di Paola Massa Le Cliffs O` Moher, le scogliere irlandesi, sono lo

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di Paola Massa Le Cliffs O` Moher, le scogliere irlandesi, sono lo
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di Paola Massa
Le Cliffs O’ Moher, le scogliere irlandesi, sono lo spettacolo più grandioso e
terrificante che la natura abbia da offrire. Sono il confine tra possibile e impossibile;
sono il punto d’incontro tra terra, mare, cielo.
La brezza mattutina mi scompiglia i capelli, mentre le onde si abbattono sulle rocce
frastagliate e schizzi d’acqua mi bagnano la pelle. Un brivido freddo mi percorre la
schiena.
I miei piedi nudi toccano la terra ruvida; sono sul bordo delle scogliere, in bilico sul
mondo.
Osservo l’oceano confondersi con l’orizzonte, le nuvole confondersi con la nebbia.
Quasi non si vede più nulla, per quanto la nebbia sia diventata fitta; mi sembra di
essere sospesa in aria, come se stessi volando. Però questo è impossibile:
innanzitutto non posseggo un paio di ali e inoltre non so volare. Ma in fondo non è
forse vero che mi trovo al confine tra possibile e impossibile? Forse ho superato quel
confine e ora mi trovo nella dimensione dell’impossibile. Poi sento la terra sotto i
miei piedi e capisco di essere ancora nel mondo del possibile.
La nebbia si dirada e io posso di nuovo guardare il paesaggio sotto di me. Sento che
una forza mi attrae verso quel mare agitato, come se ne facessi parte anch’io.
Salta.
Una voce si libra nell’aria, ma io so a chi appartiene: è la natura che mi sta
sfidando. Vuole vedere se sono abbastanza coraggiosa da tornare nella dimensione
dell’impossibile.
Salta.
Allargo le braccia e accolgo lo spettacolo che la natura mi sta mostrando dentro di
me.
Salta.
Lascio che il vento mi sollevi, ma la punta dei miei piedi tocca ancora il terreno. So
che devo prendere una decisione, non posso restare in bilico sul bordo.
Salta.
E allora io salto.
*
Mi risvegliai infreddolita,come se fossi stata a mollo in acqua per chissà quante ore;
ma ero asciutta e il riscaldamento nella stanza era acceso. Dalle fessure delle persiane
abbassate filtrava un po’ di luce, rendendo quel luogo meno tetro. Mi chiesi che ore
fossero, ma doveva essere mattina presto. La mia compagna di stanza dormiva
ancora, non si era accorta che il sole era sorto.
Ripensai al mio sogno e pensai di essermi meritata quella sfida. In fondo si trattava
solo di una rivincita. Ero stata solo una volta in Irlanda, ma il ricordo che più mi
rimase impresso erano le Cliffs O’Moher. Non avevo mai visto scogliere più
sensazionali e spaventose allo stesso tempo.
Erano così alte da poter sfiorare il cielo. Sotto di loro l’oceano si agitava, spinto da
correnti, e si abbatteva sulle rocce.
L’infermiera che entrò all’improvviso nella mia stanza mi strappò via da quei ricordi.
La osservai avvicinarsi alla finestra e alzare le tapparelle. La luce mattutina inondò
completamente la camera; mi coprii gli occhi e soffocai un gemito di protesta.
L’infermiera effettuò su di me e sulla mia compagna di stanza i soliti controlli
giornalieri. Poi uscì e ritornò poco dopo con un vassoio: era la mia colazione. Mi
aiutò a sollevarmi, dopodichè iniziò a imboccarmi, anche se in verità avrei potuto
farlo benissimo da sola. Era vero che a causa della malattia il mio corpo si stava
avviando a un lento e lungo declino, ma il mio cervello funzionava ancora.
Dopo essersi occupata di me, l’infermiera si occupò della mia compagna di stanza.
Non so come io e quella donna di mezz’età fossimo capitate assieme; a guardarla
sembrava che la sua malattia avesse raggiunto uno stadio più avanzato rispetto alla
mia. Forse eravamo finite insieme perché entrambe avevamo un cancro incurabile al
fegato. O magari era solo un caso, una coincidenza.
Carla ( questo era il nome della donna ) non era molto chiacchierona e socievole. Non
sorrideva quasi mai, senza fare nulla e limitandosi a guardare il soffitto; tuttavia si
trasformava ogni volta che la sua famiglia veniva a trovarla e si mostrava sempre
allegra e contenta con i suoi bambini.
Nonostante non ci fossimo mai parlate, entrambe sapevamo di avere molto in
comune. Come ad esempio la possibilità di essere salvate grazie a un trapianto di
fegato. Ma ancora non era stato possibile trovare un nuovo organo.
All’inizio l’idea di continuare a vivere mi piaceva, ma quando capii che non avrei
avuto un fegato nuovo, avevo accettato la mia morte.
La mattina era soleggiata, con qualche nuvola su in cielo; ogni tanto guardavo il cielo
e mi chiedevo come sarei morta: non perché avessi paura, avevo accettato da tempo il
mio destino, ma perché ero semplicemente curiosa. Sarà dolorosa o finirà in un
attimo? Le persone si ricorderanno di me o mi dimenticheranno? Spesso ero così
assorta nei miei pensieri tanto da evadare dalla realtà; e mi piaceva anche, poiché
qualsiasi dimensione nascosta era decisamente migliore di quella reale e autentica
che mi opprimeva.
Non ero mai uscita dalla clinica e il mio unico contatto con il mondo esterno era la
finestra che si affacciava su un pezzo di giardino, occupato quasi interamente da un
grande albero, oltre il quale vi era la strada, costeggiata da alti palazzi. Mi ero sempre
chiesta cosa pensassero di questo luogo di morte le persone che abitavano lì, mentre
le loro vite scorrevano tranquille. Era strano pensare che ogni cosa continuasse a
esistere, quando invece io e altri pazienti aspettavamo la morte.
In realtà, la maggior parte di noi, non pensava più a essa (l’idea non terrorizzava un
granchè ormai) e si limitava ad aspettare che il momento arrivasse. E così, durante
l’attesa, c’era chi chiedeva perdono per i propri peccati, chi diceva addio ai suoi cari,
chi firmava testamenti…
Poi c’ero io, che guardavo il mondo fuori dalla finestra, immaginando come dovesse
essere. Durante la mia breve vita avevo solo visitato qualche Paese d’Europa, senza
spingermi più in là; avevo sempre desiderato uscire dal continente, ma i miei genitori
me l’avevano impedito, dichiarando che i costi per un viaggio intercontinentale erano
troppo alti. Ma questa era solo una scusa, poiché le vacanze fatte in Europa non erano
proprio economiche; la realtà era ben diversa: mamma e papà avevano una paura
folle di perdermi.
Per tal motivo non mi avevano mai lasciato partire da sola, tutti i miei viaggi li avevo
fatti assieme a loro. E ora, ironia della sorte, mi stavano perdendo, e per sempre,
nonostante abitassi ancora nella stessa città.
Quando avevano saputo che avevo un cancro al fegato erano come impazziti:
avevano speso tutti i loro risparmi per darmi le migliori cure, parlato con i dottori più
in gamba, assillandoli con richieste su richieste. E se ogni loro più piccolo capriccio
non veniva accontentato, gridavano e inveivano contro chiunque gli capitasse a
portata di mano, accusando il personale della clinica di negligenza.
Poi si era scoperto che potevo essere salvata, se mi veniva trapiantato un nuovo
fegato; per un momento sembrava che i miei avessero trovato un po’ di serenità. Ma
siccome io avevo una fortuna sfacciata, nessun donatore si fece avanti e nessun
fegato nuovo mi fu regalato; quindi i miei avevano perso di nuovo la testa e rabbia,
disperazione e frustrazione si erano impadroniti di loro.
Non potevo fare a meno di odiarli: erano talmente occupati a lamentarsi di ciò che
stava accadendo da non preoccuparsi di me. Tutto quello che volevo era che mamma
e papà si fermassero un attimo, mi avvolgessero in un abbraccio e mi dicessero che
sarebbe andato tutto bene, che morire sarebbe stato facile come addormentarsi e non
avrebbe fatto male. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, aspettavo seduta
vicino alla finestra che i miei genitori arrivassero per prendermi e portarmi via da
quel posto di morte, finchè, a poco a poco, non capii che non sarebbe mai successo.
Alla fine avevo imparato a osservare il mondo fuori dalla finestra e a viaggiare con la
mente, provando a vedere oltre ciò che mi appariva davanti agli occhi.
Quella mattina il mio rituale di guardare fuori dalla finestra non variò: il cielo tra
l’azzurro e il grigio, le strade deserte, la grande quercia che muoveva i suoi rami a
causa del vento…
Mi drizzai sulla schiena: sotto, che camminava intorno all’albero del giardino, c’era
un ragazzo, il più bello che avessi mai visto: aveva la pelle chiara, i capelli biondi e
gli occhi color del mare; era alto e di corporatura robusta. Ogni tanto alzava la testa e
io avevo l’impressione che stesse guardando verso di me. Poi, all’improvviso, si
fermò e rimase con il viso rivolto verso l’alto, i suoi occhi puntati su di me. Era
meraviglioso, nessun dubbio, ma anche un po’ sospetto: cosa ci faceva un perfetto
sconosciuto nel giardino della clinica? Conoscevo quasi tutti gli altri pazienti e questo
non l’avevo mai visto prima di allora. E perché continuava a fissarmi? Decisi di
spostarmi dalla finestra e tornai a letto; lasciai passare cinque minuti, dopodichè
andai a controllare la finestra. Cercando di non farmi notare, diedi un’occhiata fuori.
Ma il misterioso ragazzo era sparito. Lo cercai con lo sguardo, senza avere troppo
successo.
“Va tutto bene, Alice?” chiese una voce alle mie spalle. Mi voltai e vidi che si
trattava di Silvia, l’infermiera che si prendeva cura di me ogni giorno; reggeva in
mano una pila di coperte e lenzuola.
“Non ti preoccupare, ero solo assorta nei miei pensieri” dissi, sorridendole. Lei non
aggiunse altro e iniziò a cambiare le coperte del mio letto.
“Tu sei sempre assorta nei tuoi pensieri”. A parlare, questa volta, era stata Carla, fino
a poco prima completamente immersa nella lettura di un romanzo.
“Cosa vorresti insinuare?” indagai con una punta di dispetto.
Carla puntò il suo sguardo sul mio e disse: “Non fai altro che guardare fuori da quella
finestra, pensando a chissà cosa: alla tua morte, alla vita che non potrai più riavere o
al tuo futuro ?”
Sentii le lacrime uscirmi fuori; come poteva essere così cattiva, quando lei era nella
mia stessa situazione?
“Ora basta” disse Silvia con decisione. Si avvicinò e mi prese dolcemente per un
braccio, mentre mi portava fuori, all’aria aperta.
Il giardino era quasi vuoto, a parte un vecchietto che camminava con l’aiuto di un
infermiere.
“Vorrei stare un po’ da sola stamattina” dissi piano, sperando che Silvia mi
accontentasse; fortunatamente lei annuì e si allontanò.
Una volta sola mi incamminai verso la quercia. Quando arrivai, scoprii di non essere
sola: il ragazzo che avevo visto pochi minuti fa dalla finestra e che poi era sparito, era
di nuovo lì. Il cuore mi batteva forte, anche se non riuscivo a capirne il motivo.
Lui sorrise e disse soltanto un semplice ciao. Risposi al saluto con un timido sorriso.
“Io sono Giorgio. Tu come ti chiami?” chiese, guardandomi incuriosito.
“Sono Alice” dissi, mentre a mia volta lo studiavo con discrezione.
“Sei una delle pazienti della clinica?” mi domandò Giorgio.
“Sì. E tu invece? Cosa ci fai qui? Non credo che tu sia un paziente” dissi con una
punta di sospetto.
Giorgio non sembrava turbato dalle mie domande e si limitò a scuotere la testa. “Non
sono un paziente” disse “Ero venuto solo a fare visita a una mia amica.”
Mi sentii orribile: probabilmente quel ragazzo non stava facendo nulla di male e io
ero stata sgarbata con lui.
“Adesso devo andare” disse Giorgio. “Spero solo che la pista di pattinaggio non sia
chiusa. ”
“Pista di pattinaggio? Ma l’avevano chiusa!” esclamai.
“E’ stata restaurata e riaperta l’anno scorso. Per un periodo era stato l’interesse
maggiore tra i ragazzi” disse Giorgio.
Non potei fare a meno di sospirare. Erano tre anni che ero bloccata dentro quella
clinica e soltanto ora comprendevo ciò che mi ero persa. I miei non mi parlavano mai
di quello che avveniva in città, nonostante avessi cercato più volte di scoprirlo.
“Alice? Va tutto bene?” mi chiese Giorgio con cautela.
Feci un cenno con la testa, cercando di non far vedere le lacrime che si formavano nei
miei occhi. Perché gli altri ragazzi potevano avere una vita normale e divertirsi,
quando invece io non avevo niente di tutto ciò?
Giorgio continuava a osservarmi in silenzio, aspettando una qualsiasi reazione. Poi
sembrò arrendersi e si allontanò da me, dopo avermi salutata.
Restai un po’ lì fuori, ferma in piedi, senza fare nulla. Alla fine tornai dentro.
Quella sera il cielo non era pieno di stelle, ma in compenso c’era la luna piena.
Ero semisdraiata sul mio letto e guardavo fuori dalla finestra leggermente aperta.
Erano le undici meno un quarto; Carla dormiva già profondamente e nella camera vi
era un silenzio quasi sovrannaturale.
All’improvviso notai qualcosa dalla finestra: benché non spirasse il minimo alito di
vento, le fronde della quercia si muovevano energicamente. Balzai in piedi e rimasi a
fissare l’albero, un po’ incuriosita e un po’spaventata; per qualche secondo non
successe nulla, poi una mano afferrò il ramo più alto. E dopo la mano spuntò tutto il
braccio, le spalle, fino a che non vidi Giorgio che si issava sul ramo, per sedervisi di
sopra a cavalcioni. Non sapevo se essere meravigliata, incredula o arrabbiata.
“Cosa ci fai lì?” esclamai, forse a voce un po’ troppo alta. Carla emise un mugolio e
io mi augurai che non si svegliasse. Fortunatamente si limitò a girarsi dall’altra parte.
Cercando di non fare rumore, mi avvicinai alla finestra e puntai i miei occhi in quelli
di Giorgio. “Tu sei completamente folle” dichiarai.
“Buonasera anche a te” disse Giorgio con un sorriso beffardo “Sai, Alice, in genere le
persone si salutano quando s’incontrano.”
“Questo non è un incontro! Tu ti sei arrampicato su un albero!” protestai a bassa
voce.
“E’ pur sempre un incontro: un po’ originale, ma un incontro.” Giorgio continuava a
sorridere, mentre parlava.
Sospirai e provai a calmarmi; dopodichè gli chiesi cosa ci facesse lì.
“Ho ripensato a quello che mi hai detto stamattina” disse con aria cupa “E mi era
sorto un dubbio: da quanto tempo non esci dalla clinica?”
La domanda mi sorprese: mai prima d’ora qualcuno che fosse estraneo alla famiglia
aveva pensato a me, nessuno si era chiesto se ancora avevo una vita fuori di qua. Non
sapevo bene il perché, ma sentivo di potermi fidare di quel ragazzo un po’ strano; e
così alla fine confessai: “Tre anni.”
“Tre anni? Allora dobbiamo rimediare!” disse Giorgio con decisione.
Gli lanciai uno sguardo sospettoso e gli domandai che cosa intendesse.
Sul volto di Giorgio comparve un sorriso che sembrava di sfida. “Esci fuori da quella
finestra, arrampicati sull’albero, salta a terra e vieni con me. Ti porterò nei posti più
belli e magici di tutta la città.” A ogni parola che pronunciava, gli occhi di Giorgio si
illuminavano sempre di più.
Lo fissai sbalordita. Mi stava chiedendo di scappare nel cuore della notte dalla
clinica, come se fosse la cosa più normale di questo mondo. Ero un’estranea per lui,
eppure eccolo lì su una vecchia quercia che aspettava soltanto me.
Ripensai alle giornate monotone, ai sogni fatti su cosa accadesse fuori di qui; presi la
mia decisione e balzai sul cornicione. Uno dei rami quasi mi sfiorava e io lo afferrai
con mano sicura. Un ramo più basso mi permise di appoggiare un piede. In seguito
anche con l’altra mano presi il ramo. Adesso ero in bilico sull’albero. Guardai giù:
c’erano circa tre metri di altezza tra me e il suolo.
“Avanti, salta” disse Giorgio.
Inspirai a fondo e saltai.
La caduta fu abbastanza rovinosa e finii faccia a terra. Mi rialzai dolorante e mi
spolverai i vestiti. Nel frattempo Giorgio si era calato giù dall’albero con agilità
sorprendente. Non potei fare a meno di notare che stava ridendo. “Avresti dovuto
vedere come sei caduta!” esclamò senza smettere di ridere.
“Immagino che ti consideri un esperto in materia” ribattei con aria offesa; tuttavia
non gli tenni il broncio a lungo, poiché la sua risata contagiò anche me e l’istante
successivo ridevo a crepapelle. Ridevamo così forte da non accorgerci che la guardia
notturna ci aveva visto e ci stava gridando contro. Un secondo dopo iniziammo a
correre.
“Di qua, presto!” esclamai, indirizzando Giorgio verso l’uscita secondaria. Sapevo
bene che lì era più facile scavalcare la ringhiera che circondava il giardino. Questa
volta, per fortuna, non ebbi difficoltà a passare dall’altra parte. Non appena Giorgio
fu accanto a me, riprendemmo a correre ( adesso ero io che seguivo lui ), fino a che
non giungemmo alla piazza principale della città. Lì tirammo un sospiro di sollievo e
ci riposammo un attimo.
Mi guardai attorno: le strade erano illuminate dai lampioni, i negozi erano chiusi e i
locali aperti. Ero libera.
“Sei pronta a vivere la notte più strabiliante di sempre?” mi chiese Giorgio con un
sorrisetto complice.
“Assolutamente sì!” esclamai e per la gioia mi misi a urlare. Presto anche lui si unì a
me e insieme formammo un ben strano coro.
Dopo quel momento di svago, Giorgio mi portò alla pista di pattinaggio. Era
bellissima, ma purtroppo era chiusa; tuttavia ciò non sembrava rappresentare un
problema per Giorgio. Senza scomporsi scavalcò il cancello e mi invitò a seguirlo.
Non sapevo esattamente quante regole stessi violando, ma non mi importava.
La pista di pattinaggio si trovava all’interno di uno splendido parco. Rimasi ad
ammirare con occhi sognanti gli alberi, i viali delimitati da cespugli fioriti, la fontana
imponente situata al centro e i giochi per i bambini. Ad un certo punto mi sentii
chiamare: Giorgio era al centro della pista. Cavolo, dovevo essere rimasta lì
imbambolata a lungo, se Giorgio aveva avuto tutto quel tempo per mettersi i pattini e
arrivare là.
Leggermente imbarazzata per essermi mostrata un po’ troppo tra alle nuvole, mi
avvicinai alla pista. Vicina a essa c’erano due pattini che Giorgio mi aveva
gentilmente lasciato. Li indossai con una certa trepidazione; quando ero piccola papà
mi portava spesso a pattinare. Potevamo stare intere ore su quella pista e nessuno dei
due si stancava. Con mia grande soddisfazione scoprii che, sebbene fossero passati
tre anni senza che facessi pratica, ero ancora piuttosto brava a pattinare. Anche
Giorgio era molto bravo e scivolava con grazia sui pattini.
Mentre pattinavamo, mi sentivo completamente felice: era come se un pezzo della
mia normale vita mi fosse stato restituito. Restammo per chissà quanto tempo, prima
di lasciare la pista e il parco, per dirigerci al centro della città.
Giorgio mi portò in tutti i luoghi che conosceva, tra locali e discoteche, giardini e
parchi meravigliosi, senza mai fermarsi un momento. Io assaporavo ogni secondo che
passavo insieme a lui, ballando e scatenandomi in discoteca; oppure ammiravo i
giardini e mi perdevo nei loro colori, nei loro profumi…
Ad un certo punto ci intrufolammo in un giardino privato, forse uno dei più belli che
avessi mai visto; sembrava così antico con i suoi alberi giganteschi, i cespugli pieni
di fiori e l’erba che cresceva alta. E ancora una volta sarei potuta rimanere lì per
sempre, se all’improvviso non avessi sentito l’abbaiare dei cani da guardia. Io e
Giorgio corremmo via, lasciandoci alle nostre spalle quell’angolo di paradiso
terrestre.
Non appena fummo al sicuro, nessuno dei due poté trattenere una risata o un sospiro
di sollievo. Non ero spaventata, anzi, sentivo l’adrenalina pulsarmi nelle vene.
“Cosa facciamo ora?” chiesi, un po’ impaziente.
Giorgio guardò il cielo: la notte stava finendo e la luna stava calando, per lasciare
spazio al sole.
“Ti riaccompagno alla clinica” mormorò. Ero leggermente delusa, ma non dissi nulla.
C’era qualcosa nello sguardo di Giorgio: era turbato, come se un grande peso lo
opprimesse. Ma cosa poteva essere, se fino a un istante prima rideva felice insieme a
me?
Per tutto il tragitto rimasi con questo dubbio e mai, nemmeno una volta, i miei occhi
si staccarono da lui, cercando disperatamente di capire per quale ragione si fosse
rattristato di colpo così tanto.
All’improvviso Giorgio si fermò. Eravamo arrivati alla clinica, ma lui stava
guardando uno dei palazzi di fronte. I miei occhi seguirono il suo sguardo, fino a
posarsi su un punto vicino al muro: attorno c’erano corone e mazzi di fiori, candele
che illuminavano un poco la strada.
“I fiori sono per un ragazzo che era stanco della vita e aveva deciso di lanciarsi dalla
finestra del quarto piano” disse Giorgio, senza smettere di fissare i fiori.
Mi ricordavo di quella storia; per un po’ di tempo alla clinica non avevano fatto altro
che parlare di “quel povero ragazzo” che si era ucciso. Io non sapevo chi era, quale
volto e nome avesse. Per me era soltanto “quel povero ragazzo”.
Giorgio si voltò verso di me e disse: “Quel ragazzo ero io”.
Lo guardai male. “Non dovresti scherzare su certe cose. Il giovane che si è buttato è
morto”.
“Infatti sono morto” disse Giorgio con inquietante sicurezza. “Io non esisto, Alice.
Sono solo un fantasma, un ricordo di una vita passata.”
Lo guardai come se fosse impazzito, poi scoppiai a ridere. Ma lui rimase impassibile.
“Toccami” mormorò “Se vuoi sapere se quanto ti ho detto è vero, allora devi
toccarmi.”
Era assolutamente serio; sentii che il mio cuore aumentava i suoi battiti, in maniera
così forte che avevo paura che potesse saltarmi fuori dal petto. Allungai un braccio,
incerta, avvicinai la mia mano al suo viso e lo sfiorai. Ma le mie dita non
incontrarono la sua morbida pelle, non sentirono il calore del suo corpo: rimasero
sospese a mezz’aria, mentre provavano a toccarlo, senza però riuscire a farlo. Era
come cercare di afferrare il vento.
“Non è possibile” mormorai, indietreggiando.
“Ti prego, Alice” sussurrò Giorgio “So che tutto ciò ti sconvolge, ma devi credermi
perché non ti sto mentendo. Non è un sogno, un ‘illusione o una follia. E’ reale.
Completamente e assolutamente reale.”
No, no, no, no. Non ci potevo credere, non ci volevo credere. Giorgio non poteva
essere un… un.. fantasma. Lui era lì davanti a me. E allora perché non riuscivo a
toccarlo? Lo guardai dritto in faccia avvertii un brivido lungo tutta la schiena.
Giorgio stava scomparendo: la sua immagine era sbiadita e ora potevo vedere la
strada, i palazzi e il cielo blu.
“Forse ora hai più motivi per credermi” disse, sorridendo.
Era tutto sbagliato. All’improvviso mi venne in mente un pensiero non qualunque,
ma fondamentale.
“Se sei davvero morto” dissi piano “perché per tutta la notte mi hai mostrato tutti
quei motivi per vivere?”
Giorgio rimase in silenzio per un attimo, poi inizio a parlare. “Ti confesso che
anch’io, come te, quando ero ancora vivo, non riuscivo a trovare ragioni valide per
continuare a respirare. Un giorno mi resi conto che volevo farla finita; avevo
compreso ormai da tempo che la mia esistenza era finita. Così salii sul cornicione di
quella finestra e mi buttai. Credevo che ormai fosse finita, però accadde qualcosa di
straordinario: il mio spirito rimase ancorato a questa terra e io non riuscivo a capirne
il motivo. Vagavo qua intorno cercando di dare un senso a tutto ciò, finché un giorno
non ti vidi dalla finestra. Eri mezza sdraiata sul letto e fissavi l’azzurro del cielo con
occhi sognanti. Da quel momento in poi continuai a guardarti e, sebbene non ti
parlassi mai, sebbene non ti conoscessi a fondo, capii che tu eri come me: avevi
rinunciato a vivere, aspettando la morte. Realizzai, così, il perché fossi sulla Terra
sotto forma di fantasma. Dovevo mostrarti quelle motivazioni che io non ero riuscito
a trovare. Forse non avevo potuto salvare me stesso, però potevo e posso salvare te.”
“Perché mi dici questo? Perché ti sei rivelato solo adesso?” chiesi cautamente.
“Non volevo rovinare la serata, raccontandoti tutta la verità” disse Giorgio.
“Ma perché dirmi la verità?” volli sapere. Avevo bisogno di saperlo.
“Prima di morire diedi disposizioni affinché i miei organi venissero donati; magari da
morto sarei stato più utile che da vivo. Ho controllato la tua cartella clinica. Potresti
sopravvivere, se ti venisse trapiantato un nuovo fegato. E il mio fegato è compatibile
con il tuo. Insomma può salvarti. Dopo averlo scoperto, mi sono rivelato a te e…
be’… il resto lo sai.”
Giorgio smise di parlare e per qualche secondo regnò il silenzio.
“E ora cosa ti succederà, quando avrai raggiunto il tuo scopo, quando mi
cambieranno il fegato?” domandai.
“Scomparirò” disse “Probabilmente domani non mi vedrai più.”
“Quindi ci dobbiamo dire addio?” chiesi.
Lui annuì.
Avevo voglia di gridare, di piangere. E avevo un assoluto bisogno di abbracciarlo, di
sentire che era ancora lì, con me.
“Alice…” Il mio nome, sulle sue labbra, aveva un suono meraviglioso, delicato.
Ora lui era quasi trasparente.
“Addio, Alice.” disse Giorgio.
“Aspetta, ti prego.” Mormorai. “Non andartene, ora. Non sono pronta a dirti addio.”
“Invece lo sei, devi esserlo” ribatté lui.
Cercai di guardare i suoi bellissimi occhi azzurri, ma stavano scomparendo.
Ripensai alla notte trascorsa insieme a lui e mi resi conto di quanto fosse stata
speciale, magica.
“Grazie per avermi insegnato a vivere” dissi.
Era quasi sparito.
“Addio Giorgio” sussurrai.
Lui sorrise per l’ultima volta.
Quando sorse il sole, se ne era già andato.
*
Sono di nuovo sulla cima delle scogliere, osservando il vuoto davanti a me.
Salta. Di nuovo quella voce nella mia testa. No, questa volta non avrei saltato.
Indietreggio e corro via da quel luogo maledetto. Dietro di me il suono del mare, del
vento e della terra è più forte che mai.
*
Mi svegliai di colpo: avevo dormito appena poche ore, eppure avevo sognato lo
stesso. L’infermiera arrivò in quel momento seguita da un uomo con dei bambini che
si diresse al letto di Carla; e dietro di loro c’era il dottore che raggiunse il mio letto.
Aveva un’aria grave. Il suo sguardo era fin troppo eloquente e capii che non era in
grado di dirmi quello che avrebbe voluto, cioè che era troppo tardi, per me.
Non sapevo cosa dire, rimasi in silenzio. Allora la missione di Giorgio non aveva
avuto senso? I miei occhi scrutarono la stanza, l’infermiera, il dottore, Carla e…
compresi la verità. Non ero io che dovevo essere salvata, ma Carla. Il compito di
Giorgio era far sì che io dicessi ai dottori che quella madre così premurosa e così
affettuosa poteva essere salvata. Perché anche lei, come me, aveva la possibilità di
vivere, grazie a un trapianto di organi. E il suo fegato era compatibile con il mio e
quello di Giorgio. Mi resi conto che forse non era stato per caso se eravamo finite
nella stessa stanza, forse si doveva arrivare a questo momento.
“Si è trovato qualche donatore?” domandai.
“In effetti sì.” disse il dottore “A quanto pare quel povero ragazzo che si era lanciato
dalla finestra del palazzo di fronte alla clinica ha donato tutti i suoi organi. Tuttavia,
non credo che…”
Lo interruppi prima che potesse continuare: “Non per me, per Carla.”
Il dottore mi guardò con aria strana. Poi controllò una serie di cartelle e fogli.
“Sembra che tu abbia ragione” disse, sorridendomi.
Mentre l’infermiera Silvia si prendeva cura di me, il dottore diede la buona notizia a
Carla. E mai prima di allora avevo visto quella donna felice come lo era adesso.
Per quanto riguardava me, stranamente stavo bene. Non sapevo quando sarei morta,
ma l’idea non mi spaventava più di tanto.
Non appena Silvia e il dottore lasciarono la stanza, mi addormentai e, come al solito,
sognai.
Ancora una volta sono sul bordo delle scogliere irlandesi, guardando il mare davanti
a me.
Salta.
Do un’occhiata alle mie spalle e guardo la terra.
Non indietreggio.
Non salto.
Rimango lì, immobile, sospesa tra la vita e la morte.
FINE