Parlando di Aggressività

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Parlando di Aggressività
Parlando di Aggressività
luigipolverini
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luigipolverini
Parlando di Aggressività
Le ipotesi di seguito riportate sull’aggressività prendono spunto da una mia teoria riguardante le specie
più domesticate come il cane, mi riferisco alla perdita dell’identità di specie e della continuità funzionale degli
istinti.
Secondo l’approccio cognitivo la continuità di specie si attua secondo un rapporto direttamente proporzionale tra filogenetica e ontogenetica, la prima si conferma tramite la seconda che a sua volta si realizza
tramite la filogenetica. Sia che si concordi con questa visione sia che si prediliga quella etologica o quella
behaviorista, risulta evidente che la continuità di specie passa attraverso delle regole che ne determinano
il successo, quali:
-
capacità/possibilità adattativa ai cambiamenti ambientali
principio di ottimizzazione delle abilità
riproduzione mirata alla qualità della specie
confermare, attraverso le esperienze soggettive, le qualità e le abilità funzionali alla specie
tramandare le modifiche comportamentali o fisiologiche rivelatesi utili per la sopravvivenza
Tutto ciò mi porta inevitabilmente ad affermare che una condizione indispensabile perché si possano rispettare le regole è, qualsiasi sia la scelta sociale di specie, essa debba vivere, interagire e riprodursi all’interno di sé stessa per poi confrontare il risultato ottenuto con la coerenza del suo ruolo nell’ecosistema. In
altre parole, affinché si attivino i meccanismi d’adattamento e selezione è necessario che la specie abbia la
possibilità di auto-selezionarsi nel tentativo di riprodurre i soggetti più adatti ad adeguarsi alle modifiche
ambientali naturali e non; per ottenere questo la scelta riproduttiva, la capacità di gestire le risorse alimentari, l’evoluzione delle capacità cognitive e sociali risulta possibile solo se la specie può misurarsi e
scegliere in piena autonomia e indipendenza confrontandosi continuamente con l’ambiente che la circonda e sperimentando l’efficacia funzionale dei comportamenti collegati agli istinti.
Che l’equilibrio psicologico di un animale sia legato alla possibilità di dare sfogo agli istinti primari, utilizzandoli secondo l’etogramma comportamentale, è cosa risaputa e comprovata, (noi come umani non
facciamo eccezione) ma cosa succede quando una specie vive una contraddizione tra la sfera filogenetica
e quella ontogenetica? Quando non può più garantirsi la trasmissione di eventuali modifiche adattative?
Quando le sue strategie sociali non possono più essere utilizzate con la propria specie? Quando l’identità
di specie trova difficoltà a ritrovarsi nella fase ontogenetica?
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Negli animali l’utilizzo dei comportamenti è sempre funzionale alla capacità di sopravvivere, di riprodursi, di difendersi e di andare avanti come specie. Anche i comportamenti legati all’aggressività rispondono a questa regola e tendenzialmente posso dire che, meno un animale è cognitivo e più strettamente
tutto quello che fa è funzionale. Utilizzare l’aggressività per difendersi, per assicurarsi un territorio, per
mangiare o non venire mangiati, prevede il possesso di un equilibrio interno che regola l’inizio e la cessazione di un’azione che comunque rappresenta un rischio sia per chi la subisce sia per colui che la propone, come prevede un fine, raggiunto il quale determina di per sé la fine del comportamento. Per equilibrio interiore intendo una costruzione caratteriale realizzata nel periodo ontogenetico, su basi filogenetiche corrette, che, in linea con i bisogni etologici delle specie, porti i cuccioli a diventare adulti senza dubbi, incertezze o insicurezze sul loro essere. La mancanza di tale parametro può provocare disfunzioni
comportamentali che, riferite all’aggressività, si leggono nella riduzione di quella funzionale con un aumento di quella strumentale con eccessi d’irritabilità che portano l’utilizzo di questo comportamento ad
essere indirizzato non più per raggiungere lo scopo ma per provocare un danno volontario all’avversario.
Aggressività funzionale:
Con questa definizione s’intendono tutti quei comportamenti che risultano definiti sia nello scopo sia
nelle tempistiche d’attuazione. Gli obiettivi possono essere l’allontanamento (minaccia d’aggressione per
evitare di doverla applicare o subire), la difesa attiva di sé stessi o della specie, la difesa del territorio,
l’abbattimento di una preda e in tutti i casi, compreso l’ultimo, l’eccitazione collegata al comportamento
decade al raggiungimento dello scopo dando spazio al recupero delle energie spese. Perché avvenga tutto
questo è necessario che i soggetti attuatori dell’azione siano consapevoli delle proprie potenzialità (conoscere il proprio valore reale), abbiano conoscenza delle procedure che regolano i rapporti intraspecifici e
interspecifici, sentano il bisogno etologico della propria conservazione.
Aggressività strumentale:
Studiata e identificata ad appannaggio solo dell’essere umano oggi si presenta anche in animali che, come il cane, hanno condiviso una parte dell’evoluzione di specie assimilandone alcuni aspetti. Per aggressività strumentale o ostilità specifica s’intendono quei comportamenti messi in atto con lo scopo di ottenere ricompense, per appropriarsi di un oggetto che è di proprietà della vittima (in umano si può fare
l’esempio di uno scippo), in definitiva per ottenere un vantaggio che ha significato solo per il soggetto che
lo mette in pratica. L’azione risulta essere freddamente ponderata e quello che ne consegue, oltre all’eventuale premio conquistato, è un’auto-gratificazione derivata dal successo o dal tentativo di ottenerlo*.
Ritengo che, se consideriamo la tipologia di vita del cane urbano dove le certezze delle procedure di convivenza con la propria specie sono subito messe in discussione dalla necessità di trovarne altre per vivere
in un branco misto, nulla ci sia di strano o d’impossibile nella tendenza a valorizzare più sé stesso e i benefici/privilegi ottenibili in un modo o nell’altro, a discapito della ricerca di comportamenti che siano
utili all’evoluzione della specie.
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Posso anzi ipotizzare che oggi l’attenzione sia maggiormente rivolta ai comportamenti che garantiscano o
migliorino la sopravvivenza e la qualità della vita soggettiva, ed essendo questa dipendente da una specie diversa, adattarsi a comportamenti non più funzionali a tutti ma egoisticamente utili al singolo non mi
sembra improbabile.
Aggressività irritativa:
La scelta selettiva per la riproduzione non dipendente più dalla specie ma fatta dall’uomo su basi più
economiche che etologiche, la difficoltà a mantenere una continuità educativa coerente con i bisogni di
specie hanno portato e portano il proliferare di soggetti emotivamente delicati o instabili. L’ipotesi che
propongo è che questi soggetti se, per casualità o per costrizione, abbiano trovato remunerativo ricorrere
all’azione aggressiva, tenderanno ad utilizzarla anche in contesti non idonei o per gestire i rapporti sociali, ricavandone da una parte autostima e dall’altra riuscendo comunque a stare al centro dell’attenzione.
Situazioni di bassa soglia dell’irritazione in concomitanza con insicurezza dovuta a problemi genetici confermati da un’incoerente sviluppo culturale ontogenetico, possono fare utilizzare l’aggressività non più
con fini precisi, che una volta raggiunti ne determinano l’estinzione. ma per il semplice piacere di provocare dolore all’altro. Se si ritiene corretto quanto detto prima, e cioè che in alcuni soggetti l’utilizzo di
questo comportamento risulti funzionale solo alla loro autostima, alla conferma di sé stessi, alla possibilità di essere, pur forzatamente, considerati, si deve anche accettare il fatto che proprio il comportamento in
sé stesso rappresenti la gratificazione e tutto quello che lo conferma e lo prosegue venga considerato dall’operante positivo. Ecco allora che non hanno più significato i segnali inibitori della violenza, diventando
anzi alimentatori dell’azione dell’operante che ha come scopo finale il suo piacere tramite la sofferenza
del ricevente l’azione.
* Grazia Attili Introduzione alla psicologia sociale
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