Titolo originale: Oblivion Copyright © 2015 by Jennifer L. Armentrout

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Titolo originale: Oblivion Copyright © 2015 by Jennifer L. Armentrout
Titolo originale:
Oblivion
Copyright © 2015 by Jennifer L. Armentrout
Traduzione pubblicata in accordo con Entangled Publishing, LLC. tramite Rightsmix
LLC. Tutti i diritti riservati.
Realizzazione editoriale: studio pym / Milano
Questo libro è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistiti è
puramente casuale.
www.giunti.it
© 2016 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia
Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: aprile 2016
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Questo libro è per tutte le fan di Daemon Black,
che di lui non ne hanno mai abbastanza.
Spero che vi piaccia!
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Mi muovevo silenziosamente nella mia vera forma, più rapido di quanto l’occhio umano riuscisse a percepire, correndo
sull’erba e tra le rocce ricoperte di muschio. Non ero altro che
una macchia di luce che sfrecciava nel sottobosco. Essere un
alieno nato su un pianeta a ventitré miliardi di anni luce da lì
aveva i suoi vantaggi...
Superai con facilità una di quelle ridicole auto a basso consumo che percorreva lentamente la strada di fronte a casa mia.
Come accidenti faceva a trascinarsi dietro un rimorchio? Non
che fosse importante, ma insomma.
Rallentai e tornai ad assumere forma umana, mantenendomi all’ombra delle querce mentre la macchina si fermava sul
vialetto della casa accanto alla mia.
«Merda, vicini» borbottai quando la portiera si aprì e venne
fuori una donna di mezza età. La vidi chinarsi e dire qualcosa
a un’altra persona ancora seduta in auto.
Poi rise e ordinò: «Scendi subito».
Chiunque fosse non obbedì e la donna alla fine si arrese e
chiuse la portiera. Si voltò, percorse il vialetto e andò ad aprire
la porta d’ingresso.
Com’era possibile? Quella casa doveva restare vuota. Tutte
le case lì intorno dovevano rimanere vuote. Quella strada era
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la porta d’accesso per la colonia dei Luxen ai piedi delle Seneca
Rocks, e le abitazioni del quartiere non erano certo in vendita.
Non poteva essere vero.
L’ energia mi sfrigolava sulla pelle, ronzando, e la brama di
tornare ad assumere la mia vera forma era difficile da ignorare.
Questa cosa mi faceva imbestialire: casa mia era l’unico posto
in cui potevo... in cui potevamo essere noi stessi senza paura di
farci scoprire, e quei cazzoni del Dipartimento della Difesa lo
sapevano benissimo.
Strinsi forte i pugni.
Vaughn e Lane, i miei due baby-sitter personali stipendiati
dal governo, ne erano di sicuro al corrente. E, guarda un po’, si
erano dimenticati di dircelo l’ultima volta che erano passati a
controllarci, la settimana prima.
A un certo punto, la portiera dal lato del passeggero si aprì
e la persona che scese dalla Prius, appena fece il giro e riuscii a
vederla bene, attirò la mia attenzione.
«Oh, merda» mormorai di nuovo.
Era una ragazza.
A prima vista poteva avere la mia età, forse un anno in meno, e si guardava intorno lentamente, osservando il bosco che
confinava con i prati di fronte alle case, con l’aria di una che
teme di essere aggredita da un puma con la rabbia.
Si avvicinò alla veranda con passo esitante, come se stesse ancora decidendo se voleva davvero entrare. La donna, che
immaginavo fosse la madre, a giudicare dai capelli dello stesso
colore, le aveva lasciato la porta aperta. La ragazza mise un
piede sul primo gradino.
La osservai mentre scivolavo in silenzio tra gli alberi. Altezza media. Anzi, a pensarci bene, tutto in lei sembrava «nella
media»: i capelli castani, raccolti in una crocchia disordinata; il
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viso pallido, tondeggiante; fisicamente non era una di quelle ragazzine pelle e ossa che detestavo; e poi le sue... Okay, non tutto
in lei era nella media. Con lo sguardo indugiai sulle sue gambe.
Cavolo, quelle sì che erano gambe.
La ragazza si voltò verso gli alberi, incrociando le braccia
sul petto.
D’accordo. Due aspetti in particolare non erano nella media,
lo ammetto.
Scrutò il limitare del bosco e i suoi occhi si posarono proprio
nel punto in cui mi trovavo. Rimasi lì fermo, non osavo neanche
respirare. Stava fissando proprio me.
Ma non poteva vedermi, ero ben nascosto all’ombra dei
tronchi.
Passò qualche secondo prima che rilassasse le braccia ed
entrasse in casa, lasciandosi la porta spalancata alle spalle.
«Mamma?»
Inclinai la testa da un lato al suono della sua voce. Anche
quella sembrava... nella media. Non aveva alcun accento che
svelasse la sua provenienza.
Quello dove avevano abitato fino a quel momento, comunque, doveva essere un luogo davvero sicuro, perché nessuna delle
due si era disturbata a chiudere la porta. A pensarci bene, tutti gli
umani lì sembravano sentirsi al sicuro. Dopotutto a Ketterman,
cittadina situata nei sobborghi di Petersburg, West Virginia, la
polizia passava più tempo a portare al pascolo il bestiame e a
interrompere feste clandestine che a occuparsi di veri crimini.
Anche se gli umani avevano la brutta abitudine di scomparire, in quella zona.
Il sorrisetto che avevo sul viso svanì all’istante, non appena
pensai a Dawson. Non solo gli umani, purtroppo...
Quando pensavo a mio fratello, sentivo la rabbia ribollire
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dentro, risalire in superficie come in un vulcano sul punto di
eruttare. Lui non c’era più. Era morto per colpa di una ragazza
umana. E ora ne era arrivata un’altra, maledizione, proprio nella
casa accanto alla mia.
Dovevamo... fingerci umani, mescolarci a loro e perfino comportarci come loro. Ma la loro vicinanza portava sempre guai.
Qualcuno spariva o moriva.
Non avevo idea di quanto tempo avessi trascorso a fissare
la casa, ma alla fine la ragazza ricomparve, distogliendomi dai
miei pensieri. Si avvicinò al rimorchio, tirò fuori una chiave
dalla tasca dei pantaloncini e aprì le portiere di metallo.
O, almeno, ci provò.
Una volta, due volte.
Armeggiò con la serratura e con la maniglia per un’eternità.
Aveva le guance arrossate, le labbra socchiuse. Sembrava sul
punto di mettersi a prendere a calci il rimorchio per la frustrazione. Quanto poteva mai volerci ad aprire una serratura? Stava
diventando una cosa ridicola ed ero tentato di avvicinarmi e
porre fine a quel supplizio.
Finalmente riuscì ad aprire le portiere e a tirare giù la rampa.
Scomparve dentro e ricomparve poco dopo stringendo tra le
braccia uno scatolone. La guardai trasportarlo in casa e tornare
indietro, risalire sulla rampa e scendere faticosamente con un
altro scatolone, che a giudicare dalla sua espressione sofferente
doveva pesare più di lei.
Fece il giro del rimorchio con passo malfermo e anche dal punto in cui mi trovavo riuscivo a vedere che le tremavano le braccia.
Chiusi gli occhi, irritato da quello spettacolo. Riuscì ad arrivare ai
gradini di casa, ma ero certo che non ce l’avrebbe fatta a portare
dentro lo scatolone senza cadere e rompersi l’osso del collo.
Alzai un sopracciglio.
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Se si fosse rotta l’osso del collo, be’... ecco risolto il problema
dei nuovi vicini.
Appena posò il piede sul primo gradino, cominciò a barcollare. Se fosse caduta in quel momento, non si sarebbe fatta nulla.
Mentre saliva un altro gradino, mi brontolò lo stomaco. Per
la miseria, avevo di nuovo fame, anche se un’ora prima avevo
divorato qualcosa come dieci pancake.
Era quasi arrivata in cima alle scale e, tutto sommato, se anche fosse caduta, non si sarebbe fatta poi così male. Quando
posò il piede sul gradino più in alto, dovetti mio malgrado ammettere di essere colpito dalla determinazione che dimostrava
con quello scatolone. Quando però prese a barcollare pericolosamente, snocciolai sottovoce una lista di imprecazioni e sollevai
un braccio.
Concentrandomi sullo scatolone che aveva tra le mani, attinsi alla Fonte e immaginai di sollevarlo con facilità, per alleviare
le sofferenze della ragazza. Che si immobilizzò sulla veranda
per una frazione di secondo, come se si fosse resa conto del
cambiamento, poi scosse la testa ed entrò in casa.
Lentamente abbassai il braccio, scioccato da ciò che avevo
appena fatto. Lei non poteva immaginare che un tizio nascosto
tra gli alberi fosse responsabile di quello che era successo, ma
cavolo, era stata comunque una mossa idiota, da parte mia.
Rischiavamo di esporci ogni volta che attingevamo alla Fonte, indipendentemente da quanto fosse insignificante l’uso che
ne facevamo.
La ragazza ricomparve sulla veranda, le guance arrossate per
la fatica, e tornò al rimorchio asciugandosi le mani sui pantaloncini di jeans. Ne uscì di nuovo con un altro scatolone che
sembrava pesantissimo, e non potei fare a meno di domandarmi
dove accidenti fosse sua madre.
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La ragazza incespicò e lo scatolone barcollò pericolosamente,
producendo un tintinnio di vetri.
E, siccome gareggiavo per diventare il più grande idiota del
pianeta, rimasi lì tra gli alberi, lo stomaco che brontolava come
un motore, e la aiutai a trasportare dentro uno scatolone dopo
l’altro senza che neanche se ne accorgesse.
Quando finì (finimmo) di portare dentro le sue cose, ero
esausto, affamato e avevo attinto alla Fonte con così tanta frequenza che avrei dovuto farmi controllare da uno strizzacervelli.
Mi trascinai su per i gradini di casa ed entrai in silenzio. Non
c’era nessuno ed ero troppo stanco per cucinare, perciò mi scolai
mezzo litro di latte e svenni sul divano.
I miei ultimi pensieri andarono alla nuova, fastidiosa vicina.
Il piano era non rivederla mai più.
Era calata la sera e dense nubi, scure e impenetrabili, bloccavano i raggi delle stelle e della luna, cancellando ogni speranza
di luce. Nessuno poteva vedermi, il che probabilmente era una
cosa positiva.
Specialmente considerando che mi trovavo – di nuovo –
fuori dalla casa dei miei nuovi vicini, come l’inquietante protagonista di un thriller. E tanti saluti al piano di non rivedere
mai più quella ragazza.
Stava cominciando a diventare una fastidiosa abitudine. Cercavo di convincermi che fosse necessario, che dovessi saperne di
più su quella ragazza prima che la mia gemella Dee la vedesse
e decidesse che dovevano diventare migliori amiche. Dee era
tutto ciò che mi restava al mondo, e avrei fatto qualsiasi cosa
per proteggerla.
Lanciai un’occhiata a casa mia e sbuffai forte. Sarebbe stato
davvero terribile se, che so, avessi dato fuoco a tutto? Cioè, non
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volevo che quelle... quelle umane bruciassero vive, ci mancherebbe. Non ero un mostro. Ma d’altra parte, niente casa, niente
problemi.
Mi sembrava piuttosto semplice.
Un’altra complicazione era l’ultima cosa di cui avevo bisogno. L’ ultima cosa di cui avevamo bisogno, tutti noi.
In una delle stanze al piano di sopra c’era la luce accesa,
nonostante fosse tardi. Era la sua stanza da letto. Solo una manciata di minuti prima avevo visto il suo profilo passare davanti
alla finestra. Purtroppo era completamente vestita.
Mi stavo comportando come un vero maniaco.
A ogni modo quella ragazza era un bel casino. Era troppo rischioso che qualcuno si trasferisse nella casa accanto alla
nostra, e per di più qualcuno della nostra età. Era arrivata da
appena due giorni, ma era solo questione di tempo prima che
Dee la vedesse. Mi aveva già chiesto un paio di volte se avessi
conosciuto i nuovi vicini. Per placare il suo entusiasmo avevo
fatto spallucce e le avevo detto che quasi sicuramente era una
coppia di anziani che si erano trasferiti in campagna per godersi
la pensione, ma sapevo che la vivacità di Dee era impossibile
da tenere a freno.
Ecco, si parla del diavolo...
«Daemon» sussurrò una voce dalla veranda di casa mia. «Ma
che cavolo stai facendo?»
Decido se radere o meno al suolo la casa dei vicini la prossima
volta che escono per andare a fare la spesa, ti basta come risposta?
Sì, be’, questa è meglio se la tengo per me.
Sospirando mi voltai e mi diressi verso mia sorella, la ghiaia
che scricchiolava sotto i piedi. Lei era appoggiata alla ringhiera e
guardava la casa accanto, un’espressione curiosa sul viso mentre
la brezza le sollevava i lunghi capelli scuri.
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Mi ci volle uno sforzo incredibile per camminare a una velocità normale. Di solito non dovevo preoccuparmene quando
ero a casa, mi limitavo a muovermi alla velocità della luce, ma
con quelle persone nei paraggi dovevo riprendere abitudini...
umane.
«Ero fuori, di pattuglia.» Appoggiai un fianco alla ringhiera
dando le spalle alla casa dei vicini, come se non esistesse.
Dee mi guardò con aria poco convinta. Brillanti occhi color
smeraldo, lo stesso dei miei, mi fissavano colmi di sospetto.
«Non mi sembrava.»
«No?» Incrociai le braccia sul petto.
«No.» Lanciò un’occhiata alle mie spalle. «A me pareva che
stessi osservando quella casa.»
«Mmm-mmm.»
Strinse le palpebre. «Allora, ci si è davvero trasferito qualcuno?»
Dee era stata dai Thompson negli ultimi due giorni, il che
era stato un bene, anche se non mi andava a genio il fatto che
passasse la notte a casa di un nostro coetaneo alieno, Adam. Ma
aveva funzionato, non aveva idea di chi abitasse lì. Conoscendola, se avesse saputo che era un’umana della sua età, si sarebbe
comportata come con un cucciolo abbandonato.
Non risposi e lei sbuffò. «D’accordo, devo proprio tirare a
indovinare?»
«Sì, ci si è trasferito qualcuno.»
Spalancò gli occhi sporgendosi verso la casa, che prese a
fissare come se volesse trapassare le pareti con lo sguardo. Avevamo poteri straordinari, lo ammetto, ma la vista a raggi X non
era tra questi. «Oh, cavolo, non sono Luxen. Sono umani.»
Ovviamente l’avrebbe percepito, se fossero stati della nostra
razza. «Già. Umani.»
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Scosse piano la testa. «Ma perché? Sanno di noi, forse?»
Ripensai alla ragazza con i suoi scatoloni. «Io credo proprio
di no.»
«Che strano. Perché il Dipartimento della Difesa li ha lasciati
venire qui?» chiese, aggiungendo subito: «Be’, chi se ne frega.
Spero che siano simpatici».
Chiusi gli occhi. Ma certo, Dee non si preoccupava affatto
della cosa, neppure dopo quello che era successo a Dawson.
Per lei contava solo che fossero simpatici. Non le era venuto
in mente neanche per un secondo di che accidenti di pericolo
rappresentasse per noi la vicinanza di un umano. No, per mia
sorella era tutto unicorni e arcobaleni.
«Hai visto chi sono?» chiese eccitata.
«No» mentii riaprendo gli occhi.
Fece una smorfia e si allontanò dalla ringhiera, battendo le
mani. Eravamo quasi alti uguali e negli occhi le vedevo una luce
compiaciuta. «Spero che sia un bel ragazzo.»
Strinsi i denti.
Lei ridacchiò. «O magari una ragazza della mia età. Sarebbe
favoloso.»
Oddio...
«Renderebbe quest’estate più bella, soprattutto ora che Ash
sta facendo la tu-sai-cosa» proseguì.
«No, non so cosa.»
Alzò gli occhi al cielo e disse: «Non fare l’ingenuo, coglione.
Lo sai benissimo perché si struscia come una gatta in calore.
Pensava che avreste trascorso l’estate insieme, voi due, a fare...».
«Le cosacce?» suggerii.
«Oh, che schifo. Non volevo dire quello.» Rabbrividì e io non
riuscii a nascondere un ghigno compiaciuto mentre mi domandavo se Ash avesse già ammesso che tra noi era già successo,
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anche se ormai parecchio tempo prima. «Si lamenta che non la
porterai più dove avevi promesso.»
Non avevo idea di che cosa stesse parlando.
«Comunque, spero che i nostri vicini siano gente a posto,
chiunque siano.» Come un criceto sulla ruota, la mente di Dee
continuava a tornare sempre sullo stesso argomento. «Magari
potrei andare a trovarli...»
«Non finire neanche la frase, Dee. Non sai chi sono né cosa
vogliano. Stai lontana da loro.»
Si mise le mani sui fianchi e strinse le palpebre: «Come facciamo a sapere che tipo di persone sono, se stiamo alla larga?».
«Ci penserò io.»
«Non mi fido particolarmente del tuo giudizio sugli umani,
Daemon.» E mi lanciò un’occhiataccia.
«E io non mi fido del tuo. Come non mi sono mai fidato di
quello di Dawson.»
Dee fece un passo indietro ed emise un lungo, profondo
sospiro. La rabbia svanì subito dal suo viso. «Okay, capisco.
Ora so perché...»
«Non parliamone. Non stasera» dissi passandomi una mano
tra i capelli, che mi rimasero dritti in testa. Dovevo proprio
tagliarli. «È tardi e devo fare un altro giro prima di andare a
letto.»
«Un altro giro?» sussurrò. «Credi che... ci sia qualche Arum
nelle vicinanze?»
Scossi la testa. Non volevo farla preoccupare, ma la verità
era che si trovavano sempre nelle vicinanze ed erano i nostri
unici predatori naturali. Lo erano sempre stati, sin dai tempi
in cui ancora popolavamo il nostro pianeta originario. Anche loro non erano terrestri. Per molti versi erano il nostro
esatto opposto, a livello di aspetto e capacità, e a differenza
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nostra loro uccidevano. Sì, riuscivano a usare la Fonte nutrendosi del Luxen che ammazzavano. Erano come parassiti
sotto steroidi.
Gli Anziani ci raccontavano sempre che, quando si era formato, l’universo era pieno di luce purissima e coloro che vivevano nell’ombra, gli Arum, erano invidiosi. Così avevano deciso
di soffocare tutta la luce, facendo scoppiare la guerra tra i nostri
due pianeti.
E i nostri genitori erano morti in quella guerra, quando la
nostra casa era stata distrutta.
Gli Arum ci avevano seguiti fin lì, erano riusciti ad arrivare
sulla Terra senza farsi individuare, mascherati da eventi atmosferici. Ogni volta che si verificava una pioggia di meteoriti o
di stelle cadenti, io stavo sempre in allerta perché di solito gli
Arum si manifestavano dopo eventi del genere.
Combatterli non era per nulla facile. Potevamo ucciderli
direttamente con la Fonte o con l’ossidiana: sotto forma di lama era mortale per gli Arum, specialmente dopo che si erano
nutriti. Quella pietra scomponeva la luce. Procurarsela non era
semplice, ma io cercavo di averne sempre un pezzo con me, di
solito assicurato alla caviglia. E anche Dee.
Non si poteva mai sapere quando ce ne sarebbe stato bisogno.
«Voglio solo essere prudente» dissi.
«Sei sempre prudente.»
Le rivolsi un sorriso tirato.
Dopo un attimo di esitazione, mi buttò le braccia al collo e
mi baciò sulla guancia. «A volte sei proprio un cazzone patentato, ma ti voglio bene. Ci tenevo solo che lo sapessi.»
Ridacchiai e la strinsi in un rapido abbraccio. «Tu invece sai
proprio stordirmi con le tue chiacchiere, ma anch’io ti voglio
bene.»
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Dee mi diede uno schiaffetto su un braccio e sorrise. «Non
fare tardi.»
Annuii e la guardai rientrare in casa. Era raro che Dee facesse
qualcosa lentamente. Era sempre stata lei quella instancabile.
Dawson invece era il pigrone del gruppo, e io... io ero il cretino.
Eravamo tre gemelli.
Ed eravamo rimasti in due.
Stetti per qualche istante a riflettere sul fatto che mia sorella
era l’unica cosa su questo pianeta a cui tenessi davvero. Quindi
riportai la mia attenzione sulla casa dei vicini. Basta raccontarmi favole: non appena Dee avesse capito che lì accanto abitava
una ragazza, le si sarebbe appiccicata come un’alga allo scafo
di una nave. E nessuno poteva resistere a mia sorella. Era una
stramaledetta, dolcissima pallina di energia pura.
Vivevamo tra gli umani, ma non ci avvicinavamo a loro
per una lunga serie di motivi. E non avrei permesso a Dee di
commettere lo stesso errore di Dawson. Avevo fallito con mio
fratello, ma a lei non sarebbe capitata la stessa sorte. Avrei fatto
qualsiasi cosa pur di tenerla al sicuro. Qualsiasi cosa.
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