Giugno 2015 PERCORSI CLINICI E RIABILITATIVI DI PAZIENTI

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Giugno 2015 PERCORSI CLINICI E RIABILITATIVI DI PAZIENTI
Psicologia & Giustizia
Anno XVI, numero 1
Gennaio – Giugno 2015
PERCORSI CLINICI E RIABILITATIVI DI PAZIENTI CON COMPORTAMENTI
AGGRESSIVI: ASPETTI DI SICUREZZA, LEGALI E DI RESPONSABILITA’
G. Gulotta, G. Gasparini
Abstract – L’aggressività si configura come costrutto non omogeneo che può avere cause,
manifestazioni e conseguenze differenti tra loro, tanto da essere stata, ed essere tutt’ora, oggetto di
studio in molti settori della ricerca (biologico, evoluzionistico, psichiatrico, forense, sociale…).
Sembra quindi opportuno adottare un approccio esplicativo multifattoriale, prendendo in
considerazione da un lato le ricerche delle neuroscienze e le prospettive biologiche, dall’altro le
implicazioni cliniche e le connessioni con le patologie mentali. La gestione del paziente psichiatrico
aggressivo, che ha messo in atto, o che può mettere in atto, condotte violente, può determinare nei
curanti difficoltà relazionali e implica responsabilità etiche, legali e professionali. Il lavoro prende in
esame le differenti tecniche contenitive a disposizione dei curanti e propone una breve disamina dei
riferimenti normativi e giurisprudenziali relativi alla gestione dei pazienti con comportamenti
aggressivi.
Parole chiave: aggressività, paziente psichiatrico aggressivo, escalation, contenzione, riferimenti
normativi, riferimenti giurisprudenziali
1. Il costrutto dell’aggressività: prospettiva evoluzionistica e basi neurobiologiche
Appare complesso proporre una definizione univoca di aggressività e, di conseguenza, di
comportamento aggressivo, non foss’altro perché confrontando le concezioni maturate entro le varie
tradizioni nel corso degli anni e analizzando le diverse prospettive teoriche che si sono succedute e
influenzate a vicenda ci imbatteremmo in un’evidenza: tra gli specialisti sono state rilevate almeno
250 definizioni di aggressività.
1
L’aggressività, infatti, si configura come costrutto non omogeneo che può avere cause,
manifestazioni e conseguenze differenti tra loro, ed è proprio per questo che è stata, ed è tutt’ora,
oggetto di studio in molti settori della ricerca: biologico, psichiatrico, forense, sociale, etico…
Sembra quindi logico adottare un approccio esplicativo multifattoriale dell’aggressività,
prendendo in considerazione da un lato le teorie evoluzionistiche, le ricerche delle neuroscienze e le
prospettive biologiche, dall’altro alcune tradizioni teoriche e le implicazioni cliniche, con lo scopo
di definire quali possano essere le tecniche di gestione dei pazienti violenti e le implicazioni legali
dei possibili interventi.
Per quanto riguarda la prospettiva evoluzionistica, va premesso che biologicamente noi siamo gli
uomini dell’età della pietra: l’intervallo di tempo trascorso tra le caverne e le civiltà attuali è troppo
breve, sul piano evoluzionistico, per ottenere modificazioni significative nella nostra struttura. Così,
dunque, le categorie fondamentali dell’aggressione intraspecifica sono rimaste invariate: la
competizione e la conquista da un lato, la protezione dall’altro, e dunque in ultima analisi la
sopravvivenza della specie. Nel primo caso, l’aggressività si manifesta nei casi in cui sussiste un
conflitto per accaparrarsi una risorsa disponibile e mira all’affermazione della dominanza, che
consente l’accesso prioritario a quelle risorse: l’esempio è il corteggiamento, l’accesso ai partner
sessuali per assicurarsi il successo riproduttivo. Nel secondo caso, il comportamento aggressivo è
determinato dalla difesa di se stessi, del proprio gruppo, della prole e delle risorse conquistate.
Aggressività, quindi, come comportamento adattivo. In particolare, ha un significato adattivo
quando la persona riesce a esercitare un controllo efficace sulle proprie tendenze aggressive;
diventa invece patologica quando si manifesta in maniera afinalistica, irrazionale, esplosiva,
violenta e può essere causa di danno per gli altri oltre che per il soggetto stesso. Quando assume
queste caratteristiche, l’aggressività rappresenta una modalità di rapporto con il mondo che si
traduce in una limitazione, in un’interferenza disadattiva nella vita sociale, lavorativa e affettiva,
che spesso determina l’isolamento e il fallimento dell’esistenza dell’uomo1.
Può essere poi utile considerare che il costrutto dell’aggressività è multicomposto2:
l’aggressività fisica e l’aggressività verbale rappresentano la componente strumentale o motoria del
comportamento; la rabbia, identificata come la componente affettiva o emotiva del comportamento
aggressivo, coinvolge l’arousal fisiologico e la preparazione per aggredire, quasi fosse una sorta di
“ponte psicologico” tra le componenti cognitive e strumentali: l’arrabbiarsi, spesso, è un preludio ad
aggredire; l’’ostilità rappresenta invece la componente cognitiva e consiste in sentimenti di
1
Buss, A.H., Durkee, A. (1957). An inventory for assessing different kinds of hostility. Journal of Consulting
Psychology, 21, 4: 343-349.
2
Si tratta dei 4 fattori individuati dalle analisi fattoriali condotte sull’Aggression Questionnaire (AQ) di Buss e Perry
(1992). La versione italiana del questionario è a cura di Fossati, Maffei, Acquarini, Di Ceglie (2003). In Maffei C.
(2008) Borderline. Struttura, categoria, dimensione. Raffaello Cortina Editore, Milano.
2
malevolenza e ingiustizia: lo stato di alto arousal (rabbia), diminuisce con il trascorrere del tempo e
permane un residuo cognitivo di malevolenza, risentimento e diffidenza.
È intuitivo come spesso le manifestazioni aggressive siano determinate dall’impulsività. Anche
relativamente a questo costrutto si può distinguere tra una componente motoria (che corrisponde
all’agire senza pensare), una componente attentiva (determinata dalla presenza di pensieri veloci,
intrusivi e dalla difficoltà a concentrarsi su un compito) e una componente cosiddetta “da non
pianificazione” (che determina una centratura sul presente, senza possibilità di pensare al futuro)3.
L’analisi combinata delle sottodimensioni dell’aggressività e dell’impulsività permette di
valutare quanto la disposizione basale all’aggressività sia associata o meno a un deficit di controllo
e pianificazione generale del comportamento. Tale combinazione permette infatti di distinguere
l’aggressività impulsiva o reattiva, caratterizzata dalla tendenza a manifestazioni violente esplosive,
reattive, non pianificate e prive di controllo, dall’aggressività proattiva, determinata dalla tendenza
ad agire l’aggressività in maniera deliberata, “a sangue freddo”.
Dal punto di vista clinico si tratta di una differenza importante: se la gestione clinica del paziente
aggressivo richiede competenze particolari, la distinzione tra le 2 forme dell’aggressività implica
traiettorie cliniche differenti. Per esempio, l’aggressività reattiva nelle sue manifestazioni estreme è
connessa a un’elevazione del rischio suicida su base non depressiva nei pazienti con disturbo di
personalità borderline4, mentre l’aggressività proattiva è connessa alla psicopatia nelle forme
“maligne” del narcisismo.
Questa distinzione ha ricadute importanti anche dal punto di vista terapeutico: l’efficacia degli
interventi farmacologici, per quanto esulino dalle nostre competenze, è quasi esclusivamente
limitata alle forme di aggressività impulsiva, mentre la violenza premeditata risulta meno sensibile
ai farmaci.
Fatta questa premessa, sorge spontaneo domandarsi se esista un’area cerebrale, un ormone o un
gene dell’aggressività tali da intrattenere un rapporto biunivoco con i fenomeni aggressivi.
Ebbene, se la nostra aspettativa è questa rimarremo delusi. Non si può tuttavia negare il carattere
di attivazione svolto dalle componenti biologiche la cui spinta può, con il concorso di altri fattori,
promuovere atti aggressivi.
Benché
dall’analisi
delle
basi
biologiche
e
delle
componenti
neurofisiologiche,
neurotrasmettitoriali, ormonali e genetiche dei comportamenti aggressivi non sia possibile dedurre
3
Si tratta delle dimensioni valutate dal questionario Barratt Impulsiveness Scale (BIS-11) elaborato da Barratt (1959).
In Maffei C. (2008) Borderline. Struttura, categoria, dimensione. Raffaello Cortina Editore, Milano.
4
Moeller F.G., Barratt E.S., Dougherty D.M., Schmitz J.M., Swann A.C. (2001). Psychiatric Aspects of impulsivity.
American Journal of Psychiatry, 158: 1783-1793
3
una concezione deterministica o innatistica dell’aggressività, è tuttavia possibile evidenziare la
presenza di componenti innate nella causazione e nell’espressione dell’aggressività.
Il concorso causativo delle componenti biologiche è d’altro canto dimostrato dal fatto che le loro
variazioni, a parità di altre condizioni, incidono nella probabilità di mettere in atto un
comportamento aggressivo. Così, per esempio, lo studio di pazienti con lesioni o patologie ai lobi
frontali e temporali ha permesso di stabilire una connessione tra l’ipoattività di queste aree e
l’aumento dell’aggressività e dell’irritabilità5; altri studi, condotti sugli animali, hanno dimostrato il
coinvolgimento delle strutture limbiche nei processi che danno luogo al comportamento aggressivo,
in particolare varie porzioni dell’amigdala, del talamo e dell’ipotalamo6.
Per quanto riguarda i neurotrasmettitori e le sostanze psicostimolanti, sono acetilcolina,
catecolamine (in particolare dopamina e noradrenalina) e serotonina le sostanze deputate alla
trasmissione del segnale all’interno del sistema neuroanatomico correlato all’aggressività. Lo studio
della loro rispettiva ed effettiva influenza nell’uomo è limitato non solo da problemi etici, ma anche
da difficoltà di natura metodologica, dal momento che gli effetti non variano linearmente rispetto
all’incremento della sostanza, ma sono funzionali ai ritmi circadiani7. Le conoscenze sulla
correlazione tra l’incremento o la diminuzione di tali sostanze e la messa in atto di agiti violenti,
pertanto, derivano da studi condotti sugli animali, in cui la sostanza in esame può essere iniettata
direttamente nelle aree cerebrali di interesse. Si è così rilevato come bassi livelli di noradrenalina
nel liquor sono associati a comportamenti violenti e come il decremento della serotonina sia
correlato a un incremento dell’aggressività8: la carenza di serotonina, infatti, induce disfunzioni nei
circuiti che presiedono alla regolazione delle emozioni, situati in varie aree della corteccia
prefrontale: tali disfunzioni facilitano l’aggressione immediata ed esplosiva, conseguente al
mancato controllo dei fenomeni di rabbia9. Per quanto concerne le sostanze psicostimolanti, quelle
che interagiscono con il sistema catecolaminergico, e quindi amfetamine, cocaina e caffeina, hanno
un effetto di antagonisti nei confronti dei neurotrasmettitori interessati all’aggressività, ma è
fondamentale considerare come il loro effetto dipenda dalle dosi, dalla frequenza e dal tempo di
somministrazione; inoltre dosi maggiori o minori di certi livelli possono produrre effetti opposti a
5
La prima evidenza scientifica risale al 1848 con il caso di Phineas Cage, l’operaio delle ferrovie che da uomo corretto
e equilibrato divenne irascibile e brutale e iniziò a mostrare comportamenti impulsivi, antisociali e distruttivi dopo che
una sbarra gli trapassò il lobo frontale del cervello.
6
Hess W.M., Brugger M. (1943). Das subkorticale zentrum der affektiven abwehrreaktionen. Helvetica Physiologica et
Pharmacologica Acta, 1: 33-53
7
Valzelli L. (1989). Psicobiologia dell’aggressione e della violenza. Faenza Editrice, Faenza.
8
Le prime indicazioni sul coinvolgimento della serotonina vengono da studi condotti negli anni ’70 in cui è stata notata
la diminuzione del neurotrasmettitore in pazienti depressi morti suicidi. Considerando il suicidio come espressione
autodiretta di un comportamento aggressivo, ed essendo noto che nelle depressioni gravi il livello di serotonina è basso,
si può ritenere che abbia una funzione inibitrice, o almeno regolatrice, della risposta aggressiva.
9
Davidson R.J. et al. (2000). Disfunction in the neural circuitry of emotion regulation. A possible prelude to violence.
Science, 289: 591-594.
4
quelli attesi e il loro ruolo di facilitatori di comportamenti aggressivi, e non solo di generica
attivazione del sistema simpatico, dipende altresì dalla disponibilità di mezzi che istigano o evocano
l’aggressione.
Una approfondimento relativo all’alcol: ha certamente un ruolo importante nella messa in atto di
comportamenti violenti, ma l’analisi è più problematica, in quanto il suo è un effetto aspecifico
sulla neurotrasmissione relativa all’aggressività. I suoi effetti facilitanti, tuttavia, attestati dall’alto
tasso di atti violenti commessi in stati di ebbrezza, dipendono non solo dalla personalità del
soggetto e dalla quantità assunta, ma vanno anche connessi alla sua azione disinibente (a dosi
moderate), piuttosto che a uno specifico ruolo agonistico. È possibile infatti che il suo concorso
nella promozione dell’aggressività dipenda da fattori più generali e non da una specifica influenza
su sistema neurofisiologico: vanno infatti tenuti in considerazione fattori di ordine fisiologico, ma
anche psicologico, quali l’alterazione delle funzioni percettive, un senso fittizio di potenza fino a
ideazioni deliranti, il rallentamento dei tempi di reazione e il deterioramento nella capacità di
giudizio, che possono causare oltre a comportamenti francamente aggressivi, anche semplici
incidenti e atti lesivi preterintenzionali.
Anche gli ormoni influenzano i comportamenti. Molte ricerche attestano un ruolo rilevante
dell’ormone maschile testosterone nel facilitare l’aggressione e questo concorre a spiegare la
prevalenza di crimini violenti maschili in tutte le popolazioni e la maggior agitazione fisica del
maschio pubere rispetto alla femmina, senza con questo dimenticare o negare l’importanza dei
fattori educativi e culturali. D’altro canto, la minor quantità di estrogeni e progestinici e un aumento
del testosterone nella fase precedente il ciclo potrebbero spiegare l’accresciuta aggressività
femminile nel corso della cosiddetta sindrome premestruale.
Tuttavia, il minor numero complessivo di atti violenti nella donna non deve far pensare a una
minore propensione femminile all’aggressività in generale, ma solo alle sue manifestazioni violente
e fisiche; vanno infatti considerate le forme verbali e le forme meno vistose, in parte rilevabili dal
comportamento manifesto (ad esempio maldicenze), in parte presenti in sentimenti e emozioni (ad
esempio invidie).
Anche in uno studio condotto da Buss e Perry gli uomini sono risultati più aggressivi rispetto alle
donne, e in particolare gli uomini ottengono un punteggio superiore nell’Aggressività fisica, mentre
nell’Aggressività verbale e nell’Ostilità superano di poco il punteggio delle donne. Per la Rabbia
invece non sono state riscontrate differenze legate al sesso. Anche questi dati suggeriscono che le
donne si arrabbiano quanto gli uomini, ma inibiscono maggiormente l’espressione violenta
dell’aggressività.
5
2. Pazienti aggressivi: la patologia, la relazione e la gestione dell’escalation
Per quanto riguarda le patologie psichiatriche, va sottolineato come il DSM (Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali) non prevede specificamente, nelle sue diverse versioni,
un disturbo aggressivo, e la presenza di manifestazioni violente non appare legata in modo specifico
a una singola area o categoria diagnostica: l’aggressività si configura quindi più come una
dimensione trans-nosografica che come un elemento psicopatologico nucleare e strutturante.
In particolare, nel DSM-IV-TR (2002) vengono catalogati due disturbi in cui i comportamenti
violenti, distruttivi e impulsivi caratterizzano l’entità sindromica: il disturbo della condotta (inserito
tra i disturbi diagnosticati nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza) e il disturbo esplosivo
intermittente (inserito tra i disturbi del controllo degli impulsi non classificati altrove, caratterizzati
dall’incapacità di resistere a un impulso, a un desiderio impellente, o alla tentazione di compiere
un’azione pericolosa per sé o per gli altri, in cui “gravi atti aggressivi o di distruzione della
proprietà” rappresentano l’elemento centrale e sono causati da “numerosi episodi di incapacità di
resistere agli impulsi aggressivi” con un grado di aggressività “del tutto sproporzionato rispetto a
qualsiasi fattore psicosociale stressante precipitante”). In questi due disturbi, quindi, i
comportamenti aggressivi appaiono essere situazioni di violenza “primaria”, cioè non dipendente da
un altro disturbo mentale e non dovuta agli effetti fisiologici di una sostanza o di una condizione
medica generale. Il Manuale fa poi riferimento ai comportamenti aggressivi che si possono
manifestare a livello sintomatologico nel corso di altri disturbi, in cui appare più appropriato parlare
di violenza “secondaria”: tra questi troviamo la demenza, l’intossicazione o l’astinenza da sostanze,
l’episodio maniacale, l’episodio depressivo maggiore, la schizofrenia, l’attacco di panico e i disturbi
di personalità.
Il DSM-V (2014) ha inserito entrambi i disturbi citati nel nuovo capitolo “Disturbi da
comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta”, all’interno del quale sono
compresi solo i disturbi in cui i problemi nella regolazione emotiva e/o comportamentale (presenti
anche in altri disturbi) si manifestano attraverso comportamenti che violano i diritti degli altri (per
es. aggressione, distruzione della proprietà) e/o che mettono l’individuo in contrasto significativo
con norme sociali o figure che rappresentano l’autorità. Questi disturbi sono: disturbo oppositivoprovocatorio, disturbo esplosivo-intermittente, disturbo della condotta, disturbo antisociale di
personalità, piromania, cleptomania, disturbi del comportamento dirompente, del controllo degli
impulsi e della condotta con altra specificazione e senza specificazione. È precisato che le cause
sottostanti dei problemi di autocontrollo delle emozioni e dei comportamenti possono variare
notevolmente tra tutti i disturbi inseriti in questo capitolo e tra gli individui appartenenti a una stessa
6
categoria diagnostica. Rimangono i riferimenti ai comportamenti aggressivi posti in essere in corso
di altri disturbi mentali.
Considerata globalmente, la popolazione psichiatrica non pone in essere comportamenti
aggressivi in misura significativamente maggiore rispetto alla popolazione generale, ma è indubbio
che gli operatori sanitari siano figure massimamente esposte a questo tipo di comportamenti 10,
messi in atto soprattutto da soggetti maschi in età fertile, caratteristiche in linea con le
considerazioni evoluzionistiche fatte precedentemente. Altri fattori di rischio sono il basso livello
intellettivo, economico, culturale e occupazionale, un’anamnesi positiva per comportamenti
violenti, l’uso o l’abuso di sostanze o alcol, la diagnosi psichiatrica di schizofrenia, il momento del
ricovero11.
In generale, la relazione terapeutica con un paziente che ha messo in atto, o che può mettere in
atto, condotte aggressive o violente è densa di problematiche che possono inficiare la correttezza e
l’adeguatezza del percorso diagnostico e delle strategie terapeutiche.
L’operatore infatti si trova a confrontarsi con un paziente che può agire anche in maniera
inaspettata, imprevedibile e incomprensibile, nonostante il monitoraggio costante e l’impegno
terapeutico. Ciò da un lato incrementa il rischio di esperire frustrazione, dall’altro aumenta
l’esposizione a responsabilità etiche, legali e professionali a più livelli: nei confronti del paziente
(che deve essere tutelato da un comportamento violento verso se stesso), nei confronti di eventuali
potenziali vittime (che vanno salvaguardate), nei confronti di se stesso (perché è quasi impossibile
lavorare e operare con l’incombenza di un pericolo costante) e, nel caso di un’istituzione, nei
confronti degli altri operatori (che devono essere garantiti rispetto al massimo della sicurezza
nell’ambiente di lavoro).
I sentimenti che l’operatore può provare nei confronti del paziente aggressivo sono quindi di
varia natura: paura, frustrazione, rabbia, delusione, insicurezza…; alla base sussiste spesso una
condizione di ansia la cui gestione può risultare particolarmente difficile e che può innescare dei
meccanismi di difesa con lo scopo di produrre una barriera difensiva e protettiva della stabilità
emotiva, l’aumento della sicurezza personale, il mantenimento della stima di sé come operatori.
Gli effetti di tali meccanismi di difesa, tuttavia, possono essere non positivi: pur trattandosi di
processi psicologi che agiscono anche nell’attività psichica normale (quindi la loro identificazione
10
Beccattini G., Bambi S., Palazzi F. et al. (2007). Il fenomeno delle aggressioni agli operatori di Pronto Soccorso: la
prospettiva italiana. In ANIARTI, Atti XXVI Congresso Nazionale ANIARTI, 535-541. Dallo studio condotto su 15
strutture di Pronto Soccorso di 14 regioni italiane, rappresentative di tutto il territorio nazionale, risulta che quasi tutti
gli infermieri intervistati sono stati aggrediti verbalmente (90%) o hanno assistito ad aggressioni nei confronti di
colleghi (95%); il 35% del campione ha subito atti di violenza fisica, più della metà (52%) ne è stata testimone, poco
meno di un terzo degli infermieri (31%) ha avuto bisogno di cure mediche a causa di un’aggressione, con prognosi fino
a 5 giorni (13%), da 5 a 15 giorni (11%) o superiore a 15 giorni (6%).
11
Conrad A., Mulchandani M., Sankaranarayanan A., Lewin T. (2014). Inpatient aggression by mentally ill offenders: a
retrospective case-control study. Journal of Forensic Psychiatry & Psychology, Aug(2014), vol 25(4), 464-479
7
non costituisce necessariamente la prova di un disturbo psicologico) possono svilupparsi in modo
esagerato ed essere di ostacolo alla reale comprensione emotiva, ponendosi sì come scudo
difensivo, ma anche come scudo visuo-interpretativo della realtà globale del paziente, che rimane
così sconosciuta all’operatore nella sua complessità, ostacolando la diagnosi e compromettendo le
strategie terapeutiche. Nonostante ciò, il mantenimento di tali meccanismi può essere determinato
dal fatto che l’operatore, a seguito dell’instaurarsi di tali processi, intraprende una condotta
professionale che avverte come più vantaggiosa rispetto alla modalità precedente, perché l’angoscia
viene controllata e la relazione risulta meno ansiogena.
Va poi considerato che oltre a costituire un ostacolo alla valutazione e al trattamento del
paziente, questi processi psicologici possono diventare un elemento causale determinante nel
meccanismo di automantenimento del comportamento violento da parte del paziente, che spesso,
nonostante la patologia, è in grado di “testare” l’operatore per evidenziarne limiti e debolezze e può
quindi “percepire” i meccanismi di difesa. Ecco allora che il paziente ritrova nell’operatore l’ansia e
la paura per la malattia mentale e per il comportamento aggressivo, che per il paziente hanno il
significato di una conferma delle proprie angosce, della propria sofferenza, della propria patologia e
della propria violenza.
I meccanismi di difesa possono presentare specifici aspetti clinici in rapporto alle caratteristiche
psicopatologiche del paziente: per esempio un paziente schizofrenico paranoide può stimolare
meccanismi legati al modo confuso, delirante e ricco di processi primari attraverso cui mette in atto
o verbalizza il comportamento aggressivo; un paziente borderline, invece, può mettere in crisi il
curante o l’equipe a causa delle reazioni emotive legate ai ripetuti agiti di violenza fisica anche
autodiretti.
Anche il contesto ha un’influenza importante: gli agiti violenti sono molto più frequenti in un
pronto soccorso psichiatrico di quanto non lo siano nell’ambulatorio privato di uno psicoanalista.
La formazione dell’operatore, inoltre, è una variabile centrale per comprendere e utilizzare le
reazioni emotive suscitate dal paziente: la sensibilizzazione alle proprie emozioni dovrebbe essere
una costante nella vita professionale degli operatori, che dovrebbero essere in grado di avvertire che
qualcosa nella relazione non sta andando come dovrebbe, a partire da un incremento dell’ansia, fino
a segnali meno evidenti, ma più insidiosi, quali l’evitamento della gestione di un certo paziente o la
delega a colleghi. Anche la letteratura conferma che un training formativo specifico per la gestione
dei pazienti aggressivi può aiutare a ridurre l’impiego di misure coercitive e le aggressioni stesse12.
In ogni caso, il confronto con un paziente aggressivo configura una situazione di emergenza che,
se gestita in maniera ingenua, può compromettere la sicurezza e l’incolumità del paziente stesso e
12
Livingston J.D., Verdun-Jones S., Brink J., Lussier P., Nicholls T. (2010). A narrative review of the effectiveness of
aggression management training programs for psychiatric hospital staff. Journal of forensic nursing, vol.6 (1), 15-28.
8
degli operatori. I sentimenti di ansia e paura che si possono esperire quando ci si trova a gestire un
paziente in acuto rischiano, infatti, di innescare negli operatori comportamenti controproducenti: la
diffidenza, l’evitamento e la presa di distanza relazionale possono rinforzare nel paziente le
sensazioni di isolamento, frustrazione e non comprensione che avevano determinato l’agito
violento. D’altra parte, i tentativi di risoluzione attraverso l’affermazione di prestanza fisica da parte
degli operatori spesso costituiscono per il paziente un’esperienza sintonica che rischia di agire da
rinforzo per il comportamento aggressivo, contribuendo a inscrivere questa condotta nel pattern dei
comportamenti sociali abituali.
Al di là dei protocolli che stabiliscono le norme pratiche da applicare nelle situazioni di crisi, è
interessante considerare le reazioni controtransferali che può suscitare un paziente potenzialmente o
attualmente violento e individuare alcune tecniche finalizzate al contenimento dell’aggressività e
alla diminuzione della tensione.
Molti studi suggeriscono come l’impiego di questionari o strumenti di valutazione predittiva di
potenziali comportamenti violenti permetterebbe di stimare i fattori facilitanti la messa in atto di
condotte aggressive e quindi strutturare interventi più efficaci, anche in assenza di un’anamnesi
approfondita13. Anche l’applicazione di approcci strutturati è in grado di migliorare
significativamente la capacità degli operatori di gestire le aggressioni, facilitando il lavoro e
contribuendo alla creazione di un ambiente sicuro14.
Per ridurre l’escalation naturale degli agiti aggressivi appare quindi utile proporre interventi di
desensibilizzazione (de-escalation) basati sulla comunicazione verbale e non verbale che trovano il
loro razionale teorico nella psicologia cognitivo-comportamentale e seguono il modello del ciclo
dell’aggressività15. Il modello schematizza le fasi tipiche che si succedono in un episodio violento e
per ognuna è indicato un intervento appropriato.
Il presupposto è che alla base di qualunque atto di aggressività vi sia un fattore scatenante
(minacce o provocazioni, reali o presunte, percezione di mancanza di attenzione, stressors, stimoli
avversativi…)
che determina un’attivazione
psicofisiologica
(arousal) caratterizzata da
13
Wilkes L., Mohan S., Luck L. et al. (2010). Development of a violence tool in the emergency hospital setting. Nurse
Res., 17(4), p.70-82. In Ramacciati N. e Ceccagnoli A. (2011). Violenza e aggression in Pronto Soccorso: revisione
della letteratura. Infermiere, 48(5), e43-e50.
Chu C. M., Daffern M., Ogloff J.R.P. (2013). Predicting aggression in acute inpatient psychiatric setting using BVC,
DASA, and HCR-20 clinical scale. Journal of Forensic Psychiatry & Psychology, vol. 24(2), Apr(2013), 269-285
14
Cahill D. (2008). The effect of ACT-SMART on nurses’ perceived level of confidence toward manging the aggressive
and violent patient. Adv Emerg Nurs J, 30(3), 252-268. Rintoul Y, Wynaden D., McGowan S. (2009) Managing
aggression in the emergency department: promoting an interdisciplinary approach. In Ramacciati N. e Ceccagnoli A.
(2011). Violenza e aggression in Pronto Soccorso: revisione della letteratura. Infermiere, 48(5), e43-e50.
15
Maier G.J. e Van Rybroek G.J. (1995). Managing countertransference reactions to aggressive patients. In
Eichelman, B.S., Hartwig, A.C., ads. “Patient’s violence and the clinician”, Washington DC, American Psychiatric
Press Inc, 73-104.
9
cambiamenti somatici e psicologici. Questi “segnali di allarme” che devono far presagire una
possibile aggressione sono individuabili nella fase del trigger (fattore scatenante) e sono
l’espressione verbale di vissuti di rabbia o frustrazione, tono di voce alto, volto paonazzo e
sudorazione profusa, respiro rapido, gestualità esagerata e talvolta minacciosa, irrequietezza
motoria (ad esempio alzarsi e sedersi continuamente), contatto visivo diretto e prolungato.
In questa fase, l’intervento deve essere finalizzato al riconoscimento e alla rimozione del fattore
scatenante e all’isolamento del paziente in un luogo il più possibile neutro e privo di stimoli forti.
Nella fase successiva, detta dell’escalation, si assiste a un’ulteriore e progressiva deviazione
dalla baseline psicoemotiva. L’intervento, che sarà tanto più efficace quanto più attuato
tempestivamente, mira al contenimento dello sviluppo naturale del ciclo dell’aggressività attraverso
una trasformazione progressiva dei contenuti di violenza e minaccia in espressioni dialettiche che
possono essere negoziate. A questo scopo vengono utilizzati approcci verbali caratterizzati da una
comunicazione diretta al paziente, specifica (relativa alle rivendicazioni contingenti) e positiva,
volta a trasmettere la disponibilità a collaborare per la risoluzione dei problemi.
Particolarmente efficace sembra essere l’utilizzo della tecnica “talk down”, un approccio verbale
basato principalmente, ma non solo, sul contenuto del linguaggio e mirato al contenimento
progressivo del paziente attraverso il riconoscimento positivo e affermativo delle sue istanze e
l’avvio di una procedura di negoziazione che recepisca il contenuto emotivo e razionale della crisi
ma ne devii il percorso comportamentale. La tecnica prevede di:
-
stabilire un contatto verbale con il paziente
-
usare frasi brevi, dal contenuto chiaro; se il paziente non comprende il significato,
semplificare progressivamente, anche a scapito della completezza e della coerenza
-
mantenere un tono di voce calmo e rassicurante
-
rivolgersi all’interlocutore chiamandolo per nome o per cognome, dando “del Lei”
-
ridurre la tensione dichiarandosi d’accordo con quanto sostenuto dal paziente e disponibili
alla ricerca di una soluzione comune
-
non polemizzare, né contrastare apertamente: le richieste del paziente vanno sempre discusse
-
formulare domande che prevedano una risposta aperta
-
porre il paziente di fronte a scelte alternative in modo da impegnarne l’attenzione e distrarlo
dall’originario programma motorio.
In generale, è bene astenersi dal dare ordini, discutere, rimproverare o giudicare, non dare
soprannomi al paziente, trattenersi dall’ironizzare e non utilizzare toni sarcastici, mantenersi
neutrali, evitando sia di elogiare, sia di criticare, non avere la pretesa di analizzare o esaminare
10
troppo a fondo le argomentazioni che si affrontano, non invadere lo spazio occupato dal paziente e
quindi mantenere una distanza utile.
Se gli interventi attuati non sono risultati efficaci, il paziente passerà alla fase di crisi o actingout, cioè l’aggressione vera e propria. L’intervento non più essere condotto sul presupposto della
possibilità di una risposta razionale: l’attenzione deve essere interamente focalizzata sulla garanzia
della sicurezza e sul contenimento delle conseguenze.
La fase successiva, del recupero, è caratterizzata da un graduale ritorno alla baseline
psicoemotiva. Il livello di arousal, però, è ancora elevato, quindi il paziente è potenzialmente
recettivo a nuovi fattori scatenanti: si tratta di una fase molto delicata, in cui interventi troppo
precoci volti all’elaborazione dell’episodio rischiano di scatenare una riacutizzazione della crisi. È
bene pertanto limitarsi a un monitoraggio attivo ma sufficientemente distante.
La comparsa nel paziente di sentimenti di colpa, vergogna e rimorso caratterizzano la fase della
depressione post-critica, in cui è possibile iniziare un lavoro di tipo psicologico volto
all’elaborazione dell’evento, alla comprensione razionale delle circostanze che hanno scatenato
l’agito aggressivo e alla risoluzione dei sentimenti negativi.
Le strategie applicabili nella gestione del paziente con comportamenti aggressivi sono molteplici
e comprendono anche gli interventi farmacologici, di cui non si tratterà in questa sede. La non
trattazione degli aspetti farmacoterapici, tuttavia, non deve tradursi nell’errata convinzione che la
somministrazione farmacologica “viaggi” su un binario parallelo rispetto alla gestione
comportamentale. Le due strategie, infatti, sono strettamente interrelate e bisogna prestare
attenzione ai casi in cui può essere proprio il trattamento farmacologico a “innescare” la reazione
comportamentale: si pensi, puramente a titolo di esempio, al caso di un paziente depresso che
afferisce al pronto soccorso o che viene ricoverato in SPDC che non desta preoccupazioni relative a
un possibile agito aggressivo auto o etero diretto a cui viene somministrato un antidepressivo
serotoninergico, farmaco che tende a inibire la risposta violenta (come visto in precedenza, infatti,
la serotonina ha funzione inibitrice sul comportamento aggressivo) e ha una funzione preventiva
indiretta sull’ideazione suicidaria. E’ fondamentale il monitoraggio costante di questo paziente:
alcuni autori, infatti, hanno evidenziato come questi farmaci, pur agendo rapidamente sul
rallentamento motorio, richiedono circa 4 settimane di somministrazione per agire anche sulla
cognitività, pertanto si rischia che il paziente, entrando in uno stato misto, metta in atto un gesto
anticonservativo perché è ancora angosciato da pensieri negativi ma contemporaneamente si ritrova
ad avere maggiore energia fisica perché “sbloccato” dal punto di vista motorio. Allo stesso modo,
quando si somministrano benzodiazepine per “calmare” un paziente ansioso bisogna considerare
che l’effetto sedativo viene raggiunto solo con un dosaggio alto, mentre con la somministrazione di
11
basse dosi potrebbe esserci il rischio di interferire sul controllo che il paziente sta mettendo in atto,
lasciando spazio al comportamento aggressivo che può così manifestarsi completamente.
In generale, le strategie vanno differenziate in rapporto alla gravità dei sintomi, alla diagnosi, alla
fase del disturbo e alla direzionalità del comportamento aggressivo. È ovvio ipotizzare una diversa
impostazione tra gli interventi contenitivi da attuarsi con un paziente maniacale in fase acuta da
quelli preventivi del suicidio nel caso di un paziente gravemente depresso.
In primo luogo va garantita la sicurezza del paziente, sia rispetto agli agiti etero diretti
incontrollati, sia rispetto a gesti autolesivi, tenendo conto del luogo in cui si sta effettuando la
valutazione (pronto soccorso, reparto, ambulatorio, domicilio…).
Per quanto riguarda la gestione non farmacologica degli agiti etero diretti, spesso l’alternativa è
l’isolamento del paziente in un luogo tranquillo o, nel caso di un reparto, l’allontanamento dagli
altri degenti: un paziente in fase maniacale, per esempio, può entrare in conflitto con altri pazienti a
causa della sua intrusività e esuberanza. Come già precisato, va garantita la sicurezza del paziente,
ma anche quella degli operatori, che non rientrano in quelle categorie di persone che per legge
abbiano il dovere istituzionale di esporsi a pericolo in situazioni difficili16, attraverso la definizione
dei confini di azione del paziente in rapporto alla gravità e al suo livello di insight. La chiarezza e la
fermezza si rivelano spesso strategie vincenti.
3. La contenzione: responsabilità dei curanti e riferimenti giurisprudenziali
In taluni casi può rendersi necessario il ricorso alla contenzione fisica o meccanica allo scopo di
porre il paziente in condizioni di non agire, di prevenire, attenuare o bloccare atteggiamenti o
comportamenti del paziente quali irrequietezza, agitazione o aggressività, proteggere presidi
terapeutici, permettere la somministrazione di farmaci, prevenire traumatismi da caduta, evitare il
vagabondaggio, praticare l’alimentazione forzata di malati che rifiutano attivamente il cibo 17. La
contenzione appare come un aspetto “sgradevole” della gestione del malato psichiatrico, perché
rievoca l’impiego di strumenti “crudeli” quali la camicia di forza, le catene, le cinghie, il ferma
testa…
Innanzitutto, va considerato che qualunque intervento finalizzato alla gestione del paziente con
comportamento aggressivo si configura come contenitivo: le tecniche di desensibilizzazione
menzionate in precedenza rientrano nella cosiddetta contenzione relazionale, le restrizioni
16
Dodaro G. (2011). Il problema della legittimità giuridica dell’uso della forza fisica o della contenzione meccanica
nei confronti del paziente psichiatrico aggressivo o a rischio suicidario. Rivista Italiana di Medicina Legale, Anno
XXXIII, Fasc. 6, p. 1505
17
Dodaro G. (2011). Cit. p. 1487.
12
concernenti il luogo (per esempio le porte chiuse nei reparti) fanno parte della contenzione
ambientale, e la somministrazione di farmaci sedativi rappresenta una contenzione chimica. La
gestione fisica del paziente può essere effettuata attraverso la contenzione manuale (si pensi alla
tecnica dello “stop” a terra) e la contenzione meccanica che prevede l’immobilizzazione del
paziente solitamente al letto per mezzo di fasce o lacci.
La contenzione, anche quella manuale e/o meccanica, va considerata un atto medico18, cioè “una
modificazione dell’organismo altrui compiuta secondo le norme della scienza, per migliorare la
salute fisica e psichica delle persone”19. In un’ottica ampia, si intende atto medico non solo
quell’intervento che esita nella cura del paziente intesa come guarigione, ma anche quello
finalizzato alla riduzione della sofferenza fisica e psichica. L’articolo 8 della Convenzione d’Europa
per la protezione dei diritti dell’uomo, nota come Convenzione di Orvieto (1996) specifica che
“allorquando in ragione di una situazione d’urgenza, il consenso appropriato non può essere
ottenuto, si potrà procedere a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della
salute della persona interessata”. Il Comitato Nazionale di Bioetica la contempla, specificando che
l’impiego della contenzione deve essere contenuto nel tempo e deve essere mantenuto solo per il
lasso di tempo necessario a calmare il paziente o a consentire la somministrazione farmacologica,
precisando però che il paziente ha “diritto a un trattamento privo di coercizioni e rispetto della
dignità umana con accesso alle più opportune tecniche di intervento medico, psicologico, etico e
sociale” per cui la contenzione può essere praticata “solo in casi eccezionali in mancanza di
alternative”, massimamente nel caso di un soggetto minore, come sostenuto dai giudici del
Tribunale per i Minorenni di Bari (2.7.2009) secondo cui “il ricorso all’uso dei mezzi di
contenzione in ipotesi di soggetto vittima di comportamenti scompensati dal punto di vista
neuropsichiatrico è consentito come extrema ratio in casi eccezionali, quando vi sia un concreto
pericolo per l’incolumità personale e sempre nel rispetto della persona umana, che deve essere
interpretato in maniera estremamente rigorosa quando si tratta di un minore”.
L’idea dell’inevitabilità del mezzo meccanico è presente anche in atti ufficiali come la
“Raccomandazione per prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari” adottate dal
18
Secondo alcuni autori, tuttavia, non si tratterebbe di una misure terapeutiche in senso stretto, dal momento che non
sono direttamente finalizzate al superamento dello stato di malattia, ma sono comunque protese alla tutela della vita e
della salute. Si veda ad esempio Catanesi R., Carabellese F., Troccoli G. (2010). Contenzione fisica in psichiatria in
Volterra V. – a cura di (2010) Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, Elsevier-Masson, Milano. Citato
in Dodaro G. (2011). Il problema della legittimità giuridica dell’uso della forza fisica o della contenzione meccanica
nei confronti del paziente psichiatrico aggressivo o a rischio suicidario. Rivista Italiana di Medicina Legale, Anno
XXXIII, Fasc. 6, p. 1489.
19
F. Grispigni (1914). La responsabilità penale per il trattamento medico-chirurgico arbitrario. Milano
13
Ministero della Salute nel 2007 e i codici deontologici medico e infermieristico, che parlano
espressamente di contenzione del paziente20.
Si trovano poi documenti che sconsigliano tali pratiche: la Risoluzione del Parlamento europeo
su Migliorare la salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale per
l’Unione Europea (2006/2058 - INI) ha espresso il “parere che vada evitata qualsiasi forma di
restrizione della libertà personale, in particolar modo le contenzioni, per le quali sono necessari un
monitoraggio, un controllo e una vigilanza delle istituzioni democratiche, a garanzia dei diritti della
persona e per limitare eventuali abusi”21.
I nostri codici non vietano la contenzione, nonostante il legislatore abbia la facoltà di imporre un
divieto assoluto di impiego di pratiche sanitarie che si pongano in palese contrasto con diritti
fondamentali dell’individuo, quale appunto quello ad essere rispettato come persona, e in
particolare nella propria integrità fisica e psichica22. Un riferimento è rintracciabile all’art. 82 del
Regolamento Penitenziario (2000) secondo cui “la contenzione fisica (…) si effettua sotto il
controllo sanitario con l’uso dei mezzi impiegati per le medesime finalità presso le istituzioni
ospedaliere pubbliche”.
Sono previste invece la legittima difesa (art. 52 c.p., “non è punibile chi ha commesso il fatto per
esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo
attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa”) e la discriminante
dello stato di necessità (art. 54 c.p., “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato
costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona,
pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia
proporzionato al pericolo”). Date queste cause di giustificazione, il medico ha facoltà di agire nel
caso in cui siano compresenti tre aspetti: l’attualità del pericolo, la necessità di difesa e la
proporzione tra beni in conflitto per cui l’interesse sacrificato deve essere pari o inferiore a quello
salvato (nel nostro caso, per esempio, la vita e l’incolumità prevalgono sulla libertà personale).
Non sempre, tuttavia, nella pratica, il paziente viene contenuto sulla base di questi criteri. Spesso
si ricorre alla contenzione perché “all’interno dei luoghi di cura esistono una serie di criticità che
concorrono sinergicamente a determinare l’aggressività e la violenza del paziente e che rendono a
loro volta inevitabile in situazioni di emergenza legare il paziente al letto. Si tratta di varianti
aspecifiche del paziente o del personale, di varianti cliniche, di varianti di «contesto», di varianti
strutturali/organizzative, infine di variabili connesse alla formazione del personale ”: tra queste
20
Dodaro G. (2011). Cit. p. 1488.
Conferenza delle Regioni e delle Province autonome (10/081/CR07/C7). Contenzione fisica in psichiatria: una
strategia possibile di prevenzione, p. 2, www.regioni.it
22
Dodaro G. (2011). Cit. p. 1493.
21
14
variabili rientrano anche fattori quali le caratteristiche personologiche degli operatori, le relazioni
interpersonali e di potere all’interno delle strutture, i pregiudizi culturali, la carenza di
personale…23. Il ricorso alla contenzione non giustificata espone gli operatori al rischio di incorrere
nei reati di violenza privata (art. 610 c.p.), sequestro di persona (art. 605) e maltrattamenti in
famiglia (art. 572 c.p.).
È indubbio che nel caso in cui sia necessario fare ricorso alla contenzione meccanica, come per
qualunque altro intervento medico o somministrazione terapeutica, vanno rispettati i dispositivi di
sicurezza e di garanzia per il paziente, vanno valutati attentamente controindicazioni e effetti
collaterali e va documentata accuratamente l’intera procedura indicando nella cartella clinica le
ragioni che hanno portato alla contenzione del paziente, le modalità con cui la contenzione è stata
effettuata, l’ora in cui è iniziata, i tempi di revisione del procedimento e le motivazioni per cui
l’intervento viene protratto o sospeso. Tali aspetti sono infatti fondamentali ai fini medico-legali e
processuali, tanto più che una contenzione impropriamente attuata può configurare la fattispecie
delittuosa delle lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) o dell’omicidio colposo (art. 589 c.p.).
Il ricorso a protocolli operativi non sempre è risolutivo, poiché non sono indicate le tempistiche
dell’intervento di contenzione, non prevedibili in anticipo. Normalmente, tali protocolli si limitano
ad indicare che la contenzione non deve essere protratta per più tempo di quanto non sia necessario
alla risoluzione delle condizioni che ne hanno determinato l’applicazione e fissano una durata di
validità dell’atto prescrittivo che in media non supera le 12 ore. Scaduto il termine, tuttavia, l’atto
può venire riconfermato per un numero di volte e per una durata complessiva di fatto indefinibile
poiché non è indicata una soglia massima24.
A questo proposito, una sentenza del 2013 (Tribunale Vallo Lucania, 27.4.2013) ha stabilito che
“la contenzione del paziente protratta per più giorni, assolutamente ingiustificata e non rispettosa
dei limiti per la sua adozione, configura il delitto di sequestro di persona (art. 605 c.p.), nonché
quello di morte come conseguenza di altro delitto (art. 586 c.p.) se da tale contenzione deriva la
morte del paziente, come conseguenza non voluta, ma in concreto prevedibile”.
Non si dimentichi, altresì, che se l’attuazione di manovre contenitive espone i sanitari a indubbi
rischi, la mancata attuazione di misure non esime da responsabilità. Tra gli obblighi della posizione
di garanzia25 del medico, infatti, rientra anche quello di evitare conseguenze lesive per il paziente e,
23
Dodaro G. (2011). Cit. p. 1489-1490.
Dodaro G. (2011). Cit. p. 1511.
25
La posizione di garanzia è uno speciale vincolo di tutela, posto da norme giuridiche, gravante su speciali categorie di
soggetti individuati dalla legge con specifica funzione di garanzia di interessi socialmente meritevoli. Il fondamento
giuridico è la presa in carico del paziente psichiatrico quale persona la cui infermità può essere causa di alterazioni
comportamentali. Comprende la posizione di protezione, che si sustanzia nell’obbligo di preservare la vita e la salute
del paziente contro gesti auto lesivi, e la posizione di controllo che implica l’obbligo di assicurare che determinate fonti
di rischio non producano danni alle persone che operano quotidianamente nei servizi psichiatrici.
24
15
nondimeno, si può incorrere nel reato di abbandono di incapace (art. 591 c.p.) del quale si risponde
a prescindere dall’evento di danno che possa derivare al destinatario della tutela a causa
dell’abbandono.
Anche l’operatore psichiatrico potrebbe essere chiamato a rispondere per un atto auto o etero
lesivo posto in essere da un paziente: l’impedimento di tali gesti rientra nell’obbligo di tutela della
vita e della salute e la posizione di garanzia per qualunque operatore della salute mentale si
sostanzia nell’obbligo di attuare un idoneo trattamento terapeutico volto a evitare l’aggravamento
delle condizioni psicopatologiche del paziente e risponde ai compiti di protezione e controllo della
sicurezza all’interno dei luoghi di cura26. Allora l’operatore psichiatrico è tenuto a intervenire ogni
qualvolta si stiano verificando, o ci siano alte probabilità che si verifichino, eventi dannosi per
l’incolumità del malato o di terzi. Questa posizione, però, impone una riflessione sulle finalità del
trattamento sanitario, che non dovrebbero essere cautelative della collettività, ma solo dei pazienti
affidati alle cure del medico o degli operatori. Tuttavia, l’art. 32 della nostra Costituzione tutela la
salute come interesse della collettività, e non solo come diritto del singolo: anche i terzi che
potrebbero subire danni rientrano quindi tra i soggetti destinatari del trattamento sanitario, e in
effetti esaminando i recenti orientamenti giurisprudenziali la distinzione tra atti auto o
eteroaggressivi risulta irrilevante: un agito eterodiretto, infatti, è pregiudizievole anche della salute
del paziente che lo pone in essere, alla stregua di un atto autodiretto.
A questo proposito, una pronuncia del Tribunale di Milano del 9.12.2008 in cui il giudice ha
ritenuto che la posizione di garanzia degli operatori psichiatrici non si limita alla cura del singolo
paziente, ma va estesa alla tutela di tutti i degenti considerando i potenziali pericoli che possono
scaturire dall’interazione e da eventuali aggressioni fisiche tra di loro. Stessa posizione viene
ribadita dai giudici di legittimità con la sentenza n. 18950/2009 (Cass. IV) in cui due medici
vengono condannati a seguito dell’aggressione di un paziente ai danni di un codegente che esita con
la morte di quest’ultimo.
La giurisprudenza non fornisce tuttavia un orientamento preciso rispetto alla sussistenza della
posizione di garanzia nel caso di ricovero volontario. Così, se una pronuncia di merito (Tribunale di
Busto Arsizio, sez. dist. Saronno, 27.5.1999, n. 164) assolve un medico per non aver evitato il
suicidio di un degente, i giudici di legittimità (Cass. IV, 27.11.2008 n. 48292 e Cass. IV, 12.2.2013
n. 16075) condannano uno psichiatra per una fattispecie analoga ritenendo che il medico sia
“titolare di una posizione di garanzia nei confronti del paziente anche se questi non sia sottoposto a
ricovero coatto e ha pertanto l’obbligo - quando sussista il concreto rischio di condotte auto lesive,
26
Dodaro G. (2011). Cit. p. 1505
16
anche suicidiarie - di apprestare specifiche cautele” e abbia quindi l’obbligo di curare il paziente
avvalendosi di tutti gli strumenti di cui dispone.
Va precisato, inoltre, che la predizione relativa alla possibilità che un paziente possa mettere in
atto, nel breve o nel lungo periodo, agiti auto o etero aggressivi non è cosa da poco: “perché un
evento sia pronosticabile bisogna che risultino tre condizioni: l’esistenza di regolarità, la
conoscenza di tali regolarità e la nozione di tutti i parametri rilevanti”27. Spesso, l’accurata
valutazione di tutti i parametri è impossibile: “non solo sul piano pratico, ma anche da un punto di
vista teoretico. Lo psichiatria e lo psicologo non possono prevedere il comportamento futuro di una
persona perché esso dipende in parte dall’ambiente che la circonda, dal tipo di stimoli ai quali
sarà sottoposta e in parte dalla futura dinamica delle sue funzioni psichiche. Tali elementi sono
sconosciuti allo psichiatra e difficilmente conoscibili”28. Già Freud29 aveva notato tale difficoltà:
“per quanto facciano risalire lo sviluppo all’indietro dal suo stadio finale, la connessione appare
continua, e sentiamo che abbiamo guadagnato un’intuizione che è completamente soddisfacente e
anche esauriente. Ma se facciamo la strada inversa, se partiamo dalle premesse dedotte
dall’analisi e cerchiamo di seguirle fino al risultato finale, allora non acquisiamo più l’impressione
di una successione inevitabile di eventi che non potrebbe essere determinata altrimenti. Notiamo
subito che ci potrebbe essere stato un altro risultato (…). La sintesi non è quindi soddisfacente
come l’analisi; in altre parole, da una conoscenza delle premesse non avremmo potuto prevedere la
natura del risultato (…). Anche supponendo di avere una completa conoscenza dei fattori eziologici
che determinano un dato risultato, tuttavia ciò che noi conosciamo di essi si riferisce alla loro
qualità e non alla forza a loro relativa. Alcuni di essi sono soppressi da altri perché sono troppo
deboli e pertanto non influenzano i risultati finali. Ma noi non possiamo mai sapere in anticipo
quali dei fattori determinanti si dimostrerà il più debole o il più forte”.
La giurisprudenza, invece, non ha una posizione definita rispetto alla prevedibilità dell’evento
lesivo auto o eterodiretto: talvolta ha asserito la prevedibilità per giungere alla condanna
dell’imputato (Cass. IV n. 48292/2008; Cass. IV n. 8611/200830; Cass. IV n.10795/200831), talaltra
27
Walder R. (1963). Psychic determinism and the possibilità of predictions. Psychoan. Quarter, p. 15. In Gulotta G.
(1967). Le dimissioni del malato di mente dall’ospedale psichiatrico. Aspetti medico-sociali. I quaderni degli incontri.
28
Gulotta G. (1967). Le dimissioni del malato di mente dall’ospedale psichiatrico. Aspetti medico-sociali. I quaderni
degli incontri.
29
Freud S. (1956). The psychogenesis of a case homosexuality in a woman. Collected Papers, vol. 2, Hogart, London, p.
202. In Gulotta G. (1967). Le dimissioni del malato di mente dall’ospedale psichiatrico. Aspetti medico-sociali. I
quaderni degli incontri.
30
Omicidio colposo – responsabilità del medico e dell’esercente le professioni sanitarie. Sussiste il reato di omicidio
colposo in capo agli infermieri di un ospedale per non aver prestato idonea vigilanza durante le ore notturne sul paziente
ricoverato, affetto da disturbi psicotici, che aveva aggredito e ucciso il suo vicino di camera.
31
Risponde di omicidio colposo il medico psichiatra che, senza acquisire le conoscenze disponibili sul percorso
patologico del paziente ed essersi informato in modo continuativo sull’evoluzione della malattia al fine di verificare
l’esistenza di sintomi “allarmanti” conseguenti alla modifica del trattamento, con modalità diverse da quelle prescritte
17
il concetto è stato utilizzato in chiave assolutoria (Cass. IV n. 42670/2007). Dall’analisi di queste
pronunce, sembra che il criterio decisionale, l’ago della bilancia per così dire, tra la colpevolezza e
l’assoluzione sia costituito dalla diagnosi psichiatrica: sussistono infatti patologie (per restare
all’interno delle pronunce considerate, il disturbo depressivo o la psicosi) per le quali è ipotizzabile
un’evoluzione auto o etero lesiva, e altre (il disturbo borderline di personalità) intrinsecamente
caratterizzate da impulsività e imprevedibilità per le quali la previsione è estremamente difficile.
L’ipotesi e la previsione di rischi, inoltre, non costituisce attualità del pericolo, considerata, come
visto in precedenza, necessaria per la discriminante dello stato di necessità.
Per concludere, un breve riferimento alle strutture, e in particolare alcuni Servizi Psichiatrici di
Diagnosi e Cura (S.P.D.C.) no restraint dove le porte sono aperte e i pazienti non vengono mai
sottoposti a misure di contenzione meccaniche32, ma solo contenzioni chimiche e relazionali, che
implicano maggior coinvolgimento da parte degli operatori, o al più manuali attraverso la tecnica
della holding che prevede che il personale sanitario fronteggi con il proprio corpo il corpo del
paziente, mettendosi in discussione persona contro persona, al fine di ottenere il consenso del
paziente, escludendo qualunque finalità punitiva o di sopraffazione.
dalla migliore scienza psichiatrica riduce e poi sospende il trattamento farmacologico neurolettico nei confronti del
paziente psicotico che poi commette un omicidio.
32
Tra questi, gli S.P.D.C. di Aversa, Cagliari, Caltagirone-Palagonia, Caltanissetta, Enna, Gorizia, Grosseto, Mantova,
Matera, Merano, Napoli, Novara, Roma C., Perugia, Pescia, Portogruaro, Siena, Udine, DSM Venezia, Verona Sud,
Terni, Treviso, Trieste
18