine della Lobra
e di Puolo (Comune di Massa Lubrense, 2003, p. 3). L’intervento riguarda in particolare il rinverdimento della scarpata dell’antica cava della Chiaja, la bonifica
dei piazzali di Marcigliano e della Calcarella e, soprattutto, la riapertura della
galleria di servizio tra la Chianella e il Portiglione. Non un vero e proprio parco
minerario, quindi, ma pur sempre un apprezzabile intervento incentrato intorno
a una lunga passeggiata in grado di diffondere la conoscenza di alcune tra le
aree maggiormente degradate dall’attività estrattiva, migliorandone nel contempo il contesto ambientale e preservandone soprattutto la memoria.
La strada percorsa dall’autorità comunale sembra, dunque, quella più corretta. Sulla falsariga di quanto finora promosso, l’antica cava abbandonata del Cimentaro, tra i casali di Monticchio e di Schiazzano, potrebbe ad esempio divenire, per l’eccezionale stato di conservazione delle gallerie e dei pozzi, il luogo
(23) L’Area Marina Protetta di Punta Campanella, istituita nel 1997 nell’ambito della Legge Quadro
394/1991, si estende per oltre 40 km di costa dal Capo di Sorrento a Punta Germano, interessando i
Comuni di Sorrento, Massa Lubrense, Piano di Sorrento, Sant’Agnello, Vico Equense (in provincia di
Napoli) e Positano (in provincia di Salerno), con l’obiettivo di preservare il valore naturalistico, paesaggistico e storico dell’area sottoponendola a tutela nel rispetto delle attività economiche tradizionali.
(24) Dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso, parallelamente al declino dell’attività estrattiva, è stato avviato in Germania un censimento finalizzato al recupero delle aree dismesse, circoscritto dapprima ai soli edifici storici (come le ottocentesche Malakowturm), ed esteso progressivamente a tutti gli ambienti di cava, trasformati in veri e propri musei del territorio en plein air. In Italia, dove il fenomeno è più recente, possiamo ricordare gli interventi nelle miniere di zolfo siciliane, gli otto siti del Parco Geominerario, Storico e Ambientale della Sardegna, il Parco Minerario dell’Isola d’Elba, l’Ecomuseo delle miniere e della Val Germanasca a Prali (Torino) e, in particolare, l’Ecomuseo delle miniere di Gorno (Bergamo), che con i suoi percorsi differenziati può essere paragonato a quanto realizzato a Jeranto. Per un’ampia panoramica sulle più recenti iniziative italiane, si rimanda a APAT (2006; 2007); ISPRA (2011).
Le cave dismesse sulla costa sorrentina 607
Fig. 7 – Massa Lubrense. L’area interessata dal progetto «Miglio Blu», tra la Marina della Lobra e l’ex cava di Marcigliano
Fonte: www.corsoitalianews.it
ideale per la realizzazione di un centro di documentazione delle attività estrattive tradizionali; solo con il supporto della memoria degli oggetti, delle trame e
delle persone che hanno contribuito a costruire la storia di un territorio è infatti
possibile porre le premesse conoscitive per salvaguardarlo, valorizzarlo e riqualificarlo (Lago, 2001, p. 77).
Un discorso a parte andrebbe affrontato per il ripristino ambientale delle
aree più degradate, in particolare per quel che riguarda i costoni calcarei sventrati dalle mine. Se per rinaturalizzazione si intende il tentativo di riprodurre le
condizioni naturali antecedenti alla coltivazione industriale, questa forma di recupero non sembra applicabile ai siti costieri sorrentini; come accennato in precedenza, nelle cave di materiali lapidei grossolani caratterizzate da forti acclività
non è infatti adottabile né il modello di rimodellamento meccanico dei terreni,
né tantomeno quello del riempimento con materiali alternativi. Anche il gradonamento artificiale, al fine di ridurre le pendenze e offrire un aspetto più naturale ai costoni, si configura come una scelta non facilmente perseguibile per gli alti costi e per i risultati attesi poco soddisfacenti. D’altra parte, sia per la posizione a pochi metri dal mare sia per la natura stessa dei terreni, non sono neanche
ipotizzabili operazioni di rinverdimento, per quanto le moderne tecniche agrarie
permettano di impiantare vegetazione anche su superfici particolarmente acclivi
e rocciose (Montalbano, 2005, p. 15).
Per concludere, va comunque sottolineato che, al di là delle diverse modalità
di rinaturalizzazione o di riuso alternativo, non sempre per le aree degradate
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dall’attività di cava sono necessariamente richiesti interventi specifici di recupero. Qualunque forma di alterazione ambientale prodotta dall’industria estrattiva
tende infatti, dopo la sua dismissione, a ridursi gradualmente e in maniera spontanea attraverso più o meno lenti processi di adattamento e di rigenerazione dei
terreni e dei flussi idrici, di dispersione degli agenti inquinanti e di ricolonizzazione delle specie vegetali (Mazzanti, 1993, p. 29). Ciò vale, in particolare, per le
cave più piccole, come quelle della Chiaja, delle Fontane, di Mitigliano e delle
Mortelle, abbandonate da oltre mezzo secolo. A differenza dei luoghi devastati
dalle mine, oggi disordinatamente trasformati al di fuori di qualsivoglia piano urbanistico o criterio dettato dal buon senso, qui le ferite inferte dall’attività estrattiva si sono, fortunosamente, quasi rimarginate, complice la minore pendenza
dei costoni, la natura dei terreni e, soprattutto, la mancanza di qualunque ulteriore intervento antropico.
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DISUSED QUARRIES ON THE SORRENTO COAST. LOCAL HISTORY, ENVIRONMENTAL DAMAGE AND REUSE. – Mining activities play a prominent role in landscape
deterioration, and their effects are especially evident in the Sorrento peninsula, where
many quarries have been working along the coast for more than seventy years.
Although it has always been an essential area of the local economy, the intensive
exploitation of limestone ridges (as analyzed in the first part of this essay) has given rise
to many territorial management issues which have been worsened by the closing down
of the main coastal mines and by the ways they are being reused. The inadequacy of
the national and local laws allowed the ruin of an area with high environmental value,
which resulted in the conversion of many disused structures into tourist facilities, while
more appropriate operations could have capitalized better on their potentials. Since the
locating of tourist infrastructure in a mine site is very questionable and the configuration
of the land makes it extremely difficult the re-naturalization, any idea of reuse should
therefore involve the rehabilitation and valorization of abandoned workplaces, such as
the mining park in the Jeranto Bay created by FAI, the Fund for Italian Environment.
Seconda Università degli Studi di Napoli, Dipartimento di Lettere e Beni Culturali
[email protected]